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n. 109 OTTOBRE 2016

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contenuti 04 16 24 30 40 44 56 62 68 74

Abitare nel moderno lungo un colle a Cesena. Un progetto di Tissellistudio _____________________________________________________

casa bella casa

grand tour

Un manifesto per l’arianesimo. Il regno di Teodorico e la “diversa” natura di Cristo nei mosaici degli edifici sacri ravennati ___________________________________________________________ di Cetty Muscolino e Federica Cavani

Eppur si muore: Yves Bonnefoy in viaggio fra i sepolcri di Ravenna _______________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani

città e quartieri

Accogliente, concreta, dinamica, in una parola ecco la Cesena di oggi ______________________________________________________ di Chiara Bissi

scuola e formazione

arte e scena

Valentino Parmiani: uno sguardo d’autore fra paesaggio e architetture _____________________________________________ di Domenico Mollura

Teatro Bonci di Cesena, una storia spettacolare a 170 anni dalla fondazione ___________________________________________________________ di Serena Simoni

arte e fotografia

arte e editoria

Imparare a vedere. Guido Guidi e il senso per l’immagine _________________________________________________________ di Sabina Ghinassi

È una questione di libri. Intervista all’editore Danilo Montanari ______________________________________________________________ di Marina Mannucci

abitare l’habitat

Appunti per una carta della condivisione della qualità dell’abitare ___________________________________________________________ di Marco Turchetti

offerte immobiliari

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di Paolo Bolzani

Cesena, antica città sorta nel reticolo della centuriazione romana _____________________________________________________ di Pietro Barberini

storia e territorio

arte e storia

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edizione di Ravenna

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Controcopertina

A Cesena, volgendo lo sguardo a nord, verso il Seminario, tra le case erette sul pendio ecco emergere un lungo edificio residenziale – progettato da Tiseellistudio – al centro di un grande isolato racchiuso dalle vie Magellano, Nicoloso da Recco e Torricelli. Tra casette a due piani e altri caseggiati l’edificio si riconosce per la mole imponente, articolata al centro da una lieve spezzata che lo induce ad introflettersi elegantemente verso il colle.

Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Federica Cavani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it

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CASA BELLA CASA


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Abitare nel moderno lungo un colle a Cesena Il palazzo “SD” di Tissellistudio tra segni grafici e qualità architettonica di Paolo Bolzani

La nostra indagine sull’abitare nel XXI secolo in Romagna oggi ci conduce alla “Città dei tre Papi” che, come dice il Sommo Poeta a Guido da Montefeltro all’Inferno, «sie’ tra ‘l piano e ‘l monte». Infatti qui varie volte si ha l’occasione di percorrere gli ultimi leggeri rilievi dell’Appennino, mentre dalle colline il panorama raggiunge l’Adriatico, spaziando sulla campagna centuriata. Una di queste opportunità viene offerta dal pianoro che si distende lungo il tracciato della Via Emilia, tra la collina dell’Ospedale Bufalini e quella del Seminario Vescovile. Siamo diretti al centro da est, transitando su via Fiorenzuola, che poi diventerà sobborgo Valzania e quindi corso Comandini. Volgendo lo sguardo a nord, verso il Seminario, tra le case erette sul pendio ecco emergere un lungo edificio residenziale, posto al centro di un grande isolato racchiuso dalle vie Magellano, Nicoloso da Recco e Torricelli. Tra casette a due piani e altri caseggiati l’edificio si riconosce per la mole imponente, articolata al centro da una lieve spezzata che lo induce ad introflettersi verso il colle del Seminario, e per il dinamico disegno dei prospetti longitudinali, entrambi segnati da lunghe fasce orizzontali a toni chiari e scuri alternati, con una maggiore enfasi in quello meridionale, rivolto al pianoro. «L’intervento prevedeva la realizzazione di un edificio ad uso prettamente residenziale», spiega Filippo Tisselli, classe 1967, che con il proprio studio professionale firma il progetto nel 2006 e ne segue la direzione dei lavori fino al compimento nel 2009, «in luogo di un impianto artigianale abbandonato». Il tema progettuale è stato dunque quello di «proporre alla città un nuovo episodio di qualità architettonica, di forte impatto dimensionale, una presenza dominante rispetto all’edilizia mediamente minuta della zona». Il nuovo edificio è costituito da una serie di garage ai piani interrati, residenze sul lato scoperto del piano parzialmente interrato e tre ulteriori piani fuori terra ad uso abitativo, con una consistenza immobiliare complessiva pari a ventotto appartamenti. L’idea compositiva rivela una scelta forte, prosegue Tisselli, che decide di inserire un grande edificio dichiaratamente moderno, cominciando dai materiali utilizzati: cemento armato nelle strutture, solo vetro nei lunghi parapetti degli affacci, legno lamellare in tetti e balconi, infine lastre di zinco titanio nel manto di copertura. Ne deriva un grande oggetto che si distacca dall’intorno urbano con l’adesione ad «un linguaggio unico, sintetico, ma fortemente identificativo». Dall’osservazione della facciata

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CASA BELLA CASA

«L’intervento prevedeva la realizzazione di un edificio ad uso prettamente residenziale», spiega Filippo Tisselli, classe 1967, che con il proprio studio professionale firma il progetto nel 2006 e ne segue la direzione dei lavori fino al compimento nel 2009, «in luogo di un impianto artigianale abbandonato»


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CASA BELLA CASA

Dall’osservazione della facciata proviene con chiarezza la “cifra” formale derivante da un «gesto grafico», ottenuto con la composizione di «un “incastro a pettine” di due nastri piegati a formare due C». Da qui deriva il nome dato dai progettisti al fabbricato: “SD”


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proviene con chiarezza la “cifra” formale derivante da un «gesto grafico», ottenuto con la composizione di «un “incastro a pettine” di due nastri piegati a formare due C». Da qui deriva il nome dato dai progettisti al fabbricato: “SD”. Mentre sottolinea la presenza di questo gesto grafico, risolutore nella costruzione dell’immagine complessiva verso il pianoro, ne spiega anche il ruolo, rivolto a ripristinare «l’ordine di un fronte altrimenti frammentario a servizio delle numerose unità abitative retrostanti». «L’attacco a terra – ar-

gomenta però il progettista - si allontana dall’impostazione rigida e concettuale del volume principale. Superfici e arretramenti, pareti curve, incastri di volumi si liberano infatti ai piedi dell’edificio e nel gioco delle soluzioni d’angolo», mentre «il sistema dei balconi garantisce ad ogni unità abitativa spazi esterni più ampi possibili, ma insieme intimi, protetti». Questo effetto si verifica in virtù di una struttura costruttiva integrata, costituita da una serie di lunghe mensole in cemento armato ancorate ad un sistema di setti verti-

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CASA BELLA CASA cali, «volutamente arretrati rispetto al filo degli aggetti e opportunamente collocati a divisione delle diverse unità abitative». Sulle mensole in cemento si appoggiano coppie di travi in legno lamellare, che in questo modo costituiscono un piano sospeso a mezz’aria. In questo modo i progettisti sono stati in grado di realizzare i grandi balconi sporgenti verso il pianoro, delle dimensioni in profondità di poco superiori ai tre metri, che svolgono un ruolo essenziale nel disegno compositivo dei due fronti longitudinali. In questo modo riescono ad annullare «la presenza della doppia falda di copertura, necessaria al rispetto di vincoli normativi locali», mentre «“liberano” l’interno del fabbricato dall’annoso problema del passaggio di colonne e scarichi». Perciò gli impianti e le canalizzazioni si sviluppano all’esterno del volume abitato, «seguendo percorsi dettati dal controsoffitto dei terrazzi», da cui proviene l’illuminazione discreta delle lunghe terrazze, «parte integrante del sistema architettonico, che definisce la consistenza tridimensionale della facciata senza mai interferire fisicamente con i parapetti o con gli spazi interni». Salendo ai piani abitativi emerge la volontà progettuale di «concentrare le energie progettuali ed economiche nella cura dei particolari e nella scelta accurata delle finiture». Così, affacciandosi verso il pianoro, ci appoggiamo ai parapetti in vetro, mentre i nostri passi si muovono sull’elegante e piacevole calore della pavimentazione in legno drenante bangkirai. La scelta dei parapetti in vetro deriva dalla necessità di compensare l’attenuarsi del flusso di luce negli ambienti interni a causa dei forti aggetti: la trasparenza del materiale aggiunge leggerezza visiva, in quanto, «libero da montanti o elementi strutturali in vista, non interferisce col ruolo protagonista dei fascioni che disegnano il prospetto». Questa idea viene completata dai divisori tra gli alloggi, costituiti da pannelli in vetro bianco latte, in parte ancorati ai setti retrostanti, e in parte zavorrati dal peso del terreno delle antistanti fioriere, realizzate in multistrato marino grigio. L’elemento di sostegno dunque svolge il ruolo di assicurare la privacy, ma è pensato per non competere «col disegno dominante del prospetto: la leggerezza di segno che ne deriva si inserisce così nelle facciate con discrezione ed eleganza». Un’attenzione analoga viene dedicata al ruolo degli infissi aperti sugli ampi balconi, che «non devono confrontarsi con l’organizzazione degli spazi interni. La scelta di assegnare loro lo stesso colore della superficie su cui sono ancorati ha chiari intenti mimetici». All’interno degli alloggi i materiali utilizzati sono il rovere in listelli posati a filari di spine di pesce negli spazi living, cui si abbina il disegno degli arredi, improntato ad una sobria e lineare essenzialità, e il biancone veneto altrove, come si vede nel cambio di pavimentazione all’interno del bagno, in cui non ci si ritrae dal studiare un disegno più dinamico per la parete del box doccia, termine a questo punto evidentemente limitativo.


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> Crediti Edificio residenziale in via Magellano a Cesena di progettazione: • Studio Tissellistudioarchitetti di progettazione: • Gruppo Filippo Tisselli, architetto 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

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Cinzia Mondello, architetto Filippo Tombaccini, architetto Collaboratori: Flavia Benigni, architetto Elena Fantoni, architetto impresa esecutrice: Sol.Do. srl Committente: Residence Cristallo snc di Perazzini Doriano & c. Direzione lavori: Filippo Tisselli, architetto Cinzia Mondello, architetto Strutture: Marcello Bezzi, ingegnere Cronologia: Progetto 2006 Realizzazione 2007-2009 Dati Dimensionali: 3.331 mq lotto 2.257 mq realizzazione primo stralcio (Sul) Fotografie: Cinzia Mondello, architetto

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STORIA E TERRITORIO

Sopra: Ponte Vecchio sul Savio. Alla destra del fiume, sotto il colle Garampo, è ipotizzabile si formi il primo insediamento abitativo di Cesena. Sotto: La Barriera, sorge al posto della porta cervese dove la via del Sale usciva dalla città e attraversava l’agro centuriato in direzione di Cervia. Dopo tre anni dall’Unità d’Italia furono costruiti due piccoli padiglioni speculari di fattura neoclassica con fregi dorici. A destra: Messico, Giappone e Perù... sorvegliati dall’alto dalla Rocchetta con la Loggetta Veneziana su disegno di Matteo Nuti e da Palazzo Albornoz, attuale sede del Municipio, da destra a sinistra.


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Cesena sorta nel reticolo della centuriazione romana

Le antiche origini della città sviluppata fra i colli, le sponde del Savio e il decumano della via Emilia Testi e foto di Pietro Barberini Un triangolo verde, una pianura fitta di querce, pioppi e ontani, compresa fra il mare a levante, il degradare delle colline a sud e il serpeggiante nastro argenteo del fiume Savio. Un grosso triangolo isoscele rovesciato con la base formata dal mare e su un lato la via Emilia tracciata a partire dal 189 a.C., a congiungere Rimini con Cesena. Una strada militare che portava verso le Gallie seguendo il pedemonte appenninico, dove una volta correva una pista battuta dalle tribù celtiche, fino a Piacenza. Il territorio era già stato oggetto di un’ importante operazione di trasformazione, regimazione delle acque e appoderamento. Un’imponente opera nota come “centuriazione romana”. Si trattava di un sistema drenante che suddivideva il terreno in tante “quadre” di circa 700 metri di lato per una superficie di meno di 50 ettari. La centuriazione cesenate è stata impostata fra il 235 e 220 a.C. e orientata “ad caelum”, cioè da oriente ad occidente i decumani e da nord a sud i cardi. La via Emilia diventa decumanus maximus dopo il 187 a.C. quando le

«E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte...» Inferno, Canto XXVII vv. 52-53

terre cesenati sono già state assegnate ai soldati romani che hanno combattuto per la Repubblica e ormai trasformati in coloni, in quella campagna che ancor oggi ricalca il reticolo originario, con incroci ad angolo retto ogni settecento metri. Il terreno è stato spianato e i campi si stendono ai piedi dei colli Spaziano e Garampo che sembrano sorvegliare dall’alto un disegno ormai consegnato alla geografia romagnola. Sul fianco occidentale del Colle Garampo, il Savio scende a lambirne il pendio e allarga la sua conoide verso la pianura. Qui sorge Cesena, in latino “Curva Caesena o Caesenna”. Il villaggio nasce fra il VI-V secolo a.C. abitato da popolazioni umbre che trovano nel luogo ampia disponibilità di acqua: non c’è solo il Savio ma anche

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STORIA E TERRITORIO

Sopra: la magnifica antica sala di lettura della Biblioteca Malatestiana edificata a metà del 1400. Sotto: l’elegante chiostro di San Francesco ultimato alla fine del Quattrocento, omaggio alla raffinatezza di Malatesta Novello. A destra: la Fontana Masini in Piazza del Popolo, realizzata in pietra d’Istria con decorazioni tardo cinquecentesche.


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il torrente Cesuola, le cui tracce sono ancora presenti nel tessuto urbano cittadino e il cui nome suggerisce l’origine del toponimo. Dopo la conquista di Rimini, Ariminum, nel 268 a.C., Cesena diventa insediamento romano. Quando sarà tracciata la grande strada consolare, il luogo, già privilegiato e fortificato dalla natura stessa, diviene presidio strategico a guardia della vallata del Savio, che acquisisce crescente importanza nei transiti e commerci con l’Italia centrale e, dalla metà del I sec. d.C., verso il grande porto di Augusto a Ravenna. Cesena viene ricordata da Plinio il Vecchio per la produzione di vino e non è escluso che le anfore vinarie imbarcate al vicino porto di Classe, provenissero dalle colline fra il Savio e il Rubicone. Sotto il colle Garampo si sviluppa un centro abitato che cresce d’importanza, un territorio collegato a Ravenna anche dopo la fine dell’Impero Romano. Alla città bizantina, Cesena resterà unita fin verso la fine dell’VIII secolo quando cadrà l’Esarcato e anche dopo, con i poteri dell’Arcivescovo di Ravenna, le sorti di Cesena non ne saranno disgiunte. Dopo le invasioni di Longobardi e Franchi, Cesena è il primo territorio appenninico in mano all’Archiepiscopus di Ravenna, che consolida una sorta di testa di ponte verso l’Italia centrale.

Dall’anno Mille al Trecento, Cesena passa attraverso le esperienze comunali e le varie lotte e guerre locali, che intervallano il passare del tempo, con effetti quasi sempre negativi nei confronti di un’economia estremamente povera, poiché i mercati sono locali e le vie di traffico, ormai abbandonate, sono precarie e controllate da Signori rozzi e violenti, che esercitano duramente i diritti di passaggio. «E quella cu' il Savio bagna il fianco, così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte tra tirannia si vive e stato franco.» Inferno, Canto XXVII vv. 52-54 Dante Alighieri è cronista straordinario dell’inizio del XIV secolo, quando Cesena sembra poter uscire da un tribolato periodo di lotte e scaramucce che ne impediscono l’affermazione anche sul piano politico. Sul finire del Quattrocento inizia però a sentirsi un’impronta rinascimentale grazie alla famiglia Malatesta che ne vive e indirizza lo sviluppo. Nel 1500 Cesare Borgia, il “Valentino”, la incorona come capitale del Ducato di Romagna. Un paio di anni dopo arriva in città Leonardo da Vinci, impegnato nella progettazione del porto canale di Cesenatico, ma non disdegna di occuparsi della cinta muraria di Cesena, disegnandone alcuni particolari

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STORIA E TERRITORIO Nel Cinquecento, sempre grazie ai Malatesta, visse un periodo d’oro anche l’Abbazia benedettina di Santa Maria del Monte, costruita sul colle Spaziano (135 metri) di fronte all’Adriatico, oggetto di successivi restauri a seguito di diversi eventi rovinosi tra cui un devastante terremoto nel 1768 e i bombardamenti della seconda guerra mondiale. L’interno a una navata, presenta quattro cappelle per lato e vanta una ricca e importante collezione di ex voto che rappresentano i miracoli con i quali la Vergine del Monte proteggeva Cesena e i cesenati. La statua della Madonna che proveniva dalla piccola chiesa di Montereale, è stata portata presso l’Abbazia nel 1318.

e la parte che si estende verso il mare. Con i Malatesta Cesena ha già acquistato una dimensione “rinascimentale” alla quale ha contribuito in maniera determinante la Fondazione della Biblioteca Malatestiana, gioiello architettonico e contenitore culturale e bibliografico d’ incommensurabile valore. La Biblioteca viene costruita tra il 1452 e il 1454, a fianco dei chiostri francescani, da Matteo Nuti, architetto fanese, che aveva affiancato il grande Leon Battista Alberti nell’opera del Tempio malatestiano di Rimini. Nasce così, grazie a Novello Malatesta la prima biblioteca civica d’Italia, cioè di proprietà dell’Amministrazione Comunale, la cui custodia fu affidata ai frati francescani. È stata inserita, inoltre, dall’Unesco, nel Registro della Memoria del Mondo. La grande sala di forma basilicale contiene 58 banchi suddivisi nelle due navate laterali, quella centrale funge da corridoio. Il soffitto, come era in uso nel tempo per ambienti dedicati alla lettura, sono dipinti di una rilassante e particolare tonalità di verde. Di fronte all’attuale ingresso della Biblioteca Malatestiana, si trova il Palazzo del Podestà, meglio conosciuto come Palazzo del Capitano completato nella seconda metà del Quattrocento. Con la sua torre è testimone dell’età comunale e delle funzioni civiche, assolte fino agli inizi del Settecento quando il Gran Consiglio fu trasferito nell’attuale sede comunale in Piazza del Popolo, Palazzo Albornoz.

Al culmine del periodo caldo, nel giorno di Ferragosto, si tiene la festa più amata e sentita: la celebrazione dell’Assunta con grande partecipazione di fedeli e l’arrivo di numerosi pellegrini. Siamo a metà dell’estate che è iniziata con le grandi celebrazioni del 24 giugno, in occasione della festa patronale: la fiera di San Giovanni, antichissima ricorrenza liturgica ma anche civile, con un grande mercato che dai tempi antichi continua anche oggi. Attraverso il tempo la visione della Madonna del Monte accoglie chi entra in città da Rimini o saluta chi viaggia verso sud, come i passeggeri di un famoso treno che da Parigi portava a Brindisi e oltre. Il convoglio era da poco ripartito al traino di una sbuffante ma poderosa locomotiva che aveva sostato più a lungo del necessario, perché i macchinisti a Cesena scendevano ad ungere le bielle che muovevano le ruote: il ristoratore Casali, che aveva “inventato” il cestino da viaggio, doveva pur fare assaggiare ai viaggiatori le prelibatezze della cucina cesenate, così dava una lauta mancia ai macchinisti che si attardavano a “ungere le ruote”!

Sopra: la Madonna del Monte protegge Cesena dall’alto. Sotto: dal 1846 il Teatro Bonci di squisita fattura neoclassica diventa centro e simbolo della vita cittadina.


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Un manifesto

per l’arianesimo Il regno di Teodorico e la “diversa” natura di Cristo nei mosaici degli edifici sacri ravennati di Cetty Muscolino All’interno della cinta muraria, affianco alle architetture sacre adibite al culto ortodosso, Teodorico fece costruire altri edifici dedicati al culto ariano in un clima di tolleranza e pacifica convivenza fra le due diverse dottrine che durò fino al 518, quando l’imperatore Giustino si riconciliò con la religione ortodossa romana. Da quel momento si manifestarono i conflitti verso i barbari e cessò quel rapporto benevolo che aveva caratterizzato il regno del re goto. L’arianesimo, eresia che ebbe grande seguito presso i popoli barbari e che prende il nome da Ario, prete di Alessandria, non riconosce l’uguaglianza fra il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, ma stabilisce nella Trinità una sorta di scala gerarchica. I maggiori rappresentanti di tale dottrina sono Ulfila (311-383), Eunomio, e Massimino (360-65 circa), forse goto e vescovo di una comunità ariana dell’Illirico. La basilica di Sant’Apollinare Nuovo, innalzata da Teodorico a fundamentis in nomine Domini nostri Yhesu Christi, come Cappella Palatina affianco al suo palazzo, è la testimonianza artistica più importante e

In alto da sinistra, nell’ordine: la facciata di Sant’Apollinare Nuovo; Sant’Apollinare Nuovo, mosaici della parete settentrionale Sant’Apollinare Nuovo, mosaici della parete settentrionale, particolare. Sotto, da sinistra, nell’ordine: Sant’Apollinare Nuovo, mosaico della parete settentrionale, particolare La liberazione dell’ossesso di Gerasa, Sant’Apollinare Nuovo, mosaico della parete settentrionale, particolare della La liberazione dell’ossesso di Gerasa, i porci in fuga. Ultime tre immagini in basso a destra: Sant’Apollinare Nuovo, mosaico La separazione della pecore dai capri; particolari: l’angelo rosso, le pecore , i capri

prestigiosa della fede ariana, manifesto superbo, unico al mondo e non ancora del tutto compreso, di questa dottrina religiosa che considerava Cristo solo nella sua natura umana. Si tratta di un luogo assolutamente cruciale, di incontro/scontro fra le due diverse dottrine, del principale osservatorio delle stagioni artistiche più significative dell’arte musiva a Ravenna (teodericiana e bizantina) ed è altresì l’unico monumento in cui è rappresentata la reggia teodoriciana e la città di Ravenna, a fronte della Civitas Classis con il porto, strategico dai tempi di Augusto. Con la riconquista bizantina e il rescritto di Giustiniano del 561, che assegnava gli edifici sacri ariani alla chiesa cattolica, fece seguito la rapida damnatio memoriae dell’eretico Teodorico e la censura agnelliana alacremente demolì e cancellò tutte le tracce compromettenti legate alla sua memoria e stabilì la nuova e più consona titolazione della basilica a San Martino, famigerato malleus hereticorum. La riconciliazione al culto ortodosso comportò infatti la rimozione dalla decorazione musiva di tutti gli elementi palesemente legati all’ eresia ariana e alla corte teodericiana e l’inserimento delle due teorie di Martiri e Vergini, contemplati dalla fede cattolica, capeggiate da due campioni e strenui difensori, dell’ortodossia: quella dei Martiri da San Martino di Tours e quella delle Vergini da Sant’ Eufemia, sostenitrice della duplice natura, umana e divina, di Cristo. E’ legittimo pensare che nelle due processioni originarie si trovassero i maggiori rappresentanti della corte che avanzavano verso le figure rigide e auliche della Madonna e di Cristo in trono. A Teodorico piaceva molto quest’arte permeata da un forte spirito ieratico che gli ricordava quanto aveva osservato durante la sua adolescenza trascorsa alla corte di Bisanzio. Il ciclo cristologico e la sottostante teoria di Santi biancovestiti, vennero interamente risparmiati dalla campagna di epurazione, perché non troppo esplicitamente riconducibili all’arianesimo. Bisogna comunque abbandonare l’idea che la religione ariana non abbia influenzato la scelta dei temi e la loro disposizione, infatti, come è stato dimostrato in studi estremamente puntuali1, esiste una precisa relazione fra alcune omelie e dialoghi tenuti da vescovi ariani e i mosaici teodericiani di Ravenna, dato l’inscindibile rapporto fra arte sacra e testi religiosi. Uno dei principali sostenitori della dottrina ariana fu il vescovo Massimino, protagonista di una famosa disputa sulla Trinità con Sant’Ago-


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stino a Ippona , quando nel 427 accompagnò in Africa una spedizione militare gota, voluta dalla corte di Ravenna a cui era molto legato. Nella Collatio Augustini cum Maximino arianorum episcopo si evincono dati fondamentali sul credo ariano e sull’importanza degli insegnamenti di Ulfila. Da questa dissertazione scaturiscono i punti che separano fede ariana e fede cattolica: assoluta unicità e trascendenza di Dio Padre, in quanto principio di tutto ciò che esiste. Cristo è una creatura, anche se superiore a tutti gli altri uomini, è il sacerdote che adora il suo Dio, direttamente creato da Dio come primogenito e unigenito. La funzione dello Spirito Santo è quella di manifestare nelle anime degli uomini la dignità di Cristo: si delinea così una sorta di scala gerarchica nella Trinità, e viene sempre ribadito che Dio è invisibile e non si è mai abbassato al contatto umano. Le 26 scene del ciclo cristologico sono espressamente citate negli scritti di Massimino e in tutte si vuole sottolineare che Cristo è il mezzo attraverso cui si trasmette la potenza di Dio, ma che tutti i miracoli sono da riferirsi al Padre. I personaggi del secondo registro, maestose figure nimbate realizzate da maestranze di grande perizia, esperte nella tradizione classica della statuaria monumentale e nella ritrattistica, generalmente vengono definite apostoli o profeti ma, considerato che l’intero ciclo musivo è ispirato alla dottrina ariana, è più logico ritenere che essi rappresentino i martiri ariani, premiati con la corona appesa sotto il grandioso baldacchino-umbracolo posto alternativamente alle scene cristologiche nel registro soprastante. Fanno eccezione i quattro personaggi raffigurati fra due martiri negli angoli della basilica che potrebbero rappresentare i quattro personaggi allora più significativi per l’arianesimo: Ario, presbitero di Alessandria, il vescovo goto Ulfila, il vescovo Eusebio di Nicomedia e Origene il più eminente teologo di quei tempi. Grande è la forza ipnotica di queste figure accuratamente caratterizzate nelle fisionomie che propongono una selezione di tipi umani, evidentemente codificata, che va dal giovane imberbe all’uomo maturo barbato, fino all’ anziano con barba e capelli candidi. Le scene cristologiche sono il più antico esempio di un ciclo di episodi evangelici realizzati sulle pareti di una chiesa: si tratta di una rappre-

sentazione potente e vigorosa e di grande impatto didattico, perché efficacemente sintetica e focalizzata sugli elementi essenziali, grazie all’espressionismo elementare dei gesti e dei movimenti. L’uomo-tipo è protagonista, paesaggi e architetture sono complementari e ogni connotazione paesaggistica è relegata in secondo piano; i soggetti narrati sono semplificati e resi secondo moduli geometrizzati. Il fondo aureo sottolinea l’atemporalità, la rinuncia a dimensioni spaziali e a rappresentazioni prospettiche. Nell’osservazione dell’intero apparato decorativo emergono eterogeneità fra i mosaici realizzati nella fase teodericiana e quelli pertinenti alla successiva agnelliana, ma è stata riscontrata una notevole diversità, materica anche nell’ambito delle decorazioni musive originarie: i mosaici della parete Sud sono quasi esclusivamente in pasta vitrea, mentre quelli della parete Nord in materiali misti. La diversa distribuzione dei materiali potrebbe essere stata determinata da motivi contingenti quali la minore disponibilità di smalti e la necessità di sopperire alle carenze con materiale lapideo, ma è anche possibile che dipenda dalla presenza di due squadre di mosaicisti attivi in contemporanea su entrambi i lati; oppure a come la luce esterna potesse interagire con le decorazioni in determinate ore della giornata o periodi dell’anno: i mosaici in pasta vitrea sono sulla parete meno colpita dalla luce e quindi l’impiego di materiale maggiormente riflettente poteva compensare la situazione sfavorevole. Riguardo invece al diverso modo di costruire il tessuto musivo i registri teodericiani sono realizzati con tessiture serrate e compatte, con tessere dal taglio eterogeneo (eccezion fatta per le parti in oro e in argento, di taglio molto regolare e dimensione modesta) mentre quelli agnelliani con tessiture diradate e tessere di taglio più omogeneo e dimensioni maggiori . Anche il Battistero degli Ariani, evidente esemplificazione di quello Neoniano a cui si ispira dal punto di vista formale e iconografico, mostra il profondo mutamento stilistico, sintomatico di un ampio processo di rinnovamento che interessa tutte le manifestazioni artistiche: dal naturalismo dei gazebo vegetali, dallo stormire delle fronde arboree, dal cielo azzurro del Battistero Neoniano si passa al fondo oro, eliminando ogni implicazione spaziale della precedente concezione, e superando il

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A destra: Sant’Apollinare Nuovo, mosaici parete settentrionale, particolare Martiri ariani. In alto, da sinistra: Sant’Apollinare Nuovo, mosaici parete settentrionale, particolari Martiri ariani. Sant’Apollinare Nuovo, mosaico parete meridionale, particolare Martire ariano. Sant’Apollinare Nuovo, mosaico parete meridionale, particolari Palatium di Teodorico. Battistero degli Ariani, la cupola a mosaico. Sotto, da sinistra: Battistero degli Ariani, mosaico, particolare La processione degli Apostoli. Battistero degli Ariani, mosaico, particolare di un Apostolo. Battistero degli Ariani, mosaico, particolare Il trono Battistero degli Ariani, particolari degli affreschi dell’intradosso delle finestre che imitano marmi pregiati come il cipollino rosso, l’alabastro e il marmo di Proconneso.

ritmico senso di movimento e la colloquialità degli Apostoli in processione, che ora risultano più rigidi e convenzionali. Il programma iconografico del Battistero Ariano ribadisce la diversa concezione di fede e i «peculiari principi della religione ariana, quali la fisicità e l’umanità di Cristo, subordinato al Padre, unico Dio […] Mentre nel Battistero della Cattedrale Cattolica dodici Apostoli con le corone sulle mani velate acclamano il Cristo del clipeo centrale, proclamato nel battesimo figlio di Dio e perciò riconosciuto come seconda persona della Trinità, nel Battistero degli Ariani gli Apostoli rendono omaggio al grande trono gemmato [...] espressione della fisicità di Cristo e della sua sofferenza sulla croce in quanto creatura umana, in coerenza con la religione ariana, e in antitesi al dogma ortodosso che ribadisce la natura umana e divina del Cristo»2 Per quanto riguarda il rivestimento musivo della volta della cupola che consiste in un medaglione centrale con la scena del battesimo di Cristo circondato dalla fascia con i dodici Apostoli che rendono omaggio ad un trono vuoto sovrastato da una croce gemmata da cui pende un panno purpureo, è ancora motivo di dubbio da parte degli studiosi l’esatta datazione dell’opera e la pertinenza al medesimo periodo. Pur risultando evidente l’eterogeneità delle mani che hanno eseguito la composizione, imputabile da alcuni a diversi artisti da altri a momenti successivi, tutti concordano sulla «datazione teodericiana del disco mediano con la scena del battesimo».3. Ed è proprio in questa scena che, in modo velato, appare l’eresia ariana. Mentre infatti nel battistero cattolico è Giovanni che amministra il battesimo a Cristo, qui «il Battista si limita a porre la mano sul capo del Salvatore mentre dal becco della colomba, che raffigura lo Spirito


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Santo, esce secondo alcuni l’acqua che asperge il Cristo, mentre secondo altri la luce che testimonia la compiacenza di Dio».4 Quindi in questa scena è lo Spirito Santo che annuncia agli uomini la grandezza del Figlio di Dio, manifestando con evidenza la concezione ariana della Trinità. Marmi o affreschi? Dal punto di vista degli apparati decorativi originari si segnalano le importanti testimonianze superstiti degli affreschi delle arcate delle finestre che riproducono marmi pregiati analogamente a quelli del Battistero Neoniano, purtroppo molto abrasi e rimaneggiati nel tempo. Gli affreschi, dopo un delicato intervento di restauro 5 mostrano ora l’eccezionale qualità materica e la magistrale imitazione del marmo cipollino rosso (marmor carium), dell’onice egiziano (lapis onyx),e del marmo del Proconneso (marmor proconnesium). Probabilmente il ricorrere a finiture pittoriche era determinato più che da ragioni economiche dalla

difficoltà tecnica di adattare lastre marmoree a determinate parti architettoniche. La verosimiglianza della finzione pittorica con gli originali marmorei è tale da ingannare l’osservatore che li fruisce da una certa distanza e denota la sensibilità cromatica e la perizia tecnica degli esecutori: si osservino ad esempio i segmenti che imitano il marmo del Proconneso, tagliato non seguendo la venatura marmorea, per conseguire quel particolare effetto che si può vedere nelle colonne di Sant’Apollinare in Classe. Tutte le immagini sono tratte da: Restauri dei monumenti paleocristiani e bizantini di Ravenna Patrimonio dell’Umanità, a cura di A. Ranaldi, P. Novara, Ravenna, 2013 Sant’Apollinare Nuovo un cantiere esemplare, a cura di C. Muscolino, Ravenna, 2012

Cenni bibliografici:

Note:

C. Muscolino, Metodologia della conservazione nei cantieri della Scuola per il Restauro del M saico di Ravenna: Piazza Ferrari, Rimini; Mosaici pavimentali dal Palazzo di Teodorico e dalla chiesa di San Michele in Africisco a Ravenna; Mosaici parietali della chiesa di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, in Actas do Encontro Internacional sobre ciencia e novas tecnologias aplicadas a arquelogia na Villa Romana do Rabacal Penela Terras de Sicò Portugal, pp. 218-233 2011

1

Sant’Apollinare Nuovo. Un cantiere esemplare, a cura di Cetty Muscolino, Federica Cavani, Emanuela Grimaldi E. Penni Iacco, L’arianesimo dei mosaici di Ravenna, Ravenna, 2011.

E. Penni Iacco, L’arianesimo dei mosaici di Ravenna, Ravenna, 2011. C. Rizzardi, Ravenna Otto Monumenti Patrimonio dell’Umanità, p.38, 3 P. Iacco, pag.66-67. 4 P. Iacco. 5 Gli affreschi erano in procinto di cadere perché gravemente distaccati a causa delle frequenti infiltrazioni di acque meteoriche dagli infissi sconnessi. L’intervento di consolidamento e pulitura è stato eseguito nel 2005 dalla Società Etra S.n.C. di Michele Pagani e Maria Lucia Rocchi. 2

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Forme e colori del potere I principali edifici del culto ariano e le decorazioni musive

di Federica Cavani Teoderico aveva capito che una città ben progettata e pianificata avrebbe contribuito a rendere più stabile il suo potere e, durante gran parte del suo regno, si adoperò a tal fine, facendo coesistere di fatto “in armonica unità” due realtà per molti aspetti contrapposte: da una parte la Ravenna latina con le sue eredità di un passato non troppo lontano in cui era stata sede imperiale e dall’altra la Ravenna nuova, da costruire a misura, per il suo popolo e per le esigenze legate alla sua fede religiosa. Durante il regno di Teoderico gli “edifici religiosi goti” si concentrarono a breve distanza gli uni dagli altri, creando una situazione inconsueta determinata anche dal fatto che si produsse una doppia serie di luoghi di culto per le due comunità religiose, quella ariana e quella ortodossa. Durante il periodo teodericiano alcuni edifici furono costruiti ex novo, facendo arrivare da Roma (Cassiodoro ci dice che dalla domus Pinciana di Roma arrivarono i marmi che Teoderico impiegò nel suo Palazzo) e non solo materiale architettonico: lungo la Platea Maior si realizzarono il complesso episcopale ariano e la basilica di Sant’Apollinare Nuovo, nuovi spazi nei quali professare la dottrina ariana. Teoderico, probabilmente già dal 493, fece iniziare le costruzioni della cattedrale e del battistero degli ariani. Si venne così a creare un complesso religioso, speculare a quello ortodosso realizzato a ridosso della basilica Ursiana, costituito dalla chiesa e dal battistero, da una domus episcopale con balneum e una cappella privata dedicata a Sant’Apollinare. Entrambi gli episcopi costituiranno due punti focali nell’abitato di epoca teodericiana. Della cattedrale ariana rimane sconosciuta l’orinaria intitolazione, forse dedicata a santa Anastasia, oppure alla Sancta Anastasis o Anastasis Gothorum da contrapporre all’Hagia Anastasis della cattedrale ortodossa. Agnello descrive, nel Liber Pontificalis, come appartenenti a questo complesso, una domus Drogdonis, un balneum e altri edifici annessi, posti a sud-est della cattedrale: scavi condotti da don Mario Mazzotti tra 1953 e il 1955 hanno riportato alla luce tra via di Roma e via Diaz alcune strutture interpretate come appartenenti all’episcopio ariano. Nella Regio Caesarum, nei pressi del palazzo imperiale, il sovrano fece invece costruire la chiesa palatina dedicata a Nostro Signore Gesù Cristo, titolo cambiato nel VI secolo in San Martino in Ciel d’Oro e, perlomeno a partire dal X secolo, in Sant’Apollinare Nuovo. Nell’area dell’attuale Rocca Brancaleone i documenti attestano l’esistenza di un’ecclesia Gothorum, denominata in una fase tarda anche chiesa di Sant’Andrea dei Goti (quest’ultima denominazione forse “presa in prestito” da una chiesa sorta poco distante). Edificata nel VVI secolo da Teoderico, attualmente della struttura non rimane più nulla. Da tale chiesa provengono i capitelli compositi con foglie d’acanto mosse dal vento del tipo a farfalla e monogramma del sovrano in parte conservati a Ravenna presso il Museo Nazionale e a Faenza nella pieve di San Giovanni Battista a Cesato e in parte reimpiegati a Ravenna nel Palazzetto Veneziano di Piazza del Popolo. Costruita probabilmente con pietre e marmi delle mura dell’oppidum romano e del tempio di Giove, fu nel XV secolo demolita per ottenere materiale da impiegare nella Rocca Brancaleone, nonostante lo statuto ravennate del XIII secolo disponesse con una norma ben precisa la salvaguardia di antichi edifici. Una ecclesia legis gothorum S. Anastasiae è attestata a metà del VI se-

colo; qui, secondo le fonti, si trovava uno scriptorium, dove operava Viliaric, noto amanuense, libraio ed editore goto, vissuto durante il regno di Teoderico. Anche dell’Anastasis Gothorum resta ignoto il luogo di collocazione, mentre probabile potrebbe essere ancora una volta il rimando a Costantinopoli dove nel 468 circa fu edificata una chiesa a memoria della martire Sant’Anastasia di Sirmium grazie ai donativi di due comandanti goti, Aspar e Ardaburio, e dove si leggeva, nei giorni di festa, la Bibbia in lingua gota. Agnello ci informa dell’esistenza di un’altra domus episcopale oltre a quella adiacente il battistero ariano; si trovava vicino alla chiesa di Sant’Eusebio, anch’essa fatta costruire nel 516. L’intitolazione a sant’Eusebio fu data, secondo quanto riportato, nel Liber Pontificalis di Andrea Agnello, in seguito alla riconciliazione della Chiesa ariana al culto ortodosso. Una terza domus episcopale si trovava nei pressi di San Giorgio ad Tabulam chiesa costruita in età gota, probabilmente nelle vicinanze del Mausoleo di Teoderico. In genere queste chiese si conoscono con l’agionimo ricevuto al momento della riconciliazione ortodossa. Di difficile collocazione risultano anche le chiese di San Sergio in Viridario e di San Zenone, questa ultima ubicata da alcuni studiosi nel quartiere di Cesarea e per altri a ovest del circuito murario, presso la porta S. Zenonis. A poca distanza dal Campo Coriandro e dal Mausoleo di Teoderico si trovava la chiesa di San Giorgio fatta edificare da Teoderico, riconciliata al culto ortodosso con tale denominazione e sopravvissuta fino al XIV secolo. La “tolleranza” di Teoderico verso le fedi diverse da quella ariana è testimoniata anche dalla presenza nel 519 di un tempio ebraico ricordato successivamente da Andrea Agnello. L’attività edilizia proseguì anche dopo la morte di Teoderico come testimoniato dalla costruzione del monasterium di San Pietro in Orphanotrophio, voluto dalla figlia Amalasunta, e ricordato nel Liber Pontificalis, nella vita del vescovo Ursicino. Dell’attività di Atalarico (526-534), figlio di Amalasunta e Eutarico, succeduto a Teoderico, ben poco si sa. Probabilmente anche a causa del suo breve periodo di regno, Teodato (534-536) non si occupò, se non marginalmente, di Ravenna. Sul cadere del periodo goto, sotto il vescovato di Ecclesio (521532), sono testimoniate la costruzione della chiesa di culto ortodosso di Santa Maria Maggiore e la committenza della vicina chiesa di San Vitale, che sarà proseguita dal vescovo Vittore e dedicata solo dopo l’occupazione bizantina. La città teodericiana si configurava quindi come un insieme ben organizzato e funzionale dove grandi costruzioni pubbliche volute dal sovrano si alternavano a edifici religiosi, ariani e ortodossi, a residenze aristocratiche ed ecclesiastiche, a edifici più semplici realizzati in materiali poveri, a costruzioni antiche ormai in rovina, a aree cimiteriali e a campi coltivati e incolti.

Articoli a firma di Cetty Muscolino e Federica Cavani sulle antiche testimonianze della Ravenna teodoriciana, e relative immagini, sono pubblicati su Casa Premium n. 108 (settembre 2016)


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Eppur si

muore

Yves Bonnefoy e i sepolcri di Ravenna

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Yves Bonnefoy, © 2008 Derek Hudson.


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di Alberto Giorgio Cassani

Ravenna, città di tombe Il lutto si addice a Elettra, i sepolcri a Ravenna (ma Foscolo lo sapeva?). «Tante sono le filosofie che hanno voluto rendere conto della morte, ma credo che nessuna mai abbia considerato i sepolcri. Lo spirito che s’interroga sull’essere, ma ben di rado sulla pietra, si è distolto da queste pietre, così due volte abbandonate all’oblìo». Così scriveva Yves Bonnefoy, poeta e saggista, vincitore del premio Goncourt per la poesia, scomparso il 1° luglio di quest’anno, alla bell’età di novantatré anni, in Les Tombeaux de Ravenne,1 divenuto in seguito uno dei capitoli de L’Improbable, testo uscito in Francia nel 1959.2 Ravenna, invece, i sepolcri li considera eccome, e, in questo, la nostra città sta alla pari con la grande civiltà dei morti, l’Egitto (qualche anno fa si tenne una mostra dal titolo Kemet, che forse all’epoca rese alcuni dubbiosi, ma che in quest’ottica non appare affatto peregrina3): «Vi è […] un principio del seppellire, che dall’Egitto a Ravenna, e fino a noi, governa gli uomini con una certa costanza». Il grande difetto della nostra civiltà è il «rifiuto profondo della morte» (e della rovina, come ha scritto in un libro la mia amica Virginia Cardi4). Per Bonnefoy, questo è un sintomo «evidente […] d’una fuga»: «Poiché – lo si voglia o no – in questo mondo si muore, e per negare il destino l’uomo ha costruito» una «dimora fatta di parole, ma eterna», nel tentativo di placare «l’inquietudine originaria», cercando di «mascherare la morte».5 Quanti lettori ho perso finora? Sì, ammetto che l’argomento non è dei più allegri, ma cosa si può fare se Ravenna suscita sempre “luttuose riflessioni”? Resisterò dunque al pericolo di ridurre ai celebri «venticinque lettori» il mio “leggitorio” e proseguirò su questa impervia via. Perché meravigliosa mi pare l’affermazione successiva di Bonnefoy: che «i sepolcri sono già l’inizio di un dimenticare». «Tanto più che un velo sembra disteso su quasi tutte le sepolture», velo che «addolcisce e denatura la prossimità della morte». «A Ravenna ci è dato di toccarlo – questo velo – sulle morti più pure che mai abbia ricoperto il tempo». Ravenna, per Bonnefoy, ha questo potere catartico. Chi avrebbe mai immaginato siffatte virtù terapeutiche?

Grabmal/Denkmal. Le chiese-tombe ravennati «I monumenti di Ravenna sono tombe». Non ci lascia proprio scampo, Bonnefoy. Tutto “trasuda” morte e Ravenna è il perfetto sudario. Luogo definitivamente «separato dal mondo», Ravenna «ha custodito ogni possibile modo di racchiudere quel che più non è». Ravenna, un contenitore senza più conte-

Ravenna, Basilica di San Francesco; a sinistra: particolare del sarcofago a nicchie conchigliate detto del vescovo Liberio, seconda metà del sec. V. A destra: particolare del sarcofago a nicchie conchigliate conservato nella navata sinistra, metà del sec. V. Ravenna, Fondazione Biblioteca Classense, Fondo fotogr. Mazzotti, n. 2368 e 2369.

nuto, uno scrigno del nulla. Non solo, la città stessa va inesorabilmente verso la sua rovina: «Alte torri rotonde, distolte da ogni fine, accecate [per le finestre tamponate dai vecchi restauri], vi hanno un senso soltanto per una prossima rovina». Poi, il “silenzio”, immancabile ritornello: «Dappertutto, in un silenzio abbastanza profondo, i sarcofagi deserti espongono la loro duplice morte». Il piccolo capolavoro non è forse una tomba?: «Un mausoleo, la tomba supposta di Galla Placidia, riassume entro quattro mura la grave e triste perfezione di cui il desiderio mortale è capace». La grande illusione-speranza di rendere immortale – con la pietra e il mattone – la morte. Ma tutte le chiese non sono altro che venerabili sepolcri: «Perfino le chiese, quasi curve sotto il peso dei mosaici [è il primo, Bonnefoy, a quanto ne so, a cogliere questo “pesare” delle tessere], sembrano racchiudersi sulle spoglie di un culto». Quello dei morti. Infine, il colpo “mortale”: «Se vi è un luogo al mondo in cui la tomba dovrebbe esprimere pienamente l’orrore di quel ch’essa annuncia, sarà proprio Ravenna. Ravenna che è soltanto morte, sotto i segni spenti della sua regalità perduta». Ma come mai, allora, Ravenna gli suscita nient’«altro che letizia»? Perché Bonnefoy si “rallegra” di «quei sarcofagi»?

Paradossi ravennati. La “quiete” dell’ornamento Dunque, ci troviamo di fronte a un paradosso: Bonnefoy – che «per primo» avrebbe amato «incontrare sotto le vôlte, coperte da immobili visi, e nei chiostri, e sui sagrati, quella oscurità di un istante che è l’ansia della morte» – viene alle «tombe vuote» di Ravenna «come al più semplice riposo». Sì, perché Ravenna nasconde in serbo «ben altre virtù»: «Questa città detta dolce, detta malinconica, e anche detta abbandonata dal tempo, questa città semi-sepolta è gioiosa e veemente». Sarà una coincidenza, ma un’altra grande francese, Simone Weil, l’aveva notato. Bonnefoy lo ripete, per rendersene ben conto lui per primo: «Mi rallegravo dei sarcofagi di Ravenna». Il mistero è subito svelato: «Se questa città appare gioiosa, è che, reclina accanto alle tombe, vi si contempla e vi si compiace. Ravenna, un Narciso un po’ dark. Ma, giustamente, «il contemplarsi presuppone un’acqua, una materia cupa [l’acqua è simbolo funebre per eccellenza] e lucente, e andavo cercando quest’acqua in Ravenna». Bonnefoy la trova «nei pressi di San Vitale». Un’acqua assai strana: l’“ornamento”. Bonnefoy sa che «la nuda pietra» è «apportatrice d’angoscia», che «un blocco grossolano, disfatto, saccheggiato» non afferma forse altro che «il niente». Ciò che salva e «placa» i sarcofagi ravennati è il fatto di essere «ornati». Nell’ornamento – questo “prodigio” su cui anche Leon Battista Alberti si era interrogato6 – «o almeno nell’intrico di trecce e arabeschi, di rosette e fogliami delle tombe di Ravenna», c’è «una virtù che all’inizio non si riesce a spiegare», un «potere di acquietamento […] di vertigine, che richiama e trattiene lo sguardo nelle curvature o sulle sporgenze del marmo», che «vive d’una vita sottile creatasi intorno a lui, fatta di fremiti». L’ornamento, in cui «l’angoscia peggiore» «si quieta».

Ornamento vs astrazione. La scoperta della concretezza delle pietre Ravenna è tutto un ornamento. Ma bisogna intendersi sul significato del termine. Bonnefoy, all’inizio, pensa all’ornamento come a un “concetto”. L’ornamento, dunque, cercherebbe l’“universale”: «L’uccello formato nel

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marmo sta al modello come il concetto sta all’oggetto, un’astrazione che ne trattiene soltanto l’essenza, un eterno addio alla presenza che fu». Osserviamo «Daniele», «Lazzaro», «Giona» raffigurati nei fianchi dei sarcofagi: «È come se un vento avesse trascinato quei volti con sé», rendendoli puri concetti astratti, universali, null’altro «che segni nell’universo delle immagini». In ciò il concetto, e quindi l’ornamento, «tenta di fondare la verità senza la morte. Di fare insomma che la morte non sia più vera». Di mistificarla. Bonnefoy, in buona fede, crede che l’ornamento voglia «erigere la nostra dimora senza la morte», fare che la morte non sia «più qui». Una menzogna, dunque. Ma subito ammette di avere fatto «i conti senza la pietra». In quanto «dimora», come può, l’ornamento, essere «una cosa astratta», visto che la dimora è al «culmine di ogni realtà»? Bonnefoy sceglie un esempio, forse «il più bello», o almeno «il più greve di significato». È il motivo dei “due pavoni”, che «bevono in uno stesso calice o mordono alla stessa vite», rappresentazione della morte e dell’immortalità. Bonnefoy non ha mai incontrato «fonte più viva». Qui attingiamo insieme «la gloria del vivere e l’insegnamento del morire». «Tale è la pietra»: non ci si può «chinare» su di essa «senza riconoscerla insondabile». «Quel che è tracciato sulla pietra esiste», e gli ornamenti sono tracciati sulla pietra. «Se nel mondo ornato la forma si distoglie dalla vita fisica degli esseri, e s’invola verso un qualche cielo», ci pensa la pietra a trattenere «l’archètipo qui fra noi». «Se nulla è meno reale del concetto, niente lo è più di questo allearsi d’una forma e d’una pietra». Nulla è più reale «dell’Idea arrischiata».

Istruzioni per la vita. Ravenna come l’anti-Kierkegaard Ravenna è l’opposto del “concettuale”, di quel pensiero che non si distoglie solo dalla pesante pietra dei sarcofagi, ma «da tutto quel che ha un volto, da tutto quel che ha carne, pulsazione, immanenza, ed è dunque, per la sua segreta avarizia, il più insidioso, è vero, di tutti i pericoli». Ravenna è il contrario di Søren Kierkegaard: «Se mai un cuore fu privo dei beni terrestri, e separato dall’oggetto sensibile per un deviare infinito, è proprio quello ansiosissimo di Kierkegaard». Kierkegaard, prototipo dell’uomo concettuale, in cui vi è «un abbandono, un’apostasia senza fine di ciò che è». Kierkegaard, l’uomo privato delle gioie del reale: «Gioie simili a quelle che sentiamo a Ravenna, per virtù delle tombe». Il cerchio si chiude: dall’apparente tristezza e dolore del primo incontro con la “mortifera” città, alle inaspettate gioie del «difficile reale». Che resta difficile, appunto, non ci illudiamo, ma che è l’unica realtà da cui possiamo sperare di ottenere, oltre il dolore, la gioia. E Ravenna, per Bonnefoy, è la «luce che vale in sé e di per sé. Nulla, in Ravenna, che offuschi la purezza di quel gran bagliore, senza di cui ho appreso che non è possibile vivere, nulla vi distrae il genio dei sepolcri dalla propria parte d’ini-

ziatore nel destino dello spirito». Ravenna, una buona “guida spirituale”. Non deve stupire, ci ammonisce Bonnefoy, l’importanza da lui attribuita ai «monumenti». Non è per «preoccupazione d’allegoria» o per «meditare su alcune rovine». Ogni città in cui si potrebbe vivere, quindi anche Ravenna, è «adatta a fondare l’universale», quanto e forse di più di qualunque «principio» universale. Bonnefoy è assolutamente convinto che «le vie e le pietre di Ravenna valgano la deduzione concettuale, e possano sostituirsi a lei». All’aleatorietà del concetto si contrappone – teste Ravenna – la «presenza irrefutabile» della pietra. Anche in “frammenti”.

Proibita e possibile. La concretezza dell’hic et nunc Nella “piazzetta” di Galla Placidia, dunque, si riesce ancora ad «ascoltare il silenzio dell’ultimo passo». Viaggiare può portare talvolta a questi fortunati “ritrovamenti”. Viaggiare e poetare. Così come il viaggio, anche «la poesia è questa ricerca». «Poesia e viaggio – Bonnefoy ne è certo – sono di una stessa sostanza, di uno stesso sangue». Come aveva capito Baudelaire, il più grande, forse, assieme a Leopardi, tra i poeti della modernità. Bonnefoy lo ripete con lui e, aggiunge, «di tutte le azioni possibili per l’uomo le sole utili forse, le sole che abbiano una mèta». Ma, lo sappiamo, viaggiare è anche “smarrirsi”. Perdersi nella meta. E, del resto, contrapporre «la realtà del sensibile» all’astrazione e alle presunte certezze del «concetto» non è forse «riconoscere la virtù dello smarrirsi»? Il “fare spazio” alla sorpresa dell’inaspettato che solo il reale porta con sé? A Ravenna, Bonnefoy scopre «l’affiorare di un altro regno». Ravenna, come qualunque altra città, è quel «mondo sensibile che è lontano da noi come una città proibita», ma che è anche «in ciascuno di noi come una città possibile». Non è tanto o solo Ravenna, non illudiamoci troppo. «Città troppo pura», infatti, è quella che sogna Bonnefoy, una città immaginata che «appartiene all’etica», che è «attraversata dai raggi del suo sole declinante». In questa ricerca, Bonnefoy scopre uno dei segreti (indicibili?) dell’architettura, l’origine stessa della res ædificatoria: l’architettura è stata inventata dagli uomini «per intuizione del valore sacrificale d’un luogo». L’architettura come “lampada del sacrificio”, come aveva capito «il fantastico Ruskin» (come lo chiama, affettuosamente, Camillo Boito7). L’architettura, la città, Ravenna, sono oggetti sensibili, che si mostrano nella loro presenza. Ogni «oggetto sensibile è presenza». Questa presenza è ciò che lo distingue dal “nessun luogo” del concetto. «È qui, è adesso». Ce ne siamo mai resi conto, “bizantini” come siamo?


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Da sinistra: Ritratto di Søren Kierkegaard. Ravenna, Presbiterio della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, Pluteo in marmo decorato con rilievi raffiguranti pavoni affrontati su racemi d’uva e monogramma di Cristo, VI secolo. Foto dell’autore. Particolare dell’immagine precedente. Foto dell’autore. Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia. Foto dell’autore.

Le parlanti rovine. L’“urlo” del passato

L’immortalità in questo mondo

Il passato, ogni passato, e l’architettura, le pietre di questo passato, sono, al tempo stesso, presenze reali di qualcosa che non c’è più, che viene da lontano, ma che, paradossalmente, continua a vivere, trasformandosi. L’aveva intuito il grande filosofo e sociologo berlinese Georg Simmel, parlando della “rovina”: «Essa è la sede della vita dalla quale la vita ha preso congedo – ma ciò non è nulla di semplicemente negativo […] il fatto che la vita con la sua ricchezza e le sue vicende abbia un tempo abitato qui, questa è una presenza immediatamente intuibile. La rovina crea la forma presente di una vita passata, non in base ai suoi contenuti o ai suoi resti, bensì in base al suo passato in quanto tale».8 Bonnefoy è completamente d’accordo: «Oh consolidata presenza nel frantumarsi già d’ogni sua parte! Nella misura in cui è presente, l’oggetto non cessa mai di scomparire». Ma anche se scompare, «impone e urla la propria presenza». Il passato sopravvive lo stesso, aprendo la via ad un’«unione nell’assenza, che è la sua promessa spirituale». E Ravenna, dov’è mai finita? Pazienza, intanto seguiamo Bonnefoy nella sua splendida allegoria sulla differenza tra concetto e oggetto: «La foglia intatta, innalzando la propria immutabile essenza in ogni sua nervatura, già sarebbe concetto. Ma questa foglia straziata, verde e nera, sporca, questa foglia che nella propria ferita rivela tutto il profondo di ciò che è, questa foglia infinita, è pura presenza, e quindi la mia salvezza». Ravenna, sporca foglia ferita? Altro che “rutilante” di “concettuali” ori bizantini. Sporca, ma vera, reale. Bonnefoy tiene in mano questa “concretissima”, fragile foglia come avrebbe «voluto poter tenere abbracciata Ravenna». Cos’è mai la «presenza»? «Qualcosa che seduce come un’opera d’arte». «Nera come l’abisso». E che «tuttavia rassicura». Sarà mai così, per noi, Ravenna?

«Wir suchen überall das Unbedingte, und finden immer nur Dinge»9 («Noi cerchiamo ovunque l’incondizionato, e troviamo sempre soltanto cose»10). Così aveva scritto, con tutto il dolore del romantico, il grandissimo Novalis. Bonnefoy, lo sottoscriverebbe, senza quel dolore. Così come cerchiamo l’immortalità, ma non nel senso «del corpo e dell’anima, quale gli dèi d’un tempo antico o d’un tempo recente la garantivano». Un’immortalità «impossibile», ma che sentiamo e «assaporiamo» e che non è «la guarigione dalla morte». È l’immortalità colta nel grido «d’un uccello» in cima a una scogliera udito da Bonnefoy bambino: «Strappate al tempo, allo spazio, serbo l’immagine delle alte erbe del declivio, che per quell’istante furono con me immortali». O l’eternità che è nell’onda (anche del nostro “lago” Adriatico), «favolosamente, concretamente, nel giuoco della schiuma sulla cresta dell’onda». Questa immortalità può essere concretamente sfiorata da «colui che tenta la traversata dello spazio sensibile»: dal vero viaggiatore. Costui, nel suo cammino, «raggiunge un’acqua sacra, che scorre in ogni cosa». E sfiorando le cose, «si sente immortale». Un po’. L’immortalità è in questo mondo: «è, nell’edera e in ogni luogo, l’immortalità sostanziale». Non possiamo “possederla” questa immortalità, ma sfiorarla, mentre noi “passiamo”, certo. E per noi sarà una «frescura» e una «dimora». Ma per «quelli che vogliono possedere sarà menzogna, sarà delusione e notte». Alla fine, il cerchio si chiude. Ritorna il parallelo Egitto=Ravenna: «Attraverso alla pietra l’Egitto afferma che il solo avvenire possibile è in questo mondo fisico». «Così, a Ravenna, i sarcofagi del sesto secolo». «Così nelle città che s’aprivano e si chiudevano con filari di tombe (ancora ne esistono, città fra tutte segnate dalla grazia), parla il popolo dei morti». Non facciamo che quei morti abbiano più voce dei vivi.

Note ____________________________ 1. YVES BONNEFOY, Les Tombeaux de Ravenne, in «Les Lettres nouvelles», n. 3, mai 1953, pp. 298-312. 2. YVES BONNEFOY, Les Tombeaux de Ravenne, in ID., L’Improbable, Paris, Mercure de France, 1959, pp. 9-34 (ora in L’Improbable et autres essais, nouvelle édition corrigée et augmentée, Paris, Mercure de France, 1980, pp. 11-28 e L’Improbable, suivi de Un rêve fait à Mantoue, nouvelle édition corrigée et augmentée, Paris, Éditions Gallimard, 1983, pp. 13-30), trad. it. Le tombe di Ravenna, in L’improbabile, Traduzione e introduzione di Diana Grange Fiori, Palermo, Sellerio editore, 1982, pp. 5-26. Tutte le citazioni di Bonnefoy sono tratte da questo volume. Ho omesso d’indicare ogni volta il numero di pagina per non appesantire il testo di troppe note. 3. Kemet. Alle sorgenti del tempo, catalogo della mostra

4. 5.

6.

7.

(Ravenna, Museo Nazionale, 1° marzo-28 giugno 1998), a cura di Anna Maria Donadoni Roveri, Francesco Tiradritti, Milano, Electa, 1998. Cfr. MARIA VIRGINIA CARDI, Le rovine abitate. Invenzione e morte in luoghi di memoria, Firenze, Alinea, 2000. Cosa che fanno anche le città, secondo Manuel Vázquez Montalbán. Cfr. MANUEL VÁZQUEZ MONTALBÁN, Barcelonas, Barcelona, Empúries, 1987, trad. it. di Hado Lyria, Barcelonas, prefazione di Andrea Ambri e Paolo Pagani, Milano, Leonardo, 1992, p. 191. Cfr. LEON BATTISTA ALBERTI, L’architettura [De re ædificatoria], Testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi, Introduzione e note di Paolo Portoghesi, Milano, Il Polifilo, 1966, VI 2, pp. 444-451. CAMILLO BOITO, Restaurare o conservare. I restauri in architettura. Dialogo primo, in ID., Questioni pratiche di belle arti. Restauri, concorsi, legislazione, professione, insegnamento, Milano, Hoepli, 1893, pp. 3-32: 19.

8. GEORG SIMMEL, Die Ruine, in ID., Philosophische Kultur. Gesammelte Essais, Leipzig, Klinkhardt, 1911, pp. 137154, trad. it. di Giovanni Carchia, La rovina, in «Rivista di Estetica», XXI, n. 8, 1981, pp. 121-127: 127. 9. FRIEDRICH VON HARDENBERG [NOVALIS], Vermischte Bemerkungen [Osservazioni sparse], dicembre 1797-gennaio 1798 e Blüthenstaub [Polline], febbraio 1798 (ora in ID., Schriften, Band II: Das philosophische Werk I, Herausgegeben von Richard Samuel in Zusammenarbeit mit Hans-Joachim Mähl und Gerhard Schulz, Stuttgart, Berlin, Köln, Mainz, Verlag w. Koblhammer, 1965, 19813, pp. 413-463: 413. 10. NOVALIS, Opera filosofica, Volume primo, Edizione italiana a cura di Giampiero Moretti, Torino, Giulio Einaudi editore, 1993, p. 357. È la traduzione del primo frammento di Polline; in Osservazioni sparse, la traduzione è la stessa con l’eccezione della messa in corsivo delle parole: cerchiamo, troviamo e cose [ibid., p. 356].

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CITTÀ E QUARTIERI

In alto a sinistra: un tratto delle mura urbane in prossimità di porta Santi In alto a destra: piazza della Libertà. Il cantiere e il progetto di riqualificazione del centralissimo spazio urbano, oggetto di un preliminare scavo archeologico Sotto: un particolare di porta Santi, rimaneggiata nel 1819 in onore del papa cesenate Pio VII, su progetto dell’architetto Curzio Brunelli Nella pagina a destra : il Conservatorio Bruno Maderna, ospitato all’interno di palazzo Guidi


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Accogliente, concreta, dinamica, in una parola: Cesena Una passeggiata nel cuore della città che si rinnova come centro commerciale diffuso, fra restituzioni di spazi urbani e nuovi utilizzi di Chiara Bissi

Lasciata Forlì, dopo tante ricognizioni urbane condotte nella città di Ravenna, la rubrica Città e quartieri approda a Cesena e ancora una volta propone un possibile percorso fra i tanti all’interno della città storica, privilegiando alcune emergenze, segnalando stili di vita e nuove funzioni e tacendo molto altro. Inserita in un numero parzialmente monografico della rivista, dedicato a Cesena, la rubrica lambisce la storia della città e sfiora la parte monumentale, descritta in altri contributi. Dinamica, solare, Cesena divide con Forlì il territorio provinciale, ma conserva una lunga storia propria, cresciuta sulla via Emilia, fatta di signorie e papi, e in epoca recente di un’economia florida votata all’agroalimentare e affiancata a una recente vocazione alla produzione di servizi per il benessere e per stili di vita sani. Non è facile scegliere un

ideale itinerario di visita quindi non rimane che partire ricordando la presenza di un territorio dall’orografia mutevole al quale si sono adattate le mura urbane, già citate nel Trecento nella Descriptio Romandiole. I signori della città, i Malatesta disegnarono, in seguito la nuova cinta, descritta a forma di scorpione. Delle antiche porte, quella Santi o Romana, si dice, definisca la coda del pericoloso animale. E da qui si può immaginare una piacevole passeggiata. Porta Santi menzionata nel XIV secolo fu ristrutturata nel XV e poi prendere l’aspetto monumentale nel 1819 su progetto del’architetto Curzio Brunelli in onore del papa cesenate Pio VII. Su questa scenda la piacevole via Mura Eugenio Valzania e si apre corso Ubaldo Comandini, una quinta urbana colorata che si arricchisce ben presto di portici e che conta palazzo Guidi, oggi sede del conservatorio Bruno Maderna, edificio bisognoso di un intervento complessivo di restauro. Poco più avanti il corso prende la dedica a Garibaldi e lì si trova il giardino pubblico. L’area verde fu realizzata nel 1830 grazie al lascito testamentario del conte Paolo Neri, laddove

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CITTÀ E QUARTIERI

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sorgeva la scomparsa chiesa di San Michele arcangelo. Il giardino di gusto neoclassico, in origine di forma circolare, è stato restaurato nel 2008 con il ripristino, grazie alla fondazione Neri – Museo italiano della Ghisa – di lampioni, busti di cittadini illustri, vasi ornamentali, della fontana in ghisa e del gazebo centrale. Al limitare del parco 8 statue in bronzo dedicate alle maschere della commedia dell’arte, firmate da Domenico Neri, segnalano la presenza del teatro Verdi, edificio risalente al 1874. Pur nella non lunga vita la sala dal carattere polivalente ha subito numerosi interventi e stravolgimenti, prestandosi a diversi utilizzi, dal cinema, alla rivista, alla musica associata alla convivialità a differenza del vicino teatro Bonci, scrigno della città (vedi altro articolo). Senza tacere che la città esprime da tempo realtà teatrali di spessore internazionale come la Societas Raffaello Sanzio e il teatro Valdoca di Mariangela Gualtieri. Corso Garibaldi vanta anche il risveglio della movida cesenate, che nel tempo è divenuta polo di attrazione capace di creare flussi di pendolari del divertimento da Forlì e da Ravenna. È facile notare una sequenza di locali, dal Caffeina davanti ai giardini a seguire fino al teatro. Qui diverse le opportunità da La Cantera al caffè degli artisti a Zampanò fino a Mascherpa e altri. Informali, accoglienti, colorati, dal gusto vagamente vintage sono stati protagonisti negli anni anche di accese polemiche, in questa zona come in altre, i residenti hanno alzato i toni della protesta per l’esuberanza In alto a sinistra: il giardino pubblico, realizzato nel 1830 grazie a un lascito del conte Paolo Neri nell’area della scomparsa chiesa di San Michele arcangelo In alto a destra, particolare del giardino pubblico: Maschera di Pulcinella in bronzo, realizzata da Domenico Neri In basso: corso Garibaldi, arteria che conduce al teatro Bonci e al centro della movida cesenate


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serale dei giovani avventori. Ne fece le spese anni fa anche l’opera in bronzo di Adriano Bimbi “il musicista e i cani” del 1994, collocata nella piazza Guidazzi a pochi passi dall’ingresso del teatro, nel 2000. Non molto tempo dopo infatti uno dei due animali fu rubato, mentre per l’altro dopo il danneggiamento e la perdita della coda si è aperta l’inusuale funzione di portacenere. Passata la settecentesca chiesa dei Servi di Maria lungo i portici si sussegue una fitta rete di negozi, mentre prima di raggiungere piazza della Libertà si può ammirare palazzo Braschi. Qui nel 1717 nacque Gian Angelo Braschi, papa dal 1775 al 1799 col nome di Pio VI. Dietro la bella facciata urbana il palazzo conserva preziose decorazioni e una cappella privata di gusto tardo barocco. La riqualificazione di piazza della Libertà ha per certi aspetti molti punti di contatto con la ravennate piazza Kennedy, entrambe in attesa di una nuova vita dopo la decisione di cancellare l’uso a parcheggio e progettare uno spazio pedonale con arredi e sottoservizi. Polemiche, petizioni di cittadini, associazioni di categorie e partiti di opposizione sul piede di guerra, un copione in tutto simile, con una campagna archeologica di scavo che si sviluppa parallela fra il 2015 e il 2016. Identica anche la richiesta dei commercianti di esenzione per Tari e tassa di utilizzo del suolo pubblico, accolta a Ravenna e negata a Cesena. A Ravenna il cantiere ha intercettato l’antica basilica di Sant’Agnese di VI secolo, modificando i tempi di compimento del progetto e ora la previsione, dopo la decisione di ricoprire l’area, prevede una riapertura per pezzi a partire da Natale; a Cesena lo scavo archeologico ha preceduto l’intervento e ora il traguardo è fissato per agosto 2017. Il costo dell’intervento sostenuto anche dalla Regione è di 3 milioni e 100mila euro, di cui 235mila euro per gli scavi archeologici, e 2 milioni e 500mila euro per i lavori stradali e per l’arredo urbano. A 40 centimetri sono apparse le tracce dell’antico ospedale di San Tobia documentato fin dal 1348, della chiesa e del chiostro dei Carmelitani e dell’antica strada che passava tra i due edifici. La nuova piazza lambirà la cattedrale di San Giovanni Battista, edificata sul sito dell’antica chiesa della Croce di Marmo tra il 1378 e il 1408, all’incrocio tra la via Emilia e l’antica via del Sale per Cervia, in stile romanico-gotico, probabilmente dall’architetto tedesco Undervaldo. Nel 1456 fu costruito il campanile da Maso di Pietro da Lugano e in seguito l’architetto veneziano Mauro Codussi intervenne nella parte superiore della facciata. Al santo patrono è ispirata la grande fiera di giugno che per giorni anima la città. Il corso che prende ora la dedica a Mazzini non tradisce l’impronta cit-


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In alto a sinistra: “Il musicista e i cani”. Opera in bronzo di Adriano Bimbi, a pochi passi dal teatro Bonci. Priva di un elemento. In alto a destra: palazzo Romagnoli, imponente edificio dalla facciata settecentesca in pietra d’Istria. Sotto: vista dalla biblioteca Malatestiana di piazza Bufalini

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CITTÀ E QUARTIERI

tadina che si ripeterà più avanti in via Carbonari e via Cesare Battisti anche quando il vecchio tessuto urbano farà spazio a nuovi insediamenti. Passo passo cresce la varietà e l’offerta merceologica, dando al cuore di Cesena l’immagine di un grande centro commerciale diffuso anche se, come in tutte le città romagnole, non mancano accese polemiche su potenzialità inespresse, opportunità mancate e occasioni da cogliere. Da San Giovanni Battista girando per corso Gaetano Sozzi continua il passeggio dello shopping fino alla cosiddetta Barriera Cavour che nell’Ottocento ha sostituito una porta detta Cervese, sul corso si affacciano palazzo Masini e palazzo Ghini con la facciata incompiuta e le insegne di Pio VI. Prima della Barriera prendendo Contrada Uberti si arriva a palazzo Romagnoli, imponente edificio dalla facciata settecentesca con un maestoso portale in pietra d’Istria e di qui, percorso via Cesare Montalti si passa davanti a palazzo Urbinati, poi al giardino di palazzo Bagioli prima di raggiungere l’archivio di Stato, il chiostro di San Francesco, il museo archeologico e infine la biblioteca Malatestiana (vedi altro articolo sulle origini della città). L’Unesco ha scelto di inserirla nell’elenco Memoire du Monde e le

emozioni non mancano nel corso della visita guidata. L’accesso alla grande sala lignea, è garantito da un porta in noce, il portale è sormontato da un bassorilievo raffigurante un elefante indiano simbolo dei Malatesti. Unico esempio di biblioteca umanistica conventuale perfettamente conservata negli arredi e nella dotazione libraria, custodisce ancora i 343 codici della dotazione voluta da Malatesta Novello, signore di Cesena, depositati sotto i banchi, secondo l’ordine originale. Lasciato l’incanto della Malatestiana attraverso piazzetta Fabbri, dove è possibile fermarsi in locali accoglienti per piacevoli soste, lambendo palazzo del Ridotto si riguadagna via di Carbonari, dove si può visitare la galleria e centro culturale Il Vicolo. La passeggiata cesenate già ricca di stimoli non può che concludersi in crescendo in una zona innervata di opportunità di svago, di offerte commerciali di alto spessore e di emergenze monumentali. Durante l’anno si moltiplicano le iniziative legate al buon vivere, fra mercati e festival a tema. Percorrendo i portici di via Zeffirino Re, senza dimenticare di dare uno sguardo alle vicine via Fantaguzzi e Albizzi è facile approdare in piazza del Popolo fra mille tentazioni, siano proposte gourmet o le ultime tendenze della moda. Sotto i portici della piazza vicino al Comune si apre il Foro Annonario, ristrutturato nel 2014 grazie a un project financing animato dalla società Foro Gest di cui fanno parte Banca di Cesena, Confartigianato, Confesercenti e l’impresa Edile Carpentieri di Rimini. Dopo una partenza incerta, alcuni mesi fa, hanno aperto 7 nuove attività legate in prevalenza all’agroalimentare e alla ristorazione, ma ci sarà spazio anche per neoimprese giovanili al piano di sopra, mentre sulla piazza il mercoledì e il sabato i prodotti agricoli e biologici completeranno l’offerta ampia, dalla pasticceria al negozio per animali. La cinquecentesca fontana Masini in marmo d’Istria, orgoglio dei cesenati, meta dei turisti, dopo i restauri del 2010 accompagna la passeggiata dal palazzo Comunale, alla Rocchetta di piazza sormontata dalla Loggetta Veneziana. Dalla parte opposta la chiesa dei Santi Anna e Gioacchino (1663) vigila sull’installazione dello scultore cesenate Leonardo Lucchi, la ragazza che guarda la piazza dal tetto. Mentre dall’alto, sul colle Garampo, la Rocca di Cesena guarda la città non più in funzione difensiva ma diventa polo di attività culturali e ricreative, della ricerca contemporanea e spazio comune d’incontro e confronto, con un ricco calendario di iniziative. Tutte le foto sono di Pietro Barberini.

In alto a sinistra: via Fantaguzzi, scorcio urbano della zona dello shopping prossima a piazza del Popolo In alto a destra: pittoresca strada del centro storico che conserva la pavimentazione originale in ciottoli In basso: la chiesa dei Santi Anna e Gioacchino in piazza del Popolo e un’installazione dello scultore cesenate Leonardo Lucchi


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Valentino Parmiani

uno sguardo sintetico fra paesaggio e architetture di Domenico Mollura

L’occhio umano è uno “strumento” selettivo che inquadra la realtà all’interno dei confini della soggettività; per questo, a differenza dell’obiettivo fotografico, permette alla mano di essere spontaneamente sintetica. Il ri-disegno dell’architettura e del paesaggio, in questo modo, diviene progetto, costruzione. È questa forma di comprensione del reale tramite il disegno che ha impegnato, per tutta una vita, l’opera di Valentino Parmiani al quale sono stati dedicati un volume ed una mostra dal titolo: “Valentino Parmiani. Paesaggi/Architetture”, allestita nel Corridoio Grande della Biblioteca Classense di Ravenna. L’esposizione, già presentata nella scorsa primavera presso la Chiesa dello Spirito Santo di Cesena, è giunta a Ravenna grazie all’iniziativa congiunta dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Ravenna, dell’Istituzione Biblioteca Classense e del Dipartimento di Architettura dell’Università di Bologna – sede di Cesena. I luoghi scelti per la presentazione della mostra e per l’esposizione delle opere riverberano più di un rimando, diretto e indiretto, alla storia di Parmiani. La Biblioteca Classense, infatti, è sede di una importante collezione di disegni – da Camillo Morigia a Corrado Ricci; la Sala Muratori – che ha accolto la conferenza di inaugurazione – è un omaggio allo storico bibliotecario che ha profuso parte dei suoi sforzi per la tutela delle pinete ravennati alle quali ha dedicato particolare attenzione proprio Parmiani che, nato a Firenze nel 1943, consegue la maturità presso il Liceo Artistico di Ravenna (1969), allora ospitato nell’ala dell’Istituzione Classense oggi oggetto di restauro. Parmiani è stato docente a contratto dell’Università di Bologna,

presso la sede di Cesena dalla fondazione della Facoltà di Architettura (1999) fino alla sua morte avvenuta nell’agosto del 2015. La sua attività didattica e il suo straordinario talento pittorico hanno contribuito in modo sostanziale alla crescita della scuola cesenate, oggi divenuta “Dipartimento di Architettura”, sede del Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico in Architettura. La morte di Parmiani ha lasciato smarriti i suoi più stretti colleghi e amici che per omaggiarne la memoria hanno deciso di fare ciò che lo stesso Parmiani non era riuscito a fare, ovvero raccogliere in un volume tutte le sue più importanti opere grafiche. È con questo intento, celebrativo e divulgativo al contempo, che Gianni Braghieri e Franco Raggi, insieme a Francesco Saverio Fera (Coordinatore del Corso di Laurea Magistrale) e Lorena Pulelli, hanno collezionato in un catalogo un Atlante « […] di punti di vista, di abilità, di atteggiamenti». «L’Immagine – in senso lato – subisce da troppo tempo un processo di inesorabile spersonalizzazione, causato dalla produzione e dalla facilità di accesso ad una sproporzionata (e inclassificabile) quantità di immagini. È lo stesso svuotamento a cui è sottoposta, ad esempio, la rappresentazione tecnica con la diffusione di programmi di disegno assistito che, se da un lato garantiscono una maggiore precisione (?) e riproducibilità grafica, dall’altro, potendo variare in continuazione scala e punto di vista, fanno perdere il controllo d’insieme della fase di creazione progettuale. Il disegno per

Nella pagina a fianco, in alto a sinistra: Orrido di Val di Gola. Intervento sul paesaggio con autostrada verde e contenimento dei gradini coltivati, 2005. In alto a destra: Serrada di Folgaria, 2010. In basso: Gruppo Sella vista dalla Bullaccia (Alpe di Siusi), 1995. In questa pagina: Veduta del ghiacciaio del massiccio dell’Ortles, 1999. (Acquarelli su carta).

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Parmiani è sempre stato atto di “conoscenza” – afferma Franco Raggi, suo compagno di università al Politecnico di Milano – e, quindi, procedimento attivo; per questo nella sua attività pittorica e didattica ha restituito valore e ordine ad un saper fare trasmissibile ma che può condurre ad una personalissima ricerca dell’assoluto». Gli sguardi tendono sempre all’interpretazione poetica, ma rigorosa e quasi da geografo, di Architetture e Paesaggi. Questa “patologia artistica” conduceva Parmiani al feticismo della perfezione, sia estetica che tecnica. Curioso l’aneddoto riportato da Raggi, secondo il quale alla prima lezione di disegno Parmiani (docente “esigente e generoso”) insegnava ai propri studenti come utilizzare il temperamatite. L’osservazione attenta e la tendenza alla classificazione hanno permesso a Parmiani di possedere uno sterminato archivio di luoghi della memoria, riversati ad esempio con una “vena surreale” in una “tassonomia di paesaggi” d’invenzione su un pentagramma supporto inusuale, per finalità e dimensioni, al disegno. Parmiani – ricorda Gianni Braghieri – «non faceva nulla per la sua arte» e questa sua “pigrizia”, che limitava fortemente la diffusione della sua opera, viene considerata come una “virtù” dallo stesso Braghieri, fondatore della Scuola di Architettura di Cesena, che nel 1999 chiamò Parmiani come docente per i corsi di disegno della neonata Facoltà “Aldo Rossi”. Il “reclutamento” venne suggerito – ricorda Braghieri – da Arduino Cantàfora che rifiutò lo stesso incarico perché già impegnato presso la Scuola Politecnica di Losanna. Cantàfora nella sua lectio magistralis dal titolo: Valentino Parmiani. Del Sublime, affianca alle opere dell’amico-collega quelle di alcuni

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“compagni di viaggio”, ovvero di grandi artisti del passato che occupano un Parnaso nel quale lo stesso Parmiani trova posto, con i suoi “picchi” creativi alternati ai momenti melanconici. Nel ricordo personale emerge il riconoscimento, per Parmiani, della montagna come luogo dell’anima e a questo proposito Cantàfora traccia i contorni di un preciso episodio legato alla realizzazione di un acquerello dedicato a Folgaria. Parmiani, durante un soggiorno sulle sue amate Dolomiti, si presenta come d’abitudine a casa dell’amico Cantàfora e nel chiuso di una camera inizia a tracciare su un foglio dei segni da destra verso sinistra, «socchiudendo un occhio«. Sembrava – rammenta Cantàfora – di vedere all’opera una “stampante”: con l’uso di una sola matita (con la B, in particolare) e graduando la pressione della mano, Parmiani poteva disegnare qualsiasi cosa. Il paesaggio, nella semplicità del tratto monocromatico, prendeva forma e sostanza: le creste, le nuvole, la Vallagarina e il fiume Adige che dopo una curva si allontana. Tutto occupava una posizione precisa di quel foglio. Il giorno seguente, quello stesso foglio veniva contrapposto al paesaggio reale con il quale combaciava in modo impressionante («c’era poco da modificare: una cresta, l’ansa del fiume...» e poi il disegno poteva prendere corpo con i colori). Cantàfora racconta che, in quell’occasione, ha percepito la stessa sensazione che doveva procurare l’esperimento prospettico di Brunelleschi davanti al battistero di San Giovanni a Firenze. Il viaggio compiuto attraverso l’arte da Cantàfora richiama tutte le tappe che hanno avuto una rilevanza formativa per Parmiani, sia sotto il profilo della tecnica che della profondità del giudizio critico. Si va dal surrealismo di Magritte (La condizione umana, 1933) alla


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Land Art di Richard Long (A line made by walking, 1967) con la loro fusione tra arte e realtà; dal realismo (quasi da trattato scientifico) di Albrecht Dürer (La grande zolla, 1503) alla trasposizione dell’assoluto di Böecklin (L’isola dei morti, con la sua perfetta coincidenza tra natura e architettura) e delle creste di Friedrich, dove l’azzurro del cielo è la manifestazione della transizione tra la luce e la tenebra; fino alle viste topografiche del piemontese Giuseppe Pietro Bagetti (illustratore delle campagne di Napoleone il quale utilizzava i suoi disegni per arricchire di dettagli le proprie memorie di guerra) e il Mont Blanc di Violett-le-Duc. Quella di Parmiani è rappresentazione di materia “altra”; egli di fonte alla Montagna non rimane indifferente ma riflette sulla «tellurica della terra» e sulla condizione storica dei luoghi, dai cui deriva la serie si disegni dedicati ai «paesaggi perduti della Grande Guerra». La traduzione grafica delle sue esperienze permette a chiunque di immergersi pienamente in questa rappresentazione consapevole. La mostra – allestita nella Manica Lunga della Biblioteca, a cura di Giovanni Poletti, Lorena Pulelli e Francesco Saverio Fera – ha avuto il pregio della visione contemporanea di acquerelli incorniciati (buona parte dei disegni appartengono a collezioni private), fogli singoli, taccuini nei quali le impressioni pittoriche (la minuziosa rappresentazione dei campi, con i sistemi di scolo delle acque) vengono naturalmente fondendosi con le considerazioni di tipo socioeconomico (le velocità con cui si trasformano i territori e i processi produttivi), in un intreccio di segni grafici, spesso minuscoli. Le viste architettoniche sono rappresentate congiuntamente alla planimetria degli edifici in una rigorosa proiezione ortogonale; è la

ricerca della precisione che aiuta a classificare e conoscere e dare dei punti di riferimento, come si ritrova in moltissimi acquerelli che, sebbene prospettici, riportano, insieme al monogramma VP (la firma dell’autore), anche un asse di orientamento, magari utile per ricostruire in base alla direzione della luce il momento della giornata corrispondente alla rappresentazione.

In alto a sinistra: Sciliar a Santner. Alpe di Siusi, 1994. In alto a destra: Lago di Dobbiaco, 1989. Sotto: Antelao visto dal Rifugio S. Marco, 1995. (Acquarelli su carta).

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Architettura Cesena docet Conversazione con Francesco Saverio Fera coordinatore del Corso Magistrale di Laurea

di Domenico Mollura I Campus dell’Università di Bologna sono divenuti ormai elementi consolidati nei tessuti urbani dei capoluoghi romagnoli, arricchendo l’offerta formativa di una tra le antiche e prestigiose istituzioni universitarie d’Europa. Nell’occasione della mostra dedicata a Valentino Parmiani, abbiamo voluto approfondire la conoscenza della scuola di Architettura di Cesena e lo abbiamo fatto ponendo alcune domande all’architetto Francesco Saverio Fera, coordinatore del Corso Magistrale di Laurea a Ciclo Unico in Architettura. Fera può descriverci in breve l’atto di nascita della Scuola di Cesena? «La Facoltà viene fondata da Gianni Braghieri nel 1999, allora professore ordinario in Composizione Architettonica presso la Facoltà di Ingegneria su incarico dell’allora Rettore Roversi Monaco. L’Ateneo di Bologna non ha mai avuto un Corso di Laurea in Architettura e stabilisce di aprirlo in Romagna all’interno del programma di decentramento dell’insegnamento universitario nazionale. Viene deciso di progettare un Corso di Laurea Magistrale a Ciclo Unico in Architettura di durata quinquennale (e non tre più due) con ingresso a numero programmato. Possono accedere ai corsi 98 studenti italiani e 2 stranieri, quindi per un totale di 100 studenti all’anno. Il corso si afferma sin da subito come uno dei migliori in Italia, risultando sempre ai primi posti nelle classifiche del Censis. Il rapporto numerico docente/discente è allineato alla media europea, infatti, i nostri corsi laboratoriali hanno massimo 50 studenti per singolo docente. Questo permette di avere sempre un rapporto diretto tra allievo e docente. I risultati si possono apprezzare nell’alto numero di laureati in corso, che è il più alto in Italia per la stessa classe di laurea». Quali sono le principali dotazioni a disposizione degli allievi? «Il Corso offre agli studenti un proprio tavolo da disegno che è loro completa disposizione dal Lunedì al Venerdì dove possono svolgere agevolmente le loro esercitazioni e preparare gli esami. Questa situazione mi risulta essere l’unica esistente in Italia all’interno di una istituzione pubblica e si equivale a corsi universitari privati di tipo anglosassone, dove però le rette per gli studenti sono ben più elevate. Le aule per le lezioni ex cathedra sono calibrate per poter ospitare gli studenti iscritti evitando situazioni di “sovrappopolamento”. Esistono laboratori di alto livello con ottime dotazioni strumentali quali: Laboratorio di Cartografia; Laboratorio di Fotografia; Laboratorio Modelli di Architettura; Laboratorio di Modellazione e Visualizzazione Digitale per l’Architettura; Officina di studio di Tecnologia dell’Architettura/Laboratorio di innovazione ed efficienza energetica; Laboratorio di Rilievo dell’Architettura e della Città. Gli studenti, inoltre, hanno a disposizione una biblioteca (Biblioteca “Aldo Rossi”) di circa 18.000 volumi contenente pubblicazioni afferenti alla disciplina architettonica. Attualmente è in corso di costruzione la nuova sede del Corso di Studi, su progetto di Vittorio Gregotti, che dovrebbe essere inaugurata nei prossimi anni accademici». La Facoltà di Cesena “era” una delle pochissime in Italia ad essere “intitolata”. Quali sono state le ragioni che hanno determinato questa scelta? «La Facoltà viene intitolata ad Aldo Rossi nel 2004. Il Consiglio di Facoltà decide di dedicare il corso di laurea a questo importante maestro dell’architettura, “Prizker Prize” del 1990 (l’equivalente del Nobel in architettura). La

figura di Rossi, per l’importanza del suo operato teorico e progettuale di livello internazionale, è stato fonte di ispirazione per il progetto didattico del Corso di Laurea dell’Alma Mater Studiorum di Bologna. Da ciò la motivazione della titolazione. Nel passaggio da Facoltà a Corso di Laurea del Dipartimento di Architettura, inscritto all’interno della Scuola di Ingegneria e Architettura dell’Unibo, per questioni di complessità varie, si è stati costretti ad abbandonare il nome. Rimane ciononostante fermo il progetto didattico che intende il mestiere dell’architetto come summa di saperi umanistici uniti a solide competenze tecnico-scientifiche». La Scuola è sempre stata impegnata oltre che nella didattica e nella ricerca, anche nella divulgazione della cultura del progetto attraverso numerosi eventi e mostre. «Come Facoltà prima e Corso di Laurea in Architettura dopo, abbiamo prodotto oltre a cinquanta eventi espositivi legati a ricerche condotte dai nostri docenti. Le mostre sono sempre accompagnate da un catalogo. A queste si devono aggiungere mostre realizzate, sempre da nostri ricercatori/docenti, al di fuori della nostra istituzione. Sono attualmente in corso di realizzazione due nuove esposizioni su due architetti portoghesi di fama internazionale (Adalberto Dias e Francisco Barata), che ci auguriamo poter esporre in altre sedi oltre che a Cesena». La Scuola offre ai propri studenti un punto di vista “internazionale” sulla disciplina invitando docenti di diversa provenienza. Quali sono stati i nomi di spicco alternatisi in questi 15 anni? «Ogni anno il Corso di Laurea ospita due docenti stranieri di chiara fama. I nostri studenti hanno così modo di studiare con esponenti della cultura architettonica di prestigio internazionale. Hanno insegnato al nostro Corso: Bernd Albers, Francisco Barata, Annegret Burg, Arduino Cantàfora, Antón Gonzales Capitel, José Chartres Monteiro, Adalberto Dias, José Paulo Dos Santos, Max Dudler, Xavier Fabre, José Fernando Gonçalves, Petra Kahlfeldt, Jonathan Kirshenfeld, Jan Kleihues, José Ignacio Linazasoro, Thierry Roze, Fabio Reinhart, Uwe Schröder, Joachim Sieber, Guillermo Vázquez Consuegra. Questa è un’ulteriore peculiarità del nostro Corso di Laurea in confronto ad altre realtà italiane. Agli studenti viene così offerta una sorta di Erasmus interno, dando modo anche a chi, per varie ragioni, non potrà svolgere un periodo di studi all’estero. Riteniamo fondamentale quest’opportunità perché apre agli allievi a una visione europea del fare architettura. Molti dei nostri studenti alla fine del corso si recano presso gli studi dei docenti stranieri invitati per periodi di tirocini formativi, completando ed approfondendo l’esperienza». Quali obiettivi si pone il Corso di Laurea Magistrale da lei coordinato? «Il percorso forma una figura professionale di architetto “generalista” (molto apprezzato all’estero dove si tende invece ad una forte specializzazione) in possesso di competenze specifiche nella progettazione architettonica e urbana, in quella urbanistica e del paesaggio, nella progettazione strutturale e ambientale, nel restauro architettonico, nella conservazione e valorizzazione dei beni architettonici e nella progettazione di allestimenti d’interni. L’architetto, rispondendo agli standard europei con i quali è sempre più chiamato a confrontarsi, deve delinearsi come una figura professionale in grado di coniugare una formazione umanistica con le competenze tecnico-scientifiche. Da un recente incontro con le parti sociali (associazioni di categoria, esponenti del mondo della cultura internazionale, politici locali e funzionari di enti pubblici comunali e regionali) si è avuta conferma della appropriatezza del piano formativo messo a punto dal nostro Corso di Laurea. Ottima è la ricezione dei nostri giovani laureati nel mondo del lavoro. Secondo un’indagine di Almalaurea, oltre il 92% dei nostri neoarchitetti a cinque anni dalla laurea trova lavoro. Questo è oltre ogni altra parola il dato più significativo che ci conferma come si stia lavorando nella corretta direzione».


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Alberto Giorgio Cassani e la fenomenologia delle archistar© Il rapporto dialettico fra struttura e territorio secondo Francesco Di gregorio di Chiara Bissi

Alberto Giorgio Cassani animerà con Francesco Di Gregorio il settimo incontro del ciclo “I 16 – SeDici Architettura”, in calendario giovedì 13 ottobre al teatro Bonci di Cesena. La rassegna propone incontri-confronti fra professionisti affermati della progettazione contemporanea e architetti emergenti, è promossa dalla rivista Casa Premium della società editoriale Reclam e ideata dal comitato scientifico composto da Gianluca Bonini e Giovanni Mecozzi di Nuovostudio e da Filippo Pambianco Caveja-studio, con il patrocinio degli Ordini professionali degli architetti e ingegneri di Ravenna e Forlì anche ai fini formativi. Il fenomeno delle archistar – e, nell’ambito della professione dell’architetto, il rapporto fra arte e mestiere, estetica e pragmatismo, tecnica e creatività – sarà il tema della tavola rotonda fra i relatori della conferenza e altri esperti a cura della rivista dell’abitare “Casa Premium”, condotta dal direttore Fausto Piazza.

Nella società dello spettacolo le archistar non tramontano mai Alberto Giorgio Cassani (Bergamo, 1960), dopo essersi diplomato al Liceo-Ginnasio “Dante Alighieri” di Ravenna, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1986. Nel 1993 ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Conservazione dei beni architettonici. A Milano ha a lungo lavorato nella redazione della rivista “’ANAGKH”, diretta da Marco Dezzi Bardeschi e insegnato Teorie e storia del restauro, dal 1996 al

2002, come professore a contratto, al Politecnico. Dal 1995, inoltre, è divenuto docente a contratto di Elementi di architettura e urbanistica all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, dove tuttora insegna nel Biennio specialistico di Mosaico. È docente di ruolo di Elementi di architettura e urbanistica (Triennio) e di Storia dell’architettura contemporanea (Biennio) all’Accademia di Belle Arti di Venezia. La sua attività di redattore di riviste scientifiche comprende, oltre “’ANAGKH”, “Albertiana”, organo della Société Internationale Leon Battista Alberti, e “Anfione e Zeto“. È inoltre il curatore dell’“Annuario” dell’Accademia di Belle Arti di Venezia e collabora da anni con “Casabella” e con la rivista “Casa Premium”. È stato membro del Circolo Gramsci di Ravenna e, più recentemente, della Fondazione “Ravenna Capitale” di cui è stato presidente nel triennio 2007-2010. Studioso di Leon Battista Alberti, suoi campi d’interesse sono inoltre la storia dell’architettura moderna e contemporanea, la teoria e storia del restauro, la letteratura sulle città e la fotografia d’architettura. Ha al suo attivo numerose partecipazioni a convegni nazionali e internazionali. Tra le sue principali pubblicazioni, vanno ricordate le monografie: Le Barcellone perdute di Pepe Carvalho, presentazione di Manuel Vázquez Montalbán, Milano, Unicopli, 2000, 20112; La fatica del costruire: Tempo e materia nel pensiero di Leon Battista Alberti, Milano, Unicopli, 2000, 20042 (con postfazione di Massimo Cacciari); Figure del ponte: Simbolo e architettura, Bologna, Pendragon, 2014; L’occhio alato: Migrazioni di un simbolo, con uno scritto di Massimo Cacciari, Torino, Nino Aragno, 2014; e le curatele: Tomaso Buzzi 1900-1981: Il principe degli architetti, Milano, Electa, 2008; Leon Battista Alberti, La favola di Philodoxus (Philodoxeos fabula), testo latino a fronte, prefazione di Carlo Angelino, Rapallo, il ramo, 2013; Guido Cirilli: Architetto dell’Accademia (con Guido Zucconi), Padova, Il Poligrafo, 2014.


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Da sinistra: Gian Lorenzo Bernini, autoritratto, Roma, Galleria Borghese, 1623 ca.. Ludwig Mies van der Rohe nel suo appartamento a Chicago, seduto sulla sedia MR del 1927, foto di Werner Blaser, 1965. Pubblicità del modello 8/38 PS Roadster Mercedes-Benz (1926-1928) davanti alla Haus 14-15 di Le Corbusier della Weissenhof-Siedlung di Stoccarda, 1927. Philiph Johnson, foto di Evan Kafka, © Getty Image. Frank O. Gehry, foto di Lionel Bonaventure, © Afp/GettyImages. In basso: Arata Isozaki. Jean Nouvel, foto di Dominique Issermann.

Ad Alberto Giorgio Cassani il compito di raccontare alcuni aspetti del fenomeno planetario delle archistar. Acclamate, viziate, ricercate chi sono le archistar e che mondo è o è stato quello che ha bisogno di queste figure? «Forse le archistar© (con il marchio del copyright, come hanno chiesto di fare Gabriella Lo Ricco e Silvia Micheli, autrici del fondamentale Lo spettacolo dell’architettura. Profilo dell’archistar©, Bruno Mondadori, 2003), sono sempre esistite. Basti pensare a Gian Lorenzo Bernini e al trattamento da principe ricevuto a Parigi, chiamato da Luigi XIV nel maggio del 1665 per un ritratto in marmo e per il disegno della facciata est del Louvre (che invece fu realizzata su progetto di un medico, architetto per diletto, Claude Perrault; come a dire che anche le archistar© di una volta avevano i loro problemi). Venendo a secoli più vicini a noi, il fenomeno di cui parliamo ha forse avuto inizio con le grandi figure del cosiddetto “movimento moderno”: Walter Gropius, Le Corbusier, Ludwig Mies van der Rohe, con l’aggiunta della “superstar” americana Frank Lloyd Wright. Già gli aneddoti biografici e le fotografie che li riguardano assumono i toni di una consacrazione divistica. Ma sicuramente la figura di svolta è stata quella di Philip Johnson (1906-2005). A partire da lui, incontrastato re del Postmodern, e primo vincitore, nel 1979, del premio Pritzker, l’Oscar dell’architettura, il connubio tra architettura e potere (da sempre esistito, naturalmente), è divenuto sempre più stretto, dal momento che è soprattutto l’architettura, fra tutte le altre arti, che viene assunta dall’establishment quale “biglietto da visita” all’interno di quella che Guy Debord ha chiamato giustamente La Société du Spectacle (1967). Uno spettacolo estremamente serio».

Le risorse e le committenze sono ormai concentrate in paesi cosiddetti emergenti, dalle repubbliche ex sovietiche ai piccoli e ricchissimi paesi arabi fino ai colossi asiatici, ma le archistar sono in grado di rappresentare nuove egemonie, nuove ricchezze oppure si tratta di un fenomeno in declino? «Naturalmente gli architetti vanno dove ci sono committenze in grado di permettere ai loro “sogni” di realizzarsi (tutte le archistar© hanno un ego fortissimo e vogliono ottenere fama e gloria già in questo mondo). Ricordo qualche anno fa la “fuga” di cervelli architettonici verso i Paesi arabi, la nuova Mecca dell’architettura. Oggi lo stesso accade con la Russia e soprattutto con la Cina (finché il boom di quest’ultima durerà…). Gli architetti contemporanei, ormai, sono dei mercenari che vanno dove li porta il soldo. Ma chi, nella società globalizzata e del capitalismo incontrastato e vincente, può scagliare la prima pietra? L’unica cosa che può fermare tutto ciò – e in parte sta cominciando a farlo – sono le crisi economiche». In un mondo senza archistar vince l’omologazione dei segni, il politicamente corretto, non c’è più spazio per l’inatteso, lo straordinario, per le architetture che cambiano il destino di un luogo, il cosiddetto effetto Bilbao, o invece è finita un’epoca e si intravedono nuove modalità di incontro e dialogo fra giovani energie e le committenze private e pubbliche? «Quando sono stato a Bilbao per la prima volta, ho subìto una sorta di sindrome di Stendhal, ma del tutto esaltante: non mi ero mai trovato di fronte a un edificio simile e sono totalmente d’accordo con quanto af-

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ferma l’artista-regista Julian Schnabel nel documentario di Sidney Pollack, Sketches of Frank Gehry, del 2006, che criticare il Guggenheim per le sue “esagerazioni” formali è come ritenere “over the top” l’interpretazione di Robert Duwall nella celeberrima scena di Apocalypse Now. Dunque, senza dubbio, senza l’“effetto Bilbao” non avremmo architetture che ci stupiscono. Il problema è come queste architetture s’inseriscono nel contesto. Il “fiore” di titanio che appare tra le vie uniformi del tessuto storico di Bilbao provoca uno shock positivo e inebriante. Altre architetture da archistar© calano dall’alto come Ufo. È il caso, ad esempio, del museo MACBA di Richard Meyer a Barcellona, al centro del quartiere del Raval. Si è creata una piazza famosa in cui regnano gli skaters, ma l’enorme “balena bianca” di Meyer appare certamente “fuori luogo” e “fuori scala”. Il problema è che, dopo Bilbao, si è pensato che un’architettura firmata da uno “stilista architetto” potesse risolvere tutti i problemi di una città in crisi. Il che non sempre avviene». Qual è la lezione e il contributo al tema che emerge dalla Biennale Architettura 2016 di Venezia? «Si potrebbe dire senz’altro, a prima vista, che la Biennale di quest’anno sancisce la fine delle archistar©. Vi sono certamente diversi nomi di fama, e persino alcune archistar©, tra gli architetti invitati, a cominciare

da Lord Norman Foster e dal senatore Renzo Piano, seguiti, in rigoroso ordine alfabetico, per non toccare la suscettibilità di nessuno, da Francisco e Manuel Aires Mateus, Tadao Ando, Shigeru Ban, João Luís Carrilho da Graça, David Chipperfield, Herzog & de Meuron, Kengo Kuma, Richard Rogers, Kazuyo Sejima & Ryue Nishizawa, Luigi Snozzi, Eduardo Souto de Moura e Peter Zumthor. Ma, nell’insieme, il tema scelto per la 15a edizione è un invito all’architettura a occuparsi di temi sociali, come evidenziano le parole chiave scelte dal curatore: vita, ineguaglianze, segregazione, insicurezza, periferie, migrazione, informalità, igiene, rifiuti, inquinamento, catastrofi naturali, sostenibilità, traffico, spreco, comunità, abitazione, mediocrità, banalità (definite d’imbarazzante prevedibilità in un articolo apparso on-line sul sito www.artribune.com/2016/06/biennale-architettura-reporting-fromthe-front-alejandro-aravena-top-flop/). Il risultato, curioso e paradossale, è stato però di far diventare un’archistar©, grazie anche al suo sex-appeal da fotomodello – dunque del tutto all’interno del paradigma delle archistar© – proprio il direttore stesso della Biennale anti-archistar©, Alejandro Aravena, consacrato definitivamente tale dal premio Pritzker 2016. La “Società dello spettacolo” non perdona…».


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Alla ricerca dei profondi legami fra artificio e natura Francesco di Gregorio (1985) è architetto con sede tra Parma e Parigiha Ha frequentato l’Accademia di Architettura di Mendrisio dove si è laureato nel 2010 e ha studiato presso il Royal Institute of Technology di Stoccolma. Partner dello studio Di Gregorio Associati (Parma), Francesco sviluppa l’attività progettuale dalla scala ebanista dell’interior design fino ad arrivare alla scala urbanistica e territoriale. Il suo lavoro si concentra sul rapporto dialettico tra struttura e territorio. Di Gregorio ha di recente diretto progetti, oltreché in Italia, in Spagna, Svezia, Francia, Germania e Brasile, confrontando il proprio approccio progettuale con condizioni sempre diverse, talvolta legate a contesti storici, talvolta generici. Al momento è impegnato su una serie di progetti: Bologna Fiere; Progetto per il revamping del complesso fieristico; Parma Urban District, un nuovo shopping center multifunzionale interamente prefabbricato; Castel Frentano, casa unifamiliare nella campagna abruzzese; Monticello, trasformazione di un edificio rurale in un vigneto sulle colline parmigiane. Tra i lavori più recenti vi sono: Cibus è Italia, padiglione completato in occasione di Expo 2015 a Milano e successivamente riadattato come nuovo Ingresso Ovest delle Fiere di Parma (2016); Cot Duà, complesso residenziale a São Miguel do Gostoso in Brasile (2014); Cittadella del Rugby, la nuova tribuna principale dello Stadio di Parma (2013); Fohr, ristrutturazione di un antico fienile in un’isola del Mare del Nord in Germania (2012); Tiles and Concrete, recupero di uno storico edificio rurale a Lasagnana, nella campagna emiliana (2011). In occasione dell’incontro a Cesena Di Gregorio presenterà alcuni dei suoi progetti più significativi fra cui : Synthesiscity (Stoccolma, 2008); Piastrelle & Cemento (Tizzano Val Parma, 2011); Föhr, Germania, 2012); Cibus è Italia (Expo 2105, Milano – Fiere di Parma, 2016).

Nella pagina a sinistra in alto: Zaha Hadid, foto di Steve Double. Alejandro Aravena, foto di Cristobal Palma. In questa pagina e in basso, immagini di alcuni progetti dellarchitetto Francesco DI Gregorio

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Teatro Bonci,

una storia spettacolare Le vicende del palcoscenico cesenate che compie 170 anni di Serena Simoni I festeggiamenti del Bonci di Cesena per i 170 anni della propria storia rimandano all’inaugurazione del teatro, avvenuta il 15 agosto 1846 dopo una lunga storia di progetti intrapresi e abbandonati, che pure era riuscita a bruciare nei tempi la nascita dei teatri comunali di alcune città romagnole come Ravenna e Rimini. L’impresario romano Vincenzo Jacovacci, a cui era stato affidato nel 1846 il compito di celebrare la tanto attesa apertura al pubblico dell’edificio, corrispose in modo adeguato alle aspettative dei cesenati accorsi in massa all’evento. La scelta del Comune sull’organizzatore non era caduta a caso: per i giudizi dell’epoca si trattava del miglior impresario sulla piazza che, nonostante alcuni vizi conclamati – le fonti lo descrivono come uomo assai avido e tirchio –, poteva contare su una grande dimestichezza con gli artisti più accreditati del tempo: fra questi, addirittura Giuseppe Verdi che pur riconoscendone i limiti lo trovava simpatico e degno di grande stima. L’apertura della stagione con l’Ernani e I lombardi del grande compositore, chiamato ad inaugurare il teatro cesenate, non sortì però un grande entusiasmo in città nonostante la presenza di un’interprete lirica affermata come Teresa de Giuli-Bosi. Molto meglio andarono le repliche della Maria di Rohan di Gaetano Donizetti che avevano aperto la stagione e, un paio di settimane dopo, quelle del balletto della Beatrice di Gand per la coreografia di Domenico Ronzani. Ciò che non potè la mu-

sica riuscì alla silhouette sensuale dell’interprete principale, la ballerina di origine austriaca Fanny Elssler, all’epoca una delle stelle della danza internazionale. A leggere le cronache del tempo, a Cesena venivano invitati gli artisti musicali e teatrali più in vista non solo in Italia, prima o poco dopo essere stati alla Scala di Milano, il teatro che funzionava da modello come edificio e scelte di programmazione. Nel 1778, proprio il Teatro milanese era stato infatti uno dei primi in Italia ad essere costruito seguendo un impianto a ferro di cavallo obbedendo alle tesi innovative per il tempo di Francesco Algarotti. Criticando la tradizione precedente che privilegiava la cavea a campana, il saggista indicava questa come la pianta migliore per la resa acustica. Diffuso solo alla metà del secolo successivo, il modello venne scelto anche dal progettista del Bonci di Cesena, l’architetto Vincenzo Ghinelli, che approdava nella città romagnola dopo una lunga esperienza di costruzione di teatri e di interventi architettonici nelle maggiori città marchigiane. Il pubblico cesenate non aveva apprezzato solo le musiche, le danze e

In alto a sinistra: prospetto del Teatro Bonci di Cesena (foto Pietro Barberini). In basso a sinistra: il foyer del teatro. Sotto: la sala del teatro.

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la grande festa organizzata in città per l’inaugurazione della prima stagione del teatro, ma ne aveva appoggiato anche la costruzione, sostenendo costi mirabolanti per l’epoca, arrivati a sfiorare le 490.000 lire. Il tutto non sorgeva dal nulla ma da una lunga tradizione teatrale che in Romagna aveva radici profonde: a Cesena, probabilmente le prime rappresentazioni pubbliche vennero realizzate nel periodo medievale, mentre in epoca moderna si hanno testimonianze di rappresentazioni teatrali per il 1560: una data, questa, che andrebbe approfondita in relazione al valore politico attribuito al teatro da alcuni esponenti della Legazione pontificia come il Presidente di Romagna Pier Donato Cesi, che sperimentarono la possibilità di pacificare la Romagna anche mediante rappresentazioni teatrali recitate dai rampolli delle famiglie aristocratiche, al tempo acerrime nemiche. Ad ogni buon conto, Cesena nel 1618 possedeva un teatro stabile nella sede di Palazzo Alidosi, poi Spada, che continuò la propria attività fra vicende alterne fino al 1843. Proprio alla metà del ‘700 è il famoso tombeur de femmes Giacomo Casanova ad assistere ad una rappresentazione nel teatro di Cesena, che – ironia della sorte – mette in scena proprio la Didone abbandonata di Metastasio. Atterrato nel 1783 per ordine di Spada, il teatro verrà ricostruito in legno poco più di una decina di anni dopo: l’ennesima inaugurazione, avvenuta nel 1798, viene celebrata con l’opera buffa La donna volubile di Marcantonio Portogallo. Nonostante la frequentazione e la decisione da parte della Municipalità di accollarsi i costi della programmazione teatrale, l’edificio è considerato fin da subito sottodimensionato ri-


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spetto ai desideri e le necessità della cittadinanza. Dai primi decenni dell’Ottocento inizia così un percorso accidentato che porta a progettazioni talvolta molto sperimentali come quella dell’architetto Leandro Marconi, scartate perchè pensate per la sede non convincente del Palazzo comunale. L’idea che prende piede negli anni è quella di acquistare Palazzo Spada, che possiede una buona collocazione e lo spazio giusto: le trattative fra il Comune e il proprietario troveranno un approdo solo dopo una ventina di anni, nel 1842, quando - contestualmente all’acquisto - viene chiamato l’architetto Ghinelli a realizzare il nuovo progetto del teatro, consegnato in stesura definitiva praticamente subito, nell’aprile dello stesso anno. Nonostante la lunga incubazione, basterà solo un anno dalla posa della prima pietra - avvenuta il 15 agosto 1843 - per concludere la costruzione, mentre altri due saranno necessari per completare le decorazioni dell’edificio, gli arredi e la fornitura delle apparecchiature. Una volta terminato, il progetto di Ghinelli si presenta come lo vediamo oggi: un edificio neoclassico non distante dal modello milanese di Piermarini di cui viene ampliato il primo ordine di archi in bugnato, coronato in entrambi i casi da una balconata. La facciata del Bonci viene scandita da un secondo ordine di ampie finestre intercalate a semicolonne che sorreggono la trabeazione, su cui viene impostato un frontone come a Milano. Nella città romagnola il linguaggio della Scala si semplifica e si scalda grazie ad una forte semplificazione dei volumi e all’alternanza dei colori bianco e rosso mattone. L’importanza non si incentra come nella capitale lombarda nella severità del bianco, ma nella scelta della

collocazione, posta nel cuore della città su una piazza di rispetto che dà direttamente sulla via Emilia. L’idea è che qualunque forestiero arrivi tramite l’asse viario cittadino principale, posi lo sguardo sulla costruzione che deve costituire il simbolo della vita culturale e sociale delle élites cittadine. É il frontone esterno che rammenta a tutti i visitatori l’identità del luogo nei bassorilievi raffiguranti lo stemma cittadino e le personificazioni dei due fiumi prìncipi, il Savio e il Rubicone, mentre le decorazioni a cotto fra le lesene definiscono la funzione dell’edificio nelle figure di Apollo, Dioniso e delle nove Muse, protettrici delle arti. Che l’edificio fosse una sorta di schermo su cui la cittadinanza poteva proiettare la propria autorappresentazione se ne ha testimonianza nella capacità dell’edificio, leggermente sovradimensionata per la reale po-

In alto, da sinistra: Manifesto delle celebrazioni dei 170 anni del Teatro Bonci di Cesena; Alessandro Bonci nei panni di Riccardo in Un ballo in maschera di Verdi (Casa della Musica, 1900 circa); Il tenore Alessandro Bonci in una foto autografata del 1911; Statuetta in porcellana raffigurante la ballerina austriaca Fanny Elssler (1870 circa). Fanny Elssler interpreta Sarah Campbell nel balletto La Gypsy (1839). Sotto, da sinistra: Due foto di Carmelo Bene nei panni di Riccardo III con l'attrice Susanna Javicoli; (stagione teatrale 1977-’78) Pianta del Teatro Bonci.

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polazione dell’epoca. Sarebbero bastati meno di un migliaio di posti, ma il teatro viene organizzato su quattro ordini di palchi a cui si aggiunge il quinto, costituito dal loggione, in modo da ospitare contemporaneamente almeno 1200 persone. Rigorosamente separati dai plebei che si radunano nel loggione, la nobiltà cesenate – secondo le tradizionali leggi sociali applicate in tutta Italia – acquista i palchi a lei riservati che passeranno poi in via ereditaria, mentre i posti in platea vengono occupati dai borghesi. Nonostante le rigide divisioni spaziali, il pubblico è abituato a concepire lo spazio come privato. Questo spiega il fatto che i palchi siano protetti dagli sguardi indiscreti dei vicini e che il pubblico interagisca con chi è in scena con urla, fischi, lanci di doni e fiori. C’è addirittura chi prosegue lo schiamazzo fuori dallo spazio teatrale, inseguendo personaggi pubblici e attori, trainando carrozze o testimoniando il proprio favore fin sotto alle finestre degli alberghi dove alloggiano attori, cantanti o musicisti. Ad attirare le attenzioni dei fans,

sono le dive dell’Ottocento come le attrici drammatiche Adelaide Ristori e Irma Gramatica, o grandi attori come Ermete Novelli. Una particolare attenzione viene dedicata a un cesenate doc, il tenore Alessandro Bonci, che da apprendista calzolaio si trovò dapprima a calcare le scene del Regio di Parma, per proseguire le proprie esecuzioni in tutta Europa e negli Stati Uniti. Nel settembre 1927, avendo preso la decisione di ritirarsi dal lavoro, tornò nella sua città natale in occasione dell’intitolazione del teatro cittadino al suo nome. In quella serata, alla presenza di un teatro straripante di concittadini, cantò la Messa da requiem di Verdi ricevendo doni e un’acclamazione corale. Solo la seconda guerra mondiale ha posto fine ad un certo divismo e alle intemperanze del pubblico: al Bonci, fin dagli anni ‘50 si susseguono alcune prime di rilievo e passano artisti del calibro di Vittorio Gassman, Salvo Randone, Lina Volonghi, Romolo Valli, Annamaria Guarnieri, Rossella Falck, Dario Fo e Franca Rame. Si tratta solo alcuni dei grandi interpreti che calcano il palcoscenico del teatro nel susseguirsi degli anni. Il pubblico segue con attenzione, proseguendo la tradizionale passione verso tutte le arti teatrali: ciò che viene meno è solo quell’euforia effervescente che aveva contraddistinto in passato tutte le serate prima, durante e dopo lo spettacolo. Il pubblico è cambiato e forse solo un divo se ne ricorderà nel 1977. È Carmelo Bene, che ospite in città con l’indimenticabile Riccardo III, a metà della notte spalanca le finestre della propria camera d’albergo che dà sulla piazza e ...si libera la vescica. Qualche cesenate ricorda ancora l’episodio (che è qualcosa di più di un racconto metropolitano) ma per i posteri Carmelo Bene sarà sempre e solo uno dei più grandi geni del teatro del ‘900 italiano.

Sopra: il Teatro della Scala di Milano in una incisione del 1789. Sotto: Incisione d’epoca in occasione della prima della Messa da Requiem di Verdi (1874, © Museo Teatro alla Scala).


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Imparare a vedere

Guido Guidi e il senso per l’immagine di Sabina Ghinassi Come critico d’arte, chi scrive ha sempre manifestato un disagio quando un artista, anche se importante e famoso, era chiamato “maestro”. L’ho sempre trovata un’inutile gigioneria, un po’ imbarazzante anche da ascoltare. Con gli anni, pur rimanendo della mia idea, ho imparato che ci sono moltissimi Maestri e che questi, nel 90 % dei casi, manifestano di fronte all’appellativo Maestro il mio stesso disagio perché la loro vocazione più radicata è quella di continuare ad imparare, a ricercare, ad osservare e a stupirsi trovando nuove chiavi di lettura e di comprensioni del mondo. Si sentono soprattutto allievi e non Maestri. Questi Interlocutori che non si stancano di indagare, di inventare e di ricercare, li riconosci dalle tracce che lasciano, tracce che a volte cambiano la vita di chi incrociano per strada. Guido Guidi, il grande fotografo di Cesena, è uno di questi personaggi. Lui ha lasciato e continua a lasciare grandi tracce che tanti cercatori seguono, per poi scoprire altri sentieri. All’Accademia di Belle Arti di Ravenna dove lui ha insegnato fotografia diversi anni ( mantenendo anche una cattedra allo Iuav di Venezia) le sue ore di docenza erano le più affollate e seguite tra tutti i corsi. Le sue parole e le sue immagini hanno fatto nascere in decine e decine di allievi esperienze straordinarie e hanno colonizzato come erbe ruderali gli anfratti nascosti dei nostri orizzonti, regalando a tutti un nuovo modo di sperimentare lo spazio in cui viviamo. Da lui e dalle sue azioni “pedagogiche” e di indagine sono nati Osservatorio Fotografico a Ravenna (la piattaforma di

sperimentazione di ricerca fotografica creata dalla storica dell’Arte Silvia Loddo e dal fotografo Cesare Fabbri), il Sifest di Savignano e Linea di Confine per la Fotografia Contemporanea a Reggio Emilia; da lui si è diffuso, lentamente, come per sedimentazione geologica, un diverso modo di guardare il paesaggio nel nostro territorio, un territorio che però non è rimasto circoscritto ma si è dilatato grazie a tutti coloro che sono entrati in contatto con le sue narrazioni visive e le hanno raccontate a loro volta a qualcun altro. È sorprendente, infatti, come Guidi sia molto amato anche dagli appartenenti alla generazione digitale, da chi dovrebbe vivere di photoshop, social & visual media. Certo è che, per chi ha scelto la fotografia come linguaggio artistico ed è giovane, le sue spalle sono ottime spalle su cui salire per guardare in profondità il

Pagina a fianco, in alto a sinistra: Bunker_Vlissingen 2005. In alto a destra: Cesena 1970. In basso a sinistra: Cesena 1972. In basso a destra: Fosso Ghiaia 1971. In questa pagina, a sinistra: Fosso Ghiaia 1971. Al centro: Meldola 1973. A destra: Mies_Farnsworth House, Plano Illinois 1999.

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ARTE E FOTOGRAFIA

mondo: lui è un buon tracciatore di strade e di orizzonti. Guidi è nato nel 1941 a Cesena, ha studiato all’Artistico di Ravenna e poi Architettura e Disegno Industriale allo Iauv di Venezia. Suoi insegnanti e mentori sono stati Bruno Zevi, Italo Zannier e Luigi Veronesi. Vive ancora, quando non è in giro per il mondo, a Ronta di Cesena. Fotografa dalla seconda metà degli anni sessanta e uno dei suoi lavori più famosi è stato Viaggio in Italia, il progetto coordinato da Luigi Ghirri che, per primo, raccontò nel 1983 un’Italia lontana dagli stereotipi del Belpaese in tempi non comodi per un’indagine non allineata con l’edonismo di quel decennio. Compagni di Viaggio di Guidi, oltre a Ghirri stesso, furono altri diciotto importanti fotografi: Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Giannanto-

nio Battistella, Vincenzo Castella, Andrea Cavazzuti, Giovanni Chiaramonte, Mario Cresci, Vittore Fossati, Carlo Garzia, Shelley Hill, Mimmo Jodice, Gianni Leone, Claude Nori, Umberto Sartorello, Mario Tinelli, Ernesto Tuliozi, Fulvio Ventura, Cuchi White. Da quell’esperienza è nata quella che in seguito hanno definito la Scuola Italiana del paesaggio. «Molte volte per fotografare mi sono fermato casualmente, ma in ogni luogo ci sono delle cose che mi attraggono immediatamente. Quello che mi interessa costruire in fotografia sono relazioni degli oggetti tra loro e con lo spazio. L’oggetto fa parte dello spazio, del contesto, scaturisce da esso, non è fuori. La fotografia è quasi un portare alla luce: si tratta di fare pulizia, la fotografia è anche questo, ma una pulizia che fa molta at-


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In alto, da sinistra: Rimini Nord, 1991; Rimini Nord, 1991; Ronta, 1981. Sotto, da sinistra: Ronta di Cesena, gennaio 1983; Ronta, 1981; Ronta, 2015; SanGiorgio, 2003.

tenzione a non togliere troppo. Una pulizia di inquadratura, che non riguarda la “composizione” della fotografia (questo è un termine che riguarda soprattutto la pittura), ma la struttura, l’ossatura. Come diceva John Cage, “la struttura non è la vita, ma senza struttura la vita non si vede”» – ha spiegato in un’intervista di qualche anno fa. Da allora gli sono state dedicate molte mostre importanti nel mondo: dal Fotomuseum di Winterthur, il Guggenheim e il Whitney Museum di New York, al Centre Georges Pompidou di Parigi, sino alla Fondation Henri Cartier-Bresson di Parigi e all’ Huis Marseille di Amsterdam ( con la retrospettiva Veramente, esposta nel 2014-15 anche al Mar di Ravenna) alla Fondation A Stichting di Brussels (Col tempo, aperta sino all’11 dicembre 2016) e alla Large

Glass di Londra (Guido Guidi: Facciate / Facades, sino al 22 dicembre 2016). Ci sono stati anche progetti affascinanti e letture straordinarie delle nuove geografie dei luoghi in cui ci troviamo a vivere: Esplorazioni sulla via Emilia. Vedute nel paesaggio nel 1986, Archivio dello Spazio della Provincia di Milano nel 1991, l’indagine sull’edilizia pubblica dell’InaCasa del 1999, Atlante Italiano 003 del DARC nel 2003. E insieme ci sono le indagini e le pubblicazioni sulle opere di Le Corbusier (Einaudi, 2003), Carlo Scarpa e Ludwig Mies van der Rohe (Canadian Centre for Architecture, 1999 e 2001). Sia che fermino architetture, paesaggi urbani, rurali o spazi marginali , le sue rappresentazioni hanno sempre un nitore claustrale e antiretorico; sono bellissime ma restano sempre lontane dalle tenta-

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In alto: Le Corbusier Usin Duval_Saint-Dié-des-Vosges_24_04_2003. Sotto: Montaletto, 1973.

zioni estetizzanti o barocche. Non c’è mai autocompiacimento egotico in lui, né si potrà mai “sono fotografie carine”, perché le sue opere si espongono attraverso una verità spartana; possono piacere oppure no, ma si pongono comunque anticonsumistiche alla radice, nude, senza orpelli e strategie oblique. Sono, per qualche strana via, adattissime a narrare il nostro orizzonte visivo quotidiano e insieme ne sono l’esatto opposto, l’antitesi estrema. Rappresentano l’esatto opposto della nostra percezione disattenta perché ci raccontano altro, immettono un elemento di frattura nella velocità, nell’iperproduzione bulimica e transestetica di immagini ed eventi (dove non c’è nulla da vedere) che ci invadono la vita. Creano un corto circuito nella nostra esperienza, impercettibile, ma duraturo. Le fotografie di Guidi hanno la percezione del nostro limite inviolabile e lo rispettano, e nel far questo paradossalmente ci cambiano lo sguardo, anche se non ce ne accorgiamo. Ci documentano un altro che è lì e ci sfugge sempre perché silenzioso, abbandonato e residuale; lo raccontano attraverso la sedimentazione e l’attesa, senza giudicare ed emettere sentenze. Guardarlo implica una responsabilità estetica. E questo, di questi tempi, è un’affermazione pacifica ma profondamente rivoluzionaria.


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> Lo studio di Danilo Montanari nella galleria di via Antonio Zirardini 3.


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È una questione di libri Intervista all’editore Danilo Montanari di Marina Mannucci Collezionista e editore, Danilo Montanari opera nel mondo dei libri dal 1980. Ha pubblicato centinaia di volumi, in gran parte di arte contemporanea, con una particolare attenzione ai libri d’artista. Nel 2013 l’Istituzione Biblioteca Classense di Ravenna ne ha ospitato la collezione, una ricca documentazione della storia del libro d’artista dagli anni ’60 a oggi ed anche del suo sodalizio con Giulio Paolini. Il catalogo Una biblioteca d’artista. La collezione e le edizioni di Danilo Montanari, stampato in quell’occasione, oltre a un testo di Maura Picciau, direttrice del Museo nazionale delle tradizioni popolari di Roma, contiene una serie di contributi sul tema, alcune testimonianze autografe e progetti di artisti con i quali Danilo Montanari ha collaborato nel corso del tempo. «La nascita del libro d’artista si situa all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, quando le avanguardie, forti delle esperienze futuriste di Fortunato Depero e Tullio d’Albisola e dei poemi-oggetto surrealisti e dada degli anni Venti e Trenta, nel rifiutare il concetto elitario del capolavoro come oggetto unico, scelsero di utilizzare i mezzi di comunicazione di massa: fotografia, grafica pubblicitaria, fotocopia, video. Tale nuova configurazione del libro venne esplorata contemporaneamente in Europa e in America […] e portò in tempi brevi all’azzeramento della realtà dell’oggetto in favore dell’enunciazione concettuale, come nel caso delle cento pagine bianche di Piero Manzoni […]. L’apparizione del libro d’artista […] va annoverata tra i sintomi di una esigenza di confronto fuori dalle istituzioni e dal circuito delle gallerie. Scelto dapprima perché non usurato, il supporto libro è stato inteso nei successivi sviluppi quale sede di progetti innovativi per materiali e tecniche» (Antonio Mustari, Libro d’artista contemporaneo, in Il libro d’artista, a cura di Giorgio Maffei, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2003, pp. 119-120). Il libro d’artista, per potersi studiare e tramandare, necessita di editori, mercanti, collezionisti, conservatori e divulgatori. In Europa e nel mondo sono diversi gli eventi che offrono occasione a collezionisti e bibliofili d’incontrarsi e aggiornarsi in merito alle proposte degli editori e degli artisti. Di seguito l’intervista a Danilo Montanari, al quale ho chiesto di raccontarmi alcuni suoi momenti di vita. «Sono nato a Marina di Ravenna negli anni Cinquanta, periodo in cui in quel territorio presero avvio importanti cambiamenti. Sono cresciuto nell’ultima strada a ovest di Marina, poco distante dal Marchesato, in una piccola costruzione vicino a dove una volta c’era l’Ospedaletto; a duecento metri un boschetto, a est il mare. Quello era tutto il mio mondo, chiuso, ristretto, protetto. In quegli anni ho ascoltato storie legate al paese, al mare e alla costa: siamo gente che naviga sotto riva, per non perder l’orientamento. A quei tempi il mercato del pesce di Marina era il più importante di tutto l’Adriatico, un vero spettacolo che si riproponeva tutti i pomeriggi. Nel tempo sono poi avvenute diverse trasformazioni e, tra queste, la più significativa è stata, negli anni Sessanta, la costruzione delle due dighe foranee. Più o meno nello stesso periodo, in paese, Michelangelo Antonioni girava alcune sequenze del film Il deserto

«La Bellezza di un libro come oggetto non può prescindere dal suo contenuto. Non c’è infatti sopruso maggiore di un libro stupido rilegato lussuosamente» Ennio Flaiano, Appunti, 1950-1972 (postumo, in Diario degli errori)

rosso, tra le fabbriche e i capanni della palizzata. Sono gli anni in cui anche Pasolini rimase affascinato, forse turbato, da quel paesaggio violento e turbinoso. Una storia che mi ha segnato: penso che attorno a Marina si giochino le sorti di Ravenna. Il modo in cui s’interviene su Marina di Ravenna è indicativo per comprendere il destino della città. Prendiamo ad esempio la così detta “palizzata” di Marina che si è evoluta nel corso del secolo passato da “palè”, intricate palafitte di legno che sostenevano un tavolato, all’attuale lunga strada in mezzo al mare, una portaerei in cemento non ancora restituita alla vita con un progetto d’arredo e per la quale mi prendo il merito, se così si può dire, di aver fatto mettere, almeno, le panchine. E poi c’è tutta la questione di Marinara, emblematica per leggere anche le vicende politiche e gli intrecci di potere di Ravenna negli ultimi decenni, se mai qualcuno vorrà occuparsene. “Non si uccidono così anche i cavalli?”. Giunto al Liceo, inizia la mia frequentazione di Ravenna, un passaggio difficile perché non mi sono mai sentito cittadino. Sono gli anni in cui mi avvicino alla politica come molti della mia generazione, dapprima con gli anarchici di “Umanità nova”, poi, negli anni Settanta, inizia la mia esperienza con Lotta Continua, vissuta con passione fino al 1976. Un periodo altamente formativo fatto di conoscenze affascinanti, di realtà e di persone, una scuola di valori che consentì di acquisire competenze nel campo della comunicazione e delle relazioni. Eravamo convinti che la classe operaia fosse al centro del progresso – e forse lo era – ma le cose sono cambiate rapidamente. Di pari passo frequentavo il Bar Mosaico. Una fase tumultuosa e controversa della mia vita per la diversità e qualità

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di relazioni che si potevano instaurare. In quel luogo d’incontro frequentato da giovani donne e giovani uomini, si radunava una sorta di umanità popolare, intellettuali, operai, studenti con un’egemonia culturale della sinistra rivoluzionaria, aperti tuttavia a sollecitazioni diverse e con una buona dose di tolleranza per tutte le diversità. Il venerdì sera, studentesse e studenti universitari fuori sede tornavano in città e portavano al bar i loro racconti facendo sì che idee diverse e innovative s’incrociassero, rendendo quel luogo uno spazio d’impegno oltre che di divertimento. Di lì passavano tutte le storie, nel bene e nel male. Dal 1977, poi, fino al 1983, ho abitato in una sorta di comune in via Salara. Eravamo quattro nuclei, con spazi riservati e spazi comuni, era un luogo aperto sempre affollato. In quegli anni mi mantenevo agli studi lavorando d’estate come bagnino di salvataggio, esperienza durata per un decennio. Erano tempi in cui fare il bagnino era rischioso. Oggi s’impara a nuotare

A sinistra, una delle stanze dell’appartamento. Sopra: la galleria.

dall’infanzia in piscina, allora solo la gente di mare sapeva nuotare. Era ancora un’epoca pionieristica. Alcuni tra i più esperti erano pescatori e poi c’eravamo noi studenti, ma cresciuti sul mare, legati da amicizia e spirito di solidarietà con quel tanto di sfrontatezza verso la vita che trasformava ogni giornata in qualcosa da ricordare. E così è, infatti, per noi, ancora oggi. Poi la sera si andava allo Xenos o al Joly (volgarmente “e’ giolli”), senza pagare perché in qualche modo eravamo un’attrazione. La mia attività professionale si è concretizzata in modo inaspettato: da ragazzo avrei voluto fare prima il marinaio e poi lo scrittore. Per quanto riguarda il marinaio mi sono fermato a bagnino… A scrivere ho anche provato, ma ho capito ben presto che non avrei avuto la tenuta per farlo e neanche il talento necessario. Ho iniziato l’avventura di editore perché ero affascinato dal mondo dei libri, anche se non mi aspettavo che sarebbe diventato il lavoro della mia vita. Penso di aver avuto molta fortuna e sono riconoscente a Massimo Casamenti, col quale ho condiviso esperienze professionali importanti, dal laboratorio della cooperativa Supergruppo alla Casa Editrice Essegi, e a Giulio Guberti, critico d’arte e scrittore, per avermi introdotto in questo mondo. Non di meno sono riconoscente ad Alvaro Becattini che m’insegnò a pensare i libri d’artista. Io di mio sono abbastanza avventuriero, una caratteristica che nel mondo dell’editoria aiuta; ho dovuto cercare strade sempre nuove e fortunatamente le ho trovate con esiti anche significativi, così almeno credo. Artisti come Mario Schifano, Giulio Paolini, Maurizio Cattelan, o l’antiquario Giorgio Maffei, sono persone che ho frequentato a lungo e che, oltre ad avermi regalato la loro amicizia, mi hanno permesso di aprirmi ad altre relazioni introducendomi in ambienti

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davvero lontani dalla casa di via Garibaldi. L’arte è una zona franca, si lavora spesso nell’effimero, i valori e le tendenze cambiano con estrema rapidità e si devono sapere cogliere in anticipo le nuove direzioni; nel contempo, è necessario valutare cosa sarà recuperato dal passato. Nei primi anni dell’attività editoriale ci si occupava prevalentemente di cataloghi di mostre – era il periodo d’oro degli assessorati alla cultura. Iniziative spesso fini a se stesse, grande clamore all’inaugurazione delle mostre, poi il silenzio e la rimozione, con la rara eccezione delle tre, quattro esposizioni che hanno fatto epoca. Di gran lunga più interessanti le edizioni d’artista, che sono, esse stesse, opere, in genere firmate e numerate. A volte possono essere anche un oggetto unico (unique). Negli anni, l’attenzione verso queste produzioni artistiche di nicchia è cresciuta ed ha una sua presenza stabile anche nelle fiere d’arte. In Italia, solo in questi anni si sta costruendo un collezioni-

smo privato. In altri Paesi, in particolare negli Stati Uniti e nel nord Europa, questo processo è stato avviato da molto più tempo. Nei grandi musei internazionali, dal Centre Pompidou di Parigi allo Stedelijk di Amsterdam, dal MoMA di New York al Moderna Museet di Stoccolma, si possono trovare importanti raccolte di libri d’artista e questo consente di poter fare anche ricerca. Il maggiore evento dedicato a questo genere di opere d’arte si tiene a ottobre al PS1 di New York ed è l’Art Book Fair: una fiera di editori e di librai antiquari con circa trecento espositori da tutto il mondo alla quale partecipo ormai da diversi anni. Ci tengo particolarmente a citare un evento culturale curioso e al tempo stesso di qualità che si svolge a Ravenna da alcuni anni: il Festival dell’editoria indipendente “Fahrenheit 39”, curato dall’Associazione Culturale Strativari. Un appuntamento di livello internazionale, per professionisti, ricercatori e operatori del settore e che mantiene una propria identità di ricerca attraverso un rigore


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A sinistra, l’entrata dell’appartamento di Danilo Montanari. A destra, Danilo Montanari nelle vesti di bagnino in una foto... datata!

curatoriale e una forte impronta sperimentale. Riguardo alla politica culturale della città, dalla quale, trovandomi spesso fuori Ravenna, mi sono allontanato, sono dell’idea che le iniziative siano spesso autoreferenziali e questo è un atteggiamento che non premia. Non aiuta ritenersi sempre i migliori, per il semplice fatto che non sempre lo siamo. Il ceto medio culturale ha una conoscenza scarsa della storia e della cultura di questa città, carenza che si riflette in una sua non sempre corretta valorizzazione. Inoltre ci sono molte realtà disperse che non hanno la buona abitudine di comunicare tra loro. Manca uno sguardo lungimirante e complessivo, un Corrado Ricci o un Luigi Rava purtroppo capitano ogni qualche secolo, ma anche l’attenzione alla conduzione corrente è deficitaria. Basti l’esempio di Galla Placidia, dove un cartello recita “mausoleo del secondo quarto del quindicesimo secolo”. Per non parlare del rapporto irriverente con gli architetti, da Giovanni Michelucci a Renzo Piano, o,

più modestamente, anche solo Stefano Boeri. L’anima agraria della città finisce con il prevalere. E anche Forlì, al confronto, sembra Parigi. Poi c’è il secolare problema dei collegamenti ferroviari che nessuno sembra volere seriamente affrontare (preferendo perdere tempo e denari per progetti improbabili come il bypass sul Candiano (ricordate?) destinati a naufragare. Inoltre la fase industriale in declino induce a riflettere su un prevedibile degrado ambientale e impoverimento economico del territorio (le aree delle ex raffinerie che nessuno vuole bonificare o le acque altamente inquinate del Candiano nel suo ramo terminale). Si pone con urgenza la necessità di uno sforzo creativo collettivo, e sarà necessaria soprattutto una capacità di saper immaginare libera e indipendente. Tenendo sempre presente che le trasformazioni, se non sono ben pensate, possono essere anche violente e deturpare un territorio per sempre, come appunto insegna la storia recente».

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ABITARE L’HABITAT

Per una carta della condivisione È necessario diffondere la cultura di una partecipazione effettiva e “di qualità” dei cittadini alle decisioni che riguardano il territorio e le città in cui vivono

di Marco Turchetti * Nel dicembre 2014 l’Istituto Nazionale di Urbanistica ha promosso la sottoscrizione della Carta della Partecipazione. Si è trattato dell’inizio di un percorso che punta al progressivo coinvolgimento di enti pubblici e strutture associative per creare una rete e, attraverso l’applicazione della Carta, diffondere la cultura di una partecipazione effettiva e “di qualità” dei cittadini alle decisioni. Infatti quando oggi parliamo genericamente di “partecipazione”, rischiamo di creare diffidenza o fraintendimenti. Non esistendo in Italia una vera e propria disciplina, né strumenti di certificazione delle competenze, la materia è oggetto di interpretazioni diverse, a volte approssimative o contrastanti. In una materia così delicata, che ha a che fare con il rapporto di fiducia tra le istituzioni e i cittadini, la Carta della Partecipazione cerca di portare competenza e rigore metodologico, definendo delle regole minime che aiutino a progettare o a valutare la qualità di un processo partecipativo. Nata dall’esperienza “sul campo” di un centinaio di facilitatori es-

perti di diverse regioni, e approfondita grazie al contributo di importanti associazioni nazionali che operano a stretto contatto con i cittadini, la Carta è un documento breve e scorrevole composto da 10 semplici principi, comprensibili a tutti, che indicano come dare qualità al processo partecipativo. La Carta può essere usata come una traccia metodologica in fase di progettazione di un percorso di coinvolgimento dei cittadini, oppure come griglia da usare in fase valutativa per determinare la qualità di un processo partecipativo proposto o realizzato. Può anche essere utilizzata come spunto di riflessione per accrescere la cultura della partecipazione e far comprendere la complessità delle dinamiche e dei ruoli, aiutando i decisori a riconoscere gli esiti dei processi partecipativi come parti integranti dei procedimenti di formazione delle scelte pubbliche. L’idea di partecipazione introdotta dalla Carta accompagna l’intero ciclo di elaborazione e implementazione delle politiche pubbliche, compreso il momento della gestione e dell’attuazione, affinché i cittadini diventino parte attiva nella realizzazione dei progetti e nella presa in cura dei beni comuni.


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La partecipazione del cittadino alla vita democratica è un principio che discende direttamente dal diritto di sovranità popolare e dal diritto di cittadinanza, riaffermati dalla normativa europea (Libro bianco della Governance, Convenzione di Aarhus, Carta europea dei diritti dell’uomo nella città, ecc.), dalla Costituzione Italiana (in particolare art. 118 ultimo comma) e da diversi statuti e leggi regionali. Perché un percorso partecipativo produca buoni frutti è importante che i promotori e la comunità di riferimento siano sensibilizzati alla cultura della partecipazione e siano affiancati da esperti competenti, che sappiano padroneggiare non solo il repertorio delle tecniche ma anche la complessità delle dinamiche e dei ruoli e il monitoraggio del processo nella sua interezza. È altresì indispensabile che gli esiti dei processi partecipativi siano riconosciuti dalle istituzioni competenti come parti integranti dei procedimenti di formazione delle scelte pubbliche e siano tradotti in provvedimenti normativi e amministrativi o in pratiche di cittadinanza attiva condivise.

Pagina a fianco: la Carta è un documento breve e scorrevole composto da 10 semplici principi, comprensibili a tutti, che indicano come dare qualità al processo partecipativo. In questa pagina: 1 - La partecipazione del cittadino alla vita democratica è un principio che discende direttamente dal diritto di sovranità popolare e dal diritto di cittadinanza, riaffermati dalla normativa europea. Siamo eredi, indegni, di un grande patrimonio. 2 - Un processo partecipativo coinvolge positivamente le attività di singoli, gruppi e istituzioni, verso il bene comune. 3 - Un processo partecipativo non si riduce a una sommatoria di opinioni personali o al conteggio di singole preferenze. 4 - Chi progetta, organizza e gestisce un processo o un evento partecipativo assicura la valorizzazione di tutte le opinioni, comprese quelle minoritarie. 5 - Un processo partecipativo in ogni fase rende pubblici i suoi risultati e argomenta pubblicamente con trasparenza le scelte di accoglimento o non accoglimento delle proposte emerse.

Partendo da queste premesse, le principali associazioni italiane (in unione di intenti con associazioni internazionali) che da diversi anni promuovono in tutte le regioni percorsi strutturati e informati di coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni pubbliche, ritengono

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opportuno condividere e adottare la presente “carta”, che definisce i principi base che, se tutti presenti, possono assicurare un processo partecipativo di qualità.

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Principio di inclusione. Un processo partecipativo si basa sull’ascolto attivo e pone attenzione all’inclusione di qualsiasi individuo, singolo o in gruppo che abbia un interesse all’esito del processo decisionale al di là degli stati sociali, di istruzione, di genere, di età e di salute. Un processo partecipativo supera il coinvolgimento dei soli stakehoders e rispetta la cultura, i diritti, l’autonomia e la dignità dei partecipanti.

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Principio di efficacia. Le opinioni e i saperi dei cittadini migliorano la qualità delle scelte pubbliche, coinvolgendo i partecipanti nell’analisi delle problematiche, nella soluzione di problemi, nell’assunzione di decisioni e nella loro realizzazione. Attivare percorsi di partecipazione su questioni irrilevanti è irrispettoso e controproducente.

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Principio di interazione costruttiva. Un processo partecipativo non si riduce a una sommatoria di opinioni personali o al conteggio di singole preferenze, ma fa invece uso di metodologie che promuovono e facilitano il dialogo, al fine di individuare scelte condivise o costruire progetti e accordi, con tempi e modalità adeguate.

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Principio di equità. Chi progetta, organizza e gestisce un processo o un evento partecipativo si mantiene neutrale rispetto al merito delle questioni e assicura la valorizzazione di tutte le opinioni, comprese quelle minoritarie, evidenziando gli interessi e gli impatti in gioco.

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Principio di armonia (o riconciliazione). Un processo partecipativo mette in campo attività e strategie tese a raggiungere un accordo sul processo e sui suoi contenuti, evitando di polarizzare le posizioni o incrementare e sfruttare divisioni all’interno di una comunità.

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Principio del render conto. Un processo partecipativo in ogni fase rende pubblici i suoi risultati e argomenta pubblicamente con trasparenza le scelte di accoglimento o non accoglimento delle proposte emerse, favorendo la presa di decisioni e riconoscendo il valore aggiunto della partecipazione.

La Carta della Partecipazione, in modalità open source e periodicamente aggiornata, ha lo scopo di accrescere la cultura della partecipazione e sviluppare linguaggi e valori comuni. Chi adotta questa Carta si impegna a rispettarne i principi e a diffonderla presso tutti coloro che desiderano avviare processi partecipativi o iniziative di partecipazione civica: cittadini e loro rappresentanti; esponenti del mondo della scuola e della ricerca; funzionari e rappresentanti delle amministrazioni pubbliche; consulenti e professionisti che operano nel settore; esponenti di organizzazioni. Si impegna altresì a praticare con coerenza i principi della presente Carta anche per risolvere, qualora si presentassero, criticità e conflitti all’interno della propria organizzazione o nei confronti di altri soggetti. I promotori si impegnano a favorire la creazione di una Rete della Partecipazione in Italia, tra soggetti operativi in ambito locale e nazionale, anche tramite lo scambio di informazioni e la realizzazione di buone pratiche.

PRINCIPI 1

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Principio di cooperazione. Un processo partecipativo coinvolge positivamente le attività di singoli, gruppi e istituzioni (pubblico e privato), verso il bene comune, promuovendo la cooperazione fra le parti, favorendo un senso condiviso e generando una pluralità di valori e di capitale sociale per tutti membri della società. Principio di fiducia. Un processo partecipativo crea relazioni eque e sincere tra i partecipanti promuovendo un clima di fiducia, di rispetto degli impegni presi e delle regole condivise con i facilitatori, i partecipanti e i decisori. Per mantenere la fiducia è importante che gli esiti del processo partecipativo siano utilizzati. Principio di informazione. Un processo partecipativo mette a disposizione di tutti i partecipanti, in forma semplice, trasparente, comprensibile e accessibile con facilità, ogni informazione rilevante ai fini della comprensione e valutazione della questione in oggetto. La comunità interessata viene tempestivamente informata del processo, dei suoi obiettivi e degli esiti via via ottenuti.

10 Principio di valutazione. I processi partecipativi devono essere valutati con adeguate metodologie, coinvolgendo anche i partecipanti e gli altri attori interessati. I risultati devono essere resi pubblici e comprensibili.

* Marco Turchetti [Progettare Sostenibile - Ravenna] info@progettaresostenibile.com

La Carta della Partecipazione cerca di portare competenza e rigore metodologico, definendo delle regole minime che aiutino a progettare o a valutare la qualità di un processo partecipativo.


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ORDINE ARCHITETTI RAVENNA

Con la collaborazione di Con il patrocinio di

Comune di Ravenna

Comune di Faenza

Comune di Cervia

Comune di Forlì

Comune di Cesena

ciclo di conferenze 2016 Otto incontri/confronti fra protagonisti esperti ed emergenti della progettazione contemporanea con tavola rotonda Andrea Dal Fiume Imola

Giovedì 17 MARZO Salone Nobile

Palazzo Rasponi RAVENNA

De Gayardon Bureau Cesena

Mauro Crepaldi

Giovedì 21 APRILE Show Room

Mide Architetti

Copparo (FE)

Oggetti d’Autore

Venezia

FORLÌ

Rossi&Tarabella

Giovedì 19 MAGGIO Show Room

Milano

Studio T

Bologna

RAVENNA

Zamboni Associati Architettura Reggio Emilia

Ciclostile Architettura

Giovedì 16 GIUGNO Padiglione delle Feste

Cavejastudio

Terme di Castrocaro

Forlì

CASTROCARO (FO)

Nicola Marzot

Giovedì 14 LUGLIO Cantina

Alvise Raimondi

Bologna

La Pandolfa

Cesena

PREDAPPIO (FO)

Diverserighestudio

Giovedì 15 SETTEMBRE Sala Conferenze

Bologna

Magazzini del Sale CERVIA (RA)

Alberto Giorgio Cassani Ravenna

Massimo Iosa Ghini Bologna

Giovedì 13 OTTOBRE Foyer

Teatro Bonci CESENA Giovedì 17 NOVEMBRE Sala Conferenze

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MERCATO IMMOBILIARE

di Roberta Bezzi

È stata l’occasione di confrontarsi su ciò che la politica a livello locale e nazionale può fare per valorizzare il mercato immobiliare e il bene casa, la recente serata organizzata dall’Asppi – Associazione sindacale piccoli proprietari immobiliari, intitolata “La variante Rue Ravenna. Nuove regole e nuove opportunità per la tua casa”. L’incontro è servito per offrire informazioni sulla Variante di adeguamento e semplificazione del Rue approvata con delibera del consiglio comunale n. 54946/88 del 14 aprile scorso ed entrata in vigore con la pubblicazione sul Bur n. 144 del 15 maggio, ma anche

per approfondire i temi relativi a incentivi e premialità per interventi di qualificazione e sostenibilità degli edifici. Sono state offerte anche notizie sulle principali semplificazioni e innovazioni della disciplina del costruito e sulle agevolazioni fiscali per ristrutturazioni e adeguamenti edilizi. In particolare, l’assessore comunale all’Urbanistica Federica Del Conte ha ricordato che Regione e Comune mettono a disposizione oltre due milioni di euro per la sicurezza sismica, ma la domanda va presentata in fretta, entro fine ottobre. L’architetto Silvia Rossi del servizio Ambiente ed Energia del Comune ha presentato il progetto europeo “Fiesta” e la possibilità di eseguire una audit della propria abitazione per avere suggerimenti sul come intervenire per renderla meno “energivora”. I tecnici co-


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Strumenti e incentivi per valorizzare il bene casa Un convegno dell’Asppi della provincia di Ravenna ha fatto il punto sulle opportunità degli interventi per riqualificare e rendere “sostenibili” di edifici esistenti munali Paola Bissi e Francesca Proni (architetto) hanno poi evidenziato i benefici messi a disposizione dall’Amministrazione comunale per chi fa ristrutturazioni volte a migliorare l’efficienza energetica dell’edificio e la sua staticità sismica. Da parte sua, Asppi – attraverso il suo presidente nazionale Alfredo Zagatti – ha preso una posizione chiara circa la necessità di una più equa tassazione sulla casa e di maggiori incentivi per la messa in sicurezza sismica degli edifici e il risparmio energetico. Due punti che stanno a cuore anche ai sindacati immobiliari, fra cui Fiaip e Fimaa. Asppi ha inoltre rilanciato la proposta, più volte presentata ai governi succedutisi negli anni, di “Fascicolo del Fabbricato”, una specie di carta d’identità dell’edificio, dalla nascita, dove elencare tutti gli interventi fatti per capire chi ha fatto cosa e chi ha autorizzato.

L’adozione del Fascicolo andrebbe concepita come una buona pratica da diffondere e da incentivare attraverso le necessarie misure fiscali, i vantaggi in termini assicurativi, l’accresciuta percezione da parte dei proprietari che esso conferisce valore all’immobile, riscontrabile al momento della vendita ove le garanzie di sicurezza assieme ad altri fattori fa il prezzo. «C’è poi da lavorare in materia di efficienza energetica e messa in sicurezza della casa – afferma Silvio Piraccini, presidente di Asppi Ravenna –. Mentre sul primo punto qualcosa è stato fatto, perché il ‘ritorno economico’ è più tangibile e immediato, ben più difficile è la messa in regola dal punto di vista sismico. In pochi sono disposti a investire 10-20 mila euro. Lo Stato dovrebbe agire sull’obbligatorietà, ma offrendo maggiori incentivi. Asppi sta inoltre lavorando sulla possibilità di far in-

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MERCATO IMMOBILIARE serire nei patti territoriali, che sono basati su parametri certi, anche un indice correlato alla classe energetica in modo da consentire di chiedere, a chi dà in affitto una casa con coefficiente più alto, un canone più elevato e remunerativo. L’abolizione della Tasi sulla prima casa è stata poi una battaglia portata avanti con successo. Crediamo nel concetto che le tasse debbano essere pagate sul reddito realmente percepito e non su quello ipotetico, soprattutto ora che affittare è così difficile e parecchi locali e abitazioni rimangono vuoi per mancanza di richieste. E che dire di chi paga l’Irpef solo sulle case sfitte entro il comune e non su quelle fuori comune?». Un cenno alla politica locale è poi inevitabile. «Con l’ex sindaco Matteucci – commenta Piraccini –, non siamo andati molto d’accordo, forse perché aveva altre emergenze… Michele de Pascale ci ha assicurato di voler sentire e tenere in considerazione anche la nostra campana, per cui nutriamo grande fiducia che possa fare di più sul tema casa». In merito, non è meno disincantato il parere del presidente di Fimaa Ravenna. «Serve ben poco parlare di varianti al Rue – afferma Pierluigi Fabbri –. Matteucci non ha fatto nulla, se non danni, e non c’è stupirsi se tanti altri comuni ci sono passati davanti. A Ravenna, servirebbe una cabina di regia fatta da imprenditori che conoscano bene il territorio e che siano in grado di fare business, ossia di creare nuove attività e posti di lavoro. La politica scollegata dal territorio non serve a niente. I politici di professione, purtroppo, sono solo “bravi” a fare varianti di Rue che non portano realmente benefici per nessuno. Il mercato immobiliare potrà crescere solo se si sarà in grado di risollevare le sorti economiche della città, valorizzandone le sue peculiarità, a partire dal turismo. Si parla tanto di Darsena, ma non è stato fatto nessun passo avanti, solo progetti belli sulla carta. Eppure basterebbe anche solo guardare indietro nel tempo e studiare un percorso che colleghi subito la stazione al mare, come una volta quando c’era un traghetto che faceva la spola. Ravenna ha bisogno di nuove infrastrutture e strade, di riempire i capannoni vuoti delle Bassette che è una valle di lacrime. Purtroppo, se non si esce da questo immobilismo politico, non si andrà da nessuna parte. Neppure ci si è accorti, almeno per il momento, del cambio di gestione amministrativa in città… La politica deve mettersi al tavolo per un confronto con bravi imprenditori, capace di mettersi in rete, perché solo se riparte l’economia, se si creano nuovi posti di lavoro, la gente ritornerà anche a comprare e affittare case con più facilità. Questo è il circolo virtuoso che occorre fare ripartire, tutto il resto è solo propaganda».

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