n. 117 OTTOBRE 2017
Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it . ISSN 2499-2550
CASA PREMIUM .
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n.117 OTTOBRE 2017
BELLA CASA • CASA STORIA E MEMORIA • CITTÀ • STUDI EE IMMAGINARIO RICERCHE • ARTE E DESIGN • CUKTURA • CULTURA E TESTIMONIANZE
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contenuti 04 14 20 24 28 34 44 48 56 62
casa bella casa
storia e memoria
La casa del mosaicista Il creativo rifugio-laboratorio dove vive Felice Nittolo _____________________________________________________
iconologia e storia
città e immaginario
arte e design
Ravenna-Tokyo andata e ritorno. E i mosaici bizantini approdano in Giappone ___________________________________________ di Cetty Muscolino
I cicli musivi narrativi di epoca fascista. Dalla Forlì del Duce a Roma capitale ________________________________________________ di Federica Cavani
Portfolio fotografico In My Little Town II. Mosaics ________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
Sublimare lo scarto Il mosaico e l’architettura fra storia e presente ________________________________________________________ di Alberto Giorgio Cassani
Bruno Munari: la fantasia al potere Idee e oggetti “belli e impossibili” ____________________________________________________________ di Serena Simoni
locali e design
Pummà: ambiente e gusto glamour per il ristorante pizzeria nel cuore di Milano Marittima _______________________________________________________________ di Roberta Bezzi
cultura e testimonianze
abitare l’habitat
In attesa dell’Angelus Novus di Walter Benjamin Un ricordo di Giulio Guberti _______________________________________________ di Marina Mannucci
Comprendere il presente, immaginare il futuro, modellare la città “ad arte” ___________________________________________________________ di Marco Turchetti
offerte immobiliari
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di Paolo Bolzani
Scienza e tecnica nella città nuova: rappresentazioni musive della modernità a Ravenna ____________________________________________________ di Pietro Barberini
iconologia e didattica
studi e ricerche
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edizione di Ravenna
Controcopertina
Viaggio fra la casa-galleria d’arte e la casa-laboratorio del mosaicista Felice Nittolo – irpino d’origine, ravennate d’adozione – dinamico ed esuberante sperimentatore delle varie declinanazioni contemporanee delle tessere musive, fra pittura materica e scultura, design, decorazione, arredo urbano e ...provocazione estetica. Ma anche cultore (grazie a mostre, pubblicazioni e documentazione) della grande tradizione della scuola ormai secolare e dei maestri del mosaico ravennate del Novecento.
Autorizzazione Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8 novembre 2004 Direttore responsabile: Fausto Piazza Consulenza redazionale: Paolo Bolzani Collaborano alla redazione: Pietro Barberini, Roberta Bezzi, Chiara Bissi, Alberto Giorgio Cassani, Federica Cavani, Serena Garzanti (segreteria), Maria Cristina Giovannini (grafica), Sabina Ghinassi, Marina Mannucci, Domenico Mollura, Cetty Muscolino, Guido Sani, Serena Simoni, Marco Turchetti. Progetto grafico: Quadrastudio - www.quadrastudio.info Restyling grafico: Gianluca Achilli Referenze fotografiche: Alberto Giorgio Cassani, Pietro Barberini, Paolo Genovesi, Barbara Gnisci, Maurizio Montanari, Fabrizio Zani (e altre citazioni in pagina). Redazione: tel. 0544.271068 - redazione@trovacasa.ra.it
Editore:
Edizioni e Comunicazione srl
viale della Lirica 43 - 48124 Ravenna - tel. 0544.408312 - info@reclam.ra.it - www.reclam.ra.it
BAGNACAVALLO via Pascoli 28 tel. 0545.61534 info@tasacasa.it www.tasacasa.it
Direttore generale: Claudia Cuppi Stampa: Grafiche Baroncini - Imola - www.grafichebaroncini.it
tasacasa* ottobre 2017
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CASA BELLA CASA
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La casa vista dalla strada
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Particolare targa toponomastica
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La casa del
mosaicista A Ravenna in Via Codronchi 61, là dove vive
Felice Nittolo In occasione della Biennale del Mosaico indaghiamo sulle modalità dell’abitare di uno dei protagonisti della scena musiva ravennate e internazionale degli ultimi trent’anni. La domanda sorge con spontanea curiosità: come potrebbe presentarsi la casa di un vulcanico artista puro? Autore di frasi come la seguente: «corta è la notte nella composizione quando le mani fremono!»
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Tappeto musivo
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Pavimento dell’ingresso
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CASA BELLA CASA di Paolo Bolzani «Lavoro di notte, lavoro d’istinto, quasi mai su commissione», mi spiega Felice Nittolo mentre mi sta portando in giro con la sua spaziosa Citroen tra i luoghi del suo molteplice operare: la Galleria niArt e il grande studio in fregio a via Sant’Alberto, nel tratto oltre la ferrovia. Ma non è qui che siamo in realtà diretti in questo nostro piccolo pellegrinaggio, che pur tocca anche la mostra monografica appena inaugurata al Museo Nazionale, dal titolo Felice Nittolo. Geografie a ritroso, curata da Emanuela Fiori e Giovanni Gardini. Una mostra che oltre ripercorrere le tematiche care all’artista campano, indaga ancora una volta sulle possibilità di contaminazione del museo archeologico e in generale d’arte antica da parte del gaio irrompere di opere del tutto contemporanee, risolte prevalentemente in mosaico. «Se, tra V e Vi secolo – segnala Gardini nel catalogo stampato un mese fa per i tipi di Longo editore nel 2017 e introdotto da Mario Scalini, direttore del Polo Museale dell’Emilia Romagna – Ravenna
In questa pagina, in alto, la colonna nella zona living. Sotto: Nittolo si rilassa seduto sulla sua poltrona preferita nel soggiorno di casa. Nella pagina a fianco, sopra lo studiolo attiguo all’ingresso, sotto la cucina.
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CASA BELLA CASA
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Così infine raggiungiamo la casa di Nittolo. Si trova in Via Condronchi, una showcase di edilizia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, lumeggiata da recenti recuperi e sostituzioni edilizie, che però non intaccano la sostanziale immagine urbana, omogenea nell’altezza dei fronti e diversa nelle soluzioni delle facciate
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è stata un audace cantiere iconografico che ha saputo tenere insieme la forza della tradizione e l’attesa del rinnovamento, la sapienza compositiva e la ricchezza dei materiali, come poteva un artista come Nittolo, che proprio a Ravenna lega la sua maturazione artistica, restare estraneo a questo inarrestabile fermento generativo? Trasgressione e mosaico nella Ravenna bizantina e trasgressione e mosaico, dunque, nel genio artistico di Nittolo che, acutamente, ha saputo riconoscere come, dall’epoca antica, il mosaico fosse portatore di un’energia dirompente». Andiamo oltre. La nostra meta vera non sono i luoghi deputati al lavoro del mosaicista consacrato dalla critica, bensì la casa dove vive insieme alla moglie a Ravenna, in via Codronchi 61. La nostra ricerca infatti oggi si rivolge a quella particolare forma dell’abitare che è la dimora dell’artista, in questo caso autore dieci anni fa della famosa opera Ravenna, composizione per «fiat 500, oro, vetro, marmo, rame, conchiglie su lamiera», dimensioni pari a 133x230x294 centimetri. La domanda sorge con spontanea curiosità: come potrebbe presentarsi la casa di un vulcanico artista puro? Autore di frasi come la seguente: «corta è la notte nella composizione quando le mani fremono!». Così infatti scriveva nel gigantesco catalogo Tessere. Parole di vetro e di pietra, edito da Longo nel 2011. Ed ancora, «il magma aspetta morbido di essere violentato. Il pensiero che mi guida è quello della “trasgressione”» scrive nel componimento poetico Muse-musaico-mosaico, concludendo con un’altra frase
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In colonna a sinistra, di seguito: Pezzi di carotaggio e pasta vitrea lungo il vialetto di ingresso. Particolare martelline in vetro dell’Autore sul caminetto. Testa in vetro blu dell’Autore. Installazione acqua mosaico. In colonna a destra, di seguito: Opere sculturee e musive dell’Autore sopra lo scaffale per i libri. Fondo del piatto delle colombe con la firma dell’Autore. Alcune opere appese nel disimpegno scale. Kabuto.
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CASA BELLA CASA
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Nel centro della casa, lo spazio living, attorno a noi, tutto parla di Nittolo. Perché le sue opere sono disseminate ovunque. Dalle parietali o quello plastiche in vetro sono oggetti eloquenti che parlano di lui, traboccano del suo amore viscerale per la sua arte, dai mosaici fino alle martelline e alle tagliole in vetro colorato sopra la cornice del caminetto posto in angolo, che di focolare rivela ben poco, mentre partecipa suo malgrado alla esposizione di una quantità considerevole di opere del padrone di casa.
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In alto: “Sfere” In basso a sinistra: foglio programmatico dell’Autore affisso all’armadio In basso, al centro: “pensiero musivo” In basso a destra: “cappotto”
Il tuo negozio di fiducia per una scelta di qualità ottobre 2017
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CASA BELLA CASA
senza mezzi termini: «metto in scena parole di vetro e di pietra a volte soffici come un sussurro, altre volte taglienti come un urlo». Il capitolo del volume relativo alla mitica piccola vettura della casa automobilistica sorta a Torino, in questo caso reca il titolo Ma ai bizantini sarebbe piaciuta la “500”? Dove è stata realizzata questa opera? Risposta: nello studiolo sito al piano terra della sua casa di via Codronchi. Così infine raggiungiamo la casa di Nittolo, costruita nel 1985 su progetto dell’architetto Antonio Mazzotti di Ravenna, allora da poco laureato a Venezia. Via Condronchi è una showcase di edilizia degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta, lumeggiata da recenti recuperi e sostituzioni edilizie, che però non intaccano la sostanziale immagine urbana, omogenea nell’altezza dei fronti e diversa nella soluzione delle facciate. La casa non è sontuosa. Parva, sed apta mihi, direbbe Ariosto. Ma già avvicinandosi ai muri rosa scuro si intravedono i segni, all’inizio piccoli e timidi poi sempre più dichiarati, della peculiare personalità del padrone di casa. Piccoli ornamenti che riprendono temi dell’iconografia tradizionale ravennate, con i nodi e le decorazioni classiche nell’attacco a terra sul fronte strada, subito però smentite nel vialetto di ingresso da una serie di carotaggi in pietra e cemento, alternati a blocchi informi di pasta vitrea. L’ingresso in nicchia, vegliato da una finestra rotonda al primo piano, è ovviamente risolto con un pavimento in mosaico a tessere scure. Entrando ci si imbatte in un minaccioso colonnone in cemento armato, dal sapore apotropaico, che nasce da un acciottolato di blocchi in vetro colorato e sfonda il soffitto con una apertura in foglia d’oro. A destra si trovano le porte che introducono alla cucina, un ambiente del tutto “normale”, animato da un forte tono rosso, e soprattutto allo studiolo dove nel 2007 si ricoprì la fiat 500 con un manto in tessere di mosaico, destinato ad un notevole successo, nelle sue molteplici esposizioni, dai locali storici della Cassa di Risparmio in piazza del Popolo, a Torino, a Tokyo. Un brulicare di materiale e di opere fanno da corona alla postazione del mosaicista, segnalata da martelline e dalla tagliola, dove si frantumano le pizze in mosaico di Orsoni per trasformarle in tessere minute. Rientrando nell’ingresso, ci spostiamo in quello che in realtà è l’ambiente principe della casa: il living, suddiviso tra una prima parte a soggiorno e una seconda adibita a pranzo. Tra le due zone si trova collocata una poltrona bianca, come gran parte dei divani, che scopriamo essere quella dove il padrone di casa ama sostare per leggere il giornale e riviste d’arte. Nel centro della casa, ecco dunque lo spazio living; attorno a noi, tutto parla di Nittolo. Perché le sue opere sono disseminate ovunque. Dalle parietali o quello plastiche in vetro si tratta di oggetti eloquenti che parlano di lui, traboccano del suo amore viscerale per la sua arte, dai mosaici fino alle martelline e alle tagliole in vetro colorato sopra la cornice del caminetto posto in angolo, che di focolare rivela ben poco, mentre partecipa suo malgrado alla esposizione di una quantità considerevole di opere del padrone di casa. Giriamo attorno lo sguardo: ecco le teste in vetro blu e rossa recanti in cima la tagliola, la tazza con le colombe con firma dell’Autore sul fondo, in
realtà realizzata per la Performance Galla Placidia, dall’evidente rimando al notissimo motivo iconografico custodito all’interno del piccolo scrigno intitolato alla grande sovrana del V secolo. Dopo qualche resistenza i padroni di casa accettano di mostrarmi la loro camera da letto. Saliamo al primo piano. Qui la scopro omaggiata da una testata bassa, sui cui campeggiano la tazza in vetro Galla Placidia e le due statuine che rimandano al mito del cappotto musivo di Nittolo, un must della sua produzione al pari della fiat 500. Ma qui i rimandi ad un mondo onirico pienamente realizzato nella vita diurna si fanno ancora più potenti, fino ad esplodere nell’ammonimento finale, nel foglio programmatico dell’Autore, affisso con un gesto di luterana irrisione sull’armadio in legno, che così sprona e ammonisce: «niente è possibile a realizzare se si è decisi ad eseguirlo convinti che si possa».
A sinistra: Emilia Romagna rossa Al centro: Fiat 500 A destra: croce nella Basilica dell’Annunziata. Fotografie di Ermete Corrivi.
> Crediti Casa di Felice Nittolo, mosaicista
• Progetto architettonico: architetto Antonio Mazzotti, Ravenna • Impianti idraulici: “Artes” di Bedei & C. s.n.c, Ravenna • Lampadari: Elettrolamp s.n.c., Ravenna • Infissi in alluminio: Foschini e Gaudenzi, Conselice esterna: • Pavimentazione Edilmarmo Romagnola s.r.l., Capocolle di Bertinoro • Lavorazioni in ferro: Gradassi ing. Gustavo, Ravenna • Pavimenti e rivestimenti: Sassi, Ravenna in legno: • Porte Falegnameria Montalti Bruno e Omero, San Carlo di Cesena • Materiali per mosaici: ditta Pirini, Ravenna • Smalti per mosaici: ditta Orsoni, Venezia
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STORIA E MEMORIA
Scienza e tecnica nella
città nuova
I mosaici di Antonio Rocchi e Ines Morigi Berti raccontano la scienza e la tecnica all’interno dell’Istituto “G.Ginanni” a Ravenna di Pietro Barberini La generazione degli anni Sessanta colloca il mosaico come espressione artistica all’interno delle basiliche ravennati. Sembra quasi un passaggio obbligato entrare in un luogo sacro per poter ammirare quelle opere sfavillanti di luce e colore. Il mosaico racconta la storia e la storia (antica) viene raccontata dai mosaici che quella generazione ha apprezzato dopo essersi abituata all’oscurità di San Vitale e Galla Placidia, ammirando così il cielo di quella «glauca notte rutilante d’oro». Quando le tessere cambiano di dimensione e sono collocate in spazi del tutto nuovi e più illuminati, le opere sembra non vengano percepite come mosaici, bensì come fondali artistici. Salendo al primo piano dell’Istituto Tecnico Commerciale “G. Ginanni” in via Carducci a Ravenna, molti studenti non hanno memorizzato il grande mosaico (sei metri e mezzo di base e un’altezza di due metri e trenta) che incontravano prima di imboccare il corridoio che portava alla presidenza. Tanti ricordano altri particolari, ma il pannello musivo che occupa un’intera parete se lo sono scordato! Il tema del concorso voluto da uno straordinario animatore culturale della città, come fu l’allora Preside dell’Istituto Michele Vincieri, era al passo coi tempi. Il titolo, infatti, Spazio e colore, si
collocava in un periodo fervido di grandi impulsi artistici e intuitive illuminazioni. Proprio in quel periodo si stava girando a Ravenna il film Il deserto rosso e il regista Michelangelo Antonioni aveva fatto dipingere di nuovi colori alcune abitazioni di Ravenna, al fine di rendere più evidente l’uso del cromatismo capace di rivelare un “primo piano” di lettura della pellicola. L’impatto che il film ebbe sulla città fu importante fin dall’inizio, nell’atmosfera che si era creata durante le riprese: molti ne parlavano e chi ritornava in provincia dopo essere stato a Ravenna per motivi di lavoro, riportava le sensazioni unite allo stupore di quel set cinematografico. Del “deserto rosso” e di Monica Vitti se ne parlò ancor prima che la pellicola uscisse nelle sale cinematografiche. Il tema è già stato affrontato da Umberto Boccioni che con la sua La città che sale, nel 1910, dipinge su tela una prospettica Milano dal balcone del suo studio. Dietro quei disegni che compongono il suo primo olio futurista non c’è solo una visione architettonica, ma il concetto del lavoro dell’uomo e della sua educazione tramite lo studio. Un altro dei grandi pittori italiani del Novecento, cresciuto artisticamente a Milano, è Mario Sironi, che negli anni Trenta teorizza il ritorno alla pittura murale. Sironi preparerà i cartoni per la realiz-
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La vicenda è ben descritta dalla scheda che appare nel sito www.mosaicoravenna.it al quale sono stato indirizzato grazie alla cortese disponibilità dell’esperta Linda Kniffitz, curatrice della Collezione dei Mosaici Contemporanei e responsabile del Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico del Museo d’Arte della città di Ravenna. «Nel 1962 Antonio Rocchi vince un concorso, bandito dall’Amministrazione Provinciale di Ravenna, per la realizzazione di due pannelli a mosaico per la nuova sede dell’Istituto Tecnico Commerciale “G. Ginanni”. La realizzazione dei pannelli vede Ines Morigi Berti, con degli aiutanti, lavorare a fianco di Antonio Rocchi, autore anche dei cartoni preparatori. La decorazione musiva si trova al piano superiore dell’Istituto ed è costituita da un trittico, delle dimensioni di 6,50 x 2,30 metri complessivi, sulla parete in faccia alle scale, mentre sulla parete di fronte è posto un ulteriore pannello di 1,50 x 2,00 metri. I pannelli musivi sono allettati su lastre di cemento di 2,5 centimetri di spessore e sono incorniciati da un telaio in ottone. Rocchi ha firmato e datato, al 1964, le opere. Il trittico sviluppa il tema della Scienza e della Tecnica attraverso la raffigurazione di Ravenna come una città in cui la storicità dei monumenti antichi si coniuga ad una modernità industriale in piena espansione. Il pannello singolo sviluppa invece il tema della scuola, attraverso la raffigurazione di un banco e di una lavagna ricca di formule. La composizione mostra chiare influenze cubo-futuriste».
zazione di un grande mosaico, dal titolo La Giustizia tra la Legge e la Forza, affidata al ravennate Giuseppe Salietti, una delle più importanti figure nel rilancio del mosaico in Italia nel Novecento. Fra gli allievi del maestro Salietti troviamo Ines Morigi Berti che lavora assiduamente tra il 1939-40 all’esecuzione del grande pannello musivo che si trova nell’aula di Corte d’Assise del Palazzo di Giustizia a Milano. Dopo le distruzioni belliche, morali e materiali, la rinascita artistica di Ravenna passa attraverso il mosaico, dove il gruppo storico dei mosaicisti e i loro allievi ormai cresciuti si riuniscono in cooperativa. I fondatori sono: Giuseppe Salietti (direttore), Isler Medici, Zelo Molducci, Lino Melano, Ines Morigi Berti, Libera Musiani, Romolo Papa, Eda Pratella, Antonio Rocchi e Renato Signorini, che conserva l’incarico di direttore della Scuola. È il 1948. Questi artisti rappresentano un crogiuolo dove le esperienze si confrontano e si fondono. Nasce così una straordinaria stagione che sarà trasmessa alle nuove generazioni. Questi mosaicisti, infatti, sono maestri nella loro bottega e anche nella scuola, all’Istituto d’Arte per il Mosaico e all’Accademia di Belle Arti. Gli anni Sessanta per Ravenna simboleggiano un periodo legato all’ottimismo industriale in una visione di futuro e di crescita sociale tramite l’educazione. L’Istituto Tecnico Commerciale “G. Ginanni” diretto da Michele Vincieri prepara i “controllori” di quel boom che ha bisogno di regole e ragionieri! Sintetizzando questi concetti, Vincieri promuove un bando di concorso pubblico che viene affrontato da Antonio Rocchi e da Ines Morigi Berti, un sodalizio di straordinari artisti che presentano due progetti: vincerà uno ma lo realizzeranno insieme. E così succede.
A sinistra, in alto: Il cartone del trittico di Antonio Rocchi in scala 1:5 (foto di Enzo Pezzi).
> Marcello Landi All’esecuzione dei pannelli musivi partecipa Marcello Landi (nella foto, mentre mostra uno dei punti dove sono “saltate” le tessere). Allora dodicenne, Marcello che aveva già iniziato gli studi all’Istituto d’Arte Inferiore, viene avvicinato alla disciplina dallo zio Antonio Rocchi che lo coinvolge come “aiutante”. Il giovane presta quindi la sua opera seguendo il lavoro di Ines Morigi Berti che pochi anni dopo diventerà la sua insegnante all’Istituto d’Arte. Di quell’esperienza con lo zio, ma Antonio era fratello della nonna Eleonora, Marcello Landi ricorda come nella decorazione Rocchi utilizzasse nuovi formati di tessere, non solo rettangolari, ma quadrati e di maggior dimensione “...Il mosaico - prosegue Landi - si fa pennellata, assume uno spessore fino a diventare tattile. Quella tecnica utilizzata per la prima volta nei lavori dell’Istituto “G. Ginanni”, è ora ampiamente diffusa. La cifra artistica è nata in quell’opera”. Marcello Landi si diplomerà e, seguendo l’esempio dei suoi maestri, diventerà lui stesso insegnante e concluderà la sua professione di educatore come Preside del Liceo Artistico e dell’Istituto per il Mosaico. Continua ad occuparsi della vita culturale e artistica della città ed è stimolante protagonista di molte iniziative tra le quali l’Associazione Culturale Dis-Ordine dei Cavalieri della Malta e di tutti i Colori. Nella foto: Marcello Landi davanti al trittico
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STORIA E MEMORIA Dal libro su Antonio Rocchi, collana “Colloqui di luce”, a cura di Felice Nittolo «... I mosaici sono realizzati con una perizia tecnica unica e riconducono alle caratteristiche superfici dei mosaici delle Basiliche Ravennati dove la luce, la forma e il colore di ogni tessera contribuiscono alla magia dell’insieme. Lo studio del progetto, la disposizione degli elementi, ci porta, oltre che a riconoscere le caratteristiche storiche e sociali della città di Ravenna, ad una severiniana memoria. Infatti, Antonio Rocchi, oltre un decennio prima, aveva collaborato con Gino Severini alla realizzazione di mosaici in Francia, in Svizzera e in Italia. Tutti i colori usati sono stati organizzati secondo mescolanze di smalti vetrosi misti che determinano la base della tavolozza cromatica. Le tessere rispettano rigorosamente le regole del linguaggio musivo e sono state disposte seguendo le linee del disegno. Ogni tessera, tagliata e studiata singolarmente, assume un ruolo preciso rispetto alla forma e al soggetto che concorre a rappresentare. Gli interstizi sono piuttosto serrati e le tessere, di media dimensione, vibrano per diversità di taglio e di colore: tutta la superficie è giocata su una luce interna ed esterna, la materia sublimata dalla sapienza degli artisti trasmette sogno e magia». Rocchi: «il mosaico mi ha insegnato a toccare la pittura con le dita». In un’intervista di Giulio Guberti su “La Tradizione del Nuovo” rivista della Pinacoteca Comunale di Ravenna uscita dal dicembre 1977 al maggio 1981, Antonio Rocchi si definisce: « ...Un pittore che lavora di mano e le cui idee nascono dal fare, mentre dipinge”. Dopo le esperienze di mosaicista con Severini a Ginevra e Parigi
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nei quattro anni successivi alla fine della guerra, Rocchi torna a Ravenna dove l’attività del mosaico è legata, in quella fase, per lo più ai lavori di restauro. Rocchi prosegue nell’intervista sollecitato dalla grande sensibilità di Giulio Guberti. «Dopo la guerra per vivere cominciai a fare del mosaico. Non mi piaceva come si lavorava; si facevano copie con una tecnica molto approssimativa di derivazione bizantina; qualcuno aveva lavorato anche con artisti moderni, ma le cose non cambiavano di molto. Capii subito che non avevo la vocazione del traduttore e cominciai a farmi i cartoni da me stesso, pur lavorando anche per altri». Con Severini, Rocchi aveva a lungo discusso delle nuove tecniche pittoriche: il puntinismo, l’accostamento dei colori puri, delle particolarità dei complementari; tutti elementi molto importanti per un rinnovamento del mosaico. Nell’intervista emerge il Rocchi insegnante che sempre con tono leggero afferma: «Bisogna ricordarsi che nel mosaico non si procede come nella pittura, non si mescolano i colori, invece si acco-
In alto a sinistra: Il cartone riproduce il tema dello studio di ragioneria e geometria. Una scritta richiama agli elementi di spazio e colore (foto di Enzo Pezzi). In basso da sinistra: La realizzazione a mosaico come appare oggi al primo piano dell’Istituto Tecnico Commerciale “G.Ginanni” (foto di Pietro Barberini). Un particolare del mosaico precedente (foto di Pietro Barberini). Il grande pannello che occupa un intero lato del corridoio di disimpegno al primo piano del “G.Ginanni” di Ravenna (foto di Pietro Barberini). A destra, in alto: Un particolare del grande mosaico (foto di Pietro Barberini).
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STORIA E MEMORIA
stano tessere che hanno già un colore, a cui si dà una certa forma e che vanno a diverse profondità, sia pur di minima entità». Antonio Rocchi è stato un artista eclettico che ha sperimentato tutte le tecniche, iniziando dalla scultura che lo ha portato a sottrarre materia, “perfino la pittura, grattata via con la carta vetrata e l’inchiostro asportato con la lametta da barba». Dice Rocchi a Giulio Guberti: «Il mosaico mi ha insegnato a “toccare” la pittura con le dita. Ho quasi sempre dipinto con le dita. Per me come puoi vedere da questi lavori ha sempre contato molto il supporto. Ho sempre avuto bisogno di avere un rapporto fisico con il supporto prima e con la pittura e il disegno poi. Forse è questa una delle ragioni per cui mi riuscì di fare il mosaico».
La riproduzione topografica della Darsena di Città eseguita a mosaico (foto di Pietro Barberini).
Una sconosciuta topografia musiva del porto San Vitale Dalla città della scienza e della tecnica passano vent’anni. Il Consiglio di Amministrazione del Consorzio per la costruzione e la gestione di opere di interesse pubblico nell’ambito del Porto di Ravenna spa commissiona un mosaico raffigurante le darsene San Vitale, cuore del nuovo porto intermodale, le cui banchine sono finalmente servite dal raccordo ferroviario. La piccola opera musiva è un’istantanea anticipatrice dei moderni pixel: una rappresentazione in pianta di quella Ravenna industriosa e dinamica riprodotta nel grande “murales” voluto da Michele Vincieri. Il pannello, di cm. 62 x 53, è appeso nello studio dell’avvocato Alberto Gamberini che l’ha ricevuto il 4 marzo 1983 per il ruolo di Presidente del Consorzio stesso a sostegno della progettazione ed esecuzione del raccordo ferroviario in destra Candiano. Il pannello non raffigura soltanto una cartografia eseguita a mosaico, ma riproduce il compimento del passaggio dall’industria alla portualità. Sono trascorsi, infatti, vent’anni dai mosaici di Ines Morigi Berti e Antonio Rocchi che riproducono con toni caldi e conces-
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sioni al surrealismo pittorico la città che studia e che si prepara a “salire”. Il mosaico, a ben guardare, si rivela particolarmente prezioso: non esprime un modo artistico per sintetizzare in una cartografia un passo fondamentale per il porto di Ravenna, bensì una descrizione, precisa e circostanziata delle darsene “San Vitale”. È la San Vitale del futuro, quello specchio d’acqua che le tessere azzurre fanno luccicare di riflessi. Attorno, gli elementi vitali sono simboli: le strade, i piazzali, le banchine e, soggetto determinante, i binari del raccordo ferroviario, che rappresentano un importante trait d’union per lo sviluppo dei commerci.
> Cetty Muscolino Cetty Muscolino come storica dell’arte ha seguito importanti restauri dei mosaici paleocristiani di Ravenna, particolarmente in San Vitale e Sant’Apollinare Nuovo. Il suo rapporto con “le tessere” è non solo storico ma anche “fisico e tattile”, guidando gli allievi della Scuola per il restauro del Mosaico a comprendere le tecniche di esecuzione, valutare lo stato di conservazione e cogliere la vibrazione di luce e colore, prerogativa principale del mosaico. Mentre osserva le tessere Cetty Muscolino ricorda le parole di Ines Morigi Berti: «Il mosaico è un’arte concettuale perché, nel suo farsi, l’opera riflette la luce, simbolicamente Dio. È importante l’interiorità, all’esterno c’è la semplicità e povertà del mattone e, all’interno, lo splendore e la ricchezza degli ori e della pasta vitrea». Così Cetty Muscolino commenta il mosaico della darsena San Vitale, forse eseguito da una bottega, come accadeva nella tradizione quando i mosaici non erano “firmati!”: «Nitido e ordinato, con l’efficacia di uno scatto fotografico, si presenta all’osservatore il mosaico che fa bella mostra nello studio dell’avvocato Gamberini. Giocato nei tre colori, azzurro, bianco e verde, offre una sintetica e dettagliata visione della Darsena. Seguendo la lezione appresa nello studio dei mosaici paleocristiani di Ravenna l’esecutore si avvale di materiali misti, paste vetrose, pietra calcarea e marmo disposti secondo le regole tradizionali: tessitura serrata e andamenti vibrati. La morfologia per lo più omogenea delle tessere musive viene però animata dall’introduzione di tessere sovradimensionate, come talvolta, in maniera eccezionale, accade nelle stesure musive della Basilica di San Vitale, ma in maniera più vistosa nei mosaici pavimentali medievali di San Giovanni Evangelista. Con questo sapiente intercalare di diversa pezzatura delle tessere si instaura una dinamica vivace che induce l’occhio a esplorare con curiosità per cogliere tutti i particolari, si crea un effetto sorpresa di grande fascino. Sottilissimi listelli di vetro rosso e porpora scura disegnano e precisano le banchine e i percorsi a terra, facendo risaltare il candore del costruito fra il verdeggiare del prato e l’azzurro intenso del mare, resi mossi dal lieve variare delle tonalità e dalla leggera inclinazione delle tessere. Una foto aerea non avrebbe potuto essere più efficace e convincente». Nella foto: Cetty Muscolino davanti al mosaico “topografico”
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ICONOLOGIA E DIDATTICA di Cetty Muscolino Era il mese di maggio di quest’anno quando ebbi il prestigioso incarico di tenere un ciclo di lezioni sui mosaici parietali di Ravenna alla Accademia di Belle Arti di Tokyo. Era da poco conclusa la gloriosa fioritura dei candidi ciliegi e si celebrava quella dei glicini, secolari, immensi e variopinti ed io portavo loro il prezioso dono degli ineguagliabili colori dei mosaici bizantini della nostra città. Si trattava di un’occasione importante, (finanziata dalla Japan Society of the Promotion of Science), ma non estemporanea, bensì del coronamento di una ricerca comune, fra Ravenna e Tokyo, intrapresa nel 2005. In quel tempo insieme al professore Kudo Haruya docente di Pittura all’Università, unica istituzione nazionale comprendente facoltà di arte, musica e new media, avevo avviato un progetto di studio con gli studenti giapponesi sui mosaici del braccio destro del Mausoleo di Galla Placidia. Dal 2005 al 2010 il professor Kudo è venuto a Ravenna con un gruppo di suoi allievi dell’ultimo anno per iniziare un percorso di conoscenza riguardante una disciplina e una tecnica artistica per loro del tutto nuova e insolita. Abbiamo trascorso giorni ad esplorare le superfici musive, operando talvolta anche insieme agli allievi della Scuola per il Restauro del Mosaico della Soprintendenza e, dopo un certo tempo, concluse le operazioni di pulitura dai depositi superficiali e di messa in sicurezza delle aree meno stabili, gli studenti giapponesi sono stati impegnati nell’esecuzione di cartoni pittorici di alcuni dettagli musivi, secondo una metodologia consueta nei nostri corsi di studio. La pratica del rilievo dei mosaici, finalizzata alla realizzazione di copie
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Ravenna-Tokyo
andata e ritorno
Diario di una ambasciatrice dei mosaici ravennati alla University of the Arts della capitale giapponese. Il coronamento di una ricerca-scambio internazionale avviata nel 2005 pittoriche, utilizzata qui a Ravenna soprattutto dagli inizi del Novecento, è sempre stata la modalità principale per documentare i mosaici e, dal punto di vista didattico, l’esercizio più importante per coglierne lo spirito e comprendere la tecnica di esecuzione. È con questo obiettivo che l’esecuzione di cartoni, vale a dire di mosaici dipinti, è sempre stata una disciplina fondamentale nel percorso formativo degli allievi. Nel novembre del 2010 a Tokyo, nell’Istituto di Cultura Italiana, la mostra “Musiva Veritas” e le giornate di studio sono state l’occasione per divulgare l’esito delle ricerche e dei lavori Così dal primo di maggio di questo anno, e per tutta la durata del mese, mi sono installata nella foresteria dell’Università delle Arti di Tokyo, a Geidai Ueno. Il Campus, dopo la pausa del week end, quando sembrava che il silenzio fosse rimasto imprigionato fra i rami verdeggianti e solo il corvo spadroneggiava nel cielo, nella prima mattina del lunedì ricominciava a rianimarsi. Riprendeva il pulsare della vita e stridii di trapani, fles-
Nella pagina a fianco, in alto i glicini in fiore a Ashikaga. Nelle altre foto particolari e scorci dell'University of the Art di Tokyo. In questa pagina, a sinistra il professore Kudo Haruya, docente di pittura alla University of the Art di Tokyo. A destra il professore Haruya e Cetty Muscolino durante una lezione sui mosaici bizantini.
sibili e seghe, colpi di martello, risuonavano da ogni lato; ovunque era è un grande fervore di attività e dalle immense vetrate si vedevano gli studenti al lavoro nei laboratori o intenti a seguire le lezioni. Ma alle cinque del pomeriggio nell’aula magna dell’università va in scena il mosaico. Arriva il colore e la sapiente maestria espressa negli apparati musivi ravennati. Sfilano le Vergini incantatrici di Sant’Apollinare Nuovo, i cortei imperiali di San Vitale, le splendenti superfici auree e il cielo indaco cosparso di stelle luminose. Le lezioni sono rivolte a studenti, restauratori e professori che per lo più conoscono queste meravigliose creazioni unicamente dalle fotografie e dai libri ed io devo condividere con loro l’esperienza acquisita in oltre venti anni di lavoro sulle impalcature delle principali architetture della città. Nei loro visi attenti, nel religioso silenzio (la disciplina di questo popolo è per noi sorprendente e inusuale!) e nelle domande che formulano si comprende tutta la curiosità e l’interesse per una cultura così distante dalla loro, sia dal punto di vista della tecnica di esecuzione sia per le tematiche affrontate. La maggior parte della popolazione infatti è buddista, ma la ricerca della spiritualità, l’amore per la natura esplicitato da noi nelle volte stellate, nei gazebi vegetali e nel fulgore dell’oro, declina un linguaggio universale, un’aspirazione al divino in qualsiasi modalità sia stato concepito. La volta celeste del Mausoleo di Galla Placidia è poi così distante dalle configurazioni astrali dipinte nell’antica sepoltura di Kitora-Kofun? I nostri sontuosi cortei non parlano forse lo stesso linguaggio delle coloratissime fanciulle della Takamatsuzuka kofun?
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ICONOLOGIA E DIDATTICA
È stata per me un’esperienza veramente entusiasmante grazie alla passione che il folto pubblico degli uditori ha manifestato, al desiderio di sapere di più, di capire di più, di vedere di più. E così è successo che pochi giorni prima di partire, dopo aver mostrato la fantastica cromia delle paste vitree dei nostri mosaici, mentre camminavo con alcuni allievi fra gli scogli dell’Oceano Pacifico, a Hitode (Ibaraki), a quaranta chilometri da Tokyo, mi sono chinata ad ammirare alcune stelle marine e sono rimasta colpita ritrovando nella livrea di quelle che si potevano osservare a pelo dell’acqua trasparente, gli stessi accostamenti cromatici dei vetri bizantini. Gli stessi squillanti aranci e gli stessi verdi che più volte avevo incontrato in numerosi dettagli dei mosaici di San Vitale! Il Rettore dell’Università, Kazuki Sawa, uno dei più famosi violinisti del Giappone, durante il nostro incontro ha mostrato di apprezzare l’arte musiva di Ravenna, ma il suo viso si è letteralmente illuminato al pensiero che io vivo nella città che ospita il maestro Riccardo Muti, confermando così come Musica e Mosaico sono le eccellenze di questa città.
Nelle prime due foto, in alto da sinistra, particolare di mosaico di Ravenna riprodotto in pittura e l’originale bizantino. Nelle altre foto, alcuni particolari di mosaici parietali ravennati, oggetto delle ricerche e lezioni all'Università delle Arti di Tokyo. In basso a destra, alcune stelle marine dell’Oceano Pacifico a Ibaraki, vicino a Tokyo).
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ICONOLOGIA E STORIA
I cicli musivi narrativi di epoca fascista Durante il Ventennio, alla concretezza dell'architettura, “regina delle arti” secondo lo stesso pensiero mussoliniano, si affiancano classicheggianti decorazioni dai molteplici valori simbolici In questo ambito il mosaico ritrova una sua precisa espressività e comunicatività caratterizzata da una figurazione sintetica ed essenziale che enfatizzano il Regime, l'Uomo e la sua Storia
di Federica Cavani In tutta Italia all’indomani della presa di potere del fascismo si assiste a una feconda stagione di nuove costruzioni a carattere prevalentemente pubblico e funzionale che dovevano rappresentare al contempo sia l’agognato ritorno all’ordine che la rivisitazione propagandistica dei fasti imperiali in chiave concreta e simbolica. Alla concretezza dell’architettura, “regina delle arti” secondo lo stesso pensiero mussoliniano, si affiancano classicheggianti decorazioni dai molteplici valori simbolici. Solitamente di medie e grandi dimensioni, ora realizzate ad affresco, a mosaico, a tempera, a bassorilievo o tridimensionali, sono state firmate dai più noti esponenti di “quell’arte nazionale” che ben si addiceva a decorare i saloni dei palazzi di rappresentanza o i luoghi pubblici di maggior frequentazione politica. Ed è in questo clima che il mosaico ritrova una sua precisa comunicatività ed espressività, caratterizzata da una figurazione sintetica ed es-
senziale, che si coniuga con i cicli narrativi e descrittivi di avvenimenti contemporanei e del passato che enfatizzano il Regime, l’Uomo e la sua Storia. È in questa temperie culturale che vengono affidati a importanti pittori i disegni preparatori di imponenti mosaici, in gran parte didascalici, come quello, ben noto ai forlivesi, che decora le pareti dell’elegante quadriportico dell’ex Cortile Italico del Collegio Aereonautico della Gioventù Italiana del Littorio Bruno Mussolini, progettato nel 1934 dall’ingegnere Cesare Valle, al fine di ospitare quattrocento giovani desiderosi di sperimentare l’arte del volo e l’ingegneria aereonautica. L’opera decorativa nella sua progettazione e ideazione venne affidata all’artista viterbese Angelo Canevari, che aveva aderito al movimento futurista dell’Aeropittura e si era già cimentato in dipinti a soggetto aereonautico. Il mosaico materialmente fu invece realizzato, in pannelli poi applicati alle pareti, dalla ditta romana Luigi Rimassa, che utilizzò il metodo indiretto su carta, con tessere musive regolari per taglio e dimensione, in pietra calcarea bianca e carboniosa nera, Botticino e Istria.
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I N L’attenzione particolare riservata dal Regime «alla conquista dei cieli, agli esperimenti aereonautici, alle pionieristiche esperienze del volo aereo, in particolar modo a opera di aviatori italiani, nonché alla prima macchina volante e ai successivi velivoli vanto dell’ingegneria e industria aeronautica» crebbe probabilmente anche in seguito alla fondazione nel 1923 della Regia Aereonautica Militare. Il mosaico forlivese narra le importanti imprese aviatorie che hanno caratterizzato sia la storia del volo che quella militare. «Indicazioni di luoghi, date, battaglie vinte e aerei utilizzati, aerei nemici abbattuti e danneggiati, bombe lanciate e colpi sparati, mappe di continenti e oceani teatri di trasvolate ed eroiche vittorie, riferimenti precisi a modelli di velivoli riprodotti con fedeltà, cognomi di aviatori a cui sono attribuiti primati e memorabili imprese in tempo di pace e di guerra, colte citazioni di Leonardo e di D’Annunzio, iscrizioni celebrative e motti di regime» sono gli elementi che senza soluzione di continuità si snodano lungo le pareti del quadriportico forlivese. Anche nell’Atrio delle Costellazioni, dove il soffitto dipinto a tempera, opera del pittore Giampieri, rappresenta l’emisfero Boreale, si trova un pavimento musivo in bianco e nero raffigurante la carta celeste dell’Emisfero Australe, realizzato nel 1938 dalla Scuola Mosaicisti di Spilimbergo su disegno dello stesso Giampieri. Seppur l’opera forlivese rappresenta un unicum iconografico nel coevo panorama artistico, altrettanto conosciuti sono gli importanti cicli decorativi a mosaico realizzati nel Ventennio in molte città italiane. Di gran impatto sono i mosaici pavimentali e parietali del Foro Italico a Roma, i cui disegni furono realizzati da artisti del calibro di Angelo Canevari, Achille Capizzano, Giulio Rossi e Gino Severini, mentre alla Scuola Mosaicisti di Spilimbergo spettò la loro messa in opera. Vari i temi trattati, da quello della Fontana della Sfera con animali marini bicromi e di manifesta derivazione classica, allegoria del potere politico, a quelli del viale dell’Impero dove piccole tessere grezze in marmi bianchi e neri raccontano la nascita mitica di Roma e le leggende a essa legate, il valore e il coraggio in battaglia, la saggezza e il rigore morale dei suoi abitanti, a quelli che enfatizzano i giochi sportivi. Di minor dimensione è sicuramente il mosaico realizzato a Roma nel 1941 sulla facciata dell’ex palazzo degli uffici Inps in piazza Augusto Imperatore dalla Scuola di Mosaico del Vaticano, su disegno di Ferruccio Ferrazzi, dove il tema principale è ancora una volta quello della nascita di Roma, rappresentata attraverso un’allegoria del Tevere, un gigante che sorregge la barca dove si trovano Romolo e Remo, con ai suoi piedi, una lupa. Si tratta di un racconto animato da personaggi, la Storia e il Mito, caratterizzati da una viva umanità. Anche l’interessante Padiglione delle Feste del complesso Art Déco delle Terme di Castrocaro, inaugurato nel 1938 su progetto dell’ingegnere Diego Corsani, conserva, al centro del pavimento dell’ingresso, un mosaico in formelle di maiolica policroma, raffigurante quattro maestosi galeoni a vele spiegate e al centro dei quattro mari una rosa dei venti. Anche nella parte terminale del salone successivo, utilizzato per le feste da ballo, campeggia un mosaico di tessere dorate e marmo verde riproducente due fontane inserite in un pavimento in formelle di maiolica policroma con un colorato fondale marino gremito da pesci reali e immaginari. A Milano spettò a Gino Severini ideare la decorazione musiva del Salone d’Onore del Palazzo dell’Arte, dove lavorarono oltre trenta artisti chiamati da Mario Sironi. Le Arti è oggi l’unica opera ancora conservata nella collocazione originaria, scampata alla distruzione del ciclo avvenuta dopo la chiusura della Triennale del 1933. Al ciclo musivo del pavimento della Stazione ostiense di Roma, progettata dall’architetto Roberto Narducci in vista dell’Esposizione Universale del 1942, spetta il compito di narrare la storia della città capitolina. Denso è il ciclo musivo ideato da Gino Severini sulla storia dei ser-
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ICONOLOGIA E STORIA
vizi delle poste e dei telegrafi realizzato nell’elegante costruzione progettata nella città di Alessandria dall’architetto Franco Petrucci, caratterizzata esternamente da forme rigorose e da un accurato impiego di materiali di rivestimento. Si tratta di una coloratissima striscia lunga circa trentasette metri e alta un metro e venti con srotolata la storia delle comunicazioni, con messaggeri alati e a cavallo, pacchi, lettere, casellari, obliteratrici, radio valvole di Marconi, pali telegrafici, telegrafi di Chappe e tanti altri particolari. Oltre duecento metri quadrati di mosaico realizzato con tessere blu, bianche, nere e rosse si trovano nel Palazzo delle Poste de La Spezia, progettato dall’architetto Angiolo Mazzoni, funzionario tecnico del Ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, che aveva già dato prova della sua sensibilità con le realizzazioni dei palazzi delle poste di Ferrara, Nuoro e Trieste. Il mosaico di tessere ceramiche fornite dalla Ceramica Vaccari di Santo Stefano a firma di Fillia, alias Luigi Colombo, e di Enrico Prampolini, dal titolo Le Vie del cielo e del mare, narra sia la storia e l’evoluzione delle comunicazioni terrestri e ma-
In alto, da sinistra: Roma, Foro Italico, Fontana della Sfera, particolare. Roma, prospetto principale dell’ex palazzo degli uffici Inps in piazza Augusto Imperatore, particolare del mosaico. Castrocaro Terme, Complesso delle Terme, Padiglione delle Feste, particolare del mosaico in maiolica policroma. Milano, Palazzo dell’Arte, Salone d’Onore, particolare del mosaico di Gino Severini. Alessandria, Palazzo delle Poste e dei Telegrafi, particolare del mosaico parietale. Nelle tre foto a sinistra in colonna, particolari del mosaico pavimentale nella Stazione Ostiense di Roma.
Bibliografia essenziale____________________________ E. Bagattoni, La celebrazione del volo nel collegio aeronautico di Forlì: i mosaici di Angelo Canevari, in “Terzoocchio”, rivista trimestrale d’arte contemporanea, anno XXXI, n. 2 (115), 2005, pp. 17-20 L. Prati, U. Tramonti (a cura di), La città progettata: Forlì, Predappio, Castrocaro. Urbanistica e architettura fra le due guerra, Forlì 1999, pp. 194-198 C. Sangiorgi, Con gli occhi rivolti al cielo. I mosaici del collegio aeronautico di Forlì, 2011 U. Tramonti, Le radici del razionalismo in Romagna. Itinerari nel comprensorio forlivese, Forlì 2005, pp. 38-39
Sotto, da sinistra: La Spezia, Palazzo delle Poste, particolare del mosaico Le Vie del cielo e del mare di Fillia e Enrico Prampolini. Messina Marittima, Stazione, particolare del mosaico parietale. Roma, Quartiere Eur, Palazzo delle Scienze e delle Tradizioni Popolari, mosaico Le Professioni e le Arti di Fortunato Depero. Milano, Palazzo dell’Informazione, particolare del mosaico L’Italia corporativa di Mario Sironi. Roma, Chiesa della Santissima Annunziata, prospetto principale, mosaico.
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rittime che di quelle telegrafiche, telefoniche e aeree. Per il decoro della stazione di Messina Marittima, importante interscambio tra la rete ferroviaria siciliana e quella della penisola, realizzata tra il 1937 e il 1939 su progetto all’architetto Angiolo Mazzoni, fu incaricato della preparazione del bozzetto Michele Cascella. La fase operativa dell’intervento fu invece commissionata all’Opificio delle Pietre Dure della Scuola del Mosaico della Reverenda Fabbrica di San Pietro. Il monumentale mosaico raffigura la millenaria storia dell’isola siciliana attraverso la rappresentazione delle sue fasi più significative che si susseguono dall’epoca classica fino ai tempi della realizzazione dell’opera. Composizioni dinamiche descrivono l’ingresso dei Normanni in Sicilia, i Vespri o la battaglia di Calatafimi, mentre muse e maschere appartenenti ai vari generi teatrali classici simboleggiano le antiche origini. Si possono riconoscere la collina dei templi di Agrigento, il tempio di Giunone e quello della Concordia e Archimede identificabile grazie alla sua temibile invenzione, gli “specchi ustori”, con i quali avrebbe incendiato le navi romane. La legge 5 febbraio 1934 aveva istituito ventidue Corporazioni delle Arti e Mestieri, mentre qualche anno dopo la Camera dei Deputati veniva sostituita da quella dei Fasci e delle Corporazioni. Ed è così che la nuova organizzazione produttiva viene fissata in due mosaici da Enrico Prampolini (Le Corporazioni, 1942) e Fortunato Depero (Le Professioni e le Arti, 1942) realizzati per il Palazzo delle Scienze e delle Tradizioni Popolari nel quartiere Eur di Roma. Nel mosaico delle Corporazioni, attraverso immagini astratte, si possono riconoscere il Credito, il Commercio, l’Agricoltura e l’Industria; in quello delle Professioni e delle Arti si riconoscono la Giustizia, il Teatro, la Musica e un grande Fascio Littorio. A Mario Sironi si deve anche il mosaico, di otto metri per tre e mezzo, Il lavoro fascista, titolo cambiato successivamente in L’Italia corporativa, eseguito nel 1936 in occasione della Triennale di Milano e successivamente portato in una sala del Palazzo dell’Informazione di Milano, edificio progettato per ospitare testate giornalistiche nel cuore della città. Caduto il fascismo, il mosaico venne coperto da un telo e solo di recente restaurato e restituito al pubblico. Anche l’enorme mosaico che campeggia sulla facciata della chiesa della Santissima Annunziata a Roma, alto circa quindici metri e largo quattro, realizzato da Ferruccio Ferrazzi, ripropone, accanto alle grandi figure di Maria e dell’arcangelo Gabriele, un tema caro al fascismo: l’opera di bonifica. Qui Mussolini e Valentino Orsolini Cencelli, commissario dell’Opera Nazionale Combattenti, sono presentati nelle vesti di contadini intenti a mietere il grano.
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CITTÀ E IMMAGINARIO
In My Little Town di Alberto Giorgio Cassani
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In My Little Town - II. Mosaics
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II. Mosaics
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CITTÀ E IMMAGINARIO
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In My Little Town - II. Mosaics
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STUDI E RICERCHE
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Sublimare lo scarto
Il mosaico e l’architettura
di Alberto Giorgio Cassani Il 24 e 25 di novembre si terrà a Ravenna un importante convegno che tratterà del rapporto tra il mosaico, l’architettura e il territorio. La storia di questo confronto tra due arti così diverse ha vissuto sia momenti altissimi sia periodi bui, con vertici toccati nel mondo greco-romano, nel V e VI secolo a Ravenna e a Costantinopoli, nel XII a Palermo e nel XX in Spagna e in Italia. Come ha scritto Plinio, «Pulsa deinde ex humo pavimenta in camaras transiere vitro»,1 che, nella forse un po’ libera ma decisamente incisiva traduzione di Antonio Corso, recita: «Quindi i pavimenti a mosaico, scacciati dal suolo, si estesero fin sulle volte e furono fatti di vetro».2 Plinio non avrebbe mai immaginato che i mosaici avrebbero, secoli dopo, addirittura “sfondato” le volte e ricoperto interamente un edificio. Questo avverrà agli inizi del Novecento col genio (non del tutto compreso, o, meglio, spesso frainteso) di Antoni Gaudí, con l’incredibile casa Battlò, la cui facciata è una cascata di coriandoli di dischi di maiolica e vetri multicolori realizzati secondo la tecnica
del trencadís. Ma non è stata questa, naturalmente, l’unica modalità di utilizzo di quest’arte, così lenta e costosa, nel corso del XX secolo. All’opposto del genio catalano, che ha rivestito gran parte dei suoi edifici-sculture col mosaico, troviamo, infatti, un architetto come Carlo Scarpa, che ha usato tessere di murrine, nella dimensione di 7,5 cm e nei colori: bianco, nero, argento e oro, con grande parsimonia, accostandole, per contrasto (o concordia discors?), a quel materiale apparentemente amorfo che è il cemento armato.
A sinistra: Carlo Scarpa, Tomba Brion, San Vito d’Altivole (TV), 1969-1978. Foto dell’autore. Sotto: Antoni Gaudí y Cornet, Particolare di un mosaico a trencadís (John McGee, https://it.pinterest.com).
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STUDI E RICERCHE
A sinistra, sopra: Dimitris Pikionis, Particolare dei sentieri di fronte all’Acropoli, Atene, 1954-1957 (Matteo Martinelli, https://it.pinterest.com). A sinistra, sotto: Antoni Gaudí y Cornet. Sopra, a destra: Juan José Lahuerta (https://elestadomental.com). Nella pagina a fianco: In alto a sinistra: Dimitris Pikionis (http://www.902.gr). In alto a destra: Monica Centanni. Al centro: Carlo Scarpa (http://lestanzedelvetro.org). In basso: Manlio Brusatin (https://accademiasanluca.wordpress.com).
Ancora differente è il metodo utilizzato dall’architetto greco Dimitris Pikionis, nel comporre il “mosaico” dei sentieri di fronte all’Acropoli, la passeggiata archeologica che conduce ai Propilei e al Partenone, da lui immaginata negli anni Trenta del secolo scorso, ma realizzata dal 1954 al 1957. Un “collage” di pietre sapientemente disegnate e accostate una a una, di recupero, anche, da frammenti abbandonati di cave di marmo, che accompagna il viandante3 (con tempi lenti che il turista odierno non è più abituato a concepire) a uno dei luoghi più celebri del mondo. Nel caso del sentiero di pietra di Pikionis si potrebbe forse dire che ciò che più conta, paradossalmente, non è tanto la meta (pur straordinaria), quando il viaggio stesso, come ha intuito, per primo, il grande poeta, greco come Pikionis, Constantinos Kavafis, nella celeberrima Itaca (1911), e da lì diventato un luogo comune.4 Non si sono fatti a caso i nomi di questi tre grandissimi architetti del Novecento – differenti l’uno dall’altro, ma accomunati dall’identico amore per il particolare – “Il buon dio si nasconde nei dettagli”, sosteneva, tra gli altri, il grande storico dell’arte e inventore dell’iconologia Aby Warburg. Infatti, è proprio a queste tre figure e alla loro diversa concezione del mosaico che sarà dedicata la seconda sessione del convegno ravennate, nella mattinata di sabato 25 novembre. A parlare dell’idea di mosaico in Gaudí sarà il massimo conoscitore al mondo della sua opera, Juan José Lahuerta, professore d’Història de l’Art i l’Arquitectura e direttore della Càtedra Gaudí alla Escola Tècnica Superior d’Arquitectura di Barcellona (Universitat Politècnica de Catalunya). A farci capire il senso dei mosaici di pietra dell’Acropoli di Pikionis verrà Monica Centanni, 5 professore associato di Lingua e letteratura greca allo Iuav, direttore di ClassicA - Centro studi Architettura Civiltà Tradizione del Classico (Iuav) e della bella rivista on-line «Engramma. La tradizione classica nella memoria occidentale». Infine, a raccontarci il significato della decorazione e del colore, e dunque anche del mosaico, in Carlo Scarpa, avremo un suo allievo, già professore alle Università di Venezia, Milano e Sassari, Manlio Brusatin.6 Tre grandi studiosi per tre grandi architetti. Si capirà, penso, che mosaico è «tutto quello che è frammento» e che «ogni costruzione è fatta di frantumi».7 Lo hanno affermato due autori, ancora una volta lontanissimi tra loro (ma non è forse la cifra del mosaico il “gettare insieme” cose che fra loro non hanno spesso alcun rapporto?): Alberto Melano, mosaicista sant’albertese (patria d’elezione di Olindo Guerrini e anche un po’ di chi scrive) e Marcel Schwob, geniale scrittore francese del Simbolismo. Si tratta, in sintesi, di sublimare lo scarto, come ha compreso magistralmente Lahuerta, a proposito di Gaudí: «Gli avanzi, gli scarti, i rifiuti del cantiere – insomma la sua spazzatura – cessano di essere tali per opera del vero artista: questi riesce a utilizzare tutto. […] La materia più volgare […] viene liberata dalla sua spregevole insignificanza […] redenta dalla sua condizione, liberata dal peccato – il peccato di essere materia abbondata all’abiezione della sua inutilità».8 Leon Battista Alberti lo aveva intuito cinque secoli prima: «Adunque, e per coadornare e per variare el pavimento dagli altri affacciati del tempio, tolse que’ mi-
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nuti rottami rimasi da’ marmi, porfidi e diaspri di tutta la struttura, e coattatogli insieme, secondo e’ loro colori e quadre compose quella e quell’altra pittura, vestendone e onestandone tutto el pavimento. Qual opera fu grata e iocunda nulla meno che quelle maggiori al resto dello edificio».9 E un mosaico di tessere sono anche le sue facciate, dal tempio Malatestiano, a Santa Maria Novella, al tempietto del Santo Sepolcro in San Pancrazio.
Note 1. Gaius Plinius Secondus, Historia naturalis, XXXVI, 189, ed. cons.: Gaio Plinio Secondo, Storia naturale, V: Mineralogia e storia dell’arte, Libri 33-37, Traduzioni e note di Antonio Corso, Rossana Mugellesi, Gianpiero Rosati, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1988, p. 726, corsivo mio. 2. Ibid., p. 727. 3. Si veda l’intenso testo di Pikionis, Topografia estetica, in Pikionis. 1887-1968, [a cura di] Alberto Ferlenga, Milano, Mondadori Electa, 1999, pp. 329-331, ripubblicato in I sentieri di Pikionis di fronte all’Acropoli di Atene. Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino, quattordicesima edizione, Treviso, 10 maggio 2003, Fondazione Benetton Studi Ricerche, Pieve di Soligno (TV), Grafiche V. Bernardi, 2003, pp. 13-17. 4. «Quando ti metterai in viaggio per Itaca | devi augurarti che la strada sia lunga | fertile in avventure e in esperienze. […] Sempre devi avere in mente Itaca – | raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio | fa che duri a lungo, per anni […]», Constantinos Kavafis, Settantacinque poesie, A cura di Nelo Risi e Margherita Dalmàti, Torino, Giulio Einaudi Editore, 1992, pp. 63 e 65: 63 (testo originale, pp. 62 e 64: 62). 5. Centanni ha collaborato con un saggio dal titolo Nostos. Memoria dell’antico in Dimitris Pikionis (pp. 21-27) e con la traduzione dei testi di Pikionis al già citato e fondamentale volume Pikionis. 1887-1968, cit., pp. 21-27. 6. Brusatin ha scritto un importante testo su Scarpa: Carlo Scarpa architetto veneziano, in «Controspazio», IV, n. 3-4, 1972, pp. 2-85. 7. Esergo del bellissimo libro di Edgardo Franzosini, Raymond Isidore e la sua cattedrale, Milano, Adelphi, 1995, s.n.p., ma p. 7, tratto, come mi precisa gentilmente l’Autore, da Le Livre de Monelle, Paris, Édition dv Mercvre de France, MDCCC XCVII, trad. it. Il libro di Monelle, traduzione e postface di Rashida Agosti, Milano, Serra e Riva, 1979, p. 16, la cui traduzione suona leggermente diversa: «Distruggi, ché ogni creazione viene dalla distruzione» (più fedele, in senso letterale, all’originale che è: «toute création vient de la destruction», ed. cons.: Id., Œuvres complètes, Genève etc., Slatkine Reprints, 1985, tomo IV, p. 13). 8. Juan José Laherta, Antoni Gaudí. 1852-1926. Architettura, ideologia e politica, traduzione italiana di Giorgio Magrini, Milano, Electa, 1992, 20044, p. 112. 9. Leon Battista Alberti, Profugiorum ab ærumna libri III, in Id., Opere volgari, a cura di Cecil Grayson, vol. II, Rime e trattati morali, Bari, Laterza, 1966, pp. 105-183: 161.
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A destra: Ritratto dell'artista e designer Bruno Munari (1907-1998) 1: Autoritratto, xerografia 2: Lampada Falkland (1964, produzione Danese) 3: Forchetta parlante, disegno progettuale (1958) 4: Materie plastiche (1947) 5: Prelibri. Si tratta di volumi di culto ormai, pubblicati per la prima volta da Danese nel 1980. Sono una serie di 12 piccoli libri (10 x 10 cm) dedicati ai bambini che non hanno ancora imparato a leggere e scrivere, disegnati per adattarsi alle loro mani e assemblati usando diversi tipi di materiali, colori e rilegature. 6: Curva di Peano (1975)
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Bruno Munari la fantasia al potere Dispositivi “inutili”, grafica inusuale, oggetti emozionali: gli intrecci creativi di un pensatore dell'inesistente Le analogie con le invenzioni poetiche e narrative di Gianni Rodari. All'insegna del caso, del gioco e dell'immaginario (Futurista)
di Serena Simoni Partendo da un’associazione involontaria, Bruno Munari per me ha un posto vicino a Gianni Rodari e non solo per assonanza verbale. Le similitudini in realtà sarebbero minime, appartenendo i due intellettuali ad anni e luoghi di nascita diversi, a formazione e professioni distanti. Munari, lombardo classe 1907, è uno dei massimi rappresentanti italiani nei campi dell’arte, design e della grafica del ‘900, mentre Rodari – nato in Piemonte nel 1920 – si è occupato di pedagogia, giornalismo e poesia, specializzandosi nella produzione di testi per ragazzi e bambini che hanno ricevuto riconoscimenti internazionali. Nonostante ciò, esiste un filo conduttore fra i due che va ben oltre al fatto di essere nati ad un solo giorno di distanza l’uno dall’altro, se pure con più di una generazione nel mezzo. Li accomuna ad esempio l’interesse per la definizione di “fantasia” sulla quale entrambi hanno scritto testi pioneristici, ciascuno nel proprio campo: la Grammatica di Rodari – compilata negli anni ‘40 e data alle stampe nel 1973 – anticipa di pochi anni il testo di Munari che in una lezione universitaria cita il collega come l’unico ad essersi interessato al tema nell’Italia di quel tempo. Entrambi hanno un alto concetto delle possibilità della fantasia, considerata da Munari come la capacità di “pensare ciò che non esiste”, senza sottostare ad alcun limite reale ma solo interagendo con la memoria. Mentre Rodari inneggia all’errore come caposaldo per l’invenzione, Munari elogia il caso e il gioco, che egli stesso – operatore visivo – in qualche caso applica anche a parole e brevi racconti. Tutti e due gli intellettuali sono inoltre molto attenti al mondo dei bambini, destinatari diretti della produzione di favole e filastrocche fuori dalle righe e dalle convenzioni scritte da Rodari, e dei prodotti visivi, libri e tarde attività laboratoriali di Munari che considera il mondo infantile come incarnazione del futuro. Munari e Rodari appaiono vicini spiritualmente quando non esitano a considerare una fortuna inestimabile la permanenza dell’infanzia nelle persone adulte, col suo corollario di capacità immaginifiche, fantastiche e creative. Un filo conduttore fra tutti questi temi è il Futurismo: per quanto non abbia fatto parte del percorso formativo di Rodari è a questo movimento che si deve l’amore dello scrittore verso il gioco anar-
chico delle parole, l’irriverenza per la regola e l’irruenza del dato fantastico nella trama narrativa e nelle parole. Munari invece ha partecipato giovanissimo al gruppo futurista milanese che gli ha determinato un imprinting rispetto a concetti come l’immaginazione senza fili e le qualità entusiasmanti del paradosso e dell’umorismo. Mantenendo in piedi sia regole che la libertà di disfarsene, il giocoliere delle forme e dei segni amava ripetere che il motore della sua attività era «mettere insieme il gioco con la tecnica, il caso con la regola, l’equilibrio degli opposti». Sono queste le poche regole fondamentali che informano tutto il suo lavoro fin dalle sue prime macchine aeree degli anni ‘30, forme leggére e sospese nell’aria le cui forme ruotano modificando continuamente composizioni e colori, così simili ma in netto anticipo rispetto ai Mobiles di Calder. Si ispirano alla stessa anticonvenzianalità la serie delle cosiddette macchine inutili, prodotte nello stesso decennio, che ibridano pittura-scultura secondo un processo creativo già sperimentato dai dadaisti. In effetti, la differenza fra Munari e il contemporaneo mondo artistico sta proprio nel suo stare fuori dalle regole, nel pensarsi una via di mezzo fra l’artista e il designer. Nella sua analisi, Munari afferma infatti che gli artisti del suo tempo lavorano da soli, possiedono una cultura fondamentalmente classica, ricercano uno stile personale e producono pezzi unici destinati al museo; i designers invece operano collaborando con altre figure professionali, hanno una cultura tecnico-scientifica e creano pensando principalmente alle materie e alle tecniche, indirizzando i propri prodotti al mercato. Munari sente vicino il mondo del design, con cui condivide l’importanza del ragionamento, delle misure e delle conseguenze logiche dettate da forme e materiali. Ma allo stesso tempo marca anche una sua personale distanza dai colleghi progettisti quando esplicita che la funzione pratica dei suoi oggetti non è poi così fondamentale. Munari preferisce quindi autodefinirsi un “operatore visuale” ovvero un designer che considera prioritaria la ricerca di una funzione estetica dell’oggetto al posto di quella pratica. Centrali nelle sue considerazioni sono la partecipazione attiva dello spettatore – col proprio corpo, mani o sguardo –, la possibilità di coniugare all’oggetto informazioni anche elementari sul mondo fisico, gli effetti imprevisti o determinati dal caso. Il senso di questi oggetti funzionali
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7: Raccolta delle scritte pubblicitarie realizzate da Bruno Munari per Campari (1964). 8: Forchette parlanti (1958). 9: Ritratto pluridimensionale dell’artista. 10: Paravento (1991). 11-12: Struttura continua (1961-67). 13: Zizi (1954). 14: Flatware (1955). 15: Lampada Aconà biconbì (1961-67). 16: Posacenere (1971). 17: Oggetti - macchine inutili (1951).
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ma inutili – inutili ma funzionali – è evidente nella serie delle “macchine” realizzate all’inizio degli anni ‘40, perfetti ingranaggi finalizzati «ad agitare le code dei cani pigri» o a far muovere più velocemente le tartarughe stanche. Sulla stessa linea di una funzionalità spostata sull’estetica o di un’arte desunta dall’oggetto di design va inserita anche la serie famosa dei concavi-convessi (1947), oggetti realizzati con reti metalliche incurvate e fissate in una forma, in grado di proiettare ombre continuamente mutevoli su muri e soffitto. La centralità della partecipazione attiva degli spettatori nella fruizione dell’opera è un concetto già introdotto da Leonardo: Munari – che col grande genio rinascimentale condivide l’amore per l’osservazione naturale e l’interesse verso i dati tecnici e scientifici – converge la sua attenzione verso la percezione, il dinamismo, la luce, gli effetti di distorsione. La centralità del fruitore comprende anche i bambini: la nascita del figlio costituisce uno stimolo per Munari a cercare libri e oggetti divertenti e adatti ai bambini, in grado di stimolare le loro abilità mentre si producono informazioni. A fronte di un mercato privo di tali oggetti, nasce dalle sue mani una serie artigianale di libri giocati sulle forme o sulle lettere dell’alfabeto, viste e ordinate secondo i ritmi di apprendimento dei bambini e non imposte dalle regole degli adulti; vengono prodotti testi in cui esistono spazi bianchi da riempire, pagine da ritagliare, parti che si aprono e si chiudono, fogli legati da un filo che trapassa da una pagina all’altra o in cui si trovano effetti di trasparenze e trompe-l’oeil. Si tratta di una produzione in cui l’unico personaggio attivo e presente è il lettore, bambino o adulto che sia, che non si limita a guardare ma “fa”, attraversando l’intera avventura del libro. Tutta l’esperienza si traduce nel monito di Munari: «Se ascolto/dimentico; se vedo/ricordo; se faccio/capisco». Questa prassi – oggi consolidata nei libri interattivi contemporanei per l’infanzia e in gran parte delle esperienze didattiche – trova proprio in Munari uno dei padri fondatori. Il principio del coinvolgimento dello spettatore viene applicato anche nella grafica pubblicitaria esplicitata nella nota campagna di manifesti per la ditta Campari (1964), pensata per gli spazi della metropolitana. Il messaggio visivo si basa formalmente su un principio di separazione ottenuto mediante parole tagliate e ricomposte in modi e orientamenti diversi. Il processo stimola l’attenzione dello spettatore che rimane attratto dall’aspetto ludico del messaggio, preso dalla necessità di ricostruire il senso della scomposizione e – come sospetta Munari – dal piacere di trovare l’errore (che non c’è). La centralità della percezione umana si mantiene come uno dei grandi temi analizzati dall’artista che negli anni in cui fonda il MAC - Movimento Arte Concreta - orienta la sua ricerca nello studio di dinamismo, ritmo, forme ed effetti della luce sulla retina. Da qui prende avvio la serie dei negativi-positivi (1950) – realizzati a pittura o disegno e trasformati in strutture tridimensionali – in cui l’interesse punta al rapporto fra forma e sfondo come elementi variabili, a seconda della focalizzazione dello sguardo dello spettatore. Altra sponda di approdo del lavoro di Munari è la discussione delle regole e l’amore per il paradosso quando l’oggetto di design diventa “inutile”: prodotte negli anni ‘50, le forchette parlanti subiscono poche ma sostanziali modifiche di una o più parti, in modo da essere viste come portatrici di caratteri, tensioni, intenzionalità, come nel caso della forchetta tres chic o quella che indica oppure è a dieta. Sempre il paradosso spinge a ragionare su quanto risulta vietato e quali siano le regole funzionali da infrangere: ricadono in questa esplorazione le xerografie originali, in cui un particolare utilizzo della fotocopiatrice produce esemplari unici o – al contrario – gli oggetti d’arte singoli e irripetibili vengono moltiplicati all’infinito. Negli anni in cui McLuhan propone all’attenzione mondiale l’idea della riproducibilità dell’opera d’arte, Munari affronta il concetto di arte moltiplicata: il gesto artistico si trasforma in una serie ripetuta di atti unici, in cui il primo esemplare – il prototipo – è in tutto e per tutto uguale al
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18: Macchina aerea (1930-1970) 19: Macchina inutile (1933-34) 20: Alfabetiere 21: Illustrazioni per Filastrocche in cielo in terra di Gianni Rodari
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numero 1000. L’idea rientra nel campo del paradosso e della commistione fra arte e design, dove la funzionalità può diventare secondaria e le forme esplodere in atti fantastici. L’oggetto di design si trasforma in oggetto d’arte e la riproducibilità – che dovrebbe segnare la fine dell’arte tradizionalmente intesa – rimette in gioco l’unicità del pezzo seriale o, al contrario, riproduce serialmente l’atto unico del creatore. I principi della fisica, i confini della scienza e dell’ottica, sono campi che rientrano nel lavoro visuale di Munari che in modo ludico progetta opere divertenti e coinvolgenti senza perdere l’occasione di chiarire un intento didattico. La serie delle fontane della metà degli anni ‘50 sono a tutti gli effetti giochi di piani inclinati, studi sulla dispersione e il condizionamento dei flussi di acqua, sui movimenti e capovolgimenti dettati dalla legge di gravità: per quanto il caso venga condotto da una progettazione fatta al millesimo, l’effetto che si produce sullo spettatore è quello di sorpresa e coinvolgimento. Più legati ad una logica progettuale sono i posacenere quadrati con mozzicone a scomparsa e le cosiddette sculture da viaggio del 1958, una serie di oggetti leggeri e di modeste dimensioni che si possono trasportare in forme pieghevoli e all’occorrenza riprendere la propria forma tridimensionale. La scultura da viaggio personalizza gli spazi di un viaggiatore giovane che appartiene ad una cultura internazionale e si prende cura del lato estetico della propria vita. In questo caso l’oggetto scarta la dimensione artistica per la sua natura multipla ma vi rientra in un certo modo, proprio per la sua caratteristica di funzione, puramente estetica. Negli anni ‘70 alcuni oggetti realizzati da Munari recuperano direttamente la funzionalità, mantenendo il filo conduttore con la produzione precedente. Come in precedenza, la loro maneggevolezza è una caratteristica costitutiva: gli oggetti si possono piegare e rimontare con estrema facilità occupando lo spazio minimo e recuperando in poche mosse tutta l’estensione e articolazione originali. È il caso degli abitacoli del 1971, strutture di acciaio plastificato e assemblato sulla base di moduli leggeri e di piccole dimensioni che possono svilupparsi in varie combinazioni e forme a seconda della destinazione d’uso. Si montano con facilità, costano poco e hanno una serie di complementi – ganci, mensole, cesti, sottomoduli – che permettono all’abitacolo di svilupparsi in forme e dimensioni adattabili. Per leggerezza e neutralità non si impongono ma si adattano alle regole dell’ambiente e degli abitanti. Inutile dire che gran parte delle leggi fondamentali su cui si è basato il lavoro di Munari è diventata regola non scritta ma applicata da numerosi designers e artisti contemporanei che assecondano quel mescolamento di campi che l’operatore visuale – come Munari amava definirsi – già vedeva come una naturale necessità dell’atto creativo.
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SEDICI ARCHITETTURA 2017 di Sabina Ghinassi Quando James Harvey entrò alla Stable Gallery il 21 aprile 1964 di New York alla personale di Andy Wahrol, per prima cosa si mise a ridere. Davanti a lui c’erano decine di Brillo Box, uguali al packaging che aveva progettato tre anni prima per l’azienda di pagliette Brillo. Per Harvey, pittore espressionista astratto prestato al mondo della grafica e del packaging per l’Agenzia Stuart & Gunn, quella fu una sorpresa piacevole. Decontestualizzando e rivestendo di auraticità una banale scatola di spugne detergenti, Warhol aveva creato un ibrido nel quale il gesto e l’intenzione dell’artista erano aspetti fondamentale. Prima di lui era stato Duchamp a investire di aura sacrale, attraverso l’ironia dada, orinatoi, ruote di bicicletta, palloncini. Da allora il quotidiano, alle volte talmente banale da essere disturbante, è entrato in gallerie e musei internazionali attraverso installazioni ambientali ed esperienze di public art nelle quali è fondamentale, spesso, un’interazione da parte del pubblico L’ibridazione, l’incontro tra dinamiche apparentemente avverse e la creatività diffusa partono da questi scenari, ma soltanto adesso appaiono come dinamiche completamente metabolizzate. Il concetto di ibrido, termine derivato dalla biologia (un essere vivente generato da individui provenienti da razze, generi o specie differenti), indica, in antropologia, gli incroci tra cultura alta, di massa, popolare e costituisce uno dei tratti più caratteristici della modernità. Il termine ibrido si presta a indicare ciò che viene prodotto da una sorta di corto circuito creativo che, spezzando le tassonomie esistenti, crea una nuova identità, cui vengono trasmessi i tratti delle precedenti. Nella DesignArt l’arte, la manualità e la dimensione della serie limi-
In colonna, dall’alto: Annie Spratt, Write on wall, unsplash.com Annie Spratt, Tattoo & sunflower, unsplash.com Bench Accounting, Living room, unsplash.com In basso, a partire dalla seconda foto a sinistra: Robertbye, studio, unplash.com Adrian, Quiet before the storm, unsplash.com Nicola Bolla, Vanitas still life (2014) Stephen Di Donato, Living room, unsplash.com Jason Briscoe, Magazine in living room, unsplash.com Renata Fraga, Attaccapanni, unsplash.com A destra, in alto: Annie Spratt, Crew collective café, unsplash.com
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DesignArt L’ibridazione come scenario della contemporaneità Nella DesignArt l’arte, la manualità e la dimensione della serie limitata incontrano l’aspetto del design, inteso come serialità e funzionalità dell’oggetto. Una funzionalità che non coincide però più soltanto con un uso specifico, ma ha come valori fondanti la dimensione emotiva e quella estetica
tata incontrano l’aspetto del design, inteso come serialità e funzionalità dell’oggetto. Una funzionalità che non coincide però più soltanto con un uso specifico, ma ha come valori fondanti la dimensione emotiva e quella estetica. I due filosofi francesi Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, nel libro L’esthétisation du monde, hanno messo in evidenza come il capitalismo stia vivendo una condizione paradossale: più tenta di essere razionale ed efficiente, più è costretto a fare ricorso a tutto quello che è contrario alla razionalità (emozioni, creatività, estetica). Questo perché ha un assoluto bisogno dell’arte e delle sue creazioni per legittimare sul piano sociale i suoi prodotti e le sue marche, cioè per continuare a produrre del valore economico. Ora i fenomeni estetici non sono più separati e marginali, ma pienamente inseriti nei mondi della produzione, della commercializzazione e della comunicazione. Sono, e il DesignArt ne è un esempio illuminante, ibridi basati sulla combinazione e sul rimescolamento degli ambiti e dei generi, ma anche sull’ossimoro, sull’iperbole e sulla ricerca di eccessi: la ricerca della bellezza e il cattivo gusto, l’estetizzazione e la degradazione dell’ambiente, la felicità e l’ansia, l’assolutamente artificiale e il raw, il lussuoso e il minimalista. Questi ibridi hanno come scenario privilegiato l’ambiente vissuto, lo spazio modificato in modo tale da generare esperienze esteticamente significative, facendo leva sugli aspetti sinestetici e relazionali. Questo avviene indistintamente per gli spazi pubblici ma anche per quelli domestici, privati e quotidiani, attraverso una sorta di “consumo contemplativo”, nel quale l’esperienza estetica, il valore espositivo, connotativo dell’oggetto di DesignArt, viene affiancato da un altro valore “liturgico”, rituale, ieratico, che può variare anche da individuo a individuo. L’oggetto diventa così anche soggetto e si
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apre a suggerire legami e intrecci, condivisioni e interazioni. I nuovi oggetti si muovono esattamente come nello spazio liquido della Rete: vengono amati e scelti in virtù della loro forza simbolica, emozionale e significante, non soltanto per il loro uso. Ciò che le nuove tecnologie hanno profondamente cambiato su scala globale, infatti, è il modo di pensare, di valutare, di giudicare di ogni individuo: la sperimentazione e l’autarchia del DIY su you tube e su pinterest, la velocità di un whatsapp, la condivisione di un file sharing, l’esplorazione del territorio del GPS hanno modificato radicalmente l’esperienza del mondo di ognuno di noi e ci hanno reso anche più liberi di scegliere e costruire il nostro scenario. Uno scenario che può mescolare la memoria visionaria, il genius loci, le sperimentazioni espressive, la fascinazione improvvisa, lo spirito riflessivo, l’ironia, la citazione ludica alla funzionalità. Possiamo scegliere la lampada di Mathali Crasset di Ikea e unirla al pezzo quasi unico del designer giovane ed emergente; possiamo anche costruirci il letto di pallet e affiancarlo alla seduta Mezzadro di Castiglioni, appendendo vicino ala testata un quadro dipinto da nostro figlio alla tenera età di otto anni. In questo luogo, di cui siamo perfetti protagonisti, la DesignArt occupa una posizione privilegiata perché siamo tutti più informati,
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> La conferenza Il tema trattato nell’articolo su queste pagine sarà al centro della conferenza (la 36esima) della serie SeDici Architettura – nel 2017/208 dedicato a “Progetto, fra storia, estetica ed esperienze” – in programma la serata del 19 ottobre nello showroom dell’azienda TBT di Ravenna. L’incontro organizzato come consueto da questa rivista col patrocinio del Comune di Ravenna e degli Ordini degli Architetti di Ravenna e Forlì-Cesena (anche ai fini dei crediti formativi) è introdotta a coordinata da Sabina Ghinassi. Critica d'arte, giornalista e studiosa di tendenze estetiche e nuovi stili di vita, è redattrice di Casa Premium per cui cura una sezione dedicata all'evoluzione contemporanea dell'abitare (la casa, la città, la natura). Di seguito le bioprof degli ospiti/relatori dell’incontro.
Marcantonio Raimondi Malerba • Di sé dichiara «non ho mai rinunciato all’ironia. Se una buona idea è anche divertente non riesco a resistere, la devo realizzare». Studi all’Istituto d’Arte di Ravenna e poi all’Accademia di Belle Arti, Marcantonio Raimondi Malerba ha iniziato a lavorare come scenografo, collaborando con molte compagnie (Fanny e Alexander, ad esempio) e parallelamente come artista. Il suo linguaggio progettuale è fortemente intriso di spirito ludico e libertà evocativa, aspetti che lo stimolano a reinterpretare in modo originale gli oggetti quotidiani. La sua vena creativa ha conquistato il marchio Seletti per cui ha disegnato numerosi pezzi, oscillanti tra invenzione e ready made. Gli studi artistici hanno nutrito l’eleganza che caratterizza ogni suo progetto. Ama con le sue realizzazioni raccontare storie, che sempre condisce con una buona dose d’ironia, sovvertendo le funzioni degli oggetti quotidiani: il martello diventa un attaccapanni, sagome di casette su palafitte costituiscono una sequenza di mobili contenitori, mentre un fagotto legato con gli spaghi funge da pouf. Oltre a un approccio simile al pensiero divergente, è particolarmente legato alla natura: «La natura è esatta, basta a sé, non ha coscienza della propria bellezza e trova per necessità forme cui l’uomo può arrivare attraverso processi speculativi ed eventualmente estetici. La natura – dice Malerba – è sempre un passo avanti all’uomo e continuerà ad essere in nostra assenza».
mediamente più colti e tutti vogliamo essere protagonisti del nostro teatro personale, muoverci in uno spazio simile a quello che Gernot Böhme ha definito con il termine “atmosfera”. Secondo il filosofo tedesco, l’atmosfera è l’oggetto percettivo primario; è ciò che “si sente” prima di avvertire oggetti fisicamente definiti; è ciò che ci coinvolge sensorialmente ed emotivamente e che dà il tono al nostro percepire oggetti e ambienti. Le atmosfere, insomma, sono “spazi emozionali”, “sentimenti estesi nello spazio”, interstiziali tra soggetto e oggetto: avvertiamo, ad esempio la serenità di una limpida giornata primaverile e questo indipendentemente dal nostro stato d’animo, indipendentemente dalla nostra interiorità psichica, come proviamo un sentimento di inquietudine se entriamo in un luogo buio e angusto anche se siamo felici. L’oggetto di design, soprattutto se di sapore artistico, creato manualmente e a tiratura limitata oppure prodotto in serie a prezzi inferiori, raccoglie le necessità dell’estetica dell’atmosfera e, nello stesso tempo, è il segno di una democraticizzazione dell’arte che scende dalle aule distanti e algide dei musei e “si sporca” di vita e di uso quotidiano, affettivo ed emozionale, indicando un nuovo orizzonte di esperienza estetica condivisa sul mondo.
Verter ed Erich Turroni, Emanuela Ravelli - Imperfetto Lab • Verter ed Erich Turroni, insieme a Emanuela Ravelli, hanno creato il Laboratorio dell’Imperfetto nel 1997, producendo inizialmente scenografie per la Societas Raffaello Sanzio e set design per discoteche come il Cocoricò. Tutti e tre hanno una formazione artistica: i Turroni hanno studiato all’Accademia di Belle Arti di Ravenna, mentre Ravelli a quella di Brera. Attualmente Verter, coadiuvato da Erich, si occupa di progettazione e creazione, mentre Emanuela di coordinamento e pubbliche relazioni. Dal 2001 il loro percorso include la progettazione di oggetti collocabili sulla soglia liminale tra arte e design. Dal 2014 il Laboratorio dell’Imperfetto diventa Imperfetto Lab, iniziando a raccogliere grandi consensi a livello internazionale. “Imperfetto" è un aggettivo che in loro assume connotazioni simili all’estetica wabi-sabi giapponese: una bellezza austera, deliberatamente aperta all’azione affettiva dello sguardo e delle abitudini. La collezione di oggetti e mobili di design, ispirata all’imperfezione della materia, vuole esprimere una sintesi fra natura e artificio che diventa familiare, domestica. Nato da uno stampo comune, ogni pezzo viene carteggiato, dipinto e lucidato a mano. La lavorazione è differente per ogni genere di oggetto, una personalizzazione attenta e minuziosa che permette a tutti gli elementi di acquisire identità ed unicità, oltre all`estrema cura del dettaglio figlia di una sapiente manifattura artigianale.
Maurizio Nicosia - Accademia Belle Arti di Ravenna • Docente di Storia dell'Arte all'Accademia di Belle Arti di Ravenna è curatore del progetto di interesse archeologico, storico e culturale “Ravenna da Augusto a Giustiniano” dedicato a rilievi e mappe digitali tridimensionali e alla costruzione di modelli di edifici tramite stampante laser 3D, con finiture artistiche e artiginali. Il progetto, intrapreso da Nicosia assieme a Pier Carlo Ricci, con gli allievi dell’Accademia – vincitore di un bando di finanziamento nazionale promosso dal Miur – è realizzato in collaborazione con la Fondazione “RavennAntica” (coordinatore Fabrizio Corbara, consulenza archeologica Giovanna Montevecchi). Molti esiti del progetto multimediale sono visibili sul sito web tamoravenna.info che consente una documentata quanto suggestiva esplorazione di Ravenna in epoca antica.
In alto, a sinistra: Beto Galetto, Restaurant, unsplash.com In alto, al centro: Marcantonio Raimondi Malerba, Monkey lamp (produzione Seletti) In alto, a destra: Verter Turroni/Emanuela Ravelli, Ombra (seduta in vetroresina, Laboratorio dell'Imperfetto) Al centro: Pier Giacomo e Achille Castiglioni, Mezzadro (seduta in legno e metallo, 1970, produzione Zanotta) In basso a sinistra: Mathali Crasset, Led multiuse lighting, (2017, produzione Ikea) In basso a destra: Nick Hillier, Coffe Shop, unsplash.com
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Pummà , nato in riviera nel 2013 vanta altri tre ristoranti gemelli a Bologna, Milano e nel porto di Ibiza Recentemente è stato oggetto di un accurato restyling firmato dal designer Adriano Cucca
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Pummà: ristorante-pizzeria gourmet nel cuore di Milano Marittima
Il locale coniuga la tradizione dell’alta panificazione con quella dell’alta cucina. Un marchio di qualità che ha esportato la sua fama oltre i confini della costa romagnola di Roberta Bezzi È partita dalla modaiola Milano Marittima, la fortunata esperienza di Pummà, il ristorante-pizzeria gourmet che punta a far incontrare la tradizione dell’alta panificazione con la creatività dell’alta cucina. Aperto in viale Romagna 1, in pieno centro, il locale è stato oggetto – nel gennaio 2017 – di un attento restyling realizzato dal designer Adriano Cucca. Dopo l’apertura nel marzo 2013, Pummà è diventato in poco tempo uno dei locali più apprezzati per la qualità della pizza, per la filosofia degli impasti e delle materie prima usate per la farcitura. Un locale “trasversale” che piace a tutti, famiglie e adulti, giovani compresi, che ha fatto vincere la scommessa di tenere aperto la sera tutto l’anno anche in inverno. Per fare un ulteriore passo in avanti, in concomitanza con l’espansione del marchio fuori dalla riviera, dalla regione e persino dei confini nazionali,
mancava solo un rinnovo complessivo degli ambienti interni ed esterni. «Quando abbiamo cominciato con Pummà a Milano Marittima – afferma Fabrizio Bagnara, noto semplicemente come “Bicio” -, mai avremmo immaginato di aprire quattro locali in quattro anni, visto che dopo l’apertura nella località più nota della riviera ravennate, è seguita quella in via Murri a Bologna nel maggio 2016, quella nel porto di Ibiza nell’aprile 2017 e infine quella di Milano, proprio in questi giorni. Presentare una proposta unica sotto il profilo gastronomico, è andato di pari passo con l’idea di avere una soluzione unica e innovativa anche in materia di architettura e arredi. Per questo ci siamo affidati al designer Cucca che ha creato un format estetico tutto nostro dal punto di vista strutturale e delle linee che prevede protagonisti, al centro dello spazio, banconi e forno a vista, mentre i tavoli sono disposti ad anfiteatro all’interno e nel dehor estivo». Il progetto di restyling nasce a seguito di nu-
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«Il progetto di stile Pummà prende in considerazione il contesto, le persone e il territorio in cui il locale sorge – illustra il designer Adriano Cucca Inevitabilmente per Milano Marittima, ho tenuto conto della location a pochi passi dal mare, proprio sotto il grattacielo, vicina ai tanti locali notturni e alla movida dei giovani, soprattutto in estate. Celeste è il colore dominante» merosi incontri e piacevoli chiacchierate fra il designer, Bagnara e gli altri soci Luigi Beretta, Franco Marocchi e Angelo Pedemente, amici nella vita con la passione per la buona tavola. «Mi è stato chiesto di sviluppare un format estetico da conservare e replicare – ricorda Cucca –, lasciandomi praticamente carta bianca. Un’esperienza bellissima che mi ha consentito di fare un creativo viaggio professionale, portando avanti la mia filosofia, essenzialmente imperniata intorno all’attenzione per l’ambiente non solo in senso ecologico. Il progetto Pummà prende in considerazione il contesto, le persone e il territorio in cui il locale sorge. Inevitabilmente per Milano Marittima, ho tenuto conto della location a pochi passi dal mare, proprio sotto il grattacielo, vicina ai tanti locali notturni e alla movida dei giovani, soprattutto in estate. Celeste è il colore dominante. Lo stesso ragionamento è stato seguito per le altre sedi di Pummà. Per esempio, a Bologna, non si poteva non tener conto del
meraviglioso palazzo di inizio Novecento in una zona residenziale in cui sorge il locale, per cui il colore grigio è più rappresentativo; a Ibiza, della splendida luce che illumina il porto durante la giornata, scegliendo quindi il giallo; a Milano, della vicinanza all’antico liceo Manzoni, optando per l’indaco». A Milano Marittima, la struttura del locale era già di per sé interessante grazie soprattutto alle grandi aperture verso l’esterno che sono state mantenute: le nuove finestre bianche conferiscono eleganza e ben si adattano al celeste delle pareti interne, così come al taglio residenziale dell’area. Per il pavimento sono state utilizzate piastre di cemento che sono le stesse utilizzate nelle passerelle in spiaggia, un evidente omaggio alla riviera romagnola. Filo conduttore degli arredi – tutti rigorosamente su misura – è l’utilizzo del pioppo, un legno che fino a pochi anni fa era utilizzato solo per gli imballaggi e che ora sta attirando la giusta attenzione dei designer, e il pino stratificato con colle fenoliche, particolarmente adatto alle località marittime in quanto non si torce ed è resistente all’umidità. La struttura dei banchi è in massello di pioppo, mentre i tavoli – dei cubi di 80 centimetri per 80 – sono in corten, un ferro ruggine con all’interno sempre del massello di pioppo, in linea con quanto di meglio la Romagna marittima può offrire. Richiamando una celebre frase citata all’interno del Dilemma dell’onnivoro di Michael Pollan, secondo cui “Nel cucinare trasformiamo il cibo in cultura”, Adriano Cucca ama ripetere: “Nel design trasformiamo la natura in cultura”. Un imprinting – il suo – fortemente influenzato sia dagli studi in lettere e filosofia prima sia dal recupero di barche storiche del Novecento dopo, che gli hanno consentito di scoprire i principali materiali della riviera. Anche la decorazione del ristorante pizzeria Pummà tiene conto delle stesse logiche della progettazione. Le cornici costruite attorno ai banconi di lavoro dei pizzaioli – che impastano e stendono le pizze su piani di marmo di Carrara bianco – sono dei “conteni-
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tori” di pensieri, ricordi e rimandi al territorio. Ma poiché sostengono delle lampade giganti, sono anche una rivisitazione delle specchiere dei teatrini degli anni Cinquanta in cui il personale – giovane e proveniente da tutto il mondo – è protagonista. Il loro lavoro è sotto gli occhi di tutti, ben in vista, come in un palcoscenico appunto. Il locale è illuminato da originali e grandi lampade comprate da un’azienda olandese che le produceva in realtà come fari-segnalatori marittimi, ora di gran tendenza. Al centro della sala, che può contenere un centinaio di posti, vi è una colonna che ogni anno sarà decorata diversamente, come fosse un abito scenico, ma sempre legato al territorio. Attualmente, spiccano le riproduzioni di cefali, un tributo a un pesce molto noto ma a rischio d’estinzione. Al Pummà di Milano Marittima c’è spazio anche per l’arte made in Romagna e, in particolare, per la ceramica di cui il faentino Fabrizio Bagnara è molto orgoglioso. Un doveroso omaggio all’entroterra da cui proviene. «Ospitiamo regolarmente mostre di ceramica – racconta – tanto che, in questi anni, abbiamo valorizzato le opere di Serena Balbo, Bottega Gotti, Sorelle Vignoli, Mirta Morigi. Le opere sono esposte in un apposito corner, dove esponiamo anche i nostri migliori prodotti tra cui paste, oli, capperi e pomodori. La ceramica è presente anche in alcuni decori, nei tovaglioli e nelle tovagliette a cura dell’illustratrice Agnese Baruzzi, su cui vengono servite le pizze d’autore del maestro Marco Baldassarri». Il restyling ha riguardato anche l’esterno, dove si viene subito colpiti – entrando o semplicemente passeggiando davanti al locale – dal volto di una donna mascherata dall’estetica anni rétro, circondata da strumenti di lavoro in cucina. Quella è la “copertina” del locale, riprodotta nelle scatole di pizza in cartone e in qualsiasi packaging del locale. In estate, c’è spazio per un altro centinaio di posti, sotto il gioco “felliniano” delle lucine sul filo a illuminare i tavoli che è
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Gli arredi di Pummà richiamano sia negli interni che all’aperto atmosfere marinare e rivierasche Un corner ospita anche mostre d’arte ceramica e naturalmente un assortimento di eccellenti prodotti gastronomici locali e del Bel Paese
stato molto apprezzato perché in grado di “fare” riviera e di dare un segnale di semplicità e umanità. Ambienti e arredi dal sapore di una volta sono dunque il giusto complemento di una proposta incentrata sulla pizza e sulle eccellenze gastronomiche del Bel Paese. Alla guida dei forni c’è Beniamino Bilali uno dei pizzaioli che negli ultimi dieci anni ha contribuito a dare un nuovo volto alla pizza studiando impasti, tecniche di lievitazione e fermentazione. Venticinque le pizze in carta, dieci della tradizione quindici da degustazione, una spiccata stagionalità nei menù proposti, una carta degli oli extravergine da varie regioni italiane, grande attenzione al bio e al gluten free, con i prodotti del pastificio Verrigni di Roseto degli Abruzzi, una puntuale selezione di vini e bollicine con Champagne, Franciacorta e Lambruschi emiliani, e una carta stagionale delle migliori birre artigianali italiane e del territorio. E, da Pasqua a settembre si apre un bar corner esterno, a Milano Marittima ogni week-end, montato su un carrettino vintage, per gustare all’aperto cocktail e frullati.
CONF ARCH CP PAG 2017:Layout 1 17/10/17 20.29 Pagina 2
ORDINE ARCHITETTI RAVENNA
Con la collaborazione di Con il patrocinio di
Comune di Ravenna
Comune di Faenza
Comune di Cervia
Comune di Forlì
Comune di Cesena
INCONTRI A PIÙ VOCI SUL PROGETTO STORIA, ESTETICA, ESPERIENZE
GIOVEDÌ 16 NOVEMBRE Palazzo dei Congressi RAVENNA ore 18
Angelopoli o Sin City? Realtà e destino della città contemporanea Intervengono
MASSIMO CACCIARI Filosofo
ROCCO RONCHI Filosofo Introduce e modera
Alberto Giorgio Cassani Ore 17.30 Apertura e iscrizioni Ore 18 Conferenza Ore 20 Saluto conclusivo Per info: tel. 0544 408312
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In attesa dell’Angelus Novus di Walter Benjamin Maria Paola Patuelli e Massimo Casamenti raccontano
Giulio Guberti
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di Marina Mannucci Nel 1977 la commissione comunale della Pinacoteca di Ravenna elegge Giulio Guberti responsabile per le attività espositive. Il progetto culturale di quest’ultimo è appoggiato, sostenuto e promosso dall’Assessora alla Cultura Maria Paola Patuelli: «donna colta, intelligente e informata sugli eventi della modernità», racconterà Guberti qualche anno dopo in un’intervista, «senza la [cui] volontà e […] determinazione» «non si sarebbe potuto fare nulla» (Giulio Guberti, Su “La Tradizione del Nuovo”: presupposti culturali e progetto, in R.A.M. Mostre di artisti ravennati, a cura dell’Associazione culturale Mirada, Ravenna, Giuda Edizioni, 2011). La prima mostra “Segno e identità: ipotesi-itinerario dentro la creatività femminile”, curata da Marisa Vescovo, espone le opere di una quarantina di artiste italiane e in concomitanza esce il primo numero della rivista “La Tradizione
«Uno dei compiti principali dell’arte è sempre stato quello di creare esigenze che al momento non è in grado di soddisfare» Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936
del Nuovo” edita dalla Pinacoteca Comunale di Ravenna. Dal dicembre del 1977 al maggio 1981 usciranno quindici numeri corrispondenti ad altrettante mostre collettive cui parteciperanno 243 artisti, a cura di venti critici (per approfondimenti in merito alla rivista e alle mostre corrispondenti consiglio la lettura della tesi di laurea al Dams di Rosetta Berardi, relatore il professore Pier Giovanni Castagnoli,
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presso l’Università di Bologna, nel 1991). Dal febbraio 1982 all’aprile 1988 la casa editrice Essegi, fondata da Massimo Casamenti con Danilo Montanari e Tiziano Fiorini, pubblica sempre per conto della Pinacoteca Comunale di Ravenna Artisti Contemporanei, una collana monografica curata, ancora una volta, da Giulio Guberti. Un’opera che rappresenta un’importante novità per l’editoria d’arte, proponendo un progetto editoriale che ha riguardato i più importanti artisti italiani viventi del dopoguerra, a cura di ventuno tra i maggiori critici italiani. L’esperienza artistica di Giulio Guberti ha avviato uno studio sui rapporti delle arti visive con le altre arti come testimonianza di un cambiamento in atto in Italia; di questo prestigioso progetto culturale se ne trova ampia testimonianza sulle pagine culturali dei maggiori quotidiani nazionali dell’epoca. «La mia opinione era che la cosiddetta provincia (che in realtà non era più tale) era in grado di poter dire qualcosa e che la sua voce doveva essere ascoltata in ambito nazionale» G. Guberti, Su “La Tradizione del Nuovo”…, cit.
Sul quel periodo di vera e propria scoperta dell’arte contemporanea a Ravenna ho voluto chiedere due testimonianze a Maria Paola Patuelli, ex docente di filosofia e storia ed ex Assessora alla Cultura del Comune di Ravenna in quegli anni e a Massimo Casamenti, grafico, direttore creativo e socio fondatore con Tiziano Fiorini della Agenzia di comunicazione Image, ex socio della Cooperativa Supergruppo, ex docente dell’Albe Steiner e dell’Accademia di belle arti. Contributi importanti che informano su come, grazie alla direzione di Giulio Guberti, le attività espositive della Pinacoteca Comunale di Ravenna abbiano vissuto una stagione tra le più significative, producendo decine di mostre e portando a Ravenna il meglio dell’arte e della critica contemporanea degli anni tra il 1977 e il 1986. Confidando che l’attuale futuro incerto del Mar - Museo della città, non sia affidato alle sole “ginocchia di Giove”. Maria Paola Patuelli «Bello l’esergo di Benjamin. Che di esigenze non soddisfatte se ne intendeva molto. Vi ringrazio per darmi l’occasione di ripensare a importanti anni lontani. Lascio a Massimo Casamenti – date le sue competenze – il compito di mettere a fuoco aspetti riguardanti, nel merito, arte ed estetica. Vorrei – deformazione professionale – inserire la figura di Guberti nel contesto storico e politico nel quale ci siamo conosciuti, per poi arrivare alla nostra collaborazione, che non piovve casualmente dal cielo, ma fu il frutto di una specifica esperienza, in primo luogo politica. Le nostre frequentazioni ebbero inizio a metà degli anni Sessanta in un luogo politico di base, come si diceva un tempo. Nella Sezione comunista del centro storico di Ravenna “Mario Gordini”. La nostra Sezione era un luogo particolare, molto plurale. Era abitata non solo dalla classe operaia, poco numerosa nel centro storico, ma da esponenti del ceto medio e, in particolare, da intellettuali, come Giulio Guberti, Mario Salvagiani, Romano Biancoli, Piero Gambi, Carlo Bubani, Gino Gamberini, Lorenzo Pezzele. Senza dimenticare gli “eretici” Nino Carnoli e Elios Andreini, che introdussero temi radicali che annunciavano il Sessantotto. E un gruppo, nel quale mi trovavo, di giovani studenti, fra i quali Gianni Camerani e Ivan Simonini. Era una Sezione fertile di idee,
proprio perché plurale e non priva di conflitti, che diedero però frutti politici importanti. Il Sessantotto con tutte le energie che riuscì ad attivare – culturali e civili, fra passioni e speranze – lasciò un segno profondo anche in questa Sezione di base, e nella nostra realtà ravennate, sicuramente “provinciale”, in senso lato, né più né meno di altre realtà. Però – un significativo però – in occasione delle elezioni amministrative della fine degli anni Sessanta, il Partito Comunista di Ravenna diede a questo gruppo di intellettuali il compito di produrre un documento programmatico sulla politica culturale da proporre per la Ravenna del futuro. È un documento di grande interesse, perché contiene molto di quello che fu poi realizzato dalla nuova giunta di sinistra dalla fine degli anni Sessanta in avanti, come, per esempio, la rivitalizzazione dell’Accademia di Belle Arti e della Pinacoteca. In primo luogo, fu istituito l’assessorato alla Cultura e allo Spettacolo – che prima non esisteva, e già questo dice molto – e fu affidato a una donna di grande valore, Giovanna Bosi Maramotti, una indipendente che solo in seguito aderì al Partito Comunista. Mario Salvagiani divenne il direttore del Teatro Alighieri. Anche la Biblioteca Classense fu investita da innovativi progetti, attivati da un nuovo direttore, Nevio Zorzetti, e – inaudito – furono avviate ogni estate, alla Rocca Brancaleone, importanti stagioni di jazz. Carlo Bubani, con il sostegno di Salvagiani e di Giovanna Bosi Maramotti, ne fu l’anima. Era il riverbero, anche nella nostra città, del clima di quella che Paul Ginsborg definisce la stagione della “grande azione collettiva”. Un clima che coniugava fiducia nella politica con Istituzioni governanti. Governare le città – Ravenna arrivava quasi ultima nella Regione Emilia Romagna – era per il Partito Comunista di allora la sua ragion d’essere. Un Partito riformista anche se mai – in quegli anni – si sarebbe definito tale. La nostra etica politica era – dirà poi Elinor Ostrom – Governing the commons. Chi meglio poteva farlo, pensavamo, se non noi comunisti? A proposito di commons. Questo era lo spirito degli ultimi anni Sessanta e primi Settanta, a Ravenna e non solo. Nulla di idilliaco, naturalmente. La quotidianità era dura, spesso conflittuale, le imperfezioni umane e politiche numerose. Ma l’aria che si respirava era quella. Quasi materia, oggi, per una indagine di archeopolitica. Indagine per specialisti, che la gioventù di oggi potrebbe comprendere solo sine ira et studio. Se rileggete i nomi degli intellettuali della mia Sezione, vedrete che molti di loro hanno avuto compiti importanti – culturali, politici, amministrativi – negli anni Settanta e Ottanta. E, altro aspetto alquanto inconsueto,
Nelle pagine precedenti alcuni volumi della collana “Artisti Contemporanei” (Ravenna, Edizioni Essegi, 1982-1985) e la rivista “La Tradizione del Nuovo”, nn. 2-13, 1977-1981 In alto: il primo fascicolo della rivista “La Tradizione del Nuovo”, 1977. Nella pagina a fianco, in alto: Giulio Guberti (in primo piano), Graz (Austria), 1980. In basso: Giulio Guberti (secondo da sinistra), Ravenna, in piazza del Popolo negli anni ’80.
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il Pci ravennate mi candidò alle elezioni amministrative del 1969. Ero veramente molto giovane, da poco arrivata agli studi universitari, ma avevo dalla mia l’esperienza sessantottina, che il Partito giudicò essere significativa e degna di essere rappresentata. Ero quindi in Consiglio Comunale da sei anni – nel frattempo, la laurea e i primi anni di insegnante – quando sostituii nell’Assessorato Giovanna Bosi Maramotti, eletta in Parlamento con le elezioni politiche del 1976. La realtà culturale ravennate era già stata rianimata. Uso questo termine con prudenza, ma in spirito di verità. Nelle precedenti amministrazioni, la cultura era il fanalino di coda, la Cenerentola nelle poste del bilancio comunale. Qualche fiore all’occhiello qua e là. Poco altro. Giovanna lavorò molto e bene. Continuai per quella strada, con una caparbia convinzione, che il mio ambiente familiare mi aveva trasmesso. La cultura non è un lusso, è una necessità. Non c’è democrazia senza cultura. E non c’è cultura laddove c’è estraneità rispetto al contemporaneo. Inoltre, non ero una politica di professione e dovevo/volevo conciliare il mio lavoro di insegnante con l’impegno amministrativo. Non lasciai la scuola, feci il doppio lavoro. Fu una scelta politica, prima ancora che esistenziale. Furono anni molto faticosi, ma ben vissuti. Quindi, se la cultura non è un lusso, le poste di bilancio delle Istituzioni culturali andavano arricchite. E così fu, anno dopo anno. Inoltre, alcune pratiche a mio avviso positive, che venivano da una lontana tradizione, andavano estese, ed esperienze nuove andavano introdotte. Esisteva, storicamente, una Commissione teatrale, eletta dal Consiglio Comunale in rappresentanza dei vari gruppi consiliari – i palchettisti autonomamente indicavano un loro rappresentante – che svolgeva molto bene il lavoro di programmazione, affiancando il direttore del Teatro. Esisteva una Commissione per la Biblioteca Classense, con analoga funzione. La Pinacoteca Comunale no. Era, di fatto, un’appendice dell’Accademia di Belle Arti. Pensai che meritava una propria specifica autonomia e, non a caso, chiesi aiuto a Giulio Guberti, che era un medico con una eccellente cultura artistica, cosa non inusuale fra i medici, spesso di solida cultura umanistica. Nel giro di pochi mesi definimmo lo Statuto della Commissione per le Arti Visive. La Commissione, con rappresentanti eletti dal Consiglio Comunale – anche Antonio Rocchi, importante artista ravennate, ne fece parte – suddivise i compiti al proprio interno: didattica, conservazione, arti visive. Giulio divenne il responsabile per le attività espositive. A lui il compito di proporci, ogni anno, il programma, che poi andava approvato – fu sempre approvato solo dalla maggioranza, mai dall’opposizione – dal Consiglio Comunale. Con un bilancio molto contenuto, ma prima inesistente. Fu così che arrivò a Ravenna l’arte contemporanea. Con un certo sconcerto, che non nascondo, sia nella Giunta Municipale, che in Consiglio Comunale. La stampa locale fu quasi sempre molto severa. In una occasione, ci furono indignate interpellanze da parte dell’opposizione. In una mostra – non ricordo quale – era esposta una im-
magine fotografica considerata pornografica. Si creò in città una dinamica interessante. Un gruppo di intellettuali fece un manifesto, sottoscritto con nomi e cognomi, in cui si diceva “Ravennati, ancora uno sforzo!”. Vado a memoria, e spero di non sbagliare. La cosa ebbe risonanza fuori Ravenna e una televisione nazionale mi intervistò. Trovai il tutto divertente e pieno di ossigeno. In ogni caso, lo spirito del tempo consentì che l’esperienza continuasse. I Sindaci con cui ho lavorato, Canosani e Angelini, sorridevano, a volte dubbiosi, ma sempre presenti alle inaugurazioni delle mostre, e ci sostenevano. D’altra parte, il ruolo che le Commissioni delle Istituzioni culturali svolgevano era garanzia di pluralismo, di confronto e quasi sempre di condivisione. I Partiti responsabilizzavano – nelle Commissioni – intellettuali ed esperti di loro fiducia e mai, allora, avremmo pensato che questa era “spartizione partitica”. Una certa fiducia nella politica e nelle Istituzioni – anche se spesso critica – c’era. Erano gli anni della crescita della cultura in varie città d’Italia, non solo nelle città “capitali” e, per fortuna, anche Ravenna si collocò in questa nuova tendenza. Fu in quegli anni che si mise a punto un grande progetto poliennale di recupero del complesso Classense, che oggi vediamo pressoché concluso. Credo – certa di non essere smentita – che il luogo più europeo di Ravenna sia la Biblioteca Classense, una delle migliori biblioteche, non solo italiane, esito del lavoro di Donatino Domini – e di Claudia Giuliani – nei decenni successivi, che con ostinata determinazione non ha lasciato intenzioni e progetti sulla carta. Dico questo senza nulla togliere – naturalmente – alla grande importanza di Ravenna Festival. Inoltre, Ravenna fu definita, in quel periodo, città-teatro. Infatti, nel giro di pochi anni passammo da uno o due turni a dieci turni di abbonamento per gli spettacoli di prosa. Oltre al jazz, aprimmo la Rocca Brancaleone all’opera lirica e al balletto. Pensai che, allora, ci volesse anche una politica per il cinema. D’estate, alla Rocca, e, d’inverno, in convenzione con alcune sale cinematografiche della città. Anche in questo caso istituimmo la Commissione Cinema e adeguammo in tal senso – come per le altre Istituzioni culturali – la pianta organica del personale. Pietro Mieti, un “grande” assessore al bilancio, mi diceva di non esagerare. Ma, alla fine, mi sosteneva. In questo quadro, un punto molto avanzato di contatto con l’arte “in corso d’opera” fu proprio il lavoro svolto da Guberti con le attività espositive. Ci portò un mondo nuovo in casa, con poca spesa. Ben poca, rispetto ai bilanci delle altre Istituzioni culturali, e di questo Giulio spesso si lamentava. Cercavo di contenere i suoi amichevoli – con me – furori. “Giulio, stiamo facendo un lavoro in salita, l’importante è non fermarsi”, gli dicevo. In quel tempo così intensamente condiviso, da Giulio ho imparato molto. Andavo da sempre alla Biennale di Venezia, ma da allora andai con maggiore consapevolezza. Imparai da Giulio come il politically correct debba darsi dei limiti, e come, quando ci vuole, si debba parlare forte e chiaro. Lui mi insegnava la radicalità delle posizioni, io gli tra-
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CULTURA E TESTIMONIANZE
smettevo – che fatica! – un po’ di pazienza. Certo, abbiamo lavorato molto e duramente. Ma siamo stati aiutati dallo spirito del tempo. Basti pensare che Giulio, omaggio alla sua assessora donna, volle inaugurare il ciclo de La tradizione del Nuovo con la mostra Segno/identità. Ipotesi itinerario dentro la creatività e il segno femminile, a cura di Marisa Vescovo. Fu il mio primo contatto con il femminismo. In quel tempo ero ancora attardata in un emancipazionismo poco consapevole della mia differenza di genere. E questo lo debbo a un uomo, Giulio Guberti, anche lui, per molte ragioni, un “diverso”. La sua diversità la apprezzai anche quando “creò” il secondo ciclo espositivo, Artisti contemporanei. Nel ciclo precedente, erano i curatori che sceglievano gli artisti. Ora, disse Giulio, è ora di capovolgere. Noi scegliamo gli artisti, ai quali chiediamo di scegliere il critico curatore. Fu una grande esperienza, un innovativo laboratorio che intrecciava arte e critica. Ricordo ancora l’entusiasmo con cui Argan, in quel momento sindaco di Roma, visitò la mostra dedicata a Mario Schifano. Eravamo veramente in un’altra storia, in un altro mondo. Ma ogni storia è una storia, con un inizio e una fine. Mutamenti in meglio, mutamenti in peggio. Dipende. Dagli anni Ottanta, in Italia – e quindi anche a Ravenna – comincia un’altra storia. A mio avviso, cominciò a incrinarsi la cultura dei commons. Per questa ragione non accettai più incarichi nella Giunta comunale. E qui non mi dilungo. L’arte contemporanea vista da noi a Ravenna in quegli anni ha segnato poco, credo, l’immaginario della cittadinanza ravennate ampiamente intesa. Se non in piccoli ambiti, non per questo poco importanti. Ma è da questa esperienza che l’arte ha trovato, a Ravenna, piena cittadinanza, anche se in altre forme. In ogni caso, in quegli anni si fece strada – questo sì – l’idea che la cultura non è un ornamento ma è necessaria. E oggi – nel 2017 – quale cultura è ritenuta necessaria? Con quali priorità? Sarebbe bello che intellettuali ravennati e cittadinanza si autoconvocassero per discuterne insieme. Partecipazione, confronto, conflitto, democrazia. Ma questa è – forse – la innocua fantasia di “una ragazza del secolo scorso”». Massimo Casamenti «Intanto comincerei con il parlare di Giulio, perché non se ne è parlato abbastanza. Giulio è stato un intellettuale libero che ha realizzato dei progetti importanti, nei quali ha creduto senza accettare condizionamenti di alcun tipo. Medico e socio fondatore della “Domus Nova”, era persona economicamente benestante, situazione che gli ha permesso una totale libertà intellettuale nell’esercizio dell’attività svolta come critico d’arte. Questo suo agire libero è stato possibile anche grazie al sostegno ricevuto da Paola Patuelli a quei tempi Assessora alla Cultura del Comune di Ravenna. Paola è stata l’interfaccia della Pubblica Amministrazione che gli ha permesso di portare avanti il suo progetto in autonomia. Percorso che praticamente si interromperà con la fine del mandato della Patuelli. Con la nuova gestione non si rinnovò il feeling fiduciario con Giulio, il quale non accettò di portare avanti la collaborazione con la Pinacoteca. Riguardo al contenuto del suo programma culturale, Giulio era convinto che fosse in atto un fenomeno di contaminazione reciproco tra le arti intese come discipline; nelle varie mostre furono indagati i rapporti delle arti visive con la poesia, il teatro, il cinema, la fotografia, l’architettura, i nuovi media. Il progetto La Tradizione del Nuovo (editore Pinacoteca di Ravenna, curatore Giulio Guberti, in redazione Fulvio Fiorentini, Enzo Pezzi, Danilo Montanari e il sottoscritto, componenti della Cooperativa Supergruppo) ha voluto dimostrare che l’arte non poteva più essere letta secondo le regole canoniche o le caratteristiche stilistiche dell’artista e come tutte le arti, in qualche modo, “tendessero alla performance”; a supporto di questo, Giulio era orgoglioso di aver portato a Ravenna artisti non solo legati alle arti visive ma con caratteristiche di trasversalità. Va detto inoltre che la rivista «La Tradizione del Nuovo», oltre a svolgere la funzione di catalogo per le mostre in corso, affrontava tematiche di carattere non solo locale. Lo testimonia il fatto che l’attività svolta in quegli anni dalla Pinacoteca di Ravenna, oltre ad avviare un processo di arricchimento
cittadino, come del resto testimoniato anche da Renato Barilli, ricevette importanti riconoscimenti su prestigiose testate giornalistiche in campo nazionale. Giulio chiese inoltre agli artisti di lasciare una loro opera a un “prezzo politico” e, se il museo cittadino venne arricchito con opere di artisti contemporanei tra i maggiori in ambito nazionale (ahimè, attualmente in magazzino), lo dobbiamo a lui. Come Giulio ha scritto: «Se Ravenna è diventata sul piano culturale una “ex-provincia”, molto lo si deve all’attività di quel periodo della Pinacoteca. Tutto ciò, credo poterlo dire con legittimo orgoglio e nel rispetto della verità» (Agenzia Image Ravenna, Image 20/30 1976/2006, 2007 Ravenna). Dopo le quindici mostre collettive, per approfondire ulteriormente le forme e i contenuti dell’arte contemporanea italiana, nacque la collana Artisti Contemporanei, 16 volumi editi dalla Essegi di Ravenna che accompagnavano altrettante mostre personali della Pinacoteca e a cui collaborarono ventun critici. L’invenzione, in questo caso, fu di far leggere autori più o meno affermati a critici giovani; ad esempio l’opera di Giulio Turcato venne interpretata dall’allora giovane critico Flaminio Gualdoni e l’opera di Mario Schifano da un altrettanto giovanissimo Marco Meneguzzo. Giulio coinvolse soprattutto artisti importanti del panorama italiano, in particolare quelli che sperimentavano l’arte povera, mi riferisco in particolare agli artisti della cosiddetta “scuola di Torino”(Zorio, Paolini, Merz). La caratteristica preponderante e inedita di Artisti contemporanei è proprio l’aspetto della lettura critica fatta spesso da un giovane critico. Ogni volume pubblicato è tripartito e, significativamente, la terza parte contiene una documentazione bio-bibliografica con notizie, scritti, immagini, materiali anche inediti, che consentono di approfondire la dimensione intellettuale dell’artista ed il suo pensiero. Fu un lavoro straordinario da un punto di vista della lettura critica (o ri-lettura) di autori importanti e il risultato non fu la pubblicazione di semplici cataloghi. La collana rappresenta ancora un punto di riferimento significativo per tutti gli autori coinvolti, proprio per la ricchezza di materiali contenuti al loro interno. Che il lavoro di Giulio abbia creato reputazione lo dimostra il fatto che, fino agli anni ’70, Ravenna non era presente nelle “mappe” di attività espositive legate alle arti visive e gli va riconosciuto il merito di aver fatto sì che la Pinacoteca della città diventasse una sede tuttora appetibile per eventi artistici di rilievo nazionale».
Sopra, Giulio Guberti (primo da sinistra), Massimo Casamenti, Terry Fox, alla Galleria Pellegrino, Bologna, 1987, foto Enzo Pezzi.
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ABITARE L’HABITAT
Comprendere il presente, immaginare il futuro, modellare la città Un nuovo concetto di innovazione che, partendo dalle risorse del territorio e dalla tecnologia open source, possa forgiare sul lungo periodo un futuro in sintonia con la natura e i bisogni della comunità di Marco Turchetti * Fabbricare, partecipare, contaminare e riconoscere nell’artigianato, nell’arte urbana e nella socializzazione creativa risorse utili allo sviluppo economico delle comunità. Ormai è necessario acquisire la consapevolezza che ci stiamo avviando verso un mondo postindustriale in cui la fabbricazione di massa diventa personalizzazione di massa e che grazie al potere della progettazione diffusa (open source) e alla facilità di accesso alle nuove tecnologie è possibile plasmare il nostro ambiente creando nuove possibilità per innovazioni sociali ed economiche. Grazie alla ricerca di contaminazioni internazionali, si possono creare contesti stimolanti per far crescere nelle persone la voglia di interessarsi al miglioramento urbano delle città ed il desiderio di attivare processi di riqualificazione socio-culturale ed economica nelle comunità. Tutto questo può stimolare lo sviluppo di innovazione sostenibile per diffondere il valore della condivisione di competenze, lo scambio di idee e la co-progettazione a partire dalle risorse del territorio. Possibile quindi dar forma ad un cambio di paradigma: da fruitori ad interpreti del cambiamento, da comparse a protagonisti, da talenti solitari a intelligenze ed esperienze condivise. Possibile quindi dar vita a progetti che si fondino sul riconoscimento delle numerose potenzialità e applicazioni delle nuove tecnologie, sulla condivisione di esperienze e di know how e sulla
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Fabbricare, partecipare, contaminare e riconoscere nell’artigianato, nell’arte urbana e nella socializzazione creativa risorse utili allo sviluppo economico delle comunità.
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cultura del progettare e realizzare insieme. Dare spazio alla creatività e all’innovazione sostenibile con l’obiettivo di dare vita a veri e proprie officine di fabbricazione dove giovani e non, possano apprendere, materializzare idee, co-creare luoghi utilizzando in maniera più consapevole le risorse personali e del territorio in contrapposizione alle regole di un’economia della massificazione. Dar vita ad iniziative incentrate sulla partecipazione ad una comunità che fornisca strumenti digitali e non solo, utili a consentire a chiunque di poter esprimersi, di trasformarsi da consumatore a creatore di prodotti più adatti alle proprie esigenze, di realizzare idee, di valutare le proprie potenzialità per attivare nuovi progetti di impresa di artigianato locale. Si potrebbe così dar sostanza e forma all’innovazione che finalmente diventa alla portata di tutti attraverso percorsi esperienziali capaci di rivoluzionare gli spazi, liberare la creatività, salvaguardare l’ambiente divertendosi e sentendosi utili. Rendere finalmente accessibili a tutti le informazioni sulle tecnologie di fabbricazione digitale e, attraverso laboratori specifici, formare i cittadini al loro utilizzo. Attraverso la diffusione della conoscenza e la condivisione di saperi si contribuisce così, a rimuovere ogni pregiudizio circa l’accessibilità alle nuove tecnologie, rendendole fruibili come strumenti di infinita creazione, innovazione e sviluppo. Tutte le persone coinvolgibili in questi progetti acquisirebbero nuove abilità, familiarizzando con gli aspetti tecnici della fabbri-
Dar forma ad un cambio di paradigma: da fruitori ad interpreti del cambiamento, da comparse a protagonisti, da talenti solitari a intelligenze ed esperienze condivise.
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cazione e venendo contagiati dalle modalità uniche di attivazione della creatività. In un ambiente stimolante ci si allenerebbe alla cultura del “saper fare”, stimolati nel mettersi alla prova rispetto ad un mondo che cambia e soprattutto sperimentando come mettere a disposizione di se stessi e della propria comunità l’innovazione. Mettersi a disposizione per far nascere iniziative in cui coinvolgere collaborazioni internazionale di associazioni culturali, innovatori
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Attraverso la diffusione della conoscenza e la condivisione di saperi si contribuisce così, a rimuovere ogni pregiudizio circa l’accessibilità alle nuove tecnologie, rendendole fruibili come strumenti di infinita creazione, innovazione e sviluppo.
Per la realizzazione dei prodotti si dovrebbe partire dalle necessità locali, valutate preventivamente, e puntare così alla valorizzazione dei centri urbani.
sociali, disegnatori, ingegneri, architetti, facilitatori di processi di sviluppo ed empowerment delle comunità in grado di comprendere, immaginare e attivare nuovi modi di fare ed essere comunità. Parola d’ordine è contaminare la realtà locale attraverso l’attivazione di laboratori rivolti a tutte le età, con l’obiettivo finale di permettere a coloro che vi volessero partecipare di acquisire competenze per l’utilizzo sostenibile di macchine per fabbricare i
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Mettersi a disposizione per far nascere iniziative in grado di comprendere, immaginare e attivare nuovi modi di fare ed essere comunità.
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ABITARE L’HABITAT
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Ogni attività dovrebbe essere indirizzata a coinvolgere le associazioni locali già attive nella promozione di azioni di riqualificazione urbana, di attivazione delle periferie, di sviluppo sostenibile e di ecologia.
prodotti seguendo strategie innovative di progettazione, sperimentazione e fabbricazione. Per la realizzazione dei prodotti si dovrebbe partire dalle necessità locali, valutate preventivamente, e puntare così alla valorizzazione dei centri urbani. Le competenze sviluppate, potrebbero aprire nuove possibilità di innovazione, di micro-economie e di partecipazione sociale all’interno dei laboratori urbani che rappresenteranno un primo gradino per l’attivazione di veri e propri centri di produzione in cui successivamente, grazie alla continua trasmissione di saperi da parte di un team di esperti e dal racconto di esperienze di innovazione sostenibile da tutto il mondo, si possa continuare a coinvolgere la comunità nella trasformazione dei progetti in realtà. La realizzazione di tutto questo, ovviamente, si baserà sul tema della sostenibilità. Massima attenzione agli sprechi, uso di materiali ecosostenibili per gli allestimenti e per i laboratori così come in tema di mobilità per tutti. Non sarebbe male attivare anche contest artistici con tema “riciclo-riuso materiali” in cui gli artisti invitati a partecipare dovrebbero presentare progetti per la realizzazione di installazioni artistiche temporanee da posizionare negli spazi urbani identificati in accordo con le amministrazioni locali. Ogni attività dovrebbe essere indirizzata a coinvolgere le associazioni locali già attive nella promozione di azioni di riqualificazione urbana, di attivazione delle periferie, di sviluppo sostenibile e di ecologia, invitandole a partecipare alla realizzazione degli eventi connessi. Il mutare della città fa emergere l’esigenza da parte delle amministrazioni e di coloro che governano il territorio di dotarsi di nuovi strumenti più appropriati per rispondere alle domande che la città esprime. La natura complessa dei problemi della città contemporanea fa sì che le risposte vengano cercate al di fuori degli strumenti tradizionali di pianificazione. Ciò che le città chiedono oggi è una maggiore vivibilità, la possibilità di usufruire degli spazi pubblici, la partecipazione degli abitanti dei quartieri nei processi di riqualificazione e più in generale nei processi di trasformazione urbana. La chiave di lettura per guardare a questi fenomeni è quello dell’arte. Il rapporto tra città e arte è di crescente e notevole interesse per chi studia e si occupa di città. La città muta dal punto di vista fisico, economico, sociale: diminuiscono gli abitanti in città a favore di un progressivo aumento della popolazione nei piccoli e medi centri alle porte della metropoli; si dissolvono i confini della città, diventano labili e a geometria variabile; cambia il modo di produrre e ciò che si produce e di conseguenza anche i luoghi dove la produzione avviene. Le grandi fabbriche vengono dismesse e quei “vuoti” diventano progressivamente luoghi per la produzione di conoscenza, servizi, tempo libero, residenza; aumentano e si diversificano le popolazioni, gli attori, le interazioni.
Anche l’arte muta e si evolve verso un uso partecipato ed emozionale che spinge l’artista e l’arte sempre più ad uscire dalle gallerie per arrivare nelle piazze, nei giardini, nelle fabbriche dismesse, nei luoghi pubblici, per intervenire nel dibattito sulla città, per lavorare affianco al progettista. L’artista è da sempre una figura portata ad osservare la realtà che lo circonda, ad interpretarla a decodificarla e mai come in queste ultimi decenni di cambiamento sono stati prima di tutto gli artisti che hanno saputo leggere la città; nelle loro opere restituiscono a volte in maniera realistica e documentaristica quanto nelle città sta avvenendo, altre volte le letture che ne emergono sono visionare ed astratte, in tutti e due i casi tuttavia il loro apporto si è dimostrato fondamentale nell’interpretazione della realtà. Non a caso inoltre molti artisti hanno iniziato non solo a “dipingere” la realtà ma in molti casi a voler entrare in stretto contatto con essa, hanno iniziato cioè ad instaurare dei rapporti con altri attori e a lavorare nel contesto urbano. Penso che nelle nostre città ci siano tutti i prodromi necessari per innescare questi processi di innovazione e rigenerazione, connettiamo le reti e i risultati sorprenderanno noi stessi.
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Nella nostra città ci sono tutti i prodromi necessari per innescare questi processi di innovazione e rigenerazione, connettiamo le reti e i risultati sorprenderanno noi stessi.
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Ravenna Via A. Bozzi 69 tel. 0544 217369 tel. 0544 400004 cell. 334.7556891 emanuela.famoso@scor.it ZONA COMET Appartamento al 1° piano in palazzina di recente costruzione, composto da: soggiorno con angolo cottura, camera matr., studio, bagno finestrato, ampio terrazzo loggiato abitabile. al p. int. cantina e posto auto coperto - APE “C” 23,90 - RIF. CHH40 € 130.000,00 Ottimo investimento! SANT’ALBERTO - IN POSIZIONE CENTRALE Villet ta a schiera abbinata, con giardino fronte/retro; piano terra: soggiorno, cucina, bagno, cantina, giardino e garage; primo piano: 3 camere da letto, ripostiglio, bagno, balcone. Climatizzazione. APE “E” 198,00 RIF. HH222 € 145.000,00
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Splendida villa d’angolo, ottimamente rifinita, in contesto di recente costruzione, composta da piano terra: soggiorno con camino, cucinotto, lavanderia, cantina, 2 ampi porticati, giardino d’angolo; primo piano camera matrimoniale con bagno e balcone, camera singola, studiolo, bagno; ampio sottotetto abitabile con tetto in legno termoventilato. Climatizzazione, impianto d’antifurto, zanzariere, inferriate, posto auto - APE “E” 220,02 - RIF. HH300 € 420.000,00
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ZONA COMET Bel bilocale piano alto con ascensore, completamente arredato, composto da: ingr., soggiorno con parete attrezzata a cucina e balcone panoramico, camera da letto matrimoniale e balconcino, bagno, garage e cantina - APE “E” 221,43 - RIF. MHH47 € 135.000,00 ZONA NUOVA MATTEI
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In palazzina di recente costruzione, appartamento al 2° piano con ascensore, composto da: ampio soggiorno con angolo cottura e balcone a loggia, disimpegno, bagno finestrato, 2 camere; p. int. cantina e posto auto coperto. Risc. aut. APE “C” 87,03 - RIF. CHH51 € 160.00,00
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RAVENNA, ZONA DARSENA Vendesi appartamento di recente costruzione, composto da soggiorno, cucina, 2 letto, bagno, balcone, ripostiglio, posto auto scoperto. Riscaldamento autonomo, climatizzazione. Classe energetica D, kWh/m2/anno 241,22. Rif. L872 € 150.000,00
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due camere da letto. Le unità immobiliari necessitano di ristrutturazione. Interessante la posizione e le caratteristiche anche per investimento, ideali anche per affitti turistici. Classe energetica E, kWh/m2/anno 152,21. Rif. N54 € 345.000,00
RAVENNA, ZONA VIA VICOLI In recente complesso immobiliare, vendesi villetta terra cielo composta da: giardino su 2 lati, ampio soggiorno (con predisposizione per un ulteriore bagno), cucina separata, terrazzo; Primo piano: Camera da letto matrimoniale, camera singola, bagno, balcone; Mansarda, posto auto scoperto e garage. Classe energetica F, kWh/m2/anno 131,91. Rif. L871 € 295.000,00 CLASSE (RA) Vendesi ampio attico composto da: soggiorno, cucina abitabile, 3 camere da letto, 2 bagni, 2 ampi balconi, sottotetto di circa 50 metri, 2 cantine e 2 garage. Riscaldamento autonomo. Possibilità di suddividerlo in 2 appartamenti. Classe energetica E, kWh/m2/anno 107,15. Rif. L854 € 300.000,00
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MARINA DI RAVENNA In palazzina di recente costruzione si vende appartamento piano attico con splendida vista, ampia sala, cucina, due bagni, ripostigli, due camere matrimoniali, ampi terrazzi abitabili al piano e splendida terrazza sul tetto. Posto auto, ottime finiture. € 450.000,00
Ravenna via IV Novembre 4B tel. 0544.36337-36372 www.ideacasaravenna.com casa_idea@libero.it CAMERLONA In zona residenziale molto tranquilla si vende villa indipendente di recente costruzione, ampia metratura, composta da piano terra ampia zona giorno, salone con camino, cucina abitabile, bagno e studio e al piano superiore tre grandi camere da letto, due bagni ripostiglio. Giardino sui quattro lati. Ottima costruzione. Cl. en. “F” ep 231. € 360.000,00
RAVENNA PRIMO SAN BIAGIO In una traversa interna immersa nel verde e nella quiete, si vende appartamento in buone condizioni, in palazzina al terzo piano con ascensore composto da: ingresso, cucina abitabile con balconcino, sala con affaccio su balcone, due camere da letto, studio e bagno. Cantina e Garage. Classe energetica “E” € 168.000,00
RAVENNA CENTRO STORICO Si vende bilocale con ingresso indipendente al piano terra di un piccolo contesto, ristrutturato a nuovo nel 2012. Riscaldamento autonomo a pavimento, no spese condominiali, affaccio su piccola corte comune. Ottimo investimento. Classe energetica “E” ep 153,16. € 125.000,00
Via Faentina 218s - Fornace Zarattini Ravenna tel. 0544 463621 - www.ravennainterni.com
RAVENNA, CENTRO STORICO Appartamento signorile sito al secondo e ultimo piano in piccolo contesto condominiale. Ampio salone con sala da pranzo, cucina abitabile servita da terrazzo vivibile, dispensa, studio, disimpegno notte, tre camere da letto e due bagni oltre a mansarda. Cantina di 50 mq circa oltre a posti auto. € 420.000,00
SAN BARTOLO, CASA EX COLONICA di 280 mq ca su 2 livelli, su terreno recintato di 1500 mq ca, oltre ad ampi servizi e porticato. € 420.000,00
RAVENNA CENTRO STORICO Vendesi ampio e luminoso appartamento con splendida vista, esposto ad est, in condominio di grande qualità. Ingresso, ampia sala con camino e vista sulla città, cucina, tre camere da letto (una con bagno privato e stanza armadio), studio, altri due bagni e balconi. Comodo garage. € 290.000,00
RAVENNA CENTRO STORICO, VIA GORDINI Si vende appartamento semi indipendente anni ‘30, da ristrutturare, piano rialzato ed ultimo in corte interna; cucina, pranzo, salone,bagno, ampie camere, balcone, piccola soffitta e terrazza privata con vista sulle chiese del centro. € 210.000,00
RAVENNA, ALLE PORTE DEL CENTRO STORICO, VIA MAGGIORE Si vende casa da ristrutturare con locale commerciale al piano terra, indipendente terra/ cielo su tre livelli. Ampio cortile sul retro con servizi e dependance. Realizzabili circa 600 mq di superficie abitabile. € 460.000,00
ottobre 2017
n. 117 OTTOBRE 2017
Editore Reclam Edizioni & Comunicazione srl . viale della Lirica 43 . 48124 Ravenna . Iscrizione al Tribunale di Ravenna n. 1240 del 8/11/2004 . Redazione 0544.271068 . redazione@trovacasa.ra.it . Pubblicità 0544.408312 . info@trovacasa.ra.it . ISSN 2499-2550
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