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n. 108 SETTEMBRE 2016
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n.108 SETTEMBRE 2016
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contenuti 04 18 22 32 40 52 56 66 74
casa bella casa
storia e territorio
arte e storia
Dalle colline al mare: panorami speciali tra “living” e “loisir” in un appartamento al sesto piano _____________________________________________________
Lo sguardo di Anita. Alla Fattoria Guiccioli si rinnova la memoria dell’eroina del Risorgimento _____________________________________________________ di Pietro Barberini
Forlì rilancia e prova a giocare la carta del verde urbano ______________________________________________________ di Chiara Bissi
Il “guerriero” Borges. Storia di un innamoramento per una città non vista ______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
arti decorative
Déco, la rinascita di uno stile. Vicende di un linguaggio estetico tornato in sintonia col gusto attuale _______________________________________________________ di Serena SImoni
design e artigianato
città e società
Le tele stampate e il ritorno dell’hand made _______________________________________________ di Sabina Ghinassi
La polvere senza forma che ha invaso l’Afghanistan. Intervista a Emanuele Giordana e Navid Rasa ______________________________________________________________ di Marina Mannucci
abitare l’habitat
DOpo il sisma, nuovo paradigma: dall’emergenza alla prevenzione. ___________________________________________________________ di Marco Turchetti
offerte immobiliari
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di Paolo Bolzani
Tenere a bada il tempo uccidendo chimera. Sugli scavi e i mosaici nell’area del Palazzo di Teodorico ___________________________________________________________ di Cetty Muscolino e Federica Cavani
città e quartieri
grand tour
settembre 2016
Studio Effe 14 . Latorraca 15 . Edilmax 16 . Idea Casa 17 . Happy Home . Scor 30 . Futura 31 . Mazzini . Mondo Casa 32 . Romagna 33 . Gesticasa . Russi Casa 52 . Gabetti . Case d’Autore 53 .
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edizione di Ravenna
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Controcopertina
Da un grande appartamento al sesto piano di un complesso residenziale ravennate ristrutturato in chiave hi-tech, si gode non solo di un panorama a 360 gradi che spazia sulla città, il mare a est e a ovest il profilo delle colline ma anche di spazi abitativi confortevoli e raffinati, fra mobili di design, pezzi d’arte e “forniture” curate e personalizzate per i padroni di casa, nei minimi dettagli, dal living al bagno...
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Federica Cavani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it
Editore:
Edizioni e Comunicazione srl
viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it
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CASA BELLA CASA
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Dalle colline al mare:
panorami speciali tra “living” e “loisir” in un appartamento al sesto piano
Nel Complesso Rubicone, a Ravenna il “diamante” top quality che non ti aspetti
settembre 2016
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CASA BELLA CASA Nel Complesso Rubicone si è riusciti a «realizzare in una struttura multifamiliare degli alloggi che avessero le stesse caratteristiche delle case singole in termini di vivibilità e qualità dei materiali», come spiega Maurizio Lanza Cariccio, promotore dell’intervento, con performance d’eccellenza anche in campo energetico e acustico
di Paolo Bolzani
Viale Leon Battista Alberti, 99 - Ravenna Tel. 0544 402527 E-mail: info@progettarti.it
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Ravenna, 1968-70. Epaminonda Ceccarelli realizza un condominio a sei piani e attico nella parte meridionale di via Rubicone. Il linguaggio è quello solito essenziale dell’ingegnere ravennate, scomparso qualche anno fa, con struttura in cemento armato e tamponamento in mattoni a vista, questa volta ornato da una serie di balconi tondi affacciati verso la strada. Passano quarant’anni. Maurizio Lanza Cariccio decide di recuperare a nuova vita il grande fabbricato, chiamandolo Complesso Rubicone e inventando il logo a diamante. «Il concetto dell’intervento – spiega l’imprenditore ravennate - era molto semplice: realizzare in una struttura multifamiliare degli alloggi che avessero le stesse caratteristiche delle case singole in termini di vivibilità e qualità dei materiali. Inoltre per dare questa percezione in modo chiaro e immediato era necessario che tutti gli alloggi fossero unici sia per il tipo di pavimento, di rivestimento, di porte, di maniglie e di distribuzione interna degli spazi, con differenze più o meno piccole ma non comuni con nessun’altra alloggio all’interno del palazzo». Costruisce una squadra di professionisti - l’architetto Paolo Bassi e gli ingegneri Francesca Fiorentini, Ivan Domenico Ceccaroni e Paolo Contessi – e, «per non incidere sul prezzo finale degli alloggi», trova accordi diretti con partner importanti che credono nel progetto, segnalati nella scheda dell’intervento. I lavori si svolgono nel 20112014 e alla fine ne esce una riqualificazione elegante, che abbina uno stile riconoscibile fin dalla bicromia bianco/grigio chiaro del pacchetto termico esterno, scelta per dare slancio al fabbricato, insieme ai pluviali in acciaio inox e alle lamiere stirate bianche che divengono i parapetti delle portefinestre e al piano terra si allineano ai balconi per celare le buchette delle lettere, mentre i nostri passi bordano l’aiuola di rispetto che separa il portico di accesso in pietra grigia dai parcheggi a filo strada. Inoltre il palazzo eccelle per l’alto livello delle proprie prestazioni: infatti «con tutti i suoi alloggi – sottolinea Lanza Cariccio - rientra in prima classe per gli impianti elettrici, in classe B per la certificazione energetica con una media di 40,30 kW annui (quasi una classe A), è il primo palazzo completamente domotico in Romagna e ha delle performance acustiche altissime». Nel 2014 la coppia di proprietari del grande appartamento del 6° piano, esito dell’unione di due unità immobiliari, decide di personalizzare il proprio alloggio, come auspicato dal promotore dell’intervento. Perciò decide di chiamare lo studio di chi scrive. Il progetto viene svolto seguendo un processo di condivisione delle scelte, passando all’attento vaglio della proprietaria, una ricca personalità creativa, appassionata di feng shui, e del suo partner. La visita all’appartamento ha inizio in un piccolo atrio di ingresso, ornato da una carta da parati che ritrae
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Il Complesso Rubicone prima della ristrutturazione...
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...e dopo la ristrutturazione.
> Disegno cucina Studio Bolzani, realizzazione Progettarti (Raffaella Zanzi), piano tavolo in rovere vecchio, pietra del top in black wave fornita da Marmi Meldola, sedie Kartel da Arka Design, carta da parati Progettarti. settembre 2016
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CASA BELLA CASA
un bosco di betulle con le nuance del bianco e nero, scelta dalla padrona di casa al pari di quella a salici piangenti semplificati della camera da letto. Svoltando a destra per una porta a scomparsa si raggiunge un corridoio che disimpegna il bagno degli ospiti, la guardaroberia e lo studio del partner. Svoltando a sinistra entriamo invece in un lungo ambiente luminoso, articolato in tre parti, con la cucina a destra e lo spazio living/Tv a sinistra, mentre l’energia del chi si muove addensandosi negli elementi significativi dell’arredo. Ma la prima cosa che l’ospite vede, e da cui è attratto, è il panorama che appare davanti a lui in una delle quattro portefinestre. Perciò esce sul balconcino pavimentato in legno a filo e si immerge nella vista amplissima che spazia sulla campagna orientale della città fino al mare. Il suo sguardo si perde fino al porto e alle pinete verso a nord, mentre a destra raggiunge le colline di Rimini, Cesena e Forlì. Rientriamo nella lunga sala, che si dota di una miscela di effetti spaziali più che altro virtuali, derivanti dai forti colori delle pareti che avanzano o si retraggono in base alle loro tonalità blu oltremare e rosso pompeiano, pronte a trasformarsi in installazioni espositive. Sul nuovo pavimento monocromo sabbia venata ecco disporsi alcuni oggetti eloquenti, il primo dei quali è un mobile “focolare multitasking”, in cui si sommano le funzioni di cristalleria, libreria e caminetto a bioetanolo su piano in biancone, che dialoga con la propria forma “a C” con quella analoga ma ribaltata dell’accoppiata tavolo/mensola superiore della cucina, riunendole virtualmente nella figura di origine, due mani contrapposte semichiuse. La cucina total white si copre con top in pietra scura marezzata, mentre si muove lungo due pareti, in cui risale il pavimento della sala per conferire una sensazione 3D, per poi emanciparsi nel lato aperto con la composizione per tavolo in rovere vecchio spazzolato e sedie in plexiglass. Abbandoniamo la zona del sud/sudest, regno del fuoco e del legno e percorriamo la zona centrale, segnalata e ornata da un piccolo controsoffitto e dalla controparete blu, in cui si apre un’asola luminosa destinata ad esporre una serie di opere di Rosetta Berardi, Demo, Carlo Zauli e Marcello Landi che si conclude da un tavolino bluette realizzato dal fratello della pa-
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Nel 2014 la coppia di proprietari del grande appartamento al 6° piano decide di personalizzare il proprio alloggio. Il progetto viene svolto seguendo un processo di condivisione delle scelte, passando all’attento vaglio della proprietaria, una ricca personalità creativa appassionata di feng shui, e del suo partner
> Disegno arredi e cartongessi Studio Bolzani, cartongesso Denis Brighi, impianto elettrico Nuova Simer, focolare multitasking realizzato da Giuliano Baroni, con pietra tipo Biancone alle pareti opere di Rosetta Berardi, Demo, Carlo Zauli e Marcello Landi. settembre 2016
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Abbandoniamo la zona del sud/sudest, regno del fuoco e del legno e percorriamo la zona centrale, segnalata e ornata da un piccolo controsoffitto e dalla controparete blu, in cui si apre un’asola luminosa destinata ad esporre una serie di opere di Rosetta Berardi, Demo, Carlo Zauli e Marcello Landi
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Tavolino Mostrillo di Biagetti, mobile parete TV disegnato da Studio Bolzani, realizzato da Progettarti, mosaico di Marco de Luca (M’illumino d’immenso).
drona di casa. Da qui si procede per la zona relax, delimitata dal lungo divano chiaro Moroso, fronteggiato dal Mostrillo e musivamente vegliato da Mi illumino di immenso di De Luca, che pare preannunciare l’approssimarsi della zona notte, inaugurata da una serie di piccoli scacciaguai feng shui. Raggiungiamo la camera da letto da cui si svolta a destra per entrare nel grande bagno padronale, unica zona dell’appartamento in cui si è reso necessario un piccolo intervento edilizio, riguardante la sua semplice traslazione sul fronte esterno, per poterlo allargare e affacciare direttamente con una portafinestra verso il tramonto sulla città. Più spazio di loisir che semplice zona per la cura del corpo personale, è un ambiente servito da un grande lavabo di colore corda, cui corrisponde una specchiera dalle stesse di-
mensioni. Le pareti della scatola muraria si rivestono a coppie consecutive di grigio scuro a tono caldo e sabbia, dove emerge una serie di motivi a graffito metropolitano, mentre il perimetro della stanza si accende con un fascio di luce continuo. Molta attenzione è stata applicata nella distinzione degli ambiti in cui avviene il rito della pulizia corporale quotidiana, separati da una parete divisoria i cui spigoli insidiosi sono stemperati da una bella pianta. Mentre la padrona di casa privilegia una vasca centrale, “l’altra metà del cielo” sceglie un box doccia in angolo, per la par condicio rivisitato in veste di “trono” in pietra brown antique spazzolata, inquadrato dall’architrave/doccione superiore in cui si collocano anche i corpi illuminanti.
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Il grande bagno padronale diviene spazio di loisir, dove godere del tramonto del sole sulla città. Mentre la padrona di casa privilegia una vasca centrale, “l’altra metà del cielo” sceglie un box doccia in angolo, che diviene un “trono” in pietra brown antique spazzolata
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Nel bagno piccolo: specchio di Annafietta
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> Crediti Palazzina sita in via Rubicone: Progettista: ing. Epaminonda Ceccarelli Promotore e supervisore artistico per il recupero della palazzina: Maurizio Lanza Cariccio
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Progettisti del recupero della palazzina: Progetto e D.L. opere architettoniche: Arch. Paolo Bassi Progetto e D.L. opere strutturali: Ing. Francesca Fiorentini Progetto e D.L. imp. domotici e elettrici: Ing. Ivan Domenico Ceccaroni Progetto e D.L. impianti idrici e meccanici: Ing. Paolo Contessi
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Partner commerciali del recupero della palazzina: Pavimentazioni e rivestimenti: Marazzi Spa Impianti elettrici e impianti domotici, serie MY Home: BTicino Spa Impianti di riscaldamento a pavimento: Ercos Spa Caldaie a condensazione: Immergas Spa Ascensori: Schindler Spa Isolamento a cappotto termico e intonachino con caratteristiche autopulenti: Sto Italia Spa
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Concept appartamento al 6° piano con disegno degli arredi: Progetto e D.L.: Archh. Paolo Bolzani e Valentina Guerrini (Studio Bolzani, Ravenna)
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Ditte impegnate nella sistemazione dell’appartamento al 6° piano: Realizzazione arredi, progetto della guardaroberia e fornitura del divano “Moroso: Progettarti, Ravenna Cartongesso: Demis Brighi, Pisignano di Cervia Marmi e pietre: Marmi Meldola Pavimenti e rivestimenti: Ciicai, Ravenna Illuminotecnica: Nuova Simer, Ravenna Mobile “Focolare Multitasking: Falegname Giuliano Baroni, Ravenna Specchio bagno grande: Vetreria Ponticelli, Ravenna Specchio bagno piccolo: Annafietta, Ravenna Sedie Kartell: Arkadesign, Ravenna Tavolino “Mostrillo: Biagetti, Ravenna Termoarredi: Idrozeta, Ravenna Pavimento dei balconcini in legno “Deck Pau Oro”: Tavar, Ravenna
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Opere artistiche appartamento al 6° piano: Acquatinta: Rosetta Berardi (sett.ott.1986), stampata da Giuseppe Maestri Acquaforte: Demo (Aristodemo Liverani), Cotignola Acquaforte: Carlo Zauli, Faenza Serigrafia: Marcello Landi, Ravenna Mosaico zona living: Marco De Luca, Ravenna Fotografie: Paolo Bolzani
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STORIA E TERRITORIO
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La Fattoria Guiccioli
Testi e foto di Pietro Barberini Ogni anno la memoria di Anita Garibaldi rinnova interessi e passioni: il cuore, dove ritorna a vivere questa mitica ed esemplare figura leggendaria, è la Fattoria Guiccioli. In questo luogo, antico possedimento dei monaci benedettini di San Vitale, Anita morì la sera del 4 Agosto 1849. La Federazione delle Cooperative della Provincia di Ravenna, proprietaria della storica azienda acquistata nel secondo decennio del Novecento da Nullo Baldini, da anni, per l’impulso promosso dal suo entusiasta presidente Lorenzo Cottignoli, ricorda quest’avvenimento. Si svolgono iniziative di tipo culturale ed artistico, lontane dalla ridondanza celebrativa, ma dense di significati. Come desiderato da Don Isidoro Giuliani, l’indimenticabile sacerdote cultore delle memorie di Anita Garibaldi e della vicenda storica che la vide protagonista del Risorgimento, saranno posti altri “segni” a fissare alcune tappe del percorso di quell’estate del 1849: quattro cippi di roccia che rappresentano anche l’elevazione verso il cielo così cara a Don Isidoro, provetto scalatore. I “segnacoli” saranno collocati alla Ca’Bianca, sulla sinistra del fiume Reno, dove Garibaldi scambiò il suo cappello con quello di un contadino, allo staggio del Bardello, dove vi fu analogo gesto e a passare di mano furono i mantelli, al taglio della Baiona e presso il forte Michelino, una macchia boscosa alla destra del vecchio corso del Lamone presso la pineta della Bedalassona. Cappello e mantello come altri oggetti di culto del transito di Garibaldi sulla nostra terra, sono stati custoditi gelosamente dalle famiglie attraverso alcune generazioni. Ora sono collocati al Museo del Risorgimento di Ravenna, la cui Fondazione è presieduta da Giannantonio Mingozzi affiancato dall’entusiasta consulente e studioso del Risorgimento, Giovanni Fanti.
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Busto di Anita
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Lo sguardo di Anita Ogni anno alla Fattoria Guiccioli si rinnova la memoria dell’eroica moglie di Garibaldi. Testimonianze che continuano a vivere Il progetto di installare segni evidenti che ricordano il passaggio di Garibaldi è del Comitato Acque e Terre, attivo a Marina Romea e impegnato da alcuni anni nella valorizzazione del territorio. Con l’occasione esce anche una piccola guida turistico-ambientale dal titolo: Sulle tracce di Garibaldi curata da Osiride Guerrini, Gianna Lugaresi e Laura Montanari. Seguendo questo testo corredato da carte e immagini, si possono trovare suggerimenti e indicazioni per percorrere i passi dell’eroe dei due mondi fra i canneti e le bassure del paesaggio che conserva ancora alcuni tratti di quel tempo.
SOVRAPPOSIZIONI DI STORIE INDIVIDUALI E COLLETTIVE, DOVE È PIACEVOLE RITORNARE, FACENDOSI CULLARE DALLA NOSTALGIA Le tracce di Garibaldi, come impronte della storia con la maiuscola, permettono a ciascuno di noi di comunicare sul filo di un pensiero e di un impegno civile rivolto al futuro. Questi pensieri li ho annotati passando in bicicletta davanti alla chiesa di Musano, minuscolo borgo collinare sotto Roncofreddo. Qui Anita e Josè, così lei soleva chiamare suo marito, osservando il mare di fronte a Cesenatico, agognata meta dopo aver lasciato San Marino, ebbero uno sguardo d’intesa. Penso che i luoghi abbiano memoria anche del modo di approc-
ciarsi all’ambiente, la bicicletta suggerita dalla guida permette di ricalcare quel binario tracciato a fatica. La Fattoria Guiccioli mantiene ricordi incancellabili con la stanza di Anita e lo studio di Don Isidoro che non poteva essere lontano: infatti, il sacerdote aveva chiesto espressamente a Lorenzo Cottignoli di poter collocare al momento della sua morte, lo studio vicino alla stanza dove morì Anita. Il suo desiderio è stato raccolto dal Presidente della Federazione delle Cooperative della Provincia di Ravenna e, alla scomparsa della sorella Francesca Filomena Giuliani, per tutti Cecchina, Don Isidoro ha trovato quell’ubicazione che aveva sognato nella sua ricerca, quasi una trafila, sulle tracce di Anita. Di quella donna aveva saputo individuare e trovare significati che superavano appartenenze e ideologie; Anita è stata assunta così a personaggio simbolico di donna esemplare. Isidoro Giuliani seguì questa vicenda che avveniva cent’anni prima di quando il giovane, uscito dal Seminario di Ravenna, venne ordinato sacerdote e destinato come cappellano alla parrocchia del priore di Sant’Alberto. All’indomani del passaggio del fronte, fra i danni e le rovine della guerra, Don Isidoro trova nella sua parrocchia di Mandriole, che non lascerà più, i segni tangibili di Anita Garibaldi. Ne percorre le vicissitudini da quella sera del 4 agosto del 1849, quando un medico, il dottor Nannini, ne decreta l’avvenuta morte, mancano pochi minuti alle otto di sera.
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La cascina o cascinale delle Mandriole
> Due dei quattro pilastrini, "segni >
L’ingresso della Fattoria Guiccioli, sovrastato dalle bandiere
di Garibaldi", realizzati dagli allievi dell'Accademia di Belle Arti di Ravenna, in attesa di collocazione
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La stanza dove Anita è spirata
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STORIA E TERRITORIO Lorenzo Cottignoli sottolinea come la Fattoria Guiccioli sia luogo dove la storia passa più volte: la storia risorgimentale con Anita, Garibaldi e la Trafila e un secolo dopo con la Resistenza che vide protagonista a Mandriole un altro medico, Giulio Zangaglia, Giulietto, del quale il nuovo parroco celebrò nel 1945 le nozze con Dolores Argentini, ma non ci si ferma qui. Le significative coincidenze, infatti, iniziano precedentemente: la Fattoria venne acquistata nel 1914 al culmine dell’espansione delle cooperative agricole braccianti, che ebbero un ruolo determinante nel trasformare il territorio a nord di Ravenna. Il fondo, era appartenuto ai Bastogi, che l’avevano comprato dalla famiglia Guiccioli. Ignazio Guiccioli, marito della contessa Teresa Gamba, quando era ormai in età più che matura, aveva acquisito vasti tenimenti alienati dalle repubbliche napoleoniche delle quali fu subito fervente sostenitore. Ebbe forse il suo interesse, tanto che molti terreni fra Ravenna e Venezia, come soleva vantarsi, erano i suoi. Lo sforzo economico del conte Guiccioli non fu sicuramente enorme, in quanto seppe approfittare delle circostanze, dal momento che i beni ecclesiastici furono confiscati al clero e alle potenti abbazie, alienati, smembrati e spesso svenduti. Passarono di mano così i terreni pinetati e incolti, le larghe a fieno e le bassure vallive fra Primaro e Mandriole verso le valli di Marcabò e attorno alle antiche anse fluviali del Po morto di Primaro, chiamati “Gattoli”. I monaci benedettini di San Vitale che nel motto “ora et labora” hanno custodito per anni i terreni, vengono espropriati dalla nobiltà agraria e successivamente da una borghesia emergente come quella dei Bastogi che lascia ampie tracce toponomastiche come la Carraia Bastogi, strada tuttora esistente che collega Rossetta alla via provinciale Naviglio inferiore, nel comune di Bagnacavallo. Su quelle terre ritornano però dei lavoratori che hanno analogie con i monaci benedettini: non hanno una casa colonica né appezzamenti di terra e lavorano collettivamente in folta schiera per dissodare e rendere produttive terre dure e incallite.
> Paride Danesi, custode della Fattoria Guiccioli, sempre disponibile ad accogliere i numerosi visitatori
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La Fattoria Guiccioli rappresenta per la Federazione delle Cooperative della Provincia di Ravenna un luogo della memoria. Grazie ai sapienti interventi di conservazione e restauro, guidati dall’architetto Paolo Bolzani, è stata riqualificata e ampliata non solo la parte museale, ma sono stati ricavati uno spazio espositivo e un’ampia sala per conferenze nei capannoni gemelli, mentre una parte della cascina, ospita gli archivi storici di molte delle cooperative associate alla Federazione stessa.
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Garibaldi esercita un deciso fascino carismatico, è un trascinatore di uomini e donne alle quali offre una parità di ruoli assolutamente avanzata, per non dire utopica per il tempo Garibaldi arriva nella nostra terra, alla Fattoria Guiccioli, dopo due giorni di fuga attraverso le valli di Comacchio, ben più vaste di quanto appaiano ora. L’unico mezzo per spostarsi è la barca, ma in quei luoghi “scoperti”, muoversi con perizia, lungo canali e passaggi lagunari dai pescaggi incerti, risulta difficile anche ad esperti uomini di valle. Le condizioni di Anita peggiorano dopo la sosta alla Tabarra Agosta, dove i battellieri fuggono per paura degli austriaci e vengono avvicendati dai fratelli Marino e Michele Guidi di Comacchio. Quest’ultimo riesce a contattare i fratelli Manetti di Sant’Alberto, che avvertono il medico del luogo, il dott. Nannini perchè si rechi alla Fattoria Guiccioli. Sono circa le sei di sera quando il battello di Garibaldi attraversa il fiume, il vecchio corso del Po di Primaro, in corrispondenza della strada Corriera, l’antica “Romea”. Il medico fa portare Anita, ormai agonizzante, al piano superiore, in cima alle scale della Fattoria. Scrive Giuseppe Garibaldi: «Noi quattro (se stesso, Leggero, Manetti Battista e il Dott. Nannini) prendemmo ognuno un angolo del materasso e la trasportammo nel letto di una stanza che si trova a capo di una scala. Nel posare la mia donna sul letto, mi sembrò di scoprire nel suo volto l’espressione della morte. Le presi il polso... più non batteva. Avevo davanti a me la madre dei miei figli, che io tanto amavo, cadavere». La notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto è durissima e travagliata: la morte dell’adorata moglie, il peso della fuga e la paura di essere scoperto rappresentano un colpo durissimo che avrebbe abbattuto chiunque. Eppure la solidarietà della gente, siano persone umili o colte, testimonia l’importanza di tener viva una speranza di cambiamento che Giuseppe Garibaldi suscita. Un uomo risoluto e deciso, forte d’azione ma anche di pensiero. Ci sono mani che congiungono itinerari, sguardi complici capaci di vigilare i movimenti della polizia austriaca, uomini di tanti mestieri, osti, barcaioli, marinai, contadini, birocciai, operai giornalieri, impiegati, possidenti, preti, patrioti, donne, massaie, madri e figli... Garibaldi esercita un deciso fascino carismatico, è un trascinatore di uomini e donne alle quali offre una parità di ruoli assolutamente avanzata, per non dire utopica. È capace di incarnare ispirazioni internazionaliste, si getta anima e corpo nel progetto mazziniano della Giovine Europa. In Romagna, terra aspra e dura, senza mezzi toni, favorire, aiutare, proteggere la fuga di Garibaldi, rafforzò un preciso percorso politico e risorgimentale. Un cammino capace di scrivere una storia nuova che nasce da tante piccole storie, in un ambiente dove la pineta era ben più estesa di quanto lo sia ora, con le valli e le lagune a rendere difficili gli spostamenti, senza poterli nascondere. A Sant’Alberto, alle tre del mattino della domenica, Garibaldi passa da casa Matteucci, senza uscita posteriore, a quella di Moreschi, adiacente alla piazza. Dalle finestre socchiuse il Generale può scorgere una squadra di soldati austriaci in perlustrazione. Alle sette abbandona il paese con la guida Ercole Saldini, passa il Reno per raggiungere la riva sinistra e proseguire per il mare, che è preceduto da una bassura nella quale si cammina con grande fatica. Poco più a sud bisogna superare il corso del fiume Lamone ormai in abbandono, che trovava foce a mare nei pressi, dove ora sorge Casalborsetti. Un giorno di cammino per arrivare ad un capanno da pesca sul canale Taglio, nella parte nord occidentale della pialassa della Baiona. Il giorno dopo, è lunedì 6 agosto, il gruppo, formato da Garibaldi, Leggero, Saldini, Gaetano Montanari (giunto nel frattempo), Fabbri e Fagioli decide di passare la notte in un rifugio più sicuro, addentrandosi nella pineta chiamata del Bardello. Garibaldi però non ha abbandonato l’idea di raggiungere Venezia partendo da Porto Corsini. Dal capanno da caccia del Pontaccio (l’attuale capanno Garibaldi) si può vedere la Fabbrica Vecchia, sul canale Corsini. Qui Garibaldi trova ricovero la sera di lunedì. Martedì 7 agosto avvengono contatti e trattative per noleggiare un bragozzo, insorgono difficoltà e il progetto svanisce. Alle 19,30 il gruppo lascia il capanno attraversando il vicino canale Corsini, il Candiano, e approda nella pineta della Vitalaccia, da qui proseguirà la Trafila che vedrà l’eroe dei due mondi abbandonare Ravenna il 14 agosto del 1849. Sono trascorsi 10 giorni dalla morte di Anita.
Dall’alto: la copertina della guida Sulle tracce di Garibaldi - La “Trafila” nel territorio a nord di Ravenna. Si tratta di un’agile guida tascabile realizzata con il determinante impegno del Comune di Ravenna e del Museo del Risorgimento, che illustra un percorso ciclopedonale da seguire grazie alle chiare indicazioni fornite nel testo. La pubblicazione è stata presentata dalle tre autrici, Gianna Lugaresi, Laura Montanari e Osiride Guerrini (da sinistra nella foto di Giuseppe Nicoloro). Nell’ultima foto in basso, Lorenzo Cottignoli, presidente della Federazione delle Cooperative di Ravenna; alla sua destra Annita Garibaldi Jallet, pronipote di Anita Garibaldi e l’architetto Paolo Bolzani, progettista dei restauri del complesso della Fattoria Guiccioli.
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di Cetty Muscolino
Nelle fotod’epoca, veduta degli scavi. Sopra: capitello con monogramma teodericiano dall’Ecclesia Gothorum, Museo Nazionale di Ravenna. Pagina a fianco: Sopra: ipotesi ricostruttiva della sala del triclinio. In basso: A. Azzaroni, La grande sala absidata del Palazzo di Teodorico, acquerello su carta, 93x14 cm, archivio disegni SBAP-RA.
La scoperta dei mosaici dell’area prossima alla basilica di Sant’Apollinare Nuovo, «in Palacio quondam Theodorici regis in ragione S.Salvatoris», risale agli scavi diretti da Gherardo Ghirardini fra il 1908 e il 1914, quando venne alla luce un vasto complesso palaziale, caratterizzato da sovrapposizioni di fasi edilizie e pavimentazioni musive e in opus sectile, dall’età romano imperiale al periodo esarcale. Il quartiere nord dell’area porticata presentava caratteristiche strutturali simili alla Villa tardo antica di Piazza Armerina e si distingueva per una grande sala absidata al centro del peristilio impreziosita da un pavimento a mosaico scandito in riquadri geometrici. Nel riquadro principale è rappresentato il prode Bellerofonte sul cavallo alato Pegaso, che affronta la chimera, mentre ai lati si trovano quattro rettangoli con putti che sostengono corone e tabulae ansatae. Completano la composizione quattro medaglioni posti agli angoli con i busti, molto frammentari, delle stagioni. La rappresentazione delle stagioni e il mito di Bellerofonte che uccide la chimera, ispirati al mondo classico, contribuivano a conferire un’intonazione fastosa alla pavimentazione insieme alle preziose lastre marmoree che Teodorico aveva richiesto a Roma per abbellire la sua reggia, esaltata da Cassiodoro proprio per la bellezza dei marmi e dei preziosi mosaici. Per quanto riguarda l’architettura del palazzo l’unica immagine tramandataci dall’antichità è compendiata nel mosaico nella basilica di Sant’Apollinare Nuovo che la presenta «come una costruzione a sviluppo orizzontale formata da un corpo centrale emergente e timpanato, sottolineato dalla scritta PALATIUM e da due ali porticate»1. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere il mosaico una raffigurazione realistica della reggia di Teodorico, e Cassiodoro, parla delle Vittorie reggenti festoni «poste a testimoniare la gloria del sovrano»2 Il Palatium, custodito dai sorveglianti e precluso a chi non era degno, era simbolo monumentale del sovrano e per la sua magnificenza doveva suscitare stupore e sbalordimento. In uno dei pannelli posti sul lato lungo del riquadro centrale si trova una coppia di putti alati che sostengono una tabula ansata con la scritta: SUME QUOD AUTUMNUS QUOD / VER QUOD BRUMA QUOD
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Tenere a bada il tempo uccidendo chimera Sugli scavi e i mosaici nell’area del Palazzo di Teodorico ESTAS/ ALTERNIS REPARANT ET /TOTO CREANTUR IN ORBE. La scritta beneaugurale, perfettamente consona al triclinium, è un esplicito invito rivolto dal padrone di casa agli ospiti perché godano di tutti i frutti che le quattro stagioni, rappresentate nei medaglioni angolari, possono offrire. La chimera, mostruoso animale fantastico, figlia di Echidna, donna serpente e del mostro infernale Tifone e sorella di Cerbero, il cane custode dell’inferno, è ricordata da Omero nell’Iliade3 ,e descritta come una singolare combinazione di leone, capra e serpente; e Isidoro di Siviglia, nelle Etimologie, la definisce «triformis bestia, ore leo, media caprea, postremis partibus draco». Ciascuna parte del suo corpo può terminare con una testa, così chimera diviene tricefala come il cane Cerbero. Nelle Teogonie Esiodo scrive: «Chimera che spira invincibile fuoco, terribile e grande, veloce e forte; tre teste aveva: una di leone dagli occhi ardenti, l’altra di capra, di serpe la testa, di drago possente: davanti leone, drago di dietro, nel mezzo era capra, spirando tremendo ardore di fiamme brucianti; costei l’uccisero Pegaso e il prode Bellerofonte». Questo interessante complesso musivo venne strappato nel 1912 dai tecnici del regio Opificio delle Pietre Dure di Firenze, in trentaquattro lacerti e le uniche testimonianze della corretta posizione dei frammenti è costituita da un disegno, firmato e datato, “Alessandro Azzaroni 1909”, e da alcune piante del sito tracciate dallo stesso Azzaroni. All’estrazione dei frammenti è seguita la collocazione su malta cementizia e la sistemazione in un vano porticato nel piano terrene del cosiddetto Palazzo. Il disegno di Azzaroni e le foto di scavo hanno rivestito un ruolo fondamentale per la ricostruzione dei diversi riquadri geometrici e per avviare il progetto di restauro, dal momento che col tempo la superficie musiva era gravemente alterata da depositi di polvere, guano di piccioni e macchie di ruggine provocate dai ferri che armavano il cemento utilizzato come nuovo supporto. A partire dagli anni settanta si procede al distacco e alla ricollocazione su nuovi pannelli di dieci frammenti costituenti il lato settentrionale del triclinio e si affida il restauro alla Cooperativa Mosaicisti di Ravenna. All’inizio del 2000 le rimanenti sezioni vengono trasferite nei laboratori della Scuola per il Restauro del Mosaico della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Ravenna, sezione distaccata dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, per intraprendere uno studio più puntuale e redigere il progetto ricostruttivo dell’intera sala. L’attività didattica della Scuola si dedica in maniera sistematica al restauro dei lacerti del triclinium, con approfondimenti specifici coronati dall’elaborazione di tesi di fine corso 4, e nel 2006 ci si concentra sul riquadro centrale con Bellerofonte e la chimera, il cui simbolismo (leone, quindi forza, calore, quindi estate; serpente sinonimo d’inverno; capra passaggio, quindi me-
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tafora della primavera e dell’autunno5) bene si lega alla rappresentazione delle stagioni e alla scritta benaugurale. Se chimera e le stagioni significano il perenne e inesauribile fluire del tempo, Bellerofonte è immagine del dominus che lo controlla e lo governa. Concluso il restauro è ancora da risolvere il problema della sistemazione finale dei frammenti che prima degli interventi, assemblati su lastre di cemento, occupavano un’estensione minore: il restauro infatti ha rispettato le reali dimensioni della sala del triclinio e l’esatta posizione di ogni lacerto. Ne consegue quindi che tutte le sezioni si trovano nei depositi della Soprintendenza in attesa di una auspicabile musealizzazione.
NOTE: 1 Paola Porta, Il centro del potere: il problema del Palazzo dell’Esarco, in Storia di Ravenna, II.1, 1991,Venezia. 2 Piero Piccini, Immagini d’autorità a Ravenna, in Storia di Ravenna, II 2, Venezia 1992, pp.31-78 3 «Era il mostro di origine divina/ leone la testa, il petto capra, e drago/ la coda, e dalla bocca orrende vampe/ vomitava di foco: e nondimeno/ col favor degli Dei, l’eroe la spense» Iliade,VI,180-184, trad. V.Monti 4 Nencini, 2002; Commandatore 2007 5 Secondo altri questa triade è interpretata come simbolo di tre parti dell’anno: il leone rappresenta la primavera, la capra l’estate e il serpente l’inverno. Una delle sue più famose rappresentazioni ci è data da un bronzo etrusco di Arezzo esposto al Museo Archeologico di Firenze. La chimera era spesso presente in antefisse scolpite come figura di evidente valore apotropaico.
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Le geometrie del potere:
il palazzo di Teoderico e i suoi mosaici pavimentali di Federica Cavani
All’indomani della conquista della penisola italica Teoderico trovò un territorio estremamente disomogeneo, città in crisi e destrutturate e centri urbani che svolgevano ancora funzioni amministrative. Intraprese pertanto tutta una serie di lavori che interessarono l’assetto di alcune città individuate o come punti strategici e di difesa, in quanto poste sui confini settentrionali del regno, Como, Milano, o, per la loro importanza, come città di fondazione romana, Rimini, oppure perché erette a capoluoghi amministrativi, Pavia, Verona e la stessa Ravenna. Già sul finire del IV secolo Ravenna non compare negli Opuscula di Ausonio tra le venti città più illustri dell’impero. Si era assistito al degrado di edifici residenziali e a fenomeni di abbandono di interi quartieri. Già sotto Onorio (402-423) questo “fenomeno”, che aveva caratterizzato gran parte della penisola italica, incominciò a diversificarsi: a Ravenna e nel territorio sotto la sua amministrazione si attestò un certo impegno pubblico che probabilmente derivò dalla scelta della città come sede della corte imperiale. Si verificarono notevoli modifiche alla topografia della città, in linea probabilmente con un nuovo progetto di sviluppo urbanistico che mirava a utilizzare aree inedificate e facilmente confiscabili come luoghi di costruzione di edi-
Pagina sinistra, in alto: A. Azzaroni, Disegno acquerellato dei resti pavimentali a mosaico del triclinium del Palazzo, 1909. In basso: una fase dell’intervento di restauro. In questa pagina, a destra: scavi Mazzotti, area del cosiddetto Palazzo di Teodorico (San Salvatore ad Calchi), 1946 In basso a sinistra: pulitura meccanica dei mosaici.
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fici imperiali, di carattere pubblico e religioso. Un’attenzione particolare fu riservata a Ravenna anche da parte di Galla Placidia e di suo figlio Valentiniano III: dalla chiesa di San Giovanni Evangelista, fatta costruire dall’augusta come ex voto, al mausoleo a lei dedicato, che probabilmente una qualche connessione con la famiglia imperiale doveva avercela, dal Palazzo ad Lauretum, sede dell’imperatore, alle costruzioni sia delle mura urbiche, attribuitegli dal protostorico Andrea Agnello, che del circo, espressione dell’evergetismo del sovrano e allo stesso tempo ostentazione del suo potere. Il breve dominio di Odoacre (476-493) non incise di fatto nell’ordinamento delle città italiche, anche se più di una fu danneggiata nel corso della guerra che sostenne contro Teoderico. Per Ravenna, a livello urbanistico, non rimangono tracce significative riferibili al re degli Eruli: le fonti parlano di un Palazzo eretto sul fiume Padenna, fonti più tarde di mura urbiche risarcite o ultimate sul lato orientale verso la fine del V secolo. Una preziosa testimonianza sulla politica di Teoderico è offerta dagli scritti di Cassiodoro, magister officiorum del re goto; egli riordinò sotto il titolo di Variae le numerose lettere che durante la sua lunga carriera aveva scritto per conto dei sovrani goti. Nelle parole di Cassiodoro si riflette il convincimento che le città erano, per il sovrano, niente di meno che comunità di uomini legati da interessi materiali e spirituali e che quindi erano da conservare, da restaurare e da fortificare proprio perché rappresentavano il “mezzo” per l’esistenza dei loro abitanti. Teoderico riservò molte attenzioni alla questione della sicurezza delle città promuovendo anche a Ravenna opere di risanamento e manutenzione della cinta muraria che racchiuse nel suo assetto definitivo di fine V secolo un’area pari a centosessantasei ettari, cinque volte maggiore rispetto a quella ipotizzata per l’età repubblicana. Al suo interno erano comprese vaste aree edificabili destinate a nuovi edifici della corte imperiale: nella zona della duna costiera posta a sudest si trovavano gli edifici residenziali e di rappresentanza del sovrano, mentre a est un’ampia area fungeva da naturale proseguimento della città verso il mare.
Sopra: i lacerti musivi con Bellerofonte e chimera. Sotto, da sinistra: scritta beneaugurale; la chimera di Arezzo, Firenze, Museo Archeologico; Vittoria nella raffigurazione musiva del palazzo di Teodorico.
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Di sicuro impatto scenografico era il Palazzo imperiale che, dalla lettura incrociata di fonti e scavi, probabilmente si trovava tra porta Wandalaria e la chiesa di San Giovanni Evangelista. In epoca teodericiana raggiunse alti livelli di investimento: fu oggetto di alcune ristrutturazioni e ampliamenti, eseguiti per soddisfare le nuove e accresciute esigenze di corte. Edificato probabilmente in età onoriana (402-423) sui resti di una villa suburbana romana di I-II secolo d.C., si componeva di diverse entità, come il Sacrum Palatium onoriano, tra Sant’Apollinare Nuovo e San Giovanni Evangelista, e il Palatium ad Lauretum di Valentiniano III (419-455), a ridosso della Platea Maior, nei pressi della porta Wandalaria. Alcune informazioni su come doveva essere organizzata l’area palaziale ci provengono da una serie di scavi e sterri che iniziarono nel 1861 con la scoperta di numerosi pavimenti musivi da parte del conte Serena Monghini, all’epoca proprietario dell’area, e proseguirono nel 1870 a opera del conte Ouvaroff nella parte meridionale del Palazzo, dove probabilmente si trovavano le terme. Nel 1908-1914 Gherardo Ghirardini, in quegli anni soprintendente alle Antichità per l’Emilia-Romagna, intraprese nel settore sud-est di Sant’Apollinare Nuovo, su un’ampia superficie di quattromila metri quadrati, un nuovo scavo, mettendo il luce una corte rettangolare con portici, ambienti di rappresentanza e di servizio, confinanti a est con il mare e sud con via Alberoni, caratterizzati dall’uso di palafitte in fondazione e laterizi di risulta in alzato. Tuttavia tale complesso, tradizionalmente identificato con il Palazzo teodericiano (non tutti gli studiosi concordano con tale identificazione), dopo esser stato privato degli apparati musivi pavimentali e di sectilia a motivi geometrici, venne ricoperto senza essere supportato da una pubblicazione adeguata. A differenza della relazione di scavo preliminare e parziale, rimane una ricca documentazione grafica circa il rinvenimento dei mosaici pavimentali curata da Alessandro Azzaroni, all’epoca disegnatore della Soprintendenza di Ravenna. In quest’area Teoderico provvide ad abbellimenti, ripavimentazioni e ampliamenti, come quello che interessò l’aula regia absidata destinata alle udienze o a sala di rappresentanza, forse già realizzata, seppur di ridotte dimensioni, da Onorio. Si preoccupò anche di commissionare nuove costruzioni, come nel caso di una cappella nel peristilio o del triclinium ad mare ubicato a est del Palazzo. In questo ultimo caso potrebbe trattarsi anche di una costruzione onoriana in linea con altre di tale epoca presenti nella maggior parte della città del Mediterraneo durante l’epoca tardoantica. Pertanto, contrariamente a quanto riportato dall’Anonimo Valesiano che attribuisce al sovrano goto la costruzione del Palazzo dalle fon-
damenta, Teoderico, così come Valentiniano III prima di lui, provvide a far restaurare il complesso palaziale costruito da Onorio. La facciata del Palazzo e l’originario ingresso si affacciavano sulla Platea Maior a non molta distanza da Sant’Apollinare Nuovo, verosimilmente in corrispondenza dell’attuale cosiddetto Palazzo di Teoderico (ritenuto erroneamente il palazzo del sovrano goto perlomeno a partire dal XVII secolo e fino ai primi scavi di fine Ottocento), posto tra via Roma e via Alberoni e conosciuto nel IX secolo, quando venne realizzato con materiale di spoliazione del probabile vero complesso palaziale, come Chiesa del Salvatore detta ad Calchi. La Chalkè, porta di ingresso in bronzo del palazzo imperiale ravennate, riprendeva la denominazione di quella presente a Costantinopoli nel Grande Palazzo, affacciata sull’angolo sud dell’Augustaion, il principale foro della città. Del monumentale ingresso ravennate, ricordato dall’Anonimo Valesiano come costruzione teodericiana e per alcuni studiosi posto sul lato meridionale, non rimane più nulla a eccezione forse della sua ipotetica rappresentazione, seppur altamente simbolica, nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo. Ricordato da Andrea Agnello, il primo ingresso del Palazzo fu indagato archeologicamente negli anni cinquanta del XX secolo. Grazie agli scavi di don Mario Mazzotti condotti nel 1946 all’interno del cortile dell’Istituto Salesiano si misero nuovamente in luce alcuni ruderi già visti nel 1907 e identificati come resti di strutture palaziali. Nel 1955-1956 Mazzotti effettuò alcuni sondaggi a ridosso della chiesa di San Salvatore, appurando che la struttura tutt’ora visibile pur essendo di epoca inequivocabilmente carolingia poggia su alcune fondazioni di strutture preesistenti che potrebbero essere appartenute al vero palazzo imperiale. Un secondo cortile o una serie di portici con gallerie soprastanti aperte da finestre, simili a quelli rappresentati nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo, dovevano trovarsi a sud di via Alberoni come ricordato dall’Anonimo Valesiano e come sembrerebbero dimostrare alcuni sondaggi. I ritrovamenti di pavimenti in mosaico e strutture murarie, in via di Roma, presso l’attuale Istituto Musicale Verdi, e in via Santi Baldini attestano invece altri ambienti del complesso che dovevano estendersi su via Alberoni. Il complesso terminava a nord con lo Scubitum, un edificio occupato dai militari di stanza al Palazzo. La denominazione degli edifici principali della città di Ravenna anche in epoca teodericiana rispecchierebbe così in parte quella della capitale dell’Impero d’Oriente nel tentativo, da parte anche del sovrano goto, di auto legittimare il proprio potere e allo stesso tempo di uguagliare un modello di capitale difficilmente equiparabile come Costantinopoli.
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ZONA VICOLI
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Forlì rilancia e prova a giocare la carta del verde urbano Piccolo itinerario sostenibile fra parchi, giardini, ciclabili e percorsi in natura di Chiara Bissi Ancora in trasferta, lasciate le mura cittadine ravennati, per la seconda volta la rubrica Città e quartieri si occupa di Forlì. Dopo il percorso nella città storica, seguendo la traccia di alcune emergenze monumentali e necessariamente trascurando tanto altro, l’itinerario individuato per la seconda ricognizione lambisce l’impronta verde della città. Il più recente piano di recupero del patrimonio monumentale con la restituzione del complesso di San Domenico su tutti, segue di qualche anno la riflessione e il disegno degli spazi verdi realizzati negli ultimi vent’anni. Un tema ampio, quello del verde urbano, che alla voce gestione e manutenzione riporta aspre polemiche politiche, con il recente azzeramento e l’immediata ri-
modellazione della giunta da parte del sindaco Drei a causa di un esposto presentato contro il bando per l’individuazione del consulente, specializzato nel verde pubblico del Comune di Forlì. Poi non sono mancati petizioni e comitati combattivi, tutti segnali che testimoniano perlomeno un tenace attaccamento alle sorti delle aree naturali in contesto urbano. Vale la pena allora ricordare fuori dall’agone politico, quanto è stato fatto, quanto è a disposizione dei cittadini, sperando in un futuro migliore. L’itinerario allora, in omaggio alla tenacia del carattere cittadino, non può non partire da un piccolo tributo al Glicine Manoni, che fa bella mostra di sé da cent’anni, in via delle Torri 14, a pochi passi da piazza Saffi. L’esemplare storia del glicine inizia nel 1915, quando Stefano Manoni, proprietario della mesticheria adiacente e membro di una famiglia
settembre 2016
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CITTÀ E QUARTIERI
di Veronica Gismondi
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Memento Memento_Forli
molto conosciuta in città, mise a dimora il rampicante. Durante la Seconda guerra mondiale, nell’agosto del 1944 i bombardamenti colpirono piazza Saffi e gli edifici di via delle Torri, provocando numerose vittime. Fra i cumoli di macerie il glicine, rimase l’unico segno di vita e di grazia; salvato dalla famiglia Manoni, divenne a suo modo un simbolo della rinascita della città e della ricostruzione. Accanto alla pianta una lapide rende onore all’indimenticata la signora Gianna, “maestra di pace e di amore”. Tra le vie che conducono alla piazza, si contano Corso Mazzini con i bei portici e il palazzo Petitti Giovannetti, corso Garibaldi e corso della Repubblica, ma è su via delle Torri che si apre un altro segno verde che ingentilisce la passeggiata verso piazza Cavour, nota come piazza delle Erbe. Qui lungo via Maurizio Quadrio si trovano i Giardini Orselli area verde attrezzata dove l’albero di pietra firmato da Tonino Guerra, appare bisognoso di un intervento di restauro. Oltrepassando alcune sedute ben ombreggiate e i giochi per bambini si arriva al locale che prende il nome dai giardini e rappresenta una delle tappe del divertimento della zona. In quest’area sorgeva palazzo Orselli a pochi passi da palazzo Piazza Paolucci, sede della Prefettura. Lungo la via e poi affacciati direttamente sulla piazza negozi di abbigliamento, di oggettistica si alternano a mete della buona cucina, da Salumè, all’Osteria nascosta, a Col Basilico nel cuore, fino all’Osteria del Mercato, e poi ancora, solo per citarne alcuni, La sosta, Nati a Forlì, gelaterie, macellerie fanno da corte alla piazza delle Erbe che nei progetti comunali dovrebbe diventare pedonale. Il rinnovato fermento dopo anni di degrado e insicurezza trova linfa nei mercoledì del Cuore, iniziativa che ac-
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Nelle pagine precedenti, via Delle Torri con il glicine Manoni, sopravvissuto alla guerra. Anche nelle immagini qui a sinistra e sopra. Piazza delle Erbe con alcuni scorci dei Giardini Orselli.
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CITTÀ E QUARTIERI
Pizza d’amore, pizza d’autore.
cende il centro storico, ideata dalla società di promozione delle attività commerciali e produttive Forlì nel Cuore. Una qualità diffusa ricercata e pianificata anche nella Settimana del Buon vivere, manifestazione attesa a fine settembre, che mette al centro le buone prassi per un futuro sostenibile e propone un prologo il 24 settembre con la Notte Verde, appuntamento dedicato al tema dell’acqua. La Settimana del Buon Vivere è sostenuta e organizzata da Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì, Comune di Forlì, Cooperhub, in collaborazione con Irccs-Irst e Camera di dommercio, con il contributo di Conscoop. Prima di lasciare piazza Cavour occorre un cenno sul Foro Annonario, sorto fra il 1837 e il 1840 nell’area dell’antico convento di San Francesco distrutto nel 1815, mentre la chiesa di San Francesco Grande, costruita in parte dove oggi si apre la piazza, nel 1781 venne irrimediabilmente danneggiata da un terremoto. Era riconosciuta come il pantheon forlivese, conteneva infatti le tombe degli Ordelaffi, signori di Forlì, ricca di tesori d’arte, con opere di Carrari e Palmezzano. Al momento anche per il mercato coperto è previsto un progetto di riqualificazione che andrebbe a completare il nuovo disegno di piazza delle Erbe. Sempre nell’Ottocento, Forlì si dota di un grande parco urbano, realizzati nel 1816; nel 1828 l’ingegnere comunale Giacomo Santerelli, attivitissimo in città, apportò sostanziali modifiche i Giardini pubblici, l’area verde fu ridotta e innalzata; furono divisi i percorsi pedonali da quelli carrozzabili secondo diversi itinerari. Il grande viale centrale conduce a una terrazza rialzata dalla quale la vista prospettica è verso il piazzale e il monumento della Vittoria e sulla quale la grande fontana giace non funzionante. I tavoli ombreggiati diventano scrivanie a cielo aperto per giovanissimi studenti alle prese con la corsa finale per terminare gli ultimi compiti prima della
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Nelle foto in alto alcune vedute di Piazza delle Erbe con le abitazioni e i locali che la caratterizzano. In basso a destra: due immagini dei Giardini Pubblici nel cuore della città, con il laghetto e la stutua di bronzo di Primo Carnera.
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fine delle vacanze estive Scendendo si trova il laghetto con cigni e anatre, le aree attrezzate, una piccola pista di pattinaggio: il tutto garantisce un’assidua frequentazione di famiglie, ragazzi e anziani, fra partite a carte, chiacchere, merende e biciclette. Negli anni Settanta i Giardini furono ampliati fino a viale Spazzoli con la denominazione parco della Resistenza. Un servizio di noleggio biciclette, una biblioteca per ragazzi, donata dal Rotary club, uno chiosco garantiscono i servizi essenziali all’interno del parco, dove si possono ammirare una statua di bronzo di Primo Carnera, un monumento alle vittime dei lager nazisti e in tutte le prigionie e all’ingresso da piazzale della Vittoria il busto di Giuseppe Gaudenzi, sindaco e deputato di Forlì, fondatore e primo segretario del Partito Repubblicano Italiano. Già 15 anni fa la città vantava 780 mila metri quadrati di parchi e giardini pubblici in area urbana, 160 mila mq di aree protette e riserve naturali e 115 mq di aree agricole e boscate. Ma l’evento più importante in termini ambientali è l’apertura del Parco urbano Franco Agosto nel 1994 , ventisei ettari, raggiungibili da piazza Saffi grazie a piste ciclabili percorrendo corso Garibaldi, via Corelli e poi piazza Guido Da Montefeltro e prendendo da lì il sottopasso ciclabile di 800 metri, oppure per i giovanissimi frequentatori con un trenino turistico. Il Parco in prossimità del fiume Montone, con più
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ingressi e parcheggi, da viale dell’Appennino, da via Friuli o da via fiume Montone offre uno scenario ambientale non comune. Farnie, roverelle, pioppi neri, pioppi bianchi, aceri, frassini, carpini, sorbi, salici, gelsi garantiscono ombra e ristoro e incorniciano prati, regno incontrastato di conigli in libertà, ai quali è dedicata anche una collina dove sorge un ristorante e un’area giochi. I gentili animaletti, accompagnano la visita, saltellando ovunque o semplicemente godendosi in relax il piacere di sdraiarsi sull’erba. Il parco è gestito da una società che si occupa della manutenzione e delle attività di animazione, una formula diversa dalla soluzione più praticata da altri Comuni che garantisce l’apertura delle aree verdi con custodi e appalta i servizi di sfalcio a soggetti esterni. La pratica sportiva è garantita da campi da calcetto, beach volley, racchettoni, bocce; per i più piccoli castelli gonfiabili e giochi in legno assicurano lo svago, fra aree di ristoro e chioschi, mentre nel laghetto oltre a cigni e anatre anche grosse nutrie si rinfrescano. Un mare verde disseminato di percorsi vita e opere scultoree contemporanee, fra queste la Scacchiera di Carmen Silvestroni del 1976 o La famiglia di Glauco Fiorini. La grande area verde dedicata al sindaco della Liberazione è la più estesa, non è impossibile infine raccontare i tanti parchi che punteggiano la città e che i cittadini vorrebbero sempre all’altezza dei loro desideri, dal giardino della Rocca di Ravaldino, al parco di via Dragoni e via Francesco Balilla Pratella, nel quale allo spazio giochi per bambini, alla pista di pattinaggio, all’arena e alla sala della musica si aggiunge la pista di skate-board con rampe in legno di abete nordico, per permettere le evoluzioni dei giovani skaters. Il parco Paul Harris di via Bengasi, il parco della Pace di via Piave, il parco delle Stagioni di via Anne Franck con due aree cani e la polisportiva Buscherini con 99mila metri quadrati, una serie d’impianti sportivi e di servizi rivolti al divertimento dei bambini e di chi ama lo sport. In attesa di vedere completato il progetto già finanziato del parco dell’ex ospedale Morgagni, oggi campus universitario.
Tutte le foto sono di Paolo Bolzani.
Nelle foto diversi scorci del parco urbano Franco Agosto, dove sorge anche la collina dei conigli.
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Il “guerriero” Borges Storia di un innamoramento per una città non vista di Alberto Giorgio Cassani
Molti ormai conoscono la misteriosa e per certi versi inspiegabile storia del guerriero barbaro Droctulft che tradisce la sua tribù per difendere una città straniera, Ravenna, racconto narrataci da Jorge Luis Borges nell’Aleph (Storia del guerriero e della prigioniera, 1949)1, tratto da un episodio realmente accaduto citato da Paolo Diacono2 e ripreso in seguito da Benedetto Croce3. Assai meno sono coloro che sanno che il grande poeta argentino è venuto in visita nella nostra città, probabilmente, ma sono voci raccolte, intorno alla metà degli anni Settanta. Era giunto per visitare, di Dante, la sua tomba, ma soprattutto il suo spirito, forse aleggiante nei dintorni. Un omaggio di un grande a un grande, al poeta che era «dentro di lui»4 e a cui Borges dedicherà i Nueve ensayos
Dantescos nel 19825. All’andata o al ritorno, avvertito (da Maria Kodama?) della presenza di una libreria è entrato alla Modernissima; Lapucci, riconosciutolo immediatamente, non ha probabilmente creduto ai suoi occhi. Si dice anche che Borges abbia voluto essere accompagnato al Mausoleo di Galla Placidia per “vederne” i mosaici. Nel “luccicante” buio del piccolo spazio a croce si è forse sentito a suo agio e ha capito il “labirinto” di tessere dei mosaici più di chi lo accomA sinistra: Jorge Luis Borges. Sotto, a sinistra: Paolo Diacono in un codice della Biblioteca medicea laurenziana (Firenze, Plut. 65.35, f. 34r). Sotto, a destra: Benedetto Croce.
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GRAND TOUR pagnava e poteva ammirarli con gli occhi. Quanto c’è di vero in questa visita sui luoghi del racconto scritto più di vent’anni prima? Il fatto è ricordato qui in città da fonti orali attendibili. La scomparsa di Lapucci, fortunato compagno d’impagabili attimi trascorsi assieme allo scrittore argentino, impedisce di conoscerne i particolari precisi. Ma la risposta al quesito, nell’universo borgesiano, è così fondamentale? Per Borges, vita e sogno, finzione e realtà sono le facce della stessa medaglia: «sognare è essenziale, forse è la sola cosa reale che ci sia»6. Borges si aggira tuttora, nel “giardino dei sentieri che si biforcano”7, tra le strade di Ravenna. Assieme ai suoi lettori.
Sopra: Mario Lapucci. Sotto: l’intradosso della cupola del Mausoleo di Galla Placidia.
__________________________ Note 1. Titolo originale: Historia del guerrero y de la cautiva, in El Aleph, Buenos Aires, Losada, 1949, pp. 49-54, prima trad. it. di Francesco Tentori Montalto, L’Aleph, Milano, Feltrinelli, 1959, pp. 69-76 (ora L’Aleph, A cura di Tommaso Scarano, Traduzione di Francesco Tentori Montalto, Milano, Adelphi edizioni, 1998, pp. 42-46). 2. PAULUS DIACONUS, Historia Langobardorum, in Scriptores rervm Langobardicarvm et Italicarvm sæc. VI-IX, edidit Societas aperiendis fontibvs rervm Germanicarvm medii ævi, Hannoveræ, Impensi Bibliopolii Hahniani, MDCCCLXXVIII, prima trad. it. PAOLO, DETTO DIACONO, Dei fatti de’ Longobardi. Libri sei, nuovissima traduzione del Sac. Prof. Uberti Giansevero, Milano, Sonzogno, 1937. 3. BENEDETTO CROCE, La poesia. Introduzione alla critica e storia della poesia e della letteratura, Bari, Gius. Laterza & Figli tipografi-editori-librai, 1936, pp. 270-271. Rispetto a quanto scrive Borges, che parla di un anonimo «tempio», Croce specifica che l’«epitaffio», secondo Paolo Diacono, si trovava nella basilica di San Vitale. Non si sa se per una svista o per l’abitudine di depistare modificando date o addirittura inventando rimandi bibliografici a pagine inesistenti, Borges parla di una pagina 278 dell’edizione del 1942. Un’edizione del volume, a quella data, non esiste, trovandosi solo una terza edizione datata 1943. Per quanto riguarda il numero della pagina, non essendo riuscito a recuperare il testo, non posso giurare che non sia esatto. La terza edizione risulta ampliata rispetto alla prima: 366 anziché 352. Dunque la p. 278 potrebbe essere giusta. 4. GIORGIO PETROCCHI, Prefazione a JORGE LUIS BORGES, Nove saggi danteschi, Prefazione di Giorgio Petrocchi, Nota sugli acquerelli di Blake di Gert Schiff, Parma, Franco Maria Ricci, 1985, pp. 1320: 13. 5. Edito a Madrid da La Editorial Espasa-Calpe (Selecciones Austral), con un’introduzione di Marcos Ricardo Barnatán e una presentazione di Joaquín Arce. 6. In JORGE LUIS BORGES, Testamento poetico lettera-
rio, a cura di Antonio Bertoli, introduzione di Fernando Arrabal, Firenze, Giunti, 2004, p. 21, frase ripresa anche nel film-documentario di Fernando Arrabal, Jorge Luis Borges: una vita di poesia, 1999 (Alphaville/Spirali). 7. Titolo di un racconto di Borges: El Jardín de senderos que se bifurcan, in El Jardín de senderos que se bifurcan, Buenos Aires, Editorial Sur, 1941,
pp. 114-115, poi in Ficciones, Buenos Aires, Editorial Sur, 1944, trad. it. di Franco Lucentini, Finzioni. La biblioteca di Babele, Con un saggio di Maurice Blanchot, Traduzione di Franco Lucentini, Torino, Giulio Einaudi editore, 1967, pp. 79-91 (prima edizione: collezione “I coralli”, 1961) (ora Il giardino dai sentieri che si biforcano, in Finzioni, A cura di Antonio Melis, Milano, Adelphi edizioni, 2003, pp. 77-89).
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Diverserighestudio e il progetto come «scrittura collettiva» e «supporto alla socialità»
INOUTarchitettura per dare senso e spessore agli spazio connettivi di Chiara Bissi
Diverserighestudio di Bologna animeranno con lo studio InOut di Ferrara un nuovo incontro del ciclo “I 16 – SeDici Architettura”, in calendario giovedì 15 settembre ai Magazzini del Sale di Cervia. La rassegna propone incontri-confronti fra professionisti affermati della progettazione contemporanea e studi emergenti, è promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco Caveja-studio, con il patrocinio degli Ordini professionali degli architetti e ingegneri di Ravenna e Forlì anche ai fini formativi. I Magazzini del Sale sono la sesta tappa dell’ideale percorso in otto date che attraversa la Romagna e indaga le migliori esperienze di progettisti e studi associati con sede in regione, ma operanti in Italia e nel mondo. "Rimodulare il costruito" ovvero come rimettere mano al patrimonio immobiliare, dalla messa in sicurezza, alla sostenibilità, alla qualità dell'abitare sarà il tema della tavola rotonda fra i relatori della conferenza e altri esperti a cura della rivista dell'abitare Casa Premium, condotta dal direttore Fausto Piazza. Le conferenze proseguiranno fino a novembre 2016, in spazi prestigiosi delle città del territorio romagnolo e dopo Ravenna e Cervia, toccheranno Cesena e Faenza.
Diverserighestudio e l'architettura come condivisione del bene comune Sono temi, quelli della progettazione urbana e dei processi partecipativi ben presenti nelle esperienze progettuali di Diverserighestudio. Lo studio è stato fondato nel 2013 dagli architetti Nicola Rimondi, Simone Gheduzzi e Gabriele Sorichetti, tutti e tre nati nel 1975 e laureati all’Università di Ferrara. «La nostra architettura è scrittura collettiva – affermano i tre progettisti –: Vorremmo tornare a dare senso sociale al lavoro dell’architetto. Sentiamo l’esigenza di costruire operazioni dotate di senso che siano in grado di generare linguaggi e strumenti comuni tra abitanti e luoghi. L’architettura per noi è un supporto alla socialità». Lo studio è indirizzato su due temi fondamentali quello antropologico (l’architettura a servizio e in equilibrio fra esigenze della collettività e dell’individuo) e quello ecosostenibile (gli edifici devono consumare poca energia, tutelare il benessere fisico, quello acustico e l’armonia visiva degli abitanti). Per cui nel progettare, spiegano gli architetti, serve più know how che high tech. Numerose nonostante la recente formazione le committenze pubbliche e private. Ecco l’elenco: riconversione dell’Opificio Golinelli (Bologna), residenze Casalogica, Viagenova, Libeccio, Ostro+Scirocco (Bologna), la serie delle case Acupuncture, casa del popolo Corte Campadelli (vincitrice del Premio Internazionale di Architettura Sostenibile), biblioteca multimediale dell’Alma Mater di Bologna nell’area Staveco, rigenerazione
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Nelle foto, alcuni dei progetti firmati da Diverserighestudio. In gran parte si tratta di opere già realizzate.
dell’area industriale Ex Eridania a Molinella (Bo), progetto Brionvega a Pesaro, il modulo abitativo in legno T-Time. Lusinghiero il dettaglio dei premi ottenuti, di seguito alcuni riconoscimenti: selezionato due volte per il Padiglione Italia alla mostra internazionale di Architettura della Biennale di Venezia; Premio “Nib 2012” al miglior studio italiano di architettura under 40 – studio vincitore (primo classificato); “Medaglia d’Oro” Per l’Architettura Italiana, edizione 2012 – 2 opere candidate alla selezione finale; Premio “Fondazione Renzo Piano” edizione 2013 – studio finalista; Premio “Inarch” V edizione – 1 opera candidata alla selezione finale; Tiles of Italy, studio vincitore (primo classificato); “Medaglia d’Oro” Per l’Architettura Italiana, edizione 2015 – 1 opera candidate alla selezione finale. A Simone Gheduzzi il compito di introdurre il lavoro e la filosofia di Diverserighestudio. Di voi si legge che immaginate l’architettura come un supporto alla socialità e vorreste tornare a dare senso sociale al lavoro dell’architetto. Come avete accolto il tema della biennale di architettura di Venezia 2016 e l’invito a partecipare al padiglione italiano con la riconversione dell’opificio Golinelli? Il tema vi ha stupito, vi sentite anticipatori o si tratta di una conferma di un sentire ormai condiviso a livello globale? «Pensiamo che il tema “taking care”, progettare per il bene comune, scelto dai curatori sia assolutamente nel tempo e dia una lettura dell’architettura che a noi interessa molto, ne condividiamo il senso. Una architettura che viene effettivamente realizzata per le persone che la abitano e dove queste persone sono spesso protagoniste nel processo del progettare. In generale è auspicabile che il tema della Biennale di Architettura “ reporting from the front” possa divenire una tendenza globale ma pensiamo ci sia davvero ancora tanto da fare e certamente L’Opificio Golinelli ne può essere un esempio». Il caso della Cittadella della Conoscenza e della Cultura, voluta dalla Fondazione Golinelli e inaugurata ad ottobre 2015 rappresenta il miglior esempio di una committenza illuminata, merce sempre più rara in Italia, come è nato il progetto e come si è sviluppato? «L’Opificio Golinelli nasce dal desiderio della Fondazione Golinelli di riunire tutte le attività in un unico contenitore in grado di organizzare il loro lavoro. In primis rappresenta un’operazione culturale di portata nazionale e FMG, in virtù dell’importante opera di riqua-
lificazione di un’area di 4.500 metri quadrati coperti e altrettanti scoperti, ha aggiunto un ulteriore significato a quest’opera, come contributo verso un “territorio metropolitano policentrico” a testimonianza del fatto che sia possibile iniziare ad abbattere le barriere culturali ancora prima di quelle architettoniche, per un collettività più coesa». A Ravenna da molto tempo si dibatte della riqualificazione della Darsena di città, un’area post industriale divisa in molteplici proprietà private, disposta sulla parte terminale del porto canale a pochi passi dalla stazione ferroviaria e del centro città. Fra piani urbanistici, master plan, processi partecipati, slanci e brusche frenate ora si fa spazio l’idea di una rigenerazione che procede per riusi temporanei, valorizzazione di attività e spazi condivisi più che per investimenti immobiliari. Quale deve essere il ruolo del pubblico e qual è può essere il contributo dei progettisti? «Il ruolo del pubblico deve essere certamente quello di generare del beneficio per gli abitanti tutti creando quegli strumenti che possono dare un nuovo senso a taluni spazi: certamente il progetto è uno di questi». Come si può definire la storia di “acupuncture” ed è possibile immaginare un’applicazione anche ad altri ambiti geografici rispetto alla vostra esperienza nel territorio bolognese? «È una attività di valorizzazione delle differenze in contesti in cui si era abituati a realizzare edifici identici gli uni agli altri a prescindere dal contesto in cui venivano calati. Il nostro esercizio è stato quello, come sempre e da sempre facciamo, di metterci in posizione di ascolto verso la committenza e realizzare assieme un percorso di conoscenza dello scenario contemporaneo. Quando questo accade il processo architettico si arricchisce e l’esito non è più scontato. Penso che tanti architetti in Italia applichino questo pensiero». Terminata la lunga fase espansiva di consumo del territorio ora si pensa a rigenerare il patrimonio immobiliare esistente. Qual è la risposta del pubblico e degli investitori privati? Ci sono resistenze ad accogliere nuovi modelli sostenibili oppure la strada è aperta e in discesa? «Pensiamo che ogni epoca racconti una storia e quella che viviamo ci indica una condizione. È cambiato il paradigma e i criteri per fare architettura sono già mutati. La strada è aperta e vedo ora più entusiasmo».
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Un insieme di rendering e immagini di edifici realizzati dai progettisti dello studio INOUTarchitettura di Ferrara.
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INOUTarchitettura: la contaminazione e lo sconfinamento dei luoghi comuni INOUTarchitettura nasce nel 2012 dalla collaborazione di Mario Benedetto Assisi (Kicevo, 1982) e Valentina Milani (Ferrara, 1982). Entrambi si formano presso la Facoltà di Architettura di Ferrara, la Delft University of Tecnology in Olnanda e l’Etsav di Barcellona in Spagna). Si laureano nel 2007, relatore l’architetto Daniela Moderini, con una tesi in progettazione paesaggistica premiata dall’Ifla (International Federation of Landscape Architects). Dopo la collaborazione con diversi architetti italiani, dal 2009 svolgono la libera professione. Sono soci fondatori del gruppo Mmvl architetti, segnalato tra le 10 migliori realtà emergenti italiane (Premio New Italian Blood 2012) e selezionato Young Blood 09 (Annuale dei talenti italiani premiati nel mondo). Mario Benedetto Assisi nel 2013 inizia il dottorato di ricerca in Architettura presso il Dipartimento di Architettura di Ferrara. Valentina Milani dal 2009 è membro della Commissione per la Qualità Architettonica e del Paesaggio del Comune di Ferrara. Dal 2012 al 2014 è professore a contratto del modulo di Architettura del Paesaggio presso il Dipartimento di Architettura di Ferrara. Tra i premi e i riconoscimenti si segnalano: nel 2014 la candidatura per European Union Prize for Contemporary Architecture – Mies van der Rohe Award 2015 e la selezione tra i cinque studi finalisti YAP 2014_Fondazione Maxxi, Roma (IT); nel
2013 il Primo Premio Europan 12_Kristinehamn. INOUTarchitettura è uno studio multidisciplinare di architettura e paesaggio. Affronta progetti che spaziano dalla piccola scala fino a quella territoriale, ricoprendo un ampio campo d’azione trasversale in cui le componenti di progettazione urbanistica, paesaggistica e architettonica si integrano e si completano. Intrinseca nel nome stesso dello studio è la volontà di superamento della distinzione netta in categorie contrapposte (interno - esterno, dentro fuori, aperto - chiuso, architettura - paesaggio, città-campagna), credendo fortemente nell’ambiguità e nella sfumatura, nell’ambito di reciproca contaminazione tra spazi e discipline differenti. Costante è la volontà di dare spessore allo spazio intermedio, di ritualizzare la transizione, di enfatizzare la soglia come luogo di espressione delle differenze, in cui l’urbano si fa sempre più domestico, in cui il pubblico diventa sempre più privato, in cui l’esterno diventa sempre più interno. Questo approccio non genera delle preferenze di scale e campi di intervento, ma si struttura come una modalità ricorrente di affrontare le tematiche più diverse. Gradienti, sfumature, soglie, passaggi, limiti sono solo alcuni temi che INOUTarchitettura cerca di esplorare ed approfondire tanto in occasioni di ricerca e sperimentazione, quanto attraverso il fare quotidiano, cercandone una diretta concretizzazione anche in soluzioni puntuali e di dettaglio.
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SEDICI ARCHITETTURA 2016
La fotografia, frammento narrativo della storia, fra memoria e identità Ecco il testo critico a fondamento dell'intervento di Alvise Raimondi, uno dei relatori dell’incontro del 14 luglio scorso a Villa Pandolfa di Predappio, della serie “SediDici Architettura” E un “mosaico” di immagini colte dall’obbiettivo dell’autore e presentate al pubblico «L’immagine ottica, per natura prospettica, come ogni rappresentazione grafica opera una riduzione del reale e delimita un campo visivo che individua gerarchie altre rispetto all’esperienza diretta. In un frammento statico che può esser ripercorso dallo sguardo infinite volte, gli elementi ritratti divengono geometrie e campiture che si estendono oltre l’inquadratura a suggerire altri spazi, accennati e non descritti, che possono esser costruiti o ricostruiti dall’osservatore. Lo spazio reale trasposto diviene un luogo immaginario in cui un intero si ricompone nella sua accezione complessa, plasmato da esperienze e desideri personali. La luce segna un tempo che è sempre un adesso. La dimensione temporale si condensa in un istante specifico che segna un “fino a qui”, in cui chi guarda può popolare con i propri scenari quei luoghi già immaginati. Quell’adesso ha in se sia le tracce di una storia in cui metamorfosi multiple si stratificano, che l’ultimo esito di questa continua sovrapposizione; al contempo contiene degli indizi immaginari di un futuro forse imponederabile, forse coerente, ancora popolato dalle esperienze dell’osservatore. Nell’immagine di una cucina, attraverso gli oggetti ritratti si possono intuire le relazioni che esistono tra le persone che la abitano, le loro relazioni con lo spazio vissuto, i loro ospiti, i loro viaggi, le loro abitudini: in qualche misura, si può riconoscere la loro vita attraverso quel ritratto istantaneo di un luogo. Analoga è una prospettiva urbana, il dettaglio d’un rudere archeologico o il progredire d’un cantiere: l’opera umana traspare nella sua continua eisgenza di trasformare il territorio in paesaggio, l’oggetto in cosa, l’architettura in identità collettiva e esito di una civilità in cui riconoscersi. Questa prerogativa dell’immagine ottica l’ha resa, ancora prima che fosse chimica od elettronica, uno strumento capace di narrare la storia, in cui l’osservatore può trovare delle tracce autobiografiche di un individuo o d’una civiltà, se quel frammento è memoria, se quell’immaginario suggerito diviene identità».
Alvise Raimondi nasce nel 1984 in provincia di Perugia. Come molti si avvicina alla fotografia quasi casualmente, da giovanissimo: ne nasce una passione che lo renderà presto assistente di studio. Riceverà un grande insegnamento dal maestro Edgardo Abbozzo, artista poliedrico e strenue sperimentatore di tecniche legate alla fotografia creativa ed alle tecnologie classiche della fotografia analogica. L’influenza del maestro lo porta a sperimentare sul campo vari generi fotografici, dallo still-life alla fotografia di scena. Dal 2003, gli studi in architettura ne orientano il lavoro di ricerca verso la ripresa urbana, di paesaggio ed architettonica, mentre per professione si dedica alla fotografia sportiva come inviato sui campi di gara per varie riviste e siti internet italiani ed esteri. Dal 2008, intensifica ed approfondisce la propria attività formativa sul campo della fotografia d architettura e di paesaggio, ricercando con particolare interesse le relazioni tra paesaggio ed infrastrutture, trasformazioni ed evoluzioni del paesaggio urbano. L’attività di ricerca è sostenuta dalla costante partecipazione a corsi e seminari di fotografi quali Gabriele Basilico, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Max Pam, Andrew Phelps, Simon Roberts, Marco Zanta. Dal 2010 al 2014 è collaboratore del Festival della Fotografia SI FEST di Savignano sul Rubicone, dove ha svolto l’attività di tutor ai workshop all’interno del progetto Sin_Thesis e dal 2012, del progetto “Adriatic Coast to Coast”, assistendo i fotografi Simon Roberts, Mark Steinmetz, Guido Guidi, Gerry Johannson, Max Pam, Seba Kurtis. Dal 2011 al 2014 è tutor presso il Laboratorio di Fotografia del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna, dove produce materiale fotografico documentale per mostre e pubblicazioni, oltre ad affiancare la didattica nello svolgimento delle attività legate alla camera oscura, supportando i corsi universitari dei fotografi Massimo Sordi e Giovanni Chiaramonte. Collabora con vari studi d’architettura, fotografando l’architettura d’esterni e d’interi, le fasi evolutive dei cantieri, allestimenti espositivi, museali e scenografici. Nel novembre 2013, è fondatore, con Marcello de Masi, Luigi Fiano, Lorenzo Martelli, Sebastiano Raimondo e Giovanni Scotti, del gruppo “Presente Infinito”.
Foto di Alvise Raimondi, tratte da suoi diversi portfolio.
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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA
Con la collaborazione di Con il patrocinio di
Comune di Ravenna
Comune di Faenza
Comune di Cervia
Comune di Forlì
Comune di Cesena
ciclo di conferenze 2016 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea con tavola rotonda Andrea Dal Fiume Imola
Giovedì 17 MARZO Salone Nobile
Palazzo Rasponi RAVENNA
De Gayardon Bureau Cesena
Mauro Crepaldi
Giovedì 21 APRILE Show Room
Mide Architetti
Copparo (FE)
Oggetti d’Autore
Venezia
FORLÌ
Rossi&Tarabella
Giovedì 19 MAGGIO Show Room
Milano
Studio T
Bologna
RAVENNA
Zamboni Associati Architettura Reggio Emilia
Ciclostile Architettura
Giovedì 16 GIUGNO Padiglione delle Feste
Cavejastudio
Terme di Castrocaro
Forlì
CASTROCARO (FO)
Nicola Marzot
Giovedì 14 LUGLIO Cantina
Alvise Raimondi
Bologna
La Pandolfa
Cesena
PREDAPPIO (FO)
Diverserighestudio
Giovedì 15 SETTEMBRE Sala Conferenze
Bologna
Magazzini del Sale CERVIA (RA)
Alberto Giorgio Cassani Ravenna
Massimo Iosa Ghini Bologna
Giovedì 13 OTTOBRE Ridotto
Teatro Bonci CESENA Giovedì 17 NOVEMBRE Sala Conferenze
Pinacoteca Comunale FAENZA
ore 20 Apertura, registrazione crediti formativi ore 20.30 Spazio imprese ore 20.40 Architetti emergenti ore 21.20 Architetti esperti ore 22.15 Tavola rotonda ore 23 Brindisi e saluto conviviale
InOut Architettura Ferrara
Francesco Di Gregorio Parma
ETB Tessari/Bandiera Treviso Info Reclam tel. 0544 408312 redazione@trovacasa.ra.it - www.reclam.ra.it
Comitato scientifico Gianluca Bonini, Giovanni Mecozzi, Filippo Pambianco Organizzazione, promozione, documentazione Reclam edizioni e comunicazione srl – Casa Premium rivista dell’abitare Aziende sostenitrici
Aziende partner
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ARTI DECORATIVE
Déco, la rinascita
di uno stile
Vicende di un linguaggio estetico in auge negli anni ‘30 del Novecento, tornato in sintonia col gusto attuale di Serena SImoni
Nessuno se lo aspettava, soprattutto a causa dell’assuefazione visiva di tanti anni al minimalismo hi-tech dei nostri ambienti. Ma nell’altalena dei flussi e riflussi storici incentivati da un mercato che logicamente ha bisogno di favorire ricambi di gusto, sono riapparsi i mobili e gli arredi degli anni Venti e Trenta. Questo linguaggio che passa sotto il nome di Déco fa così la sua entrata nell’arredamento e negli accessori contemporanei con le sue classiche geometrie, i materiali pregiati e una distintiva attenzione al dettaglio, acquistando visibilità sulle riviste specializzate che consigliano di recuperare le linee sintetiche e di privilegiare il bianco e il nero, inframezzandoli con qualche tocco di colore pastello ed evidenziando magari la scelta di materiali raffinati. A conferma di questo rinnovato interesse fioriscono anche le mostre dedicate alla produzione artistica del periodo: da non perdere ad esempio quella che si aprirà ai Musei di San Domenico di Forlì a febbraio 2017, dal titolo sintomatico di “Art Déco. Gli anni ruggenti”.
Con una strana coincidenza di condizioni, a distanza di anni si ripesca uno stile che nasceva in un momento di crisi – appena finita la I guerra mondiale – e si diffondeva in tutta Europa e negli Stati Uniti, rimanendo in auge fino agli inizi degli anni Cinquanta, alla ripresa dei mercati dopo il secondo conflitto. Il termine Déco, declinato rigorosamente alla francese, era nato da un’abbreviazione riferita allo stile che si era imposto a Parigi, all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e Industriali moderne del 1925. Ma già allora questo linguaggio – caratterizzato da forme lineari, asciutte e fortemente geometriche – era ormai un fenomeno esteso capillarmente in tutto il territorio europeo, doveperò si potevano incontrare varianti sostanziali a seconda del paese e del decennio di riferimento. Cosa unificava quindi i progetti apparentemente così lontani di Gio Ponti e quelli di Pierre Legrain, la produzione ceramica di Richard Ginori e le tele di Tamara de Lempicka o gli interni di Eileen Gray? Solo alcuni sono gli elementi comuni a tutto il Déco fra cui il legame diretto fra questo stile e la precedente esperienza dell’Art Nouveau o Liberty che dir si voglia che non distingueva fra arti maggiori e minori, era altrettanto attenta ai materiali e veicolava una stretta collaborazione fra arte, artigianato e industria. Di nuovo e caratterizzante, il Déco possedeva una vera e propria vocazione estetica alla modernità, intesa come amore per tutti gli aspetti della vita contemporanea e i suoi corollari di lusso come automobili, aerei e macchine di tutti i tipi. I colori squillanti e i materiali pregiati diventavano i simboli del flusso elettrizzante delle metropoli e della mondanità. Fin dagli inizi degli anni ‘20 vengono quindi messe nel surgelatore le classiche linee serpentinate e curve dell’Art Nouveau superando la centralità della natura “maestra” che aveva arricchito di foglie e fiori l’architettura e il design dei decenni precedenti. Se in alcuni casi si mantiene come in Italia la decorazione floreale, non può che essere tradotta in tagli geometrici e linee essenziali, sugli esempi delle precoci anticipazioni dell’architetto Charles Rennie Mackintosh e delle Wiener Werkstätten. Il punto di approdo del Déco – il cui apice verrà raggiunto negli anni Trenta – è una forte sintesi che
A sinistra, una “ottomana” déco della Ditta F.lli Morgagni di Godo (Russi) e alcuni particolari (1934).
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Una sedia déco della Ditta F.lli Morgagni di Godo (Russi) e due particolari (1934). In basso a sinistra: Franco Albini, tavolo per la casa dell’aviatore Arturo Ferrarin (1932). In basso a destra: Marcello Piacentini, sedia per la casa di Fiammetta Sarfatti (1933).
bandisce qualsiasi eccesso di ornamentazione: se in Italia il rigore viene attinto in parte da una rinnovata attenzione al passato e alla classicità, dall’altra è l’attrazione alla modernità giocata internamente al Futurismo e al razionalismo meno asservito al potere a svolgere un ruolo di primo piano per il design e gli arredamenti di quegli anni. Non tutti gli aspetti del Dèco europeo collimano: in Francia si attesta un linguaggio meno severo, ispirato alle leziosità dell’epoca di Luigi XVI mentre negli altri paesi le spinte al modernismo spesso vengono sostenute come in Italia dal movimento razionalista e dalle Avanguardie. Nonostante lo spirito essenzialista, nelle pieghe del Déco si annida l’opulenza del Grande Gatsby e lo spirito di avventura di Howard Carter, l’archeologo che nel 1922 aveva scoperto in Egitto la tomba di Tutankhamon accentuando una vena esotica nelle case europee. Se l’orientalismo aveva già avuto fiorenti estimatori nei decenni passati, il Déco evita l’eccesso lineare e l’afflato mistico dell’Art Nouveau apprezzando le linee più severe degli oggetti del Giappone e dell’arte precolombiana o la ricca decorazione dei reperti egiziani.
Non sono solo le scoperte archeologiche o i viaggi in nuovi insediamenti artistici in Sud America a rinfocolare l’attenzione verso il primitivismo e il mondo orientale. Le colonie europee e la diffusione di un mercato più globale favoriscono l’importazione di materiali pregiati come le lacche e le decorazioni a foglia d’oro dal Giappone, la giada dalla Cina, i legni come la palma o il macassar indonesiano. L’incremento dello sviluppo tecnologico si lega così ad una preferenza accordata a materiali lussuosi come l’ebano e la radica di noce, o del tutto inusuali come la pergamena o il galuchat (la pelle di squalo) utilizzato per i rivestimenti. Soprattutto negli anni Trenta, tutto deve essere intonato alla modernità e per questo si preferiscono la brillantezza del metallo cromato o galvanizzato e l’acciaio. La luce, ora intesa come un elemento fisico, acquista un ruolo di primo piano incanalandosi in cristalli piegati e favorendo l’evanescenza delle pareti che vengono realizzate in vetrocemento. Alluminio e nuove leghe come l’anticorodal sono impiegate per scatole, piatti, profilati e sculture, mentre al posto dei materiali naturali si utilizzano imitazioni di resine, avoriolina, buxus (finto legno), linoleum e bachelite.
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ARTI DECORATIVE
Il mondo moderno – dall’arredo ai gioielli – è fatto di plastica e cellulosa che si adeguano a forme sobrie ed eleganti. Tutta la gamma di colori – purchè in toni squillanti e ben definiti – è ampiamente utilizzata per oggetti di design, mobili d’arredo, gioielli e vestiario, ma un certo favore rimane al nero, all’oro e al bianco, soprattutto per le loro caratteristiche di nettezza e definizione. Ricostruire anche in breve il Déco italiano è un’impresa che sta fra l’arduo e l’impossibile: per l’arredo e le arti applicate i nomi di Gio Ponti, Richard-Ginori, Duilio Cambellotti, Marcello Piacentini, Giuseppe Pagano, Gino Levi Montalcini e Giovanni Muzio sono solo l’inizio di una lunga lista di autori i cui progetti compaiono in modo ricorrente nelle varie esposizioni di arte decorativa a Monza (192328), poi trasferite agli inizi del nuovo decennio a Milano col titolo di Triennali. Saranno proprio queste manifestazioni sempre meno caotiche e via via più indirizzate alla modernità sotto la guida di Gio Ponti, Mario Sironi e Alpago Novello, a concorrere alla definizione del linguaggio Déco insieme ad una miriade di interventi, oggetti e progetti di arredo realizzati nel corso del Ventennio. Tolte le eccezioni dei grandi e numerosi interventi pubblici sono le committenze private a fare la storia del design italiano, come quelle dell’aviatore ed eroe nazionale Arturo Ferrarin, i cui arredamenti di casa vengono affidati a Franco Albini, uno dei padri del Razionalismo di casa. D’altro canto, il nuovo linguaggio trova facile sponda nella politica nazionale che sostiene l’idea di una creatività “italiana” incarnata nelle produzioni di ditte prestigiose come la già citata Richard-Ginori, la cui fabbrica fiorentina specializzata in oggetti in ceramica viene guidata in questi anni da Gio Ponti. Fra le altre aziende che si costruiscono un posto di rilievo, vanno ricordate anche la Rinascente, la Rometti di Umbertide per la produzione ceramica, la Luigi Fontana e la Dassi, entrambe di Milano, indirizzate alla produzione di mobilio e oggetti in vetro. L’obiettivo politico è anche economico: adeguare il passo di un’Italia in seconda fila a quello delle altre potenze mondiali, sottolineando contemporaneamente il cambiamento del paese in senso moderno. Il momento più importante all’epoca per rinnovare gli arredamenti e corrispondere al gusto moderno che fioriva nelle pagine della rivista Domus, era il matrimonio. Per un’occasione simile Marcello Piacentini abbandona la sua mano – così pesante nell’innalzare edifici – quando viene chiamato a ideare gli arredi per Fiammetta, la figlia della più nota intellettuale Margherita Sarfatti. Nel 1931, in occasione del matrimonio della giovane, l’architetto romano rea-
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lizza una serie di mobili in legno d’abete e compensato, dalle linee geometriche sottolineate da uno squillante color rosso all’anilina che ricorda le decorazioni in lacca. Meno appariscenti ma sempre ricercate appaiono le contemporanee progettazioni di Gio Ponti per la Rinascente, che nei suoi vari punti vendita cerca di imporre un nuovo gusto moderno, alla portata delle tasche del ceto medio. Il successivo disinteresse del mercato nei confronti del Déco ha fatto in modo che numerosi pezzi di mobilio siano rimasti nelle soffitte di casa o nelle case dei nonni. È allora il caso di rivolgersi oggi al mercato antiquario su internet per acquistare una bella lampada o una poltrona – al momento si trovano numerosi oggetti a cifre abbordabili – per inserirli nell’arredo di casa in omaggio alla nuova tendenza. Pochi soldi? Allora provate a rovistare in solaio. Come si suppone avvenisse in varie provincie italiane, anche qui in Romagna esisteva una versione autarchica e locale del Déco: non ci riferiamo alla produzione della ceramica faentina che vive una fase di splendore, ma alle poco note ditte artigianali che realizzano mobili: come la semisconosciuta fabbrica dei Fratelli Morgagni di Godo di Russi
che nel 1934 vendeva a una giovane coppia di sposi di Ravenna il salotto e la camera da letto. Il linguaggio dei grandi architetti si appiana, i materiali moderni si assottigliano – invece della radica integrale sarà una più modesta “lastronatura” – ma nei mobili della provincia rimane viva l’aderenza allo stile contemporaneo nella scelta del divano detto “ottomana” – un omaggio all’esotismo –, nei bei tessuti che ricordano le linee astratte dei Futuristi, nella prevalenze geometriche degli schienali o nelle decorazioni floreali geometrizzate delle vetrinette delle credenze.
In alto, da sinistra: Vittorio Zecchin, panca, legno tinto nero con arabeschi in argento (1923). Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini, poltrona per gli uffici Gualino di Torino (1928). Gio Ponti e Emilio Lancia, libreria per “Domus Nova” (Rinascente), legno e intarsi di legno di frutto e acero (1928-30).. Sotto, da sinistra: André Grault, stipo (1925). Eileen Gray, foto d’epoca del salone dell’appartamento di Suzanne Talbot a Parigi (1920).
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Le tele stampate e il ritorno dell’hand made di Sabina Ghinassi Nel 1859 William Morris, giovane architetto inglese insofferente, anticonvenzionale e innamorato delle teorie poetiche di John Ruskin, decise di costruirsi una casa di campagna nei dintorni di Londra, nel Kent, e di andarci a vivere con la giovane moglie Jane. Scelse il luogo, particolare per la sua amenità, per il fatto di trovarsi vicino al cammino medievale del Pellegrinaggio per la Cattedrale di Canterbury e vicino alle rovine dell’Abbazia lesnes. Lo aiutò l’ amico architetto Philip Webb. Il risultato fu una costruzione solida in stile tardo gotico, totalmente priva di decorazione all’esterno. All’ interno invece Morris e Webb progettarono e costruirono tutto, ad eccezione dei tappeti persiani e delle porcellane di Delft. Alla decorazione degli interni collaborarono i compagni di strada del cenacolo Pre-Raffaellita tra cui Edward Burne Jones e Dante Gabriel Rossetti. Due anni dopo, forti dell’esperienza condivisa, Morris, Burne-Jones, Rossetti, Webb, Ford Madox Brown, Charles Faulkner e Peter Paul Marshall fondarono nel mese di aprile la “Ditta Morris, Marshall, Faulkner Co.”, “operai d’arte, in pittura, scultura, arredamento e vetrate”, con specializzazione nella produzione di carte da parati e chintz, cui si aggiunsero, a Merton Abbey, nel 1881, una fabbrica di tappeti, e nel 1890 un’officina tipografica, la Kelmscott Press, dalla quale uscirono raffinatissime edizioni stampate a mano. Nella piccola azienda venivano formati come apprendisti, e in seguito assunti, i ragazzini dell’ Industrial Home for Destitute Boys di Euston, a Londra. Era nato l’Arts And Crafts. Morris era convinto che esistesse una relazione strettissima tra arte,
“Have nothing in your houses that you do not know to be useful or believe to be beautiful.” William Morris
lavoro e piacere, e che, per questo, l’artigianato, inteso come téchne e arte manuale e creativa, era ciò che poteva dare il giusto valore agli oggetti e un adeguato piacere al lavoro, lontano dalla dimensione alienante e troppo meccanizzata dell’industria. L’azienda ben presto incontrò difficoltà finanziarie, ma le tappezzerie e le iconografie di Morris, bellissime, vengono ancora prodotte e sono molto ricercate per la loro qualità. Un’altra cosa che è restata, ed è più che mai contemporanea, è il suo pensiero sull’essere consumatore, sul suo diktat «non avere nulla in casa che non sia utile oppure bello». Il suo pensiero si interrogava, già più di un secolo fa, su quanto il consumatore è disposto a pagare il prezzo giusto, l’unico in grado di garantire qualità e durata degli oggetti e dignità a chi li produce, perché solo se c’è un valore etico dietro al lavoro può esserci anche un valore estetico. Dalla fine dell’ottocento le idee di Morris fecero il giro d’Europa e produssero, mutatis mutandis, molte conseguenze, artistiche e teoriche, nei settori dell’arte e di quello che sarebbe stato definito in seguito design
Dal “Catalogo Riparto Tissuti impressi a mano”, Sacchificio Ravennate Callegari e Ghigi, Ravenna, 1928, Archivio Egidio Miserocchi, Ravenna: Fig. 1: Tappeto; Fig. 2: Portiera (tappeto per ingresso); Fig.3: Tenda; Fig. 4-5: Ombrelloni da spiaggia; Fig. 6: Interno con tappeto, cuscini e tovaglia; Fig. 7: Carta da parati; Fig. 8-9: Borsette.
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ovunque. Anche nel nostro territorio, dove la dimensione artigianale del fare, all’inizio del Novecento, produsse oggetti e pratiche di grande qualità, purtroppo spesso accumunate da note localistiche di basso profilo. A Bologna, con relazioni molto forti nel territorio romagnolo, ci fu la brillante stagione Arts and Crafts di Aemilia Ars, fondata a Bologna nel 1898 sul modello inglese dall’architetto Alfonso Rubbiani e dal Conte Francesco Cavazza. Rubbiani, amante di Ruskin, del Medioevo e della tutela dei monumenti almeno quanto Morris, aveva fondato la “Gilda di San Francesco”, una comunità di artigiani che aboliva le differenze gerarchiche tra arti minori e maggiori, in grado di proporre un gusto moderno legato però a una tradizione antica. Aemilia Ars era una società di progettazione e produzione a tutto tondo – dai mobili alla tappezzeria, alle stoffe, ai progetti di restauro e alle decorazioni murali – e aveva anche una sezione femminile “Merletti e Ricami”, diretta da
Fig. 10: Fig. 11:
Stendardo, Archivio Egidio Miserocchi, Ravenna. Caccia al toro, motivo per coperte da buoi sec.XIX, Stamperia Pascucci, Gambettola.
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Fig. 12: Bestiario, Archivio Stamperia Visini, Meldola. Fig. 13: Trionfo (classica stampa romagnola), Archivio Egidio Miserocchi, Ravenna. Fig. 14: I colombi, motivo per tendaggi e tovagliati, sec. XIX, e Foglia di acanto e greca, motivo circolare, sec. XIX-inizio XX, Stamperia Pascucci, Gambettola.
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Lina Bianconcini Cavazza e membro della Società Cooperativa Industrie Femminili Italiane. Nel medesimo periodo, in contemporanea e in relazione con l’esperienza di Aemilia Ars, in Romagna si verificò un recupero di una delle tecniche decorative più genuinamente popolari: la stampa su tela. La stampa su tela si era diffusa, probabilmente intorno al XVI secolo, come una sorta di Biblia Pauperum in grado di raccogliere un corpus iconografico ampissimo ispirato a mosaici ravennati, grottesche, motivi malatestiani, medievali, merletti e ricami reinterpretati, mescolati a reminiscenze magiche e scaramantiche rurali. I tessuti scelti erano perlopiù quelli di lino e canapa, coltivati e trattati dagli uomini, filati e tessuti dalle donne all’interno delle case coloniche; ogni casa aveva una stanza del telaio e spesso un macero per la canapa. Gli stampi erano prismi quadrangolari in legno di pero, più facile da modellare, in cui venivano impresse le decorazioni, stampate attraverso la tecnica xilografica.
abili per l’esercito dall’inizio del secolo, aprì una sezione “Tessuti impressi a mano”, dedicata a tappezzerie, tende, biancheria per la casa, cuscini e borse in canapa stampate a ruggine, dove l’iconografia bizantina incontrava il design di matrice liberty. Attualmente si sono fortunatamente sbiadite le suggestioni spallicciane, legate a una supposta idea di “ romagnolità” agiografica, etnografica e pittoresca, e la stampa romagnola è uno dei settori di artigianato artistico del nostro territorio nel quale il ritorno ad una qualità del “ fare” si unisce alla ricerca storica e artistica e alla sperimentazione su materiali, tecniche e decorazioni, con risultati di grande qualità. Forse perché, oggi più che mai, l’insegnamento di William Morris sulla qualità del fare e sulla dignità e il piacere del lavoro sono ritornati i cardini di un mercato, che, in questo momento di crisi, deve per forza ripensare se stesso e tradurre come asse portante l’hand made, la bellezza e il recupero della tradizione in chiave ecosistemica.
Uno dei soggetti più amati era S. Antonio, ma erano presenti anche bestiari medievali, fiori, pigne, cardi, melograni, foglie di acanto, battaglie con i tori ( in un mix tra S.Giorgio e il drago e la Caccia al Toro praticata durante il Carnevale a Santarcangelo di Romagna sino al 1928). Il colore più famoso era quello della stampa a ruggine, fissata con soda caustica o ranno. L’assenza di una documentazione storica approfondita sulle botteghe tintorie le cui conoscenze erano tramandate come una sapienza esoterica, rende ancora difficile stabilire con esattezza il ruolo dei tintori e la gamma di colori usata, oltre al classico e diffusissimo ruggine. In realtà, dai rari reperti ritrovati e dalla ricerca di alcuni stampatori come l’Antica Stamperia Pascucci di Gambettola – tuttora in attività dal 1826, con una produzione che unisce la stampa tradizionale alla collaborazione con artisti come Tonino Guerra, Tinin Mantegazza, Vanni Spazzoli, Gianfranco Zavalloni – Egidio Miserocchi di Ravenna e Fabio Visini di Meldola, è lecito dedurre che molte stampe con cromie diverse fossero realizzate a partire da piante tintorie (robbia e iperico per il rosso, cartamo per rosso e giallo, lentischio per il marrone chiaro, scabiosa per verde marcio), con tecniche e fissaggi ancora da indagare in profondità.
Fig. 15: Coperta da letto, Catalogo Riparto Tissuti impressi a mano, Sacchificio Ravennate Callegari e Ghigi, Ravenna, 1928, Archivio Egidio Miserocchi, Ravenna.
Della fortuna della stampa uno dei promotori fu senz’altro l’eclettico scrittore ed etnografo Aldo Spallicci che, con le sue riviste “Il Plaustro” e “ La Pié”, addirittura propose un protocollo rigoroso per la stampa, con diktat sulle iconografie e precetto sull’uso unico del ruggine come colore, per sfuggire alle tentazioni modaiole e liberty del tempo. Prima di lui, la Contessa Eugenia Rasponi Murat, imprenditrice e femminista colta e cosmopolita, nel castello di famiglia a Santarcangelo di Romagna, aveva cominciato a produrre dal 1905 tele e tessuti stampati come quelli che abbellivano le case rurali e il dorso dei buoi in campagna, per decorare le tappezzerie e i tessuti dei mobili prodotti nella sua fabbrica. Poco distante, nel Castello di Savignano, anche Luisa, sorella di Eugenia, aveva recuperato il tradizionale ricamo a treccia che, come la stampa su ruggine, decorava le coperte scaramantiche per i buoi e i corredi nuziali dei contadini. Entrambe avevano aperto dei laboratori e delle scuole femminili dove avevano assunto le donne del luogo. La Società Cooperativa Industrie Femminili Italiane, della quale facevano parte come Aemilia Ars, partecipò al padiglione delle Arti Decorative dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, proponendo, alla maniera di Morris, ambienti interamente progettati e realizzati dai vari comitati regionali dell’Ifi che raccolsero grande consenso. I prodotti dell’ Ifi. avevano una forte rete di distribuzione internazionale e vendevano molto, soprattutto negli Usa. Poco più di venti anni dopo anche l’azienda ravennate Callegari e Ghigi, protagonista di un grande successo grazie alla produzione di teloni, tende e indumenti imperme-
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Arka progetti personalizzati e mobili di design per abitare con stile fra comfort e bellezza Le proposte d'arredo dello studio di progettazione d'interni e showroom di via Panfilia a Ravenna
La felicità dell'abitare nasce dell'armonia fra comfort, bellezza e praticità da vivere a casa propria: nel calore domestico della cucina, nel relax e nella convivialità del living, nell'intimità della camera da letto. A questo equilibrio si ispirano le soluzione di arredo di alta qualità e design d'autore proposte dagli esperti progettisti di Arka a Ravenna. Arka è un marchio noto da quasi vent'anni in città, per la sua attività di progettazione d'interni, consulenza e vendita di mobili d'autore, legato al suo ideatore e imprenditore, Daniele Bronzetti: un'esperienza di lungo corso, una vita professionale intrecciata alla passione per l'interior design. Dopo una parentesi di qualche anno legata allo store monomarca Kartell, Daniele ha ripreso – assieme agli esperti collaboratori Massimo Cicognani e Alessandra Mazzotta – la sua originaria attività di consulente dell'abitare con stile, fra “progetti su misura” e arredi di qualità: utili, belli, possibili e di lunga durata.
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Recentemente Daniele Bronzetti ha deciso di di inserire fra i prodotti da proporre ai propri clienti la vasta collezione di mobili del Gruppo Molteni&C. Uno dei più prestigiosi marchi del design Made in Italy (di cui fa parte anche Dada nel settore cucine). Nel 2015 Molteni&C ha festeggiato gli 80 anni di attività, stimata per la sua qualità in Italia e nel mondo, vantando la produzione di oggetti d'arredo memorabili, protagonisti della gloriosa storia del mobile italiano, che portano le firme di architetti come Gio Ponti, Luca Meda, Aldo Rossi, Afra e Tobia Scarpa, Bob Noorda, Jean Nouvel, Patricia Urquiola, Alvaro Siza e altri maestri storici ed emergenti del design come Vincent Van Duysen. Alcuni di questi pezzi di notevole valore estetico e funzionale dei brand Molteni, Dada, Twils – cucine, tavoli e tavolini, poltrone, divani e librerie, letti e armadi – sono esposti nello showroom di Arka, in via Panfilia a Ravenna. Tutti da scoprire nei dettagli: vedere, toccare, provare. «Si tratta di mobili innovativi – puntualizza Bronzetti – ca-
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ratterizzati da una intramontabile purezza stilistica, ampia funzionalità e comodità d'uso. Esprimono il piacere di vivere e rilassarsi a casa propia in modo estremamente confortevole. Gran parte di componenti sono modulari, versatili e flessibili nell'utilizzo, dotati di innumerevoli varianti per quanto riguarda accessori, materiali e colori, che possono essere adattati negli spazi abitativi più diversi e sintonizzati a stili di vita estremamente personalizzati». «Fa parte delle nostre competenze e della nostra passione – precisa il titolare di Arka – guidare poi il cliente nelle esigenze di approfondimento su dettagli funzionali e convenienza degli arredi, fornire consulenze per progetti d’interni personalizzati, anche con pezzi di altri rinomati marchi di design o forniture “sartoriali su misura", offrire assistenza, prima e dopo l’acquisto, la messa in opera di arredi e l’assistenza per mirati interventi infrastrutturali, là dove fossero necessari». Arka si occupa di interior design per spazi privati ma anche per locali pubblici con soluzioni innovative per quanto riguarda il comfort della clientela, come ad esempio la “sostenibilità acustica”. Per attenuare il frastuono di certi spazi affollati in bar e ristoranti, Arka propone una serie di pannelli
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fonoassorbenti, che riducono il riverbero e con il loro design impreziosiscono l'estetica del locale. Ultima da sottolineare, ma non per questomeno importante, la proposta di Arka dedicata a mobili e accessori specializzati e di alta qualità per l'ergonomia, la corretta impostazione postulare e il benessere. A questi prodotti per il riposo (dai materassi ai guanciali firmati Tempur), il relax e il lavoro d'ufficio (le sedute e i tavoli Variér - ex Stokke e Häg) è dedicata una sezione specializzata dello show-room di via Panfilia, con tante soluzioni all’avanguardia, salutari ed esteticamente piacevoli, per il buon vivere.
RAVENNA via Panfilia 45/47 - tel. 0544.219532 info@arkadesign.it - www.arkadesign.it
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La polvere senza forma che ha invaso l’Afghanistan Intervista a Emanuele Giordana e Navid Rasa «Il futuro del paese passa per l’educazione, per una scolarizzazione diffusa, per lo scambio delle idee. I paesi occidentali dicono di voler portare la democrazia in Afghanistan: non si accorgono che democrazia vuol dire consapevolezza del posto in cui si vive, della responsabilità verso gli altri. E come svilupparla, questa consapevolezza, se non con la cultura?» Kazem Amini, insegnante e scrittore di romanzi storici, testi di cultura etnografica e di una storia di Maimana
> Un ragazzo afgano fa volare il suo aquilone su una collina che domina Kabul; foto di Anja Niedringhaus, premio Pulitzer 2005 per la fotografia, assassinata vicino a Kabul il 4 ap
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di Marina Mannucci
Dopo aver scritto del Pakistan e del Kurdistan, in quest’articolo ho raccolto due importanti interviste che trattano dell’Afghanistan, rilasciatemi rispettivamente da Emanuele Giordana e Navid Rasa. Durante il Festival delle Culture di Ravenna del giugno scorso, ho avuto l’occasione di conoscere Emanuele Giordana, giornalista ospite dell’incontro “Il Pakistan e la sua diaspora in Italia”. Ho molto apprezzato il suo intervento preciso, puntuale, lucido, supportato da una conoscenza profonda degli argomenti affrontati. Ho chiesto a Emanuele se era disposto a scrivere l’introduzione al mio prossimo articolo sull’Afghanistan; con molta generosità ha accettato immediatamente. Emanuele Giordana è giornalista cofondatore di Lettera22 e direttore responsabile dell’agenzia multimediale Amisnet; nei suoi articoli tratta prevalentemente di politica internazionale. Oltre a essere stato uno dei conduttori storici della trasmissione Radiotre Mondo a Radio 3 e tra i fondatori dell’Osservatorio italiano sull’Asia “Asia Maior” e responsabile della sezione “Dossier Afghanistan”, è stato cofondatore della rivista «Quaderni asiatici». È autore di diverse pubblicazioni. Di seguito il testo inviatomi da Emanuele Giordana. Benché il conflitto afgano sia uscito dai riflettori della cronaca, la guerra gode purtroppo di ottima salute e non è affatto terminata come a volte siamo portati a credere. Ma chi sono i protagonisti e le comparse di questo “Nuovo Grande Gioco” e quali gli obiettivi? È facile comprendere perché l’Afghanistan desta interesse o apprensione per gli Stati confinanti. È un crocevia naturale degli assi commerciali Est Ovest Nord Sud ed è strategico per il passaggio di gasdotti e oleodotti. Cina e India sembrano i Paesi più interessati alla fine della turbolenza afgana di cui beneficerebbero però anche la Russia e i Paesi centroasiatici, molti dei quali hanno già firmato con Kabul accordi per il passaggio dei tubi. Il Pakistan rappresenta un caso a parte ma si potrebbe ritenere che non sia più interessato a un Afghanistan destabilizzato, a patto che un governo stabile a Kabul non sia anti pachistano. Infine il Paese è ricco di terre rare e minerali anche se di difficile estrazione. I cinesi hanno già firmato contratti importanti e stanno sviluppando una direttrice viaria che dal corridoio di Wakan, che confina con la Cina, raggiungerebbe Kabul via Panjshir. La presenza di una guerriglia islamista di lunga esperienza militare e i santuari alla frontiera tra Pakistan e Afghanistan sono un elemento di preoccupazione per la Cina e i Paesi centroasiatici confinanti: temono non solo il contagio ma l’esistenza di una retrovia logistica in grado di ospitare i combattenti che non solo sfuggono così alla cattura ma possono riorganizzare le proprie fila soprattutto nei territori a cavallo del poroso confine tra i due Paesi. Ciò è vero anche per realtà geograficamente non confinanti come Azerbaijan e Cecenia e la stessa Russia. Per Iran e Pakistan l’Afghanistan è una sorta di retrovia strategico in caso di guerra con un nemico vicino (l’India nel caso pachistano) o lontano (gli Usa nel caso iraniano). Per Teheran e Islamabad è dunque vitale avere un governo amico o comunque il controllo di rapide vie d’accesso e di gruppi armati (più o meno talebani) fedeli a Teheran o Islamabad da utilizzare in caso di necessità. Gli americani hanno un interesse geostrategico che attualmente significa avere il controllo di una decina di basi aeree nel Paese e il controllo totale della grande base di Bagram. Fondamentali in caso di guerra con l’Iran o con la Russia. Infine per gli Usa una sconfitta totale del governo di Kabul aumenterebbe, oltre che il pericolo islamista, la sempre più scarsa fiducia nelle recenti operazioni di esportazione della democrazia e del modello americano. C’è infine un elemento di puntiglio nazionale essendo stata Washington a innescare l’ultima guerra afgana nel 2001. Gli europei sembrano più che altro seguire le indicazioni americane e non hanno una politica chiara nei confronti di un Paese verso cui si sentono comunque in debito, motivo per il quale gli aiuti si sono ridotti ma non spenti e resta una presenza militare significativa anche se assai ridotta. Non manca qualche appetito economico in campo energetico, gestibile in futuro se il Paese si
a Kabul il 4 aprile 2014, assieme a Kathy Gannon, giornalista canadese dell’Associated Press.
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In alto: Vegetazione lussureggiante e deserto nella Provincia di Laghman, Afghanistan. Sotto: Un contadino afgano durante la trebbiatura a Sangin, Afghanistan.
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stabilizza. L’Arabia saudita e i Paesi del Golfo giocano un ruolo defilato ma abbastanza rilevante. I primi hanno sostenuto i talebani e non sono forse estranei alle azioni di Daesh. I secondi sono la banca per eccellenza degli affari leciti e illeciti afgani. Entrambi giocano un ruolo nel processo di pace: i sauditi in passato si sono ritagliati un protagonismo negoziale evidente che poi è stato, almeno all’apparenza, passato in gestione agli emirati del Golfo, Qatar in primo luogo, che ospita un ufficio politico dei talebani anche se di fatto non funziona. La politica saudita è in questo momento una delle ombre più consistenti e inquietanti e potrebbe essere interessata a un rinvio del processo di stabilizzazione per conservare una carta afgana da giocare su altri tavoli. Qual è la sua agenda e come la gestisce con gli altri Paesi del Golfo con cui è a volte (vedi proprio il caso Qatar) in competizione? La Russia ha un ovvio interesse strategico, un’evidente preoccupazione per le spinte islamiste e il traffico di oppiacei, un interesse difensivo nei confronti dell’espansionismo americano, un interesse espansivo – com’è sua tradizione in questa fetta di mondo. Infine ha bisogno di far dimenticare il suo passato in quest’area. La turbolenza alle frontiere afgane in realtà le sta fornendo in questo momento due carte da giocare: la prima è il rafforzamento del sistema difensivo alle frontiere meridionali dei Paesi dell’Asia centrale confinanti con l’Afghanistan. Infine, Mosca è riuscita a convincere gli afgani ad accettare aiuti militari seppur simbolici. Criticando ferocemente gli errori della Nato, Mosca è anche riuscita ad avere buona stampa sui giornali locali e le sue azioni sono in risalita. I pachistani sembrano impegnati a convincere i talebani afgani a cedere ma hanno venduto la pelle dell’orso troppo presto e dimostrato così di non avere affatto il controllo sulla guerriglia che la vulgata attribuisce loro. Sembra di capire che la morte di mullah Omar – rivelata nell’agosto 2015 – avesse aperto uno spiraglio con la nomina di mullah Mansur, suo ex braccio destro, a capo della guerriglia e con la scelta di Islamabad di cambiare strategia. Ritenuto un uomo del Pakistan, il nuovo capo ha però dovuto far fronte a una rivolta interna e alla nascita di Daesh. Se Daesh resta un problema relativo, la rivolta interna non lo era. Una lettura possibile è che Mansur, per serrare i ranghi, sia stato meno docile ai richiami di Islamabad e abbia anzi dato il via a una campagna militare senza esclusione di colpi proprio per fugare la fama di venduto ai pachistani. La sua uccisione nel maggio 2016 per mano americana, con un drone che per la prima volta ha colpito nella regione pachistana del Belucistan, ha sparigliato i giochi. Mullah Haibatullah Akhundzada, che lo ha subito sostituito, ha promesso vendetta e una nuova campagna militare che ha fatto infuriare gli afgani e seppellito il negoziato ma anche le strategie di Islamabad. Kabul è ossessionata dalla convinzione che ogni male si debba al Pakistan reo di ospitare, finanziare, allevare talebani. Ha scelto di fare la stessa cosa sul suo territorio coi talebani pachistani, i guerriglieri anti Islamabad al di là della frontiera (“cugini” dei fratelli afgani ma più violenti e brutali), ripagando il Pakistan con la sua stessa moneta. È interessante notare che appena i due Paesi si riavvicinano (sia il presidente Ghani, sia il premier pachistano Nawaz Sharif sono “aperturisti”) succede qualcosa che li allontana (di solito una strage non sempre rivendicata o incidenti alla frontiera). I rapporti sono sempre tesi sia per le controversie di confine o sui dazi commerciali, sia per la gestione dei rispettivi profughi. Kabul per ora non sembra il fautore di una politica di aperture e riconciliazioni. L’ultima invenzione, abortita dopo gli ultimi attacchi stragisti talebani soprattutto nella capitale, è stata la nascita di un comitato quadrilaterale con Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti e Cina. Una buona idea coinvolgere la Cina e forse una buona idea cominciare da 4 e non da 8 o 10 (anche se in effetti non ha molto senso lasciar fuori Teheran, Riad, Delhi e persino Mosca), ma comunque una scelta di sola cornice per accompagnare un processo negoziale per ora abortito. È probabile che la Quadrilaterale, decisa a Kabul, sia stata pensata a Washington ma un tavolo negoziale senza il nemico non è un tavolo negoziale. Se poi il probabile principale negoziatore è stato ucciso... L’ultimo grande attore – ma il maggiore per importanza e peso politico militare – sono gli stati Uniti ma la loro politica appare davvero poco chiara e ondivaga. Washington è stata una paladina del disimpegno
militare ma poi ha rafforzato il suo dispositivo di sicurezza nel Paese rallentandone i tempi. Non ha mai preso in considerazione un passo indietro sulle basi e nemmeno enucleato la possibilità – anche solo congetturale– di andarsene dall’Afghanistan, precondizione dei talebani per trattare con Kabul. Infine sta continuando una politica di uccisioni mirate con i droni sia in Pakistan sia in Afghanistan. E una di queste vittime è stata appunto mullah Mansur, il possibile negoziatore della pace. Segue ora il testo dell’intervista rilasciatami dal dottor Navid Raza che ho avuto l’opportunità di conoscere a casa di Julie Wade, una cara amica, nel maggio scorso, in occasione di un suo viaggio a Ravenna per presentare in una scuola il progetto LHACS il cui scopo è aiutare i bambini afghani ad avere accesso all’istruzione procurando e fornendo loro materiale scolastico (per informazioni: https: //www.facebook.com/groups/138630819621667/). Ho chiesto a Navid un racconto che potesse rimandare a lettrici e lettori informazioni riguardo al territorio in cui è nato e anche riguardo al suo “viaggio” Afghanistan-Italia. L’Afghanistan, quando si sviluppò la Via della Seta, per circa 8.000 km collegava l’Oriente all’Occidente e ha sviluppato un multiculturalismo grazie alle svariate popolazioni che vi trovarono rifugio nel corso della storia. Non a caso l’Afghanistan degli anni ’70 vive ancora nella mente dei viaggiatori che sceglievano questa meta e ne ricordano: una popolazione ospitale e calorosa; la natura sorprendente e i paesaggi magnifici; le altissime montagne dell’Hind-u-koosh; la grandissima statua di Buddha di Bamyan e molti altri siti storici che questa terra offre. Dopo il 2001 si sperava nell’avvento della democrazia e rimodernizzazione del paese. Un popolo che non aveva mai permesso l’invasione della propria terra agli stranieri era ormai pronto a consegnarglielo con le proprie mani. Riaprirono le scuole, le università; ripresero i lavori di costruzione nelle città; iniziò la formazione di un governo democratico e popolare. L’Afghanistan era stato devastato non solo dalle guerre ma anche dalle influenze esterne. In quel periodo la mia famiglia che viveva in Iran decise di tornare a vivere in Afghanistan; come noi, milioni di persone tornarono sperando in una vita normale. Nel 2005 però le guerre continuavano ancora; il tasso di povertà cresceva e la criminalità assumeva nuove forme. Il paese continuava a essere covo del terrorismo internazionale; gli stati vicini continuavano a intromettersi negli affari interni del paese e la comunità internazionale si è dimostrata incapace nell’affrontare le problematiche e nel rispettare patti e promesse. Il popolo afghano iniziò a comprendere che quell’invasione, da noi tanto voluta per un futuro migliore, era soltanto un’illusione. Sono circa ventimila i civili morti dal 2007-2011 secondo il report dell’UNAMA /United Nations Assistance Mission in Afghanistan (https://www.theguardian.com/ news/datablog/2010/aug/10/afghanistan-civilian-casualties-statistics, ndr.), le vittime civili sono cresciute del 14% nel 2013 rispetto all’anno precedente. La violenza contro le donne è un altro caso emblematico che mostra la parte più oscura dell’Afghanistan, i dati più recenti forniti da Human Rights Watch riportano che l’85% delle donne è senza istruzione, la metà si sposa prima dei sedici anni, ogni due ore una donna muore nel Paese dando alla luce un figlio, i casi di violenza sono cresciuti del 25% nell’ultimo anno e, sempre l’anno scorso, 120 donne si sono date fuoco (http://www.repubblica.it/solidarieta/dirittiumani/2015/06/08/news/il_posto_peggiore_ al_mondo_per_essere _una_donna-116395018/, ndr.). Il tasso di criminalità nel paese ha raggiunto livelli mai visti in precedenza. A tutto ciò si aggiunge la grande crisi politica-istituzionale. Le elezioni del 2014 sono state truccate, il popolo si trova di fronte a promesse non mantenute e la povertà ha raggiunto il suo apice, nonostante il nostro presidente, ex economista della Banca Mondiale, abbia avviato progetti nel settore energetico e delle infrastrutture. Il popolo dell’Afghanistan della Via della Seta, della catena montuosa Hind-u-Koosh, del Kandahar dei “lunghi viaggi”, della magnificenza dell’architettura timuride di Hera, della Balkh, città natale del poeta mistico Jalal al-Din Runi e di Bamiyan che ha perso il suo grande Buddha, non vorrebbe altro che
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pace e un po’ di normalità. Tutto il resto verrà. Ci vorranno anni e anni, ma ce la faremo a cambiare la storia. Di seguito il racconto del “viaggio” Afghanistan-Italia che Navid definisce un “Sogno Clandestino”. La situazione drammatica di un paese distrutto e sommerso dalle macerie di una lunga guerra ha costretto anche me a partire; ancora minorenne, ho deciso con il consenso della mia famiglia di avviarmi in un lungo viaggio. Ricordo ciò che mi disse mia madre accarezzandomi: «Fai come credi figlio, ma sappi che ovunque tu vada sarai uno straniero, nessuna terra sarà come la tua! Vai, Dio sia con te…». Dovevo lasciare la miglior cosa della mia vita: la mia famiglia. «È giunta l’ora di partire», disse mio padre, forse quello è stato il momento più duro della mia vita: salutare mamma e miei quattro fratellini con i quali avevo condiviso ogni secondo della vita; neanche tutte le avventure del mio viaggio sono state più dure e faticose di quel momento. Io e mio padre siamo partiti per l’Iran: tutto regolare, il mio passaporto, il mio visto. Siamo arrivati alla capitale iraniana dopo quasi ventiquattro ore e credevo che il rimanente viaggio sarebbe stato come quello appena fatto. Mio padre aveva organizzato il mio viaggio verso l’Europa, aveva contattato le persone per farmi superare i confini dell’Asia; la mia destinazione avrebbe dovuto essere la Svezia. Mi assicurò che fino a Istanbul avrei avuto un viaggio seminormale e che avrei camminato solo quattro ore. Dopo quasi trenta giorni di soggiorno in Iran sono partito per la Turchia; ho preparato lo zaino: due magliette, i pantaloni, il mio diario personale, qualche merendina; non potevo portare tante cose con me quindi mi ero preparato in base al caldo estivo. Da Teheran ho preso il pullman insieme ad altre persone per Tabriz, una città di confine con la Turchia dove ci aspettavano “mafiosi” che ci hanno portato in una casa in campagna dove è iniziata la mia vita clandestina. Dovevamo nasconderci, non potevamo uscire né farci sentire dai vicini: una settimana di vita anormale, insieme a persone sconosciute. Qualcuno aveva già tentato inutilmente di superare i confini. In quella casa ho iniziato a conoscere la realtà cui andavo incontro, il mio diario era l’unico amico al quale potevo raccontare ciò che provavo. La sera prima della partenza ci hanno avvisato di prepararci. Siamo partiti la mattina presto con una macchina in cui ci hanno pigiati in otto e addirittura un ragazzo stava nel portabagagli. Ci siamo fermati in un villaggio dove ci
CITTÀ E SOCIETÀ
aspettava un pulmino, con i finestrini coperti da tende nere, con cui dovevamo continuare il percorso, lungo il quale venivano raccolti altri ragazzi. Provavo angoscia, paura e quasi pentimento. A un certo punto siamo scesi dal pullman e siamo dovuti passare attraverso delle montagne per arrivare a un villaggio al confine. Freddo, pioggia, stanchezza aumentavano la mia paura. Tremavo, avevo sonno, mi sentivo male ma non sapevo cosa fare in quel punto del mondo. L’unica speranza era che stavamo per arrivare al villaggio dove avremmo potuto riposare e stare al caldo. Una volta arrivati ci hanno portato in una stalla dove passare la notte insieme agli animali; mi sembrava strano ma era tutto vero. Mi ero dimenticato del freddo, della paura e pensavo solo a come fosse crudele l’essere umano. Abbiamo trascorso quasi quindici giorni, anziché uno, in quella stalla senza bagno. Il nostro cibo era pane secco e tè e se i mafiosi provavano pietà, un pomodoro o qualche uovo bollito. Nessun contatto con i nostri familiari, con il mondo fuori dalla stalla. Qualche volta tentavano di attraversare il confine, ma appena si sentiva il suono spaventoso degli spari della polizia iraniana, ci riportavano indietro. Finalmente una sera, illuminata dalle stelle, siamo riusciti a superare la dogana; eravamo circa sessanta clandestini, afghani, pakistani, iraniani. Camminando tutta la notte, attraversando campi di riso allagati, terre fangose, montagne rocciose, siamo arrivati al primo villaggio turco. Il nostro unico pensiero era sopravvivere, arrivare da qualche parte, poiché avevamo intuito che eravamo stati venduti ad altri mafiosi di quella zona che ci hanno trasferito in un villaggio dove siamo rimasti rinchiusi in un’altra stalla per venti giorni. L’unica fonte d’illuminazione era una fessura da cui cercavamo di capire le intenzioni delle persone da cui dipendeva la nostra sorte. Aggiungendosi a noi altre quindici persone, una sera siamo partiti per Istanbul, nascosti e seduti l’uno sopra l’altro, settantacinque persone su un camion dove vigeva la legge del più forte, chi era più cattivo riusciva a prendere più spazio, io dovetti accontentarmi di uno spazio piccolissimo. Dopo un’ora ci siamo fermati nei pressi di un lago della città turca di Van, la prima dal confine iraniano. Abbiamo affrontato una “camminata” di sei ore, durante le quali due ragazzi pakistani si sono persi e non sono mai stati ritrovati, poi siamo saliti su un altro camion per Istanbul. Avevamo più spazio questa volta, io ero seduto accovacciato, vicino a me c’erano ragazzi afghani con tanta disperazione negli occhi. Nascosti da legname caricato dall’autista siamo partiti, avevamo freddo, respiravamo a fatica per il sovraffollamento; alcuni ragazzi af-
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ghani hanno creato una piccola fessura fra il legname per far entrare l’aria. Nessuno si poteva muovere per la paura di perdere il proprio posto. Senza alimentarci e senza nessuna sosta ho sofferto tanto da temere di non farcela, non mi sentivo più i piedi, le ginocchia mi facevano male e non riuscivo più a mantenere il mio piccolo spazio. Quell’avventura è durata quarantatré ore precise fino a quando siamo arrivati al centro di Istanbul. Saltando dal camion, sono caduto a terra per l’insensibilità dei miei piedi, credevo di averli persi. Ho faticato a salire al terzo piano di una casa che sarebbe stato il nostro rifugio. Finalmente ero arrivato a Istanbul, la prima cosa che ho fatto è stata telefonare a casa. Ero più tranquillo, anche se dopo un mese di permanenza a Istanbul avrei dovuto continuare la mia croce per la Grecia. Mi sono imbarcato insieme ad altri venti per attraversare il mar Egeo, appena ho visto la piccola barca, vecchia e malandata, lunga solo due metri, mi sono spaventato perché secondo me non saremmo arrivati vivi all’isola greca di Samos che si intravedeva come una piccola luminosità. Dovevamo arrivare lì, più si andava avanti meno eravamo vicini a quella luce. Sembrava non arrivassimo mai. Conoscendo storie delle persone morte annegate in quelle acque violente, mi sentivo male trovandomi in mezzo ad un mare nero e freddo, di notte con il vento che faceva oscillare la nostra barca a causa delle onde gigantesche. Per la prima volta ho temuto per la mia vita: la barca si riempiva d’acqua che noi toglievamo con delle bottigliette che avevamo. Dopo una nottata di paura siamo arrivati sull’isola. Per scendere dovevamo saltare e scavalcare le gigantesche pietre dell’isola, c’era chi cadeva in acqua e chi si faceva male ma eravamo tutti salvi, ora dovevamo superare le colline ricoperte di piante selvatiche che ci hanno ferito. Arrivati in cima alla collina con i vestiti bagnati e macchiati di sangue, avevamo davanti agli occhi il bellissimo panorama dell’isola, ma gli abitanti abituati a un tale spettacolo (profughi) hanno avvisato la polizia che ci ha arrestato e trasferito in una casa controllata per giorni. Rilasciati, siamo arrivati ad Atene, dove, per poter proseguire il viaggio per i prezzi altissimi richiesti, ho dovuto fermarmi, cercare lavoro e risparmiare. Per arrivare in Italia si presentava il problema di raggiungere Patrasso, nascondersi sotto qualche camion che doveva imbarcarsi o pagare chi mi avrebbe aiutato a celarmi sotto la merce. Ma non era così facile poter entrare nel porto, nascondersi sotto i camion e partire: infatti, diverse volte sono stato preso dalla polizia, picchiato e mandato nelle camere di sicurezza. Ho provato allora a
pagare ottocento euro perché i “mafiosi” mi nascondessero tra gli scatoloni di un camion. Finalmente sono arrivato ad Ancona sfuggendo ai controlli della polizia, che mi ha bloccato però sulla strada statale di Camerano e il mio viaggio è terminato con la presa delle mie impronte digitali impedendomi di proseguire per la Svezia. Sono passati già dieci anni, trovando un piccolo lavoro sin da subito e con un po’ di sacrificio dal momento che lavoravo di sera per mantenermi, ho portato a termine il mio primo obiettivo, quello di concludere un corso di studi nel 2012. Avrei desiderato potermi impegnare di più perché amo la cultura e l’istruzione, ma ho dovuto mantenermi. Mi sono impegnato per una mia soddisfazione personale ma anche per i miei genitori che si sono sacrificati per permettermi di avere un futuro. Nel 2012 ho iniziato l’università a Forlì raggiungendo uno dei miei obiettivi principali, quello di laurearmi, che per me è stato sempre un sogno oltre a essere quello dei miei genitori. Quindi un sogno, anche se clandestino, si può sempre realizzare.
In alto a sinistra: Un giovane lavoratore afgano di fronte al bombardato palazzo Darul Aman vicino a Kabul, Afghanistan. In alto a destra: Il “buzkashi”, sport equestre nazionale dell’Afghanistan, © Shannon Galpin and Mountain2Mountain. Sotto: Un ragazzo afghano guarda i soldati tedeschi dell’ISAF che preparano un campo temporaneo per una notte, durante un pattugliamento a lungo termine nella regione montuosa di Feyzabad, ad est di Kunduz, Afghanistan, foto di Anja Niedringhaus.
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ABITARE L’HABITAT
Nuovo paradigma: dall’emergenza alla prevenzione. La sicurezza deve essere una questione collettiva. Impensabile l'ipotesi di ricostruire altrove, altrimenti gli abitanti non torneranno più indietro
di Marco Turchetti * Davanti alla dignità e al coraggio della gente colpita e annientata da questo ultimo sisma in Centro Italia prendiamoci un impegno per il futuro: la messa in sicurezza del territorio oggi è un dovere civile, politico e morale. Si dice sempre così, dopo. Per la verità è stato detto tante volte, prima. Ma non si è voluto ascoltare. Che cos’è questo, un tratto di grave irresponsabilità che contraddistingue il nostro popolo? Siamo eredi, indegni, di un grande patrimonio che ci è stato lasciato. Indegni perché non lo proteggiamo. Non ascoltare è colpevole. Davanti a catastrofi così non si può parlare di fatalità. Sì, lo so, qualcuno obietterà che non sempre i terremoti sono prevedibili. La natura fa il suo corso, è indifferente alle nostre sofferenze. Ma noi abbiamo una grande forza: l’intelligenza. Parlare di fatalità è fare un torto all’intelligenza umana. La storia insegna: ci siamo sempre difesi, con ripari, fortilizi, magie. Tocca a noi, al nostro senso di responsabilità, mettere la giusta energia nella messa in sicurezza del territorio. Dobbiamo difenderci meglio... Ma non l’abbiamo fatto. Dove vengono alzate le difese si limitano i danni. A Norcia, per esempio, il sisma non è stato disastroso come nei paesi vicini. Perché sono stati fatti i lavori adeguati. Dopo gli ultimi terremoti si è agito bene. Non occorre cercare il Giappone o la California per trovare esempi imitabili. Ogni volta che è stato fatto uno sforzo, c’è stato un risultato positivo.
Davanti ai morti, alla disperazione dei sopravvissuti, allo smarrimento degli sfollati, allo straordinario lavoro dei soccorritori, più che parole servono risposte. Non si deve allontanare la gente da dove ha vissuto. Amatrice, Pescara del Tronto, Arcuata, Accumoli, Grisciano: bisogna ricostruire tutto com’era e dov’era. Sradicare le persone dai loro luoghi è un atto crudele. Vuol dire aggiungere sofferenza alla sofferenza. Sembra che la pensi così anche il governo. E finalmente non ci sono polemiche. Questo non può che far piacere. Se cerchi un uomo c’è sempre una casa. Bisogna ricostruire tra le pietre, le soglie e la gente che la abita. I paesi di cui parliamo sono distrutti, ma l’anima dei luoghi non si può cancellare. Chi ha subito un trauma terribile deve poter tornare a vivere dove è sempre stato. Né container né tendopoli se non nella primissima fase di emergenza. A maggior ragione la sicurezza deve essere una questione collettiva, che suggerisce una riflessione approfondita sul da farsi. Impensabile l'ipotesi di ricostruire i centri altrove, se si trasferiscono gli abitanti, non torneranno più indietro. I rapporti sociali che si dislocano nello spazio tengono in piedi una comunità, ricordando l'importanza degli elementi simbolici per eccellenza del nostro paesaggio: i campanili. Che non a caso si trasformano ogni volta nelle icone della tragedia. E invece, potrebbero diventare quelle della rinascita.
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Poi è assolutamente necessario pensare ad una innovativa forma di cantiere per la ricostruzione agile e snello. Superata la prima fase, si devono prevedere abitazioni montate nella zona sismica, strutture temporanee, non definitive. Si possono fare in poco tempo case di legno, a 600 euro al metro quadrato. Come a Onna, in Abruzzo. Finita la ricostruzione si ricicla tutto: il terreno occupato poi torna alla sua precedente destinazione d’uso. Nei primi giorni dopo la tragedia abbiamo notato che molti sfollati dormivano in auto, accanto a quel che resta della loro abitazione. È un attaccamento che commuove. La gente vuole restare lì, per contrastare il senso di abbandono. Secondo me bisogna rifuggire dalla tentazione di voler fare tutto in gran fretta, i tempi di un cantiere di questo tipo sono più lunghi, è un’operazione che richiede la giusta lentezza e delicatezza, non invasiva quasi da chirurgia endoscopica. Sicurezza, terremoto, dissesto idrogeologico si portano dietro un’idea di fondo comune: quello di ricucire senza distruggere, la leggerezza come dimensione tecnica e umana. Sarà difficile ricostruire i luoghi com’erano prima. Difficile, certamente. Ma possibile. Ma sarà ancora più difficile lanciare una grande opera di manutenzione per tutto il Paese. Bisogna cominciare. Prendiamo in carico il lascito che abbiamo ricevuto dal passato e occupiamocene seriamente. Si può partire dal patrimonio pubblico: compito immediato dello Stato è quello di mettere in sicurezza scuole e ospedali. La legislazione c’è. Esistono le leggi per costruire in modo antisismico. Bisogna farle rispettare. Bambini e malati vanno protetti. Il governo non deve aspettare. Per il patrimonio privato, poi, che in gran parte necessita di manutenzione, serve un programma di investimenti e incentivi. Come quelli che sono stati dati per l’energia. Defiscalizzazioni, agevolazioni, sconti sull’Iva. C’erano gli Ecobonus? Si facciano i Casabonus. All’Italia serve una definitiva messa in ordine, energetica, sismica, idrogeologica. Abbiamo le imprese e le competenze per poterlo fare e si creerà una enorme quantità di lavoro, buon lavoro. A sinistra: Siamo eredi, indegni, di un grande patrimonio che ci è stato lasciato. Indegni perché non lo proteggiamo. Non ascoltare è colpevole. Davanti a catastrofi così non si può parlare di fatalità. In questa pagina, in alto a sinistra: Amatrice com’era prima della notte fra il 23 e il 24 agosto 2016 e come dovrà tornare a rivivere in futuro. In alto a destra: Davanti ai morti, alla disperazione dei sopravvissuti, allo smarrimento degli sfollati, allo straordinario lavoro dei soccorritori, più che parole servono risposte. Al centro: I paesi di cui parliamo sono distrutti, ma l’anima dei luoghi non si può cancellare. Chi ha subito un trauma terribile deve poter tornare a vivere dove è sempre stato. Né container né tendopoli se non nella primissima fase di emergenza. In basso: I rapporti sociali che si dislocano nello spazio tengono in piedi una comunità, ricordando l'importanza degli elementi simbolici per eccellenza del nostro paesaggio: i campanili. Che non a caso si trasformano ogni volta nelle icone della tragedia. E invece, potrebbero diventare quelle della rinascita.
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ABITARE L’HABITAT
Naturalmente una delle altre ovvie obiezioni che possono essere mosse è che tutto ciò genererà maggiori costi, questo è sicuramente vero, ma il maggior costo deve essere riconosciuto dallo Stato attraverso una forma di agevolazione. Ma questi sono investimenti che tornano. Non stiamo parlando di lustrini e paillettes. Stiamo chiedendo di rendere sicuro un patrimonio insicuro. Questo può innescare un ciclo virtuoso. Per edilizia e mondo del lavoro. Per le piccole imprese e per quelle più grandi. Inoltre non si può pensare che questa operazione si possa esaurire nel corso di pochi anni, un’operazione del genere dev’essere di sistema. Potrebbero servire anche una cinquantina d’anni, o anche più. D’altra parte la natura ragiona su tempi molto più lunghi. È importante partire, e farlo sul serio, questa volta. Dopo ogni disastro, si chiedono piani straordinari di manutenzione del patrimonio edilizio e del territorio. Poi, puntualmente, ce ne dimentichiamo e questo è sbagliato, facciamo molto male. Veniamo meno a un nostro dovere. Quello di garantire più sicurezza alle persone e salvaguardare un patrimonio unico al mondo. Oggi non abbiamo alibi. Ce lo chiedono i
sopravvissuti, lo impone la nostra storia. Possiamo finalmente cominciare ad avere una visione per le nostre case che si sposi con la cultura della prevenzione. Il progetto che ci dobbiamo accingere a definire è un progetto concreto, non un elenco di parole; un’operazione che coinvolga i principali attori del nostro Paese – associazioni di categoria, sindacati, ambientalisti, professionisti, per un progetto serio. Il fatto che non ci siamo riusciti nei 70 anni precedenti, non significa che non dobbiamo provarci. Serve un salto di qualità. Il nostro territorio va difeso. I mutamenti climatici, le calamità naturali e quelle indotte dalle opere dell’uomo sono il monito che sempre più spesso ci chiede di intervenire in fretta. Domani si dovrà poter dire: bello, buono e solido. La nostra bellezza è un valore profondo. La speranza che ci deve guidare, dopo le lacrime e quei tanti, troppi morti, è quella di una grande operazione per il futuro: cancellare il fantasma della fatalità, tutelare le vite umane, rendere meno fragile questa grande bellezza. * [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com
Foto in alto: Risparmio idrico. Per fare una doccia consumiamo 45 litri d’acqua, quasi il doppio per lavare il bucato in lavatrice. Tutte le volte che tiriamo lo sciacquone se ne vanno 6-8 litri d’acqua, la stessa quantità necessaria nel corso della giornata per prepararci un pasto. In un anno ogni italiano utilizza per uso civile in media 152 metri cubi d’acqua, molto più di Spagna (127), Regno Unito (113) e Germania (62). A sinistra: Nuovi strumenti di programmazione urbanistica. La crisi che stiamo attraversando è profonda, ora più che mai è necessario delineare una nuova visione di città, proponendo forti alternative nel modo di immaginarla, progettarla, costruirla e gestirla.
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MERCATO IMMOBILIARE
La messa in sicurezza del patrimonio edilizio Annunciato il piano Casa Italia dopo l’ultimo terremoto fra ricostruzione, finanziamenti a lungo termine e incentivi fiscali per la prevenzione. Il parere degli agenti immobiliari di Roberta Bezzi
Casa Italia: non una casa, ma un gigantesco cantiere che dovrebbe abbracciare man mano tutta la penisola lungo alcuni decenni. Questa è stata la reazione del governo di Matteo Renzi all’indomani del terribile e drammatico terremoto che ha colpito il Centro Italia alle 3.36 del 24 agosto scorso, radendo al suolo i comuni di Amatrice e Accumoli in provincia di Rieti, Arquata in provincia di Ascoli Piceno e la sua frazione Pescara del Tronto. Quali sono le risorse in campo? Per il momento sul tavolo ci sono 12 miliardi già distribuiti in quattro ambiti: dissesto idrogeologico (5 miliardi), scuole (5 miliardi), cultura (un miliardo) e periferie (700 milioni). Il governo sarebbe poi disposto ad attivare due miliardi l’anno per la prevenzione, potenziando gli attuali ecobonus e i “sismabonus” del 65 per cento che finora hanno funzionato a singhiozzo, ossia bene per appartamenti e villette ma male per palazzi e condomini. Gli sgravi fiscali, e qui sta la novità “strutturale” in preparazione da parte del governo, diventerebbero di lunghissimo
termine. Si ragiona su un orizzonte di almeno vent’anni, tant’è che lo stesso premier, lo ha definito un «progetto di lungo respiro, che richiederà anni, forse un paio di generazioni». E sempre il capo del governo sottolinea quanto il vero problema sia quello di creare una cultura della prevenzione, come a dire «i soldi ci sono ma non vanno usati a capocchia». Quali sono gli “umori“ del mercato immobiliari a fronte di questi possibili cambiamenti? «Quello della sicurezza – afferma Fabio Garoni, delegato Editoria e informatico di Fiaip Romagna –, è certamente uno degli aspetti più importanti quando parliamo di immobiliare: sicurezza dell’investimento e sicurezza della rivalutazione sono considerazioni delle quali ogni cliente tiene conto, ma in fondo il concetto di sicurezza che salta per primo alla mente è quello di “casa” come luogo solido, resistente, in grado di proteggere i nostri affetti e le nostre cose da ogni tipo di minaccia. Credo che vedere scalfita questa sicurezza, quella cioè di trovarsi in un luogo che psicologicamente percepiamo come “sicuro”, lasci delle ferite laceranti che guariscono in tempi lunghissimi». Nel Ravennate, però, non c’è particolare preoccupazione in tema di terremoti. «Nessuno finora – rac-
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conta Pierluigi Fabbri, presidente di Fimaa Ravenna – si è rivolto a noi mostrando esigenze o richieste particolari, anche se spesso nell’immediatezza di un accadimento si crea una forte ondata emotiva. Di certo, però, un ragionamento serio sui rischi di sisma va affrontato soprattutto considerando che, secondo alcune statistiche rese note, dal 1600 a oggi, l’Italia ha conosciuto un grave terremoto ogni quattro anni. D’altra parte, solo per citare gli ultimi, quello dell’Emilia risale al 2012 e quello dell’Aquila al 2009. Il grosso problema italiano risiede nel tessuto morfologico dei centro storici italiani: a poco vale mette in sicurezza la struttura della propria abitazione, se il vicino di casa a cui siamo attaccati non fa altrettanto». Fabbri ricorda inoltre lo scarso “apprezzamento” degli incentivi fiscali sino a oggi. «Per l’italiano medio – aggiunge –, ristrutturare significa cambiare le finiture, ossia fare un restyling superficiale, senza toccare le fondamenta o la struttura portante della casa. Inutile negarlo, non si è mai vista una corsa in tal senso… E non solo per la ristrutturazione con incentivi fino al 50 per cento, ma neppure per conferire alla propria abitazione una maggiore efficienza energetica, approfittando non solo di sgravi al 65 per cento, ma anche della possibilità di risparmiare ogni anno in bolletta. Di certo la tematica non è semplice, altrimenti sarebbe già stato fatto qualcosa». Eppure si può solo guardare avanti. «La prevenzione – commenta Garoni – è l’aspetto sul quale è necessario concentrarsi di più. La sfida è coniugare il rispetto per le nostre peculiarità paesaggistiche con la messa in opera di interventi finalizzati a rendere la bellezza “sicura”. Come spesso accade nel nostro Paese, si tratta di un problema di risorse, di coordinamento e, soprattutto, di visione. La solidarietà che gli italiani stanno dimostrando alle vittime del terremoto viene apprezzata in tutto il mondo, ma è innegabile che siamo più bravi a fronteggiare le calamità dopo che queste hanno dispiegato i loro devastanti effetti, piuttosto che a prevenirle. Penso che il progetto Casa Italia vada proprio in questa direzione: creare una consapevolezza, un’azione coordinata e congiunta, un progetto al quale dare continua applicazione anche nei momenti in cui non sembrano profilarsi pericoli all’orizzonte». D’altronde ben si sa, specialmente in
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MERCATO IMMOBILIARE
Sotto, un disegno delle fondamenta “isolate” di una costruzione antisismica. In pratica questo sistema attenua e neutralizza la propagazione delle onde del terremoto attraverso le strutture portanti della casa.
questi giorni nei quali i sismologi affollano le trasmissioni televisive, che questi eventi sono quasi sempre imprevedibili, per cui si deve accettare il pensiero di destinare ingenti risorse a eventi che non si sa se e quando si verificheranno. «Occorre volontà prima di tutto – ribadisce Fabbri di Fimaa –. Il lavoro sarà lungo proprio perché riguarda il livello culturale prim’ancora che economico. A poco servono le leggi se poi non vengono applicate o se non sono effettuati controlli sulla bontà delle costruzioni. Si sa che in giro non tutti i costruttori costruiscono a regola d’arte, eppure anche nel periodo del boom immobiliare, le persone alla fine compravano più per la zona e la casa in sé che non per le informazioni raccolte sull’impresa edile. Quindi innalziamo i criteri per la messa in sicurezza della casa, ma prestiamo attenzione anche a chi costruisce onde evitare il ripetersi di scandali su edifici mal costruiti». Com’è la situazione sul nostro territorio? «L‘Emilia-Romagna – conclude Garoni di Fiaip – è interessata da una sismicità “media” che caratterizza soprattutto la nostra provincia e quelle limitrofe. La Regione dispone di un Servizio Geologico Sismico e dei Suoli che si concentra sulla pericolosità sismica, sullo studio degli effetti locali e sulle valutazioni di vulnerabilità delle costruzioni, effettuate in accordo con un apposito comitato tecnico-scientifico. Gli edifici di costruzione più recente offrono pertanto un’alta protezione contro gli eventi sismici, circostanza nota e apprezzata dalla clientela, mentre anche nel nostro territorio insistono immobili storici o semplicemente costruiti “in economia”, come si faceva in passato, per i quali devono essere predisposti interventi di prevenzione adeguata».
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