THE UNNECESSARY RECYCLING
A CURA DI ALBERTO BERTAGNA MASSIMILIANO GIBERTI
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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Copyright Š MMXV ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Quarto Negroni, 15 00040 Ariccia (RM) (06) 93781065 ISBN 978-88-548-8006-1 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: marzo 2015
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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%
Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova "Sapienza" Università di Roma Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino
INDICE
FOUND IN TRANSLATION Un moderno pretesto Alberto Bertagna
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La traduzione di un mito Massimilano Giberti
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B-FILES. OVVERO DELL'ALLARGAMENTO DI CAMPO Un-Fundamentals Alberto Bertagna
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Re-cycled Chant Giovanni Carli
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Il Biscione nella Genova degli anni '60 Francesco Gastaldi
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Demolition Man Massimiliano Giberti
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Masshousing con vista Christiano Lepratti
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Identity vs Interior Design. Derive e derivazioni degli interni domestici Alessandro Valenti
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TRADUZIONE IN CORSO. OVVERO COESI SE VI PARE Manifesto. Riciclare immaginari con le ali o del come il Quartiere INA-Casa Forte Quezzi può diventare un'architettura futura Sara Marini
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Capovolgere, consumare, frugare nel resto o la negativitĂ desiderata Elisa Cristiana Cattaneo
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Inaspettate relazioni Ettore Vadini
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Un nuovo ciclo del modo di abitare. Il cambiamento dei protagonisti, implicazioni e aspetti sociali Vito Fortini
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Libere interpretazioni del piano libero. Tra Forte Quezzi e Corviale Federico De Matteis, Luca Reale
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L'abitare sociale ai tempi della globalizzazione Domenico Potenza
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Dove abita Daneri | Total Red | La pinza del Signor B.! Alberto Ulisse
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I love Biscione. Occupazione propria di uno spazio dimenticato Massimiliano Giberti
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THE UNNECESSARY RECYCLING
BORDER È IL RACCONTO DI
LINE Workshop di progettazione Quartiere INA-Casa Forte Quezzi, Genova Book editing di Giovanni Carli Pagg. 10-11; 12; 14-15; 24-25; 27; 28-29; 58-59; 60; 62-63: Forte Quezzi, Genova 2012, dalla serie Cento case popolari © Fabio Mantovani Pagg. 142-143: La tres celebre cité de Gennes, fotomontaggio di Giovanni Carli
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Dal 10 al 14 settembre 2013, 66 studenti, 12 dottorandi, 12 docenti e ricercatori di 6 università italiane (Università degli Studi di Genova, Politecnico di Milano, Università degli Studi della Basilicata, Università degli Studi di Roma "La Sapienza", Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara ed Università IUAV di Venezia) hanno trasformato il Quartiere INA-Casa Forte Quezzi in un laboratorio di progettazione architettonica e urbana. Il workshop BorderLine intendeva sviluppare idee e proposte per la valorizzazione e la rigenerazione del Biscione, del suo contesto fisico e del suo quadro sociale, attraverso progetti sperimentali di trasformazione a zero cubatura. BorderLine è stato ideato da Alberto Bertagna, Laura Cevasco, Francesco Gastaldi, Massimiliano Giberti, e organizzato, con la collaborazione di Sara Amielli, Paolo Ponzanelli, Jeannette Sordi, dal Dipartimento di Scienze per l’Architettura della Scuola Politecnica dell’Università degli Studi di Genova con il patrocinio del Municipio III Bassa Val Bisagno e il supporto del Colorificio G. & P. Fratelli Tassani. Il workshop si è concluso con un evento aperto ai cittadini, alle istituzioni, ai rappresentanti dell'Ordine degli Architetti di Genova. Nell'occasione i progetti sono stati valutati e commentati da una giuria (Christiano Lepratti, Luca Mazzari, Manuel Orazi, Alessandro Valenti) che ha dichiarato vincitore il gruppo coordinato dai docenti Sara Marini e Francesco Gastaldi dell’Università IUAV di Venezia.
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Forte Quezzi, Genova 2012 Š Fabio Mantovani Pagg. 10-11: panoramica del lato nord verso il colle Pag. 12: panoramica del Biscione da ovest Pagg. 14-15: accesso ai ballatoi superiori
FOUND IN TRANS LATION
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Alberto Bertagna
UN MODERNO
pRETESTO
Se il riciclo di ciò che non è più necessario è il nuovo mantra di una contemporaneità che all’indomani della crisi si è scoperta a dover immaginare uno spazio di sopravvivenza per il progetto, la non-necessarietà del riciclo sembra oggi un nonsense, o una nostalgica formula ad uso di paladini del sempre-nuovo, o un assioma strumentale imbracciato da interessi particolari. Ma una sperimentazione su corpi ancora vivi della città consente forse di guardare al riciclo come strumento per verificare lo stallo del progetto, o quantomeno per misurarne il raggio d’azione. Il caso del Quartiere INA-Casa Forte Quezzi a Genova, magnifica sorte di una modernità che ha esaurito la sua spinta propulsiva, è in questo senso emblematico. Oggetto ancora perfettamente funzionale e funzionante, il Biscione sembra prestarsi solo ad attente manutenzioni, o a misurati aggiornamenti in grado di protrarne la sopravvivenza. Farne oggetto di riciclo può essere dunque azione non necessaria, superflua se non inutile. Oppure, può diventare occasione per riscoprire forze immaginifiche, dimostrando che Recycle non è una pratica dettata da contingenze o urgenze, ma la capacità di guardare oltre ciò che non c’è più e di vedere quello che non c’è ancora.
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Il Biscione, oggi, non ha problemi rilevanti. Il quartiere vive una propria quotidianità priva di tensioni sociali, di difficoltà gestionali, di carenze strutturali. Trova in sé, nel suo distacco dalla città, una propria gradevole tranquillità; e fuori di sé, nella sua relazionalità con gli elementi contigui o meno prossimi, le valenze e le esternalità necessarie al proprio funzionamento e alle ragioni del proprio sussistere. Si adatta progressivamente – in modo certo lento, data la massa cospicua e compatta e dunque una certa inerzia – alle modificazioni dell’uso al quale è asservito e alle sostituzioni dei suoi abitanti, senza strappi e senza troppe complicazioni. Volendo rilevare dunque non tanto una problematica quanto una semplice potenzialità inespressa, quello che al Biscione è ascrivibile, oggi, è una semplice per quanto radicale scissione tra la sua forma – una forma decisamente particolare rispetto al tessuto urbano di Genova – e il suo contenuto. “Se stiamo insieme ci sarà un perché” è allora forse una locuzione (assunta dalla celebre canzone apparsa per la prima volta proprio in Liguria, cantata da Riccardo Cocciante a Sanremo nel 1991) che possiamo trasformare in domanda valida per interpretare una capacità residua latente nel Biscione – capacità residua utile non tanto ad una densificazione di quantità fisiche quanto ad un aumento di valore e di spessore – e per immaginare progettualmente ancora un suono per questo quartiere silenzioso. Domanda una e trina che anzitutto la struttura deve rivolgere ai suoi abitanti, che poi gli abitanti devono porsi tra loro, e che infine il quartiere – struttura ed abitanti – deve rivolgere alla città: “Perché insieme, oggi?” è insomma quanto è possibile chiedersi di fronte al complesso organizzato da Daneri e Fuselli. Certo le prime due erano questioni irrilevanti, al momento della costruzione, sorpassate dall’urgenza abitativa che quasi impose la costruzione e forse anche da un certo spirito collettivista che ancora permeava il contesto culturale che lo progettò; mentre la terza era quasi inammissibile perché anzi lo spirito che animava il progetto e la sua stessa collocazione, allora lontana dalla città, ne impedivano ogni senso: era un quartiere isolato, prima della 'salita' della città ad occupare, più o meno legalmente, gli spazi rimasti liberi tra il proprio bordo e i cinque nuovi edifici. Non era il periodo, quello, del timore per le cesure urbane, né quello della 'fortuna' del paesaggio, dell’attenzione alla relazionalità: anzi, il quartiere si costruiva forte della propria autosufficienza, e programmaticamente disponeva al proprio interno anche negozi e servizi, ovvero tutto ciò che era necessario per ospitare quanti erano già abituati a vivere in
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comunità ristrette e dovevano interfacciarsi con l’esterno solo per trovare un lavoro moderno. Era l’ultimo periodo corbusieriano, quello, in fondo. Ma oggi, appunto, queste tre domande incluse in una (“Perché insieme, oggi?”, ovvero, sciolte: “Una struttura comunitaria ha senso per un cittadino del XXI secolo?”; “Sono necessarie specificità di forme e di funzionamenti in un tessuto urbano?”; “Quali sono le connessioni fondamentali tra un quartiere e la città, tra una parte e il tutto?”) si impongono invece con una certa urgenza. Quello che al Biscione manca oggi, per sintetizzare e concludere, è semplicemente una visione di futuro, una visione capace di raccontare il perché di una forma non solo fisica; un difetto certo non esclusivo, anzi proprio di molte realtà 'periferiche', o forse, per esteso, di un intero Paese poco propenso ormai ad immaginare un domani. È questa, in sintesi, la fotografia del quartiere di oggi: un mondo ereditato dal passato incapace di pensarsi, come fece al tempo della sua costruzione, quale Mondo Nuovo. Questo sembra oggi l’unico progetto possibile per il Biscione, al di là di ogni sua costante manutenzione: l’aggiunta di un qualche nuovo valore semantico che sia proiezione di un'idea di futuro che sostituisca quella non più attuale che lo disegnò. Fatta salva l’impossibilità sia di una distruzione per una sua sostituzione, sia di una trasformazione che si imposti su grandi movimenti (di materiali, di spazi, di residenti) – perché oggi le economie non lo consentono – ciò che sembra necessario e forse sufficiente è solo una carica di nuovi valori, di nuovi sensi, di nuove finalità: un nuovo spessore, che colga anzitutto i valori ecologici ed economici del contesto e li proietti in immaginari capaci di intercettare futuri possibili.
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Massimiliano Giberti
LA TRADUZIONE
DI UN MITO
Il Biscione è una parola. Naturalmente, come suggerisce Roland Barthes in Miti d’oggi, non è una parola qualsiasi, ma qualcosa cui servono particolari condizioni linguistiche per diventare mito. Il mito è un sistema di comunicazione, un messaggio, che non ha niente a che vedere con l’oggetto il concetto o l’idea, ma è piuttosto un modo di significare, una forma. Niente a che vedere quindi con lo spazio architettonico, l’ingegneria del cemento che ne ha generato le sagome sinuose e neanche con la politica sociale che ha guidato il progetto urbano di insediamento sulla collina di Forte Quezzi: il Biscione come qualsiasi oggetto del mondo può passare da un’esistenza chiusa, muta, a uno stato orale, aperto all’approvazione della società. Allo stesso tempo il Biscione come mito non esprime un messaggio univoco o, meglio, ha espresso e continua ad esprime molteplici messaggi, a volte contraddittori, altre volte complementari. In quanto parola supera i confini fisici dell’oggetto architettonico da cui si origina, per diventare immagine portatrice di infiniti significati. Le tecniche di comunicazione e i linguaggi operano da sempre un riciclaggio del mito per significare nuovi contenuti, funzionali al messaggio che di volta in volta si vuole trasmet-
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tere. La parola non cambia, mentre cambiano i destinatari del mito e i significati che questi attribuiscono al segno, in questo caso al segno del manufatto architettonico. È quindi un rischio tradurre un mito? Possiamo perdere parti di un discorso, smarrire importanti informazioni o, peggio ancora, disattendere e confutare i principi dell’autore, le ragioni storiche della sua nascita, scompaginando il corretto ordine di lettura delle tracce e delle fonti? Niente paura: il mito non è condizionato dalle leggi linguistiche di un testo qualsiasi, ma è piuttosto un metalinguaggio autonomo, del quale è sufficiente conoscere il segno globale per poter accedere ai suoi significati. La traduzione del mito come pratica progettuale è quindi una forma di rigenerazione semantica. Questo volume raccoglie la testimonianza di un tentativo di traduzione collettiva, o piuttosto di risignificazione molteplice, del Mito Biscione, realizzata attraverso l’incontro casuale e contingente di docenti, ricercatori, studenti provenienti da sei Facoltà e Scuole di Architettura, distribuite sul territorio italiano; riuniti per cinque giorni nel mese di settembre 2013 presso il Dipartimento di Scienze per l’Architettura della Scuola Politecnica di Genova e poi sparpagliati nuovamente in altri luoghi, dove hanno riscritto nuove parole sulla parola originaria. Il risultato sono le tracce di quello che ognuno di noi ha trovato (non perso) durante il processo di traduzione. Ogni messaggio si è conformato al soggetto che lo ha prodotto, riducendo la sua portata collettiva fino ad identificarsi con l’individualità del proprio autore. La somma dei messaggi contribuisce a consolidare un nuovo significato il cui significante unico rimane il Biscione, che è segno e forma allo stesso tempo, senza essere mai, veramente, stato toccato dalla traduzione in corso.
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B-FILES OVVERO DELL'ALLARGAMENTO DI CAMPO
Forte Quezzi, Genova 2012 Š Fabio Mantovani Pagg. 24-25: panoramica dei vari livelli Pag. 27: vista del complesso verso est Pagg. 28-29: veduta verso ovest dal livello intermedio
Alberto Bertagna
UN-
FUNDAMENTALS Sale, acqua, lievito di birra, malto, farina, olio extravergine di oliva: sono gli elementi grazie ai quali una composizione alimentare raggiunge lo status di 'focaccia genovese', ingredienti fondamentali grazie ai quali ogni genovese prepara la sua tipica specialità. Più o meno questo fanno Daneri e compagni a Genova: ricetta alla mano, dispongono su uno dei tanti punti panoramici dai quali osservare il porto gli elementi fondamentali dell’epoca per comporre la loro architettura; pochi anni di elaborazione e il Biscione – modernissima unité d'habitation a l'italienne – è servito. Attenzione, però. In questo caso non si tratta di sostanze solo materiali: l’architettura non è una focaccia. Non può limitarsi ad essere nutriente, non può limitarsi a soddisfare un bisogno: l’architettura ha sempre obiettivi più ampi del suo costruirsi. E dunque i fondamentali che vediamo espressi vicino a Forte Quezzi, a dominare la Val Bisagno, non sono solo quelli che abbiamo potuto toccare nella fiera campionaria che Rem Koolhaas ha allestito per la XIV Mostra Internazionale di Architettura di Venezia, Fundamentals. Del resto anche la focaccia, almeno per un genovese, non è una semplice sommatoria di componenti bene amalgamati e correttamente cotti: è ben più di un semplice alimento.
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Alla ricerca degli ingredienti segreti, degli Un-Fundamentals di queste due architetture genovesi, del Biscione e della focaccia, sarà utile allora una breve divagazione: invero quasi notarili, le prossime righe procederanno a dare lettura del testamento dell’ultimo moderno, ovvero dell’ultimo grandissimo costruttore di narrazioni. Certo questa nostra definizione – al pari di tutte le definizioni, come insegnano da un lato Bataille e dall’altro, più prosaicamente, il principio del contesto di Frege – è una delle molte possibili, e funziona solo nel poco di questo scritto. Ma valga, e si accetti qui, questa forzatura epistemologica, perché utile a disporre in ordine sul tavolo gli ingredienti di questa nostra ricetta (di questo testo); forzatura consapevole di esserlo, forzatura consapevole di proporre un modello fittizio al pari di altri, ben lontana dal rappresentare la complessità del reale, la complessità di Rem Koolhaas. Certo, come scriveva Paolo Rossi (lo storico delle idee), "Ai 'grandi racconti' dei filosofi [...] c’è una sola tesi da contrapporre: quella di una varietà irriducibile all’unità, del totale non senso della riduzione ad unità di tutto ciò che accade"; pure qui, alla ricerca di non-fondamenti, ci può stare anche il non-senso di una tale riduzione di chi ha costruito (e terminato proprio con il testamento veneziano) un grande racconto: Rem Koolhaas è l’ultimo dei moderni. Perché sì, il passaggio nel deserto del post-moderno l’ha compiuto quasi subito, ma non era altro che, appunto, un passaggio sulla via – indicata dal grande traghettatore, dal primo degli archi-star, dal nostro Aldo Rossi – dell’inevitabile ascensione all’Olimpo dei Maestri: uomo del cartongesso assiso a fianco del cemento di Le Corbusier, del vetro e dell’acciaio di Mies, del mattone di Kahn (compresa evidentemente la necessità di una transustanziazione, ovvero di farsi materiale per essere divino, e non trovando altro all’uopo che il cartongesso – e ci si perdoni questa lunga parentesi, ma è forse interessante notare per inciso come il Nostro abbia cercato più una continuità con lo svizzero che con gli altri, essendo Le Corbusier l’unico della triade che lo precede ad avere scelto, come anche lui fa, un materiale tutto nuovo, mentre Kahn con i suoi mattoni guarda al passato e Mies sembra incerto tra vecchio e nuovo, tra vetro e acciaio). Perché è proprio nel rapporto tra parte e tutto, tra cellula e unità, tra elemento e architettura, tra operaio e catena di montaggio fordista, che si scrive tutta la storia (fisica) dei moderni. E Koolhaas è tutto lì, nelle righe di quella storia, ancora a percorrere quella strada (non) novissima.
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Già nel 1978 anticipava, in una ricostruzione tutt’altro che post-moderna, ciò che nel 2014 abbiamo trovato alla rinfusa – ora sì in una post-moderna decostruzione, seppure ironica – nel Padiglione Centrale ai Giardini, ovvero il proprio pensiero: il racconto è capace di ridurre la disturbante complessità ad una rassicurante unità. Come l’ascensore è stato l’elemento capace di rendere possibile Manhattan, così la scala mobile (quella montata in un grossolano, sprezzante allestimento a Venezia) è capace di riassumere e sintetizzare, alludendo magari al progetto per il Fondaco dei Tedeschi, la distanza che separa il presente dagli altri tempi, il tratto che distingue la visione del futuro dal ricordo del passato, l’istanza del moderno dalle ragioni della nostalgia. E certo è ben consapevole dell’assurdo, del non-senso di una tale riduzione a unità della complessità di una storia come quella di Manhattan, così come della vicenda 'Architettura', Koolhaas: proprio per questo, da grande narratore se non da grande filosofo, costruisce il grande racconto di Delirious New York e poi la superba messinscena di Fundamentals, manifesto retroattivo del Moderno e di se stesso. La sincronia del tempo, vero credo post-moderno, è solo ironica in Koolhaas: per lui presente, passato e futuro non sono sullo stesso piano. L’isotropia dello spazio, e degli elementi che configurano lo spazio, è invece il vero senso, suo e del Moderno: questo dice sin da subito analizzando le piante dei grattacieli di Manhattan, o prima paradossalmente in Exodus; questo dice rappresentando il mondo come il regno del cartongesso; questo dice nell’indifferenza con cui dispone gli elementi del suo racconto (e dell’architettura) nella sua Biennale. Monditalia è questo: dietro il luccicante sberleffo del portale che apre la sua personale strada novissima all’Arsenale, i grandi registi italiani sono lì, con i loro grandi racconti filmati, a denunciare – come contraltare – la nostra odierna incapacità di raccontare e di raccontarci. Non c’è alcun sincronismo del tempo: l’Italia sapeva fare ciò che oggi pochi volonterosi carnefici dell’architettura (italiana) – quelli, selezionati da AMO, disposti a servire allo scopo – hanno dichiarato di non sapere più fare, se non con la regia sapiente dello stesso Rem, che come un padre stanco ma attento scende dall’Olimpo a mostrare ancora la via (quella della costruzione di narrazioni efficaci), che da scrittore navigato ma ancora impegnato (in tutti i suoi ruoli, direbbe Arbasino: brillante promessa, solito stronzo, venerato maestro) assiste una scrittura altrimenti incapace (da sola) di costruire racconti, di cose vecchie e di cose nuove. Il passato, appunto, non
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ha lo stesso valore del presente; il futuro non è condizionato né dall’uno né dall’altro, tutt’al più semplici moniti o echi lontani. Absorbing Modernity 1914-2014 dice che quanto è stato dibattito per anni, ovvero se e come la modernità fosse da interpretare secondo localismi o regionalismi, è abbastanza inutile e ininfluente: al di là di ogni piega assunta nelle varie parti del mondo, il Moderno era e rimane forza propulsiva di trasformazione, capace di raccontare una nuova idea, un’idea di Nuovo; era e rimane racconto capace di convincere chi lo visse e lo vuole ancora vivere che il Nuovo, che una nuova diversa vita era ed è concepibile. Conscio dell’inevitabilità del risultato, Koolhaas lascia ai curatori dei padiglioni nazionali – unica concessione in una Biennale avocata a sé e assolutizzata su di sé – il compito di raccontare cosa è stata la modernità nel mondo: l’isotropia dello spazio del Moderno, precetto scolpito nella sua forma, è riuscita a trasformare la naturale paura dell’ignoto in realtà; il Monumento Continuo è cresciuto davvero, e ognuno degli operai fordisti è riuscito nella fabbrica del mondo (nella costruzione del mondo) ad avere quel quarto d’ora di celebrità che gli spettava. Elements of Architecture, infine, non è solamente una semplice fiera campionaria, ovvero quella sola parte tangibile dell’esposizione nel Padiglione Centrale che chiudeva, come l’ultimo arco di un cerchio perfetto, il percorso iniziato con Delirious New York. Certo era divertente vedere – è capitato a chi scrive – titolari di librerie specializzate in architettura ascoltare attentamente una guida che mostrava al proprio gruppo come si aziona un contemporaneo sistema oscurante di un infisso: buon esempio di quanto sia difficile cogliere l’ironia, come sosteneva Jankélévitch. Anche se non era solo ironia, o meglio era ironia come strumento retorico, spesa a servizio del racconto: come detto, Elements of Architecture era la semplice, consapevolmente insensata riduzione ad unità di una complessità, quella di sé (Rem Koolhaas) e della modernità. Una riduzione che, come ogni buon racconto, aveva una sua premessa. Se la severa tirata d’orecchi all’Italia che non sa più produrre racconti di Monditalia era introdotta dal buffo del luccicante portale fieristico; la buffa e sconclusionata fiera di Elements of Architecture era introdotta (quale capace oratore, è Koolhaas: il chiasmo, per chi lo sa leggere, resta una delle forme più efficaci per legare tra loro due storie…) da un severo parterre di testi e di manifesti, di fronte al quale era davvero utile soffermarsi, certo ben più che di fronte ad un oscurante per infissi: sospeso tra quei testi e tra quei manifesti, assolutamente
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intangibile ma presente, c’era tutto il Mondo Nuovo del Moderno, ovvero un mondo di parti e di tutto, di riduzione a unità di quanto accade: il mondo che Rem Koolhaas, l’ultimo dei moderni, continua a sintetizzarci nei suoi scritti, nei suoi progetti, nei suoi testamenti. Ogni parte è assieme indispensabile al suo tutto anche se indifferentemente sostituibile, come gli Elements of Architecture esposti ai Giardini o come le storie dei 'fortunati' selezionati da Koolhaas per Monditalia presentate all’Arsenale; ogni operaio è essenziale alla sua catena di montaggio ma rimpiazzabile o surrogabile, utile anche se Un-Fundamental in quanto sé e non altro; ogni Fundamental, anche del Moderno, è un componente necessario ma equivalente ad altri, in un meccanismo che procede comunque, che disegna comunque un futuro. È stato il racconto il vero ingrediente segreto del Moderno, capace di ridurre la disturbante complessità che avrebbe prodotto ad una rassicurante unità. È il racconto la vera, modernissima forza manifesta di un giornalista prestato(si) all’architettura. Quello che la sua Biennale dice è insomma quanto Koolhaas sta ripetendo da decenni, da quando ha preso ad indossare i panni dell’architetto, pur senza spogliarsi di quelli da narratore, ovvero da quando ha presentato la sua distinzione tra una bad half e una good half: è il racconto la vera essenza del progetto; solo chi sa raccontare è in grado di progettare davvero; e tutto ciò che è all’interno del racconto, o del progetto, ha valore di verità esclusivamente perché inscritto nel disegno, o nel linguaggio, che lo rende possibile; e tutto ciò che è all’interno di quel racconto, o di quel progetto, è virtualmente dunque anche eliminabile, o sostituibile. La storia di Manhattan è stata resa possibile dall’invenzione dell’ascensore, anche se questa verità vale solo all’interno della storia che Koolhaas scrive come, non a caso, 'manifesto retroattivo': è a posteriori che vediamo, affascinanti e coraggiosi tra le pagine del suo Delirious, moderni newyorkesi uniti per combattere la battaglia per il rinnovamento; è a posteriori che oggi, nel 2014 così come nel 1978, Koolhaas sovrappone al corso degli eventi reali il racconto della sua modernità. Ma dietro a quell’ascensore – elemento tra gli elementi – c’era comunque tutto ciò che è indefinibile e indicibile e che è il loro Moderno e il nostro Un-Fundamental, ovvero quello Spirito dell’Utopia (per dirla con Bloch) che trascende il presente – e ancor di più il passato – in direzione del futuro. Lo stesso spirito che animava Daneri e compagni mentre si apprestavano a comporre la loro architettura moderna, e gli abitanti mentre la colonizzavano.
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Gli ingredienti segreti, insomma, di quella moderna ricetta, gli Un-Fundamentals del Biscione, che rendono ininfluenti sia il ruolo di specificità locali (il come la modernità è stata assorbita in questo caso genovese, come in altri) sia, di converso, il rispetto ossequioso di singoli precetti (i pilotis, Le Corbusier non ce ne voglia, sono essenziali a determinare la statica di un edificio più che la sua modernità), sono altro rispetto agli Elements o ai Fundamentals che un visitatore distratto poteva toccare attraversando il magnifico testamento di Koolhaas senza coglierne il senso: è il racconto di quell’oggetto, è l’idea di futuro che impersonava e che era lo Spirito dell’Utopia, l’ingrediente segreto del Moderno, ad averlo reso quel che è stato e che oggi non è più. Non è più ciò che fu, oggi, il Biscione, perché a percorrere i suoi spazi non sono quei nuovi abitanti della città arrivati a colonizzarlo all’inseguimento del lavoro moderno e della sua moderna industrializzazione, ma in grande parte i loro figli, assuefatti non solo agli spazi di un tempo che non è il loro ma anche al gusto della focaccia genovese, ricetta tradizionale di una Superba ormai seduta su se stessa. Perché di contro a quello Spirito dell’Utopia del Moderno esiste uno spirito, tutto post-moderno e molto italico (del resto abbiamo amato il postmoderno molto più di altri), che è lo Spirito della Tradizione, quell’ingrediente segreto che rende necessaria, per ogni genovese di recente o meno recente appartenenza, la sua dose quotidiana di focaccia, ben oltre una fisiologica esigenza di alimentarsi. Quale senso abbiano, oggi, affezioni come questa (per la focaccia o in generale per il passato o per la tradizione), è domanda urgente: il mito del passato – come dice Monditalia – è da noi pericolosamente troppo forte, talmente 'presente' da ostacolare ogni possibile mito del futuro, e rivela la nostra attuale incapacità di pensare nuove modernità. In tempi di crisi è naturale la ricerca, quantomeno il sogno, di lusso. Il lusso che dovremmo volerci permettere, la nostra utopia, oggi, forse non è ricordare ancora e sempre chi siamo stati, ma pensare e costruire nuove narrazioni, nuovi Un-Fundamentals. La focaccia, in fondo, è un piatto povero; e prima o poi stanca.
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Giovanni Carli
RE-CYCLED
CHANT
…laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et verde l’herba (1)... Sull’asserzione del padre della chimica moderna monsieur Antoine Laurent Lavoisier sono già state scritte molte parole e vani tentativi alchemici di ribaltamento ne hanno consolidato l’infallibilità. Difficile, anzi impossibile senza aiuto ultra-terrreno, 'creare' qualcosa dal nulla. Privilegio non permesso a professione alcuna. Conoscere le formule segrete della 'trasformazione' sarebbe il più ambito desiderio che personalmente richiederei qualora incontrassi l’esotico genio di una lampada. 'Riciclare' non è necessario poiché riciclare è un fenomeno già dato, evoluto, aggiornato, dovuto, e soprattutto continuo; ma non così controllabile e prevedibile, sia in Natura, sia in Architettura. Visioni oniriche: un seme che si fa frutto, un verme che si fa crisalide che diventa farfalla, un anfiteatro che si fa città murata, un teatro che si fa ristorante? La realtà supera la fantasia… Risulta evidente come il principio di riciclo si inneschi quando venga ad
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esaurirsi un’utilità pregressa che, nel tempo, richieda nuovi bisogni, trovi altre applicazioni in campo e si risolva in altri usi e significati: è la funzione pre-stabilita a non essere più necessaria. Le future architetture postcontemporanee richiederanno, per essere credibili, movimenti immediati, mutazioni celeri; condurranno a ragionare sul ri-posizionamento di fatti e manufatti che non sollevino questioni di contenuto ma bensì di ri-formulazione del contenitore. …laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione (2)... Bisogna spingersi oltre, riconoscere ed interpretare i segni di fenomeni entropici, solo apparentemente negativi, che conferiscono quell’indispensabile disarmonia al mondo affinché si compia, sempre e comunque, la rimessa in circolo di 'ciò che era' perché 'sarà (o al momento 'è') per essere altro'. Nel saggio critico L’informe sulle avanguardie artistiche del XX secolo Rosalind Krauss e Yve Alain Bois, perseguendo il fine di superare la secolare questione formale delle arti applicate scrivendo un nuovo linguaggio operazionale d’indagine, giungono a definire nove categorie entropiche di disturbo con / contro le quali [re]agire: …non si butta via niente, l’accumulo è elevazione… …stop ai minimalismi, è gradita la ridondanza di significati… …non c’è rinascita senza degrado… …inni d’elogio al non uso… …sopravvivere all’ennesimo esaurimento… …procedere senza limiti, ovvero per profusione infinita… …ad altissimo volume: invasione del rumore nel messaggio… …virus, contagio di cessazione d’elasticità… …di nuovo, non si butta via niente, fino all’usura… L’insieme di questi predicativi dell’indeterminato, tramite i quali è possibile rimettere ordine al disordine, trova il suo fisico riscontro nel Serpentine Pavilion del duo svizzero Herzog&deMeuron, in collaborazione con l’artista cinese Ai Wei Wei, realizzato a Londra nell’estate del 2012. Fin dai
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primi anni duemila un’operazione commerciale ha rilanciato con discreto successo l’immagine della Serpentine Gallery grazie alla collaborazione di notissimi archistar, chiamati a progettare un’architettura temporanea all’interno di Hyde Park, nello spazio antistante la storica galleria londinese. L’operazione dei due architetti elvetici si risolve nella ri-lettura e ri-attivazione dei progetti dei loro nobili predecessori. Il padiglione è una stratificazione di messaggi del passato, a cui però sono attribuite nuove significazioni. Lo spazio è scavato, ribaltato, schiacciato; prende forma dall’accumulo delle fondamenta dei padiglioni delle estati passate; è ritracciato seguendo i cavi degli impianti elettrici ritrovati nel terreno; è ridondante di elementi informi ricoperti di sughero modellabile; reitera all’infinito qualcosa che prima [c’]era stato: il padiglione è un manifesto della trasformazione squisitamente ontologica dell’urban-recycling. …laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò skappare: …beati quelli ke trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no 'l farrà male (3)... Giacobbe sogna una scala dalla terra al cielo, percorsa da angeli e cherubini, lotta contro una creatura celeste che lo ferisce al calcagno ma il taglio non lo ferma nel combattimento… dal suo avversario è benedetto e ribattezzato Israele e così da lui discenderanno le dodici tribù che daranno corpo all’intero popolo eletto. Giacobbe non si arrende, resiste; e nel cambiamento, che va ben oltre la questione nominale, trova la più alta ricompensa. La sua storia narrata nel libro della Genesi è spunto d’ispirazione per l’installazione Continuum of repair: the light of Jacob's ladder dell’artista franco-algerino Kader Attia, presentata alla Whitechapel Gallery di Londra nell’estate 2014. L’opera monumentale allestita in un’ampia stanza della galleria si compone di una struttura a torre, costruita con una sequenza di mensole che raccolgono secoli di conoscenza umana. Tra libri e mistiche pergamene è posta al centro una teca di vetro illuminata, un’arca che contiene artefatti singolari, pezzi unici ottenuti tramite bizzarri assemblaggi, e riflessa all’infinito sul soffitto tramite un gioco di specchi e raggi di luce. L’artista ha voluto così rappresentare il pensiero secondo cui l’uomo ha storicamente percorso la strada dell’evoluzione non attraverso
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la pratica dell’invenzione, bensì della riparazione. L’azione del 'riparare' supera in significato quella del 'riciclare': se da un lato è l’ovvio ri-disporre o ri-mettere in buono, meglio utile, stato ciò che si è danneggiato, dall’altro è il 'proteggere': proteggere l’oggetto in sé perché continui ad esistere oltre alle sue necessarie modificazioni (e imprevedibili aggressioni) in un lungo canto dei canti che tutto contiene. L’esperienza del workshop al Quartiere INA-Casa Forte Quezzi, come tutte le numerose esperienze accademiche che su questo importante tema insistono, ha sapientemente proposto possibili rimedi utili al suo futuro destino: il Biscione non ha voglia di essere riciclato, ma di essere salvato da se stesso. …laudate et benedicete mi’ Signore' et ringratiate et serviateli cum grande humilitate (4).
NOTE 1. Dal Cantico delle creature, san Francesco d’Assisi, XIII sec. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Ibidem.
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Francesco Gastaldi
IL BISCIONE NELLA GENOVA DEGLI ANNI
'60
Il Quartiere INA-Casa Forte Quezzi denominato Biscione è senza dubbio l’opera più conosciuta di Luigi Carlo Daneri, che vi partecipò nella duplice veste di capogruppo e progettista, fu realizzato nell’ambito del secondo settennio del piano nazionale INA-Casa ed è costituito da circa 800 appartamenti disposti in 5 lunghi edifici (tre di tre piani e due di sei piani). L’area prescelta per l’insediamento residenziale copre una superficie totale di 33 ettari, situata sulla collina a ridosso del quartiere di Marassi in val Bisagno. La progettazione urbanistica del complesso fu affidata a un ampio insieme di architetti e ingegneri (trentacinque) coordinati da Luigi Carlo Daneri ed Eugenio Fuselli. La progettazione architettonica fu poi suddivisa in singole unità e assegnata a cinque diversi gruppi di lavoro: edificio A (il più grande, lungo 540 metri, in alto) venne affidato ai coordinatori Luigi Carlo Daneri ed Eugenio Fuselli coadiuvati da Luciano Grossi Bianchi e Giulio Zappa; edificio B (al centro) al coordinatore Robaldo Morozzo della Rocca; edificio C (verso levante) ai coordinatori Angelo Sibilla e Mario Pateri; edificio D (più in basso) al coordinatore Gustavo Pulitzer Finali; edificio E (verso Val Bisagno) al coordinatore Claudio Andreani (1). Per un periodo fa parte del gruppo di lavoro più ampio anche Mario Labò che poi
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si ritira non riconoscendosi nella soluzione progettuale finale adottata (2). Il complesso di edifici, pensato per accogliere circa 4.500 persone (3) fu progettato nel biennio 1956-57 e realizzato fra il 1960 e il 1968 (dal 1963 la realizzazione avviene sotto la gestione GESCAL). Il quartiere residenziale, funzionalmente autonomo, avrebbe dovuto prevedere la dotazione di servizi: centro di quartiere, sale spettacolo, scuola materna ed elementare, chiesa, impianti sportivi, mercato e spazi a verde attrezzato. Il centro sociale fu realizzato all’inizio degli anni '80 in corrispondenza di una parte crollata, per l’alluvione del 7-8 ottobre 1970, della casa B; la chiesa fu inaugurata nel 2000, posta nella posizione immaginata da Daneri, ma realizzata sotto altre forme architettoniche. La popolazione insediata al Biscione, oggi valutata in circa 2.000 persone (2.700 all’inizio degli anni '90), era nei primi anni '70 di circa 3.800 unità. Negli anni '80 i problemi legati alla micro criminalità erano molto diffusi e questo portò, nell’immaginario collettivo cittadino, ad un accostamento del quartiere a connotazioni negative, al pari di altri grandi insediamenti di edilizia residenziale pubblica. Oggi il clima sociale è dichiarato buono dagli stessi abitanti (circa il 70% degli appartamenti sono oggi di proprietà), la presenza di immigrati stranieri è molto ridotta. Si assiste ad una riscoperta della zona da parte di figli e nipoti dei residenti originari che 'per scelta di vita' si insediano nel quartiere sviluppando un elevato senso di appartenenza e di comunità, l’incidenza di giovani famiglie è più elevata rispetto ad altre aree della città. L’intervento fu promosso con l’obiettivo di allocare il maggior numero di persone in condizioni abitative difficili o precarie e la necessità di acquisire terreni al minor prezzo possibile. Secondo il sociologo Luciano Cavalli, che scrive il libro Inchiesta sugli abituri (4) realizzato su incarico dell’Ufficio studi sociali e del lavoro del Comune di Genova, nei primi anni '50 circa 5.000 persone vivevano in edifici impropri, degradati e in coabitazione fra più famiglie. Molti immigrati del Sud abitavano in baracche, ruderi, scantinati ed edifici bombardati del Centro storico (circa 1.400), in condizioni economiche ed igieniche estremamente precarie. Esisteva, quindi, nella città un disagio abitativo molto profondo e secondo lo stesso Cavalli queste famiglie non si potevano permettere abitazioni più costose; il tutto mentre la popolazione si andava incrementando fino a raggiungere il massimo storico il 31 dicembre 1965, con 848.121 residenti. Nel 1966 è definitivamente approvato il Piano particolareggiato di via Madre di Dio che provocherà la
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distruzione dell’intero quartiere per far posto al nuovo centro direzionale e la conseguente espulsione della popolazione insediata che sarà in parte ricollocata nei nuovi ambiti di edilizia residenziale pubblica. Negli stessi anni, sorsero a Genova altre realizzazioni INA-Casa: le più rilevanti sono Bernabò Brea (zona Sturla, 1950-53) di Daneri, Grossi Bianchi e altri; Mura degli Angeli (1953) di Morozzo della Rocca e Levi Montalcini; Porta degli Angeli (1954-56) coordinato da Daneri (5). Tutti i quartieri menzionati si pongono, da un lato come un invito a pensare nuove configurazioni spaziali per l’abitare e la crescita della città, dall’altro tendono a dare una soluzione reale, pragmatica e legale al problema della casa, specie per le popolazioni meno abbienti o recentemente inurbate. La costruzione di questi quartieri risentiva di un clima da grande euforia collettiva: considerevoli risorse pubbliche stavano permettendo la realizzazione di opere rilevanti in una città assolutamente impreparata ad accogliere un così massiccio afflusso di persone provenienti dal Mezzogiorno, ma anche dalle zone interne dell’appennino ligure e tosco-emiliano e dal basso Piemonte. Si spiega in questo modo la questione della 'grande dimensione' che nasceva da un lato dalla necessità di ospitare ingenti quantità di popolazione, dall’altro dall’influenza di correnti di pensiero teoriche mutuate dal Movimento Moderno. L’idea di poter concentrare in un unico contenitore derivante da segno architettonico migliaia di persone deriva da alcuni riferimenti ideali di Daneri, soprattutto al Plan Obus di Algeri di Le Corbusier (6). La realizzazione del Biscione va dunque contestualizzata nella Genova del 'miracolo economico', in una stagione di crescita verso logiche di sviluppo illimitato, in cui la città costituiva una polarità forte e attrattiva in continua crescita. Negli anni '60 Genova non ha ancora sentore dei periodi di crisi che in seguito attraverseranno i settori economici più tradizionali, in gran parte legati alle Partecipazioni Statali. Negli anni del 'boom' la città si contraddistingue, infatti, per una situazione economica particolarmente florida: il porto conquista ogni primato nel campo dei traffici nel Mediterraneo, l’industria metalmeccanica, quella siderurgica e quella cantieristica sono in pieno sviluppo grazie ai consistenti investimenti dell’IRI. Nel momento in cui i cantieri del Biscione partono e si realizzano non sono ancora emerse le contraddizioni nel modello di sviluppo finora seguito: crisi energetica, austerity, questione ambientale sono ancora parole sconosciute.
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Sono anche gli anni della grande 'speculazione edilizia' che investe non solo le coste liguri travolte dal boom del turismo di massa che richiede la costruzione di seconde case, ma anche l’edilizia residenziale in ambito urbano: le strade che portano ai quartieri di edilizia residenziale pubblica situati sulle colline (INA-Casa aveva dei limiti di spesa per l’acquisizione della disponibilità delle aree) della città costituiscono 'teste di ponte' (7) per lo sviluppo selvaggio a 'condomini' (come nella zona sottostante il Biscione). Sarà la grande alluvione del 1970 a mettere in evidenza le contraddizioni di uno sviluppo urbano tumultuoso e disordinato, nella città in continua crescita si è costruito dappertutto, sugli argini dei torrenti e perfino in terreni scoscesi e franosi. Il PRG approvato nel 1959 dopo pochi anni appare come uno strumento inadeguato a guidare le grosse trasformazioni, ma la vicenda della revisione si concluderà solamente nel 1976 con l’adozione da parte del Consiglio Comunale della nuova variante generale che sarà approvata dalla Regione nel 1980.
NOTE 1. Rosadini F., Luigi Carlo Daneri. Razionalista a Genova, Testo&Immagine, Roma, 2003, pagg. 67-69 e Patrone P. D., Daneri, Sagep, Genova, 1982, pagg. 132-137. 2. Paone F., Controcanti. Architettura e città in Italia 1962-1974, Marsilio, Venezia, 2009, pag. 53. 3. Sirtori W., L’architettura di Luigi Carlo Daneri. Una vicenda razionalista italiana, Libraccio Editore, Milano, 2013, pag. 93. 4. Cavalli L., Inchiesta sugli abituri, Ufficio studi sociali del Comune di Genova, 1957. 5. Moriconi M., Rosadini F., Genova Novecento. L'architettura del Movimento Moderno, Testo & Immagine, Roma, 2004, pag. 37. 6. Sirtori W., L’architettura di Luigi Carlo Daneri. Una vicenda razionalista italiana, Libraccio Editore, Milano, 2013, pag. 97. 7. Gabrielli B., L'impasse urbanistico genovese, in «Controspazio» n. 1-2, 1971, pagg. 11-15.
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Massimiliano Giberti
DEMOLITION
MAN Prologo Tied to the tracks and the
I'm the sort of thing they ban
train's just coming
I'm a walking disaster
Strapped to the wing with it
I'm a demolition man
he engine running You say that this wasn't in your plan.
You come to me like a moth to the flame.
And don't mess around with
It's love you need but I don't play that game
the demolition man
'cos you could be my greatest fan But I'm nobody's friend
Tied to a chair, (and) the bomb is ticking.
I'm a demolition man
This situation was not of your picking. You say that this wasn't in your plan.
I'm a walking nightmare,
And don't mess around with
an arsenal of doom
the demolition man
I kill conversation as I walk into the room I'm a three line whip
I'm a walking nightmare,
I'm the sort of thing they ban
an arsenal of doom
I'm a walking disaster
I kill conversation as I walk into the room
I'm a demolition man (The Police, Demolition Man, Ghost in the machine, 1981)
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È possibile interpretare un processo di urbanizzazione incompleto come un atto di demolizione preventiva? La lenta costruzione del Quartiere INACasa Forte Quezzi a Genova si è calcificata quasi esclusivamente attraverso una unica componente del programma insediativo originario: la residenza. Ogni altra destinazione funzionale è stata progressivamente atrofizzata fino alla sua definitiva scomparsa. Nel momento in cui fissiamo l’obiettivo sul quartiere, a fronte di 800 appartamenti che producono una capacità insediativa pari a circa 3.800 residenti, i servizi rimasti si limitano a una scuola primaria con annessa palestra, una chiesa, un piccolo circolo e tre attività commerciali di vicinato. Non si tratta di una demolizione fisica di manufatti architettonici o spazi urbani che, per la maggior parte, sono ancora tutti in piedi e in buone condizioni di conservazione, ma piuttosto di un atto deliberato di demolizione sociale che si è compiuto nell’arco di cinquant’anni, grazie ad una lucida strategia di programmazione urbanistica che ha puntato sull’obsolescenza precoce di alcune parti di città per generare attrattività e mercato su altre. Ha quindi senso il recupero o, come è più semanticamente corretto dire oggi, riciclaggio urbano, quando è stata la città stessa a demolire consapevolmente il proprio tessuto? La non necessità del riciclaggio, così come evocata nel titolo di questo volume, è resa evidente dal fatto che le macerie generate dalla demolizione del quartiere di Forte Quezzi sono già state smaltite altrove e diluite in formule commerciali sviluppate appositamente per creare domanda e necessità di nuove identità urbane. Demolition man, il protagonista della canzone dei Police che apre questo testo, ha già disattivato il tessuto sociale, la relazionalità, l’incontro, la solidarietà, la mutualità, il coraggio di conoscere il proprio vicino di casa, dal quale ci separa lo spessore di una parete in laterizio forato. Tutto questo senza che nessuno se ne accorgesse, sedando progressivamente le coscienze attraverso l’uso di mezzi di distrazione di massa. È difficile reperire nuovo materiale culturale per ricostruire un pezzo di città che formalmente non è mai esistito e, forse, la ricostruzione non è necessariamente la strategia più corretta da adottare nelle città occidentali del XXI secolo. L’unica strada percorribile sembra essere quella delineata da Demolition man: esasperare l’individualismo e rafforzare i confini del proprio dominio privato, colonizzando le architetture attraverso un processo di progressiva e inarrestabile privatizzazione, fino a saturare ogni spazio residuo. Dai marciapiedi ai tetti, dalle grandi logge vuote alle scarpate verdi che salgono verso le colline retrostanti: la casa si dilata
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per conquistare spazi pensati originariamente per essere vissuti collettivamente ma che sono da sempre luoghi di nessuno. Non solo a Genova: dagli Indignados di Puerta del Sol a Madrid ai contestatori di Occupy Wall Street a Manhattan, i Demolition men occidentali hanno definito un nuovo modello di occupazione di ciò che rimane dei luoghi urbani più simbolici. Sembra che i cittadini del XXI secolo siano seriamente intenzionati a riappropriarsi delle proprie città, dei giardini, delle strade, delle piazze e anche dei tetti degli edifici, espandendo il proprio spazio privato fino a farlo sconfinare in quello del loro vicino. Si sta consolidando l’idea che l’unica forma di gestione dello spazio sociale urbano, dopo la demolizione, sia quella che ci consente di viverlo come una piccola porzione di spazio privato oltre i confini della nostra casa. Orti, parchi, terrazze verdi, come estensione della propria residenza: l’homo urbanus sta adottando e colonizzando gli ex luoghi collettivi, gestendoli in modo privatistico. Se ciò che è pubblico non appartiene formalmente a nessuno ed è quindi oggetto di demolizione culturale, allora è preferibile riappropriarsi della res pubblica attraverso una cura capillare che genera infiniti microspazi privati e allo stesso tempo, coattivamente collettivi. Non si tratta di riciclaggio, ma di uso dell’unico materiale sociale rimasto disponibile dopo la demolizione: la forza dell’individuo e della proprietà privata. Ma la demolizione programmata di un sistema urbano, per fare posto a nuovi modelli sociali non dovrebbe fermarsi sulla soglia di casa: è dentro alle pareti domestiche che si rende maggiormente necessaria la tabula rasa, l’annullamento dei segni e degli oggetti d’uso, accumulatisi negli anni. L’obsolescenza ad orologeria, tanto cara e allo stesso tempo osteggiata da pensatori contemporanei come Serge Latouche, sembra perdere totalmente efficacia quando si tratta degli ambiti domestici. Lo testimonia la mostra organizzata al Padiglione del Belgio in occasione della XIV Biennale di Architettura di Venezia, il cui oggetto è l’immobilità dei mobili, o meglio la stratificazione degli oggetti che occupano i nostri spazi dell’abitare quotidiano. Una ricerca antropologica che parte dall’analisi di migliaia di scatti fotografici che il team di curatori Sébastien Martinez Barat, Bernard Dubois, Sara Levy e Judith Wielander, ha raccolto in cinque mesi di indagine a tappeto sul territorio. Un lavoro di lettura stratigrafica degli interni delle case che ci mostra cosa significhi abitare oggi, o meglio, come negli ambienti domestici si accumulino oggetti che rappresentano le abitudini, le aspirazioni e la personalità dei rispettivi abitanti.
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Il risultato è un’installazione fatta di oggetti mobili, come frigoriferi, sedie, armadi, tappeti e librerie, che diventano elementi di architettura capaci di organizzare lo spazio domestico in modo anche più rigido e condizionante di quanto non facciano le pareti, porte o finestre. Ad accompagnare questi simboli della vita privata, compaiono le coloratissime fotografie di soggiorni, camere, lavanderie, cucine, soffitte, nelle quali i proprietari hanno lasciato segni indelebili del loro agire costante e reiterato. Anche dentro casa il riciclaggio è inutile, proprio perché i processi di accumulo e stratificazione degli oggetti prodotti dalla modernità che ci identificano come abitanti sono in grado di consumare e assorbire se stessi in un processo infinito. Niente scarto significa nessun possibile riciclaggio. Parallelamente al processo di conquista privatistica degli spazi sociali demoliti della città contemporanea, viviamo di una continua stratificazione di abitudini che, all’interno del recinto protetto del nostro dominio privato, ci condannano alla coazione a ripetere, immobilizzandoci dentro schemi comportamentali che noi stessi ci siamo creati. Non sono gli oggetti che, accumulandosi, producono calcificazioni non più eliminabili nello spazio abitato, ma sono le autolimitazioni e la pigrizia soggettiva che si traducono, esteriormente, in segni concreti e architettonici. La casa che creiamo intorno a noi diventa la nostra prigione. Epilogo La BMW V12 LMR bianca lascia i box del circuito di Le Mans e rientra in pista per riprendere la gara di 24 ore più famosa. Dall’alettone posteriore al cofano anteriore la carena è coperta dalla scritta che l’artista americana Jenny Holzer ha realizzato nell’ambito del progetto BMW Art Car Project. I caratteri in stampatello maiuscolo blu compongono la frase protect me from what I want. È proprio dentro ad un’auto che vive, rifiutando ogni altra forma di possesso, Graham Dalton, protagonista del film Sex, lies, and videotape, di Soderbergh (1989). È un vero Demolition man, che fugge dalle relazioni perché sa che ogni forma di accumulo genera recinti dai quali diventa impossibile uscire. Quando Ann gli chiede perché viva in auto come un vagabondo lui spiega: "Ho una sola chiave, quella della macchina e tutto quello che ho sta lì. Se avessi un appartamento le chiavi sarebbero due, se avessi un lavoro sarei costretto ad aprire e chiudere, e quindi avere altre chiavi. E se comprassi della roba avrei paura di essere derubato e comprerei altre chiavi, invece così ho una chiave sola e questo mi basta".
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Christiano Lepratti
MASSHOUSING
CON VISTA
Il Masshousing (1) degli anni '60 e '70 è stato al contempo uno dei più importanti testimoni e uno dei principali imputati del suo tempo. Documenta i voli pindarici degli anni del boom e gli atterraggi bruschi in una realtà che funzionava e che funziona diversamente da come ci si sarebbe augurati. Documenta allo stesso tempo le prestazioni dello stato sociale, che raggiunge un livello di proposta per i cittadini fino ad allora sconosciuto, e la sconfitta della società di fronte a nuovi e crescenti pregiudizi. In un certo modo documenta la vittoria e la sconfitta del moderno. Da cosa dipendono le contraddizioni? Sono da ricondursi a una generica distanza tra progetto e realtà? Quella stessa, inevitabile, come nella canzone di Brecht sull'inadeguatezza degli sforzi umani (2) "si! prova pure a fare un progetto!" (ja, mach nun einen plan…se ci riesci) e che sembra così grande perché parliamo di progetti ambiziosi? La mancanza di congruenza tra progetto e realtà in questo caso non deve essere interpretata all'interno del fraintendimento disfattista che appartiene all'attitudine della critica postmodernista. Al contrario, le scoperte interessanti che si possono forse fare (se c‘è ancora spazio per farne) sono legate alla domanda (ma soprattutto alla risposta) se tutto ciò che è stato costruito nel dopoguerra
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sia poi così sbagliato, se sia il Progetto il responsabile del fallimento della Periferia o viceversa. Proprio le contraddizioni nella valutazione di questo momento storico, in particolare oggi, suggeriscono questa domanda. Proviamo per un momento a tornare là dove tutto inizia: il Big Bang, 15th July 1972, 15:32h. Una mattina uggiosa (si dice) nella cittadina statunitense di Sant Louis, una parte del complesso residenziale Pruitt Igoe fu fatto brillare. Le immagini spettacolari dell’implosione in slow-motion degli 11 piani residenziali in una gigantesca nuvola di polvere fecero il giro del mondo. Queste immagini allora furono interpretate come il simbolo del fallimento dell’architettura postbellica, o almeno vennero così interpretate dal dibattito urbanistico, sia pure con numerosi distinguo. Charles Jenks data la morte dell’ Architettura Moderna precisamente con il giorno e l’ora della demolizione del complesso. Jenks come 'il tristo mietitore' nel senso della vita dei Monty Python (3) arriva e porta via con se tutti i commensali, senza fare distinzioni, compreso il recalcitrante testimone del dessert, unico a non aver ingurgitato la mousse avvelenata. Fine del funzionalismo o fine del Masshousing Il 1979: in Europa il dibattito urbanistico fu connotato dal tema 'punti sociali caldi' nel mezzo di una fase di costruzione del Masshousing che non conosce precedenti nella storia, dibattito che avrebbe dovuto contribuire alla loro caratterizzazione e che al contempo contribuisce a diffondere nei Municipi e nelle Istituzioni la preoccupazione che come conseguenza delle politiche per la residenza 'popolare' possano generarsi un filtering down-process secondo il modello americano e il crearsi incontrollabile di ghetti sociali. Il coinvolgimento di sociologi attesta già all’inizio degli anni '80 tutti i problemi in un vademecum sugli errori della progettazione: la mancanza di identificazione degli abitanti con il proprio quartiere, l’insicurezza, l’anonimità degli spazi, il vandalismo, una tendenza crescente di comportamenti criminali per finire con quello che è diventato oggi l’essenza del problema: l’accelerazione dei processi di segregazione. Cos’era successo? Cosa rimaneva della convinzione di seguire al meglio i dettami della Carta di Atene e di agire quindi (a priori) per il bene universale? Cosa della critica alla città del XIX secolo e cosa della consapevolezza missionaria del costruire per utilitá comune, offrendo al contempo il giusto modo di abitare? Proviamo a tornare indietro nel tempo negli anni '60 e proviamo, con uno
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sguardo contemporaneo, a reimmergerci nello stato d’animo di quel tempo, per quanto questo sia possibile, per valutare i grandi complessi sulla base della storia dalla loro nascita, condizione necessaria se si vuole capire cosa sia andato storto. Presupponiamo essere stata non solo una storia di realizzazioni bensì anche una storia fatta soprattutto di intenzioni. In Italia questo 'viaggio nel tempo', avverrebbe sullo sfondo di una straordinaria modernizzazione della società, modernizzazione che interessava tutti i paesi europei e che produceva i grand ensemble parigini dove viveva 1 francese su 6 e le plattenbausiedlungen in Germania Est dove il rapporto era di 1 su 4. Nella Germania Ovest del piano Marshall il rapporto era di 1 su 60, a segnare le differenze ideologiche con lo statalismo francese e il dirigismo socialista (4). L’euforia progettuale di quel tempo, dopo lo sbarco sulla luna, sembrava non conoscere più frontiere (del fattibile) che non potessero essere fatte saltare, in pieno miracolo economico, con modelli di consumo di massa keynesiani calati nell’ottimismo dell’era fordista. Se oggi avendo come background lo sviluppo del Masshousing (sapendo com’è andata) potessimo davvero viaggiare con la macchina del tempo indietro negli anni '60 e se ci trovassimo di fronte al compito e alla sfida di garantire lo stesso numero di appartamenti, quali sarebbero le domande che ci dovremmo porre e soprattutto cosa riusciremmo a salvare? 1. La prima domanda riguarda la dimensione. C’è un argomento convincente capace di condannare in via definitiva la grande dimensione? È il male assoluto o una vittima (quasi innocente) sacrificata al cambio di paradigma sotteso al dibattito degli anni '80, quello che ha visto sostituire la progettazione a grande scala con un 'accorto incrementare'? Sebbene incrementare abbia poco a che vedere con la progettazione, le strategie che sottende hanno rappresentato un irrevocabile rifiuto all’euforia progettuale degli anni '60 di cui è figlio il Masshousing. La discussione sulla grande dimensione finisce con il sostituire il pensare e progettare strutture riproponibili con quello del combinare soluzioni uniche e irripetibili. 2. Domanda correlata alla prima: come dovrebbero essere le megastrutture per far sì che le loro qualità: la razionalizzazione produttiva, gli effetti sinergici tra funzione e uso e, non ultimo, il valore 'aggiunto' della densità, ne compensino gli svantaggi? La domanda di adattabilità del Masshousing è rimasta delusa. Pur pensate (dentro metafora) come sistemi viventi, si sono dimostrate incapaci di modifica, di crescere, di morire (nate giá
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morte come carcasse di dinosauri). La parentela indicata dall’Alberti sulla casa come cittá (5) non dice altro se non che la città stessa è una grande struttura, in continua evoluzione. Il Masshousing al contrario non è stato concepito come tale, bensì come finito e immutabile. 3. Ma cosa può voler dire 'cambiare, mutare, evolversi' in relazione all’argomento di cui ci stiamo occupando: riciclare che sembra voler dire prima di tutto ricominciare a 'pedalare', ricominciare a faticare per produrre argomenti e proposte. Aspetti essenziali sono la libertà (o meglio) il grado di definizione contenuto nel codice delle strutture spaziali. Questa libertà si è manifestata in pochi esempi realizzati. È alla base del principio della casa scaffale wohnregal (6) (imparentato con il Plan Obus, e che ha filiato una serie di progetti anche recenti, tra cui Elemental in Cile) parente delle tattiche orchestrate di appropriazione dello spazio. In un sistema predefinito strutturale e impiantistico, viene consentito il massimo grado d'interpretazione architettonica. Concetto per certi versi opposto a quello del Masshousing, quest’ultimo fissato nella standardizzazione, nelle forniture e nel sistema distributivo secondo modelli abitativi minimi messi a punto negli anni '20 e che già negli anni '70 apparivano irrigiditi e costretti rispetto alle trasformazioni sociali in corso e le nuove abitudini di vita. Sia l'organizzazione funzionalista, come pure il modello di riferimento della famiglia ristretta offrivano ben poca libertà. Anche gli appartamenti venivano concepiti come una fotografia istantanea di una ipotetica famiglia felice più che un palcoscenico adattabile alle costanti trasformazioni delle condizioni di vita. 4. E cosa pensare della scelta consapevolmente monofunzionalista? Forse che fosse comprensibile negli anni '60 (7) come premessa della 'liberazione' dell'abitare dalle zavorre del XIX sec. (in particolare la malsana copresenza di abitazione e lavoro) già criticata tempestivamente degli Smithson, ma già nata in contrasto con i nuovi riferimenti urbani. 5. Alla fine, cosa rimane del concetto urbanistico del Masshousing? Se partiamo dal presupposto che era inteso come città e in quanto città doveva rompere con la forma ottocentesca dell'isolato, essere più generoso per spazi, più libero, più vario e urbano, si può dire che così formulata sia una promessa che deve ancora essere mantenuta. Dopo 40 anni, lo spazio fluido del moderno dal punto di vista sociale ha dimostrato essere un terreno difficile. Gli abitanti hanno mostrato la facoltà di organizzarsi anche in spazi costretti, di adattarsi al loro intorno (se li si
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lascia fare) (8). Nel frattempo le modifiche che sono intervenute sul corpo sociale sono immense, le convenzioni sociali hanno progredito, sono diventate più permissive, viviamo ancora di più all’aperto e con maggiori libertà e lo spettro dei comportamenti possibili si è dilatato a dismisura. Questi tra i motivi per cui in Europa nei complessi residenziali sanati si è proceduto a una differenziazione degli spazi aperti, per esempio attraverso l’assegnazione 'sociale' dei piani terra, l’introduzione del gardening in affitto, la differenziazione degli spazi funzionali, l’introduzione di nuove organizzazioni in pianta, dispositivi spaziali (in facciata) e di misure 'prestazionali'. Infine una considerazione 'politica': nonostante le ragionevoli argomentazioni critiche contro la qualità del Masshousing (che ospita tutt’oggi per lo più appartamenti sociali), e nonostante l’argomentazione dei costi eccessivi in confronto a quelli offerti dal libero mercato, stiamo parlando di un’immensa prestazione dello stato sociale, che oggi, per via dell’impegno che richiede (ha richiesto) non è più ritenuta riproponibile e, soprattutto, non necessaria. La deregulation del mercato immobiliare iniziata negli anni '70 in Germania e con effetto domino negli altri paesi europei sotto l’egida del neoliberalismo è ormai radicata, e sono in pochi a metterla in discussione. La politica per la casa come beneficio per il pubblico in Francia, Italia e Germania è stata cancellata. Nuovi edifici di edilizia sociale non vengono costruiti, in Germania i vincoli d’affitto stanno scadendo, e tutto il patrimonio a breve potrà essere affittato a prezzi di mercato. Sempre in Germania le previsioni dicono che nel 2020 la percentuale di edilizia sociale sul costruito complessivo sarà di circa il 4%. Alcune delle proprietà sono state vendute per migliorare la condizione della casse dei comuni (disastrosa) a Hedgefonds e grosse immobiliari private. Correndo il rischio di una sbavatura retorica si puó dire che non vengono venduti solo immobili, ma anche mondi vitali di un numero incalcolabile di persone, per Ie quali il Masshousing è diventato Heimat, in alcuni casi con vista.
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NOTE 1. "Modern planning’s strict zoning laws which segregate urban uses have resulted in large housing estates predominantly known as mass, public or social housing and are arguably considered socially isolated, culturally inappropriate and environmentally unsustainable. In some countries, mass housing makes up over 50% of the urban housing stock [...]", UNHabitat Global Housing Strategy, 2014. 2. Brecht B., Das lied von der unzulänglichkeit des menschlichen strebens. 3. The meaning of life, Monty Python, 1983. 4. Roulliard D., Utopie del quantité, in Nasrine S. (a cura di), Logement, matiere de nos villes. Chronique europeenne 1900-2007, Paris 2007. 5. "La città è come una grande casa e la casa, a sua volta, una piccola città", Alberti L.B., De re aedificatoria, 1452. 6. Spagnoli L., Das Wohnregal, in I grandi quartieri come problema, Clup, Milano, 1987. 7. Edgar S., Urbanität, in Erneuerung unserer Städte, Deutscher Städtetag, 1960. 8. Newman O., Defensible space. people and design in the violent city, London Architectural Press 1973.
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Alessandro Valenti
IDENTITY VS INTERIOR DESIGN DERIVE E DERIVAZIONI DEGLI INTERNI DOMESTICI Scenario 1 Cina: Jinhua Architecture Park. In quello che è noto come il Building 16, ovvero una guest house disegnata dall’architetto dissidente Ai Wei Wei come parte di una micro città di nuova fondazione, si muovono – all’interno di quattro stanze – un numero non precisato di casse da imballaggio che altro non sono che mobili su ruote realizzati in limited edition nel 2011 dalla designer cinese Jing Jing Nahian Li. Il nome della collezione, che comprende arredi transformer che spaziano dalla cucina alla camera da letto fino all’ufficio, è The Crates (le casse) e ricorda non solo nel nome la Crate House di Alan Wexler, la mini casa compatta, della superficie di 1 mq, formata da un volume contenente 4 unità scorrevoli dedicate ad altrettante attività domestiche: kitchen, bathroom, living room, bedroom. Versatili nell’uso e realizzate in diverse misure, le casse di Nahian Li arredano e customizzano in maniera sartoriale i vuoti delle architetture contemporanee. A guardarle vengono in mente – come illustri antecedenti – i bauli dell’australiana Andrea Zittel venduti online sul finto sito e-commerce dalla AZ Enterprise ma anche la Mini-Kitchen di Joe Colombo e la più recente cu-
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cina b2 degli Eoos progettata nel 2008 per Bulthaup. Il concept, ispirato agli imballaggi delle opere d’arte, esprime il senso di precarietà di molti cinesi che, spesso, sono costretti a lasciare casa. Si tratta di una forma di mobilità – a volte estrema, perfino forzata – a cui gli abitanti di Pechino sono soggetti a causa del continuo rinnovamento edilizio. Scenario 2 Venezia: Biennale Architettura 2012. Assiepati all’interno del padiglione olandese che porta la firma del maestro Gerrit Thomas Rietveld, spettatori curiosi attendono che grandi tende fuori scala di diversi colori e materiali, montate su dinamici binari fissati al soffitto, si spostino all'interno dell’area espositiva assumendo dodici differenti posizioni, tante quante le ore del giorno e della notte. Per eseguire il ciclo completo occorrono 96 minuti di paziente attesa. Tutta l’operazione è gestita da un timer. Ideatrice dell’installazione è Petra Blaisse, fondatrice dello studio Inside Outside. È lei che, utilizzando materiali tessili, ha dato vita a un intervento di architettura debole basato sulle promettenti spazialità degli edifici vacanti. Sempre lei ha creato una moltitudine di nuove planimetrie: da un unico assetto, ne ha inventati altri 12. Il congegno è interessante ed efficace e descrive bene l’esigenza tutta contemporanea della versatilità dell’architettura residenziale e della personalizzazione degli spazi domestici. Del resto, come scrive Pierluigi Natalini nel suo libro Homeless a proposito di case: “Non c’è un’idea della casa che vada bene per tutti e neppure per una categoria ristretta di persone, per questo è necessario che la gente partecipi allo svolgimento dei fatti”. Scenario 3 Marsiglia: appartamento n° 50 al quinto piano dell’Unité d’Habitation realizzata nel 1953 da Le Corbusier, una delle tessere del mosaico che raffigura l’icona del vivere collettivo moderno. Il padrone di casa, Jean Marc Drut, per la terza volta consecutiva in 6 anni (a partire dal 2008) convoca – dandogli carta bianca – un designer di fama internazionale per trasformare gli interni della propria abitazione di 98 mq, una delle poche rimaste totalmente fedeli al progetto originale di Corbu. Dopo l’inglese Jasper Morrison e il teutonico Konstantin Grcic, è la volta del francese Pierre Charpin e della sua personale visione dell’interior design: un mix eclettico di arredi sperimentali, pezzi in edizione limitata e mobili d’autore. Più
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che di una sistemazione degli spazi domestici si tratta di un’installazione temporanea che trasforma la casa – i cui arredi d’epoca, per due mesi, vengono stoccati nel basement dell’edificio – in spazio museale aperto ai visitatori ridelineando i confini tra pubblico e privato. Qualcosa di simile è descritto – come fenomeno – nel libro Interno domestico. Mostre in appartamento 1972-2013, curato di recente da Federica Boràgine e Giulia Brivio. Il volume è un viaggio negli appartementi, italiani e non, che apre al lettore le porte di diverse case per dimostrare come la pratica di ospitare mostre di arte contemporanea sia più diffusa di quanto si immagini. Scenario 1 + scenario 2 + scenario 3 Sempre più spesso la città contemporanea è una città in allestimento, che affida i propri elementi di novità all’architettura debole, alle configurazioni instabili, alle soluzioni reversibili che – specialmente in Italia – rappresentano le occasioni più comuni, e a volte più originali, di alterazione urbana. Sebbene con scadenza. Tali deviazioni dalle regole della pianificazione, che oggi includono le dimensioni dell’architettura e dell’interior design, hanno coinciso per un po’ con le grandi manifestazioni culturali internazionali. Le città, improvvisamente, si sono trovate ad offrire inedite versioni di sé attraverso l’occupazione temporanea di building in disuso, terrain vague, palazzi storici, capannoni industriali, strade, piazze, parchi e perfino quartieri, anticipando – come in una visione di Cassandra – trasformazioni future del paesaggio urbano. Il fenomeno è in aumento e comprende realtà ritenute immobili come Roma, Milano, Venezia, Firenze, Torino, Genova, città in cui le installazioni hanno finito talvolta per svolgere un ruolo pionieristico e consolatorio rispetto alla mancanza di altro. Si tratta di manifestazioni del nuovo, dell’improvviso (e dell’improvvisato), in cui la novità non è fine a sé stessa ma genera archetipi alternativi in cui l'architettura può tornare ad avere un ruolo decisivo e dove il design può proporre prototipi sperimentali. Questo elogio dell’effimero, che come un virus dormiente contiene i prodromi del cambiamento, può essere fatto risalire alla Great Exhibition di Londra del 1851 quando diversi paesi furono invitati a mostrare il meglio della propria produzione industriale, scientifica e culturale contestualizzandolo in opere radicali come il Crystal Palace. Negli anni a venire le Esposizioni Universali hanno prodotto architettu-
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re capostipite come la Torre Eiffel (Parigi, 1889), il Weissenhof Siedlung (Stoccarda, 1927), il padiglione tedesco di Mies Van der Rohe (1929, Barcellona), il Blur Building (Expo Swiss 2002). Temporanee o permanenti che fossero, hanno avuto un impatto enorme non solo sulla comunità del design architettonico ma sulla società nel suo complesso annunciando epifanie della città del futuro. Oggi le occasioni, frequenti e frequentatissime, sembrano moltiplicarsi e comprendono – oltre alle mostre – esperienze erratiche ed effimere come i concerti en plein air, gli happening di piazza, le performance artistiche, le installazioni urbane. Con intrecci sempre più profondi tra arte, architettura e città e rimandi al Situazionismo e ai movimenti radicali degli anni '60 nell’ambito di un indirizzo borderline che ha cortocircuitato architettura, arte, paesaggio, design, moda, scardinando le dicotomie in-out, minimaxi, assoluto-relativo, temporaneo-duraturo, leggero-pesante, presente -assente, hard-soft. Il risultato sono progetti speciali recanti il marchio della transizione; operazioni a termine che, da un lato, si ricollegano alla tradizione delle Esposizioni dell’epoca moderna e dall’altro all’attualità di temi e termini che, ritenuti dominio esclusivo dell’architettura degli interni, sono stati oggetto di azioni di prelievo da ambiti riguardanti la trasformazione delle città. Fatto che in Italia, e non solo, ha a che fare sia con la necessità di intervenire sulla consistenza edilizia esistente sia con la disponibilità di modalità e procedure riconducibili alla provvisorietà, alla mobilità, alla adattabilità, al riciclo, con l’architettura debole come denominatore comune che agisce come un layer sovrapposto. A partire dagli oggetti, alle case, fino alle città: tre ordini di grandezza, convenzionalmente distinti, accomunati di recente da sperimentazioni all’insegna della leggerezza, sia letterale che fenomenica, e della mobilità, caratteristica della contemporaneità con tutto quello che ne consegue (compresa la trasportabilità delle cose e il loro consumo) e il passaggio veloce dall’ideazione alla realizzazione affidata a materie quali cartone, plastica, legno, tessuto e tecnologie come quelle digitali e informatiche. Dentro e fuori le case. Mettendo insieme l’istanza costruttiva dell’architettura con le risorse immaginative dell’allestimento. Magari nel cuore delle città cosiddette di pietra: all’interno del tessuto consolidato, proponendo, strategie alternative dell’abitare, sia pure temporanee, che diano una seconda vita al patrimonio edilizio diffuso modificando modelli culturali esistenti a favore di un nuovo modo di vivere il presente.
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Forte Quezzi, Genova 2012 Š Fabio Mantovani Pagg. 58-59: veduta del retro a est Pag. 60: testata del complesso a est Pagg. 62-63: il Biscione visto da Staglieno
TRADUZIONE
IN CORSO OVVERO COESI SE VI PARE
Università IUAV di Venezia prof.ssa Sara Marini prof. Francesco Gastaldi STUDENTI
IMMAGINI
Fernando Cocco
pag. 67 Storie di ordinaria sottrazione. Archi-
Mariangela Di Capua
tettura, densità, scarti
Miriam D'Ignazio
pag. 69 La città dell'ipermodernismo
Monica Fontana
pag. 70 Orgoglio e pregiudizio
Federica Grassi
pag. 71 per una comunità autonoma
Francesca Martin
pag. 73 Isolario. Nuovi spazi della solitudine
Laura Nazzari
nel Biscione
Sofia Passani
pag. 75 Il mare al Biscione
Andrea Poloni
pag. 76 Al Biscione si va in vacanza
Olimpia Rangoni Macchiavelli
pag. 77 Multietnica. Dispositivi di implemen-
Tommaso Sciullo
tazione dello spazio delle diverse etnie nella città futura
Sara Marini >IUAV
MANIFESTO
RICICLARE IMMAGINARI CON LE ALI O DEL COME IL QUARTIERE INA-CASA FORTE QUEZZI pUò DIVENTARE UN'ARCHITETTURA FUTURA Molto più spesso di quanto vogliamo ammettere non cambiamo il mondo per un fine prestabilito ma ci adattiamo soltanto: reagiamo a forze esterne che sfuggono al nostro controllo, cerchiamo di sopravvivere, di preservare qualcosa, di mantenere un dato livello di prestazioni. (Kevin Lynch)
La tesi che si vuole qui sostenere è che il riciclaggio di un'architettura esistente, dotata di un'eroica idea di città ormai superata, ha senso e possibilità solo nella misura in cui aspiri a potenziare e manipolare quell'idea fino a fare del suddetto manufatto un manifesto per il futuro. Re-cycle, nel tempo della lista e degli sconfinati depositi di materiali, edifici e cose inutili, rotti e inaccessibili, è una posizione progettuale che si fonda sul problema della scelta, della messa in ordine delle priorità della città e del territorio. Da un paesaggio informe e disarticolato, dove le resistenze sono inattese, emergono oggetti, manufatti, sistemi che meritano un'attenzione particolare come ad esempio il Quartiere INA-Casa Forte Quezzi a Genova. L'attenzione verso questo pezzo di città non è tanto dettata dalla sua storia, altrimenti finirebbe in fondo ad una lista eterna di og-
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getti messi in ordine cronologico; nemmeno dal dato sociale, sicuramente più marcato in altre parti del sistema urbano; neppure dal mero valore architettonico del quartiere, certamente interessante ma dichiaratamente datato e poco amato dai suoi stessi abitanti (come testimoniano i divieti che punteggiano gli spazi aperti pensati come comuni). L'attenzione verso questa grande architettura è chiamata dal suo atteggiamento eroico, dal suo tradurre in cemento un'idea di mondo, di vita, di società, di città. Quest’affermazione dovrebbe, teoricamente, interessare buona parte dei progetti, sicuramente quelli che hanno una matrice pubblica, evidentemente così non è e buona parte della carica comunicativa di un'architettura, la sua capacità di esplicitare una missione è legata all'intenzione del progettista, al suo saper essere autore ed avere qualcosa da comunicare. Forte Quezzi progettato da Luigi Carlo Daneri e Eugenio Fuselli (che coordinano un vasto numero di architetti) nel 1956-57 disegna una società moderna. Strade e manufatti si collocano come terrazzi sul fianco della collina correndo tra loro paralleli, con pari dignità. Agli abitanti viene offerta non solo una casa ma anche una vista sul golfo e generosi spazi di condivisione. Ancora oggi, pur pesando la distanza dal centro città, la necessità di una revisione sul piano tecnologico dei manufatti (incentivata da una normativa che non a caso rivede al rialzo continuamente i parametri), il rifiuto da parte degli abitanti di fare di un sistema urbano una vera comunità, l'idea di modernità del cosiddetto Biscione è chiara. Quella stessa idea non è mai stata completamente accettata perché ritenuta pauperistica a confronto con i linguaggi di una sgrammaticata tradizione (come testimoniano alcuni interni degli appartamenti del quartiere con ostentate pareti rosa, pavimenti in finto legno, caminetti improbabili). Prendendo a pretesto le tensioni di una società sempre più esplosa, in viaggio, senza radici e fortunatamente sempre meno in cerca di una identità da affermare, si possono tentare otto vie per riciclare il Biscione e farne un manifesto dell'architettura futura. Prima di tracciare gli otto ipotetici affreschi va però chiarita la necessità ancora nel nuovo millennio di una manifestazione, di un'immagine riassuntiva a cui giustapporre uno slogan. Il manifesto, qui inteso quale strumento più pop che futurista, più sintetico e meno elitario di quel che veniva affermato ad inizio Novecento, forse ancora stampato sulla vecchia carta e messo anche abusivamente in strada, è offerto non è dato sapere a quale pubblico. C.A.A.N.E. acronimo che sottintende Cooperativa Architettura Autonoma Nuovi Epicentri è la
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firma giustapposta ai manifesti e, in un remix divertito e un po' arrabbiato, rimette in discussione parole chiave e sistemi di un fare architettura assodato a favore di una popolarizzazione delle intenzioni del costruire. Il manifesto ritorna quale strumento antico e necessario per portare in città le doverose direzioni che l’architettura, che si vuole tale, deve dichiarare. Lo strumento è evidentemente vintage come il problema che pone: ovvero l'architettura deve comunicare vie, si riparte quindi da quando il discorso è stato interrotto cercando nuovamente di manifestarsi. Concluse le necessarie premesse, che coincidono con gli obiettivi del progetto Forte Quezzi Architettura Futura, si tracciano di seguito gli intenti di otto manifesti. Il numero non ha significati, non c'è consequenzialità o relazione tra gli otto proclami se non nell'essere prodotti dalla stessa cooperativa dove però le autonomie, come si andrà a leggere, prendono spazio. Storie di ordinaria sottrazione Nel Biscione è in corso un progressivo ed ipotetico calo demografico, diversi appartamenti sono in vendita. Questo inizio di cambiamento è letto come opportunità: parti dell'architettura esistente possono essere sottratte, demolite per definire nuove grandi terrazze, giardini pensili di rinascimentale memoria. Il processo di sottrazione, ingigantendosi, interessa tutta la città di Genova, è come una macchina celibe, procede con l'unico criterio di salvare il cuore del sistema, il porto; in questa logica anche Forte Quezzi può essere sacrificato così come le periferie della città. La demolizione è qui un mezzo per sancire ciò che è strettamente necessario, ciò che va salvato, ciò che comunque deve restare; è un esercizio sul problema della scelta. La città dell'ipermodernismo Il Biscione è moderno ma non abbastanza per questo tempo, può quindi essere implementato di nuova, più potente ed evidente modernità. Per costruire l'ipermodernità servono: più spazi per lo sport, incastrati ed inseriti ovunque; più appartamenti duplex e l'existenzminimum come condizione di vita; una vegetazione che conviva con, ed esalti, l’architettura; nuovi monumenti alla velocità e all'automobile. L'architettura può duplicarsi, anche triplicarsi in verticale: il cielo è il suolo da urbanizzare, la grande dimensione è una missione senza limiti.
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Orgoglio e pregiudizio Serve una norma, una sola nuova norma per cambiare senso e destino al Biscione, per farne un'architettura del futuro. Tale norma recita che essendo gli abitanti della città decisamente tutti diversi per status, religione ed altro a questi viene data facoltà, nel quartiere, di modificare facciate ed interni del proprio appartamento a propria immagine e somiglianza. La monotona architettura di un popolo uniforme che marcia verso la stessa idea di modernità esplode qui nelle mille identità contemporanee, nelle mille storie che chiedono di essere rappresentate in architettura. Per una comunità autonoma La collocazione marginale del Biscione è da sempre considerata un problema, troppo distante e mal collegato al centro storico di Genova; ma il quartiere può essere autonomo. Implementabile di altri servizi primari e anche di alcuni secondari può definirsi quale isola urbana, facendo leva su una collocazione territoriale da avamposto e sul presentarsi oggi quale privilegiata casa collettiva con vista borghese sul golfo. Il quartiere può aspirare alla propria indipendenza urbana. Non più periferia, Forte Quezzi si afferma così quale parte di città senza dipendenze dal centro, la sua autonomia è una diversa utopia per la città futura. Isolario I quartieri delle eroiche periferie italiane sono spesso accumunati da diverse forme di solitudine dettate da problemi economici, età, nuclei famigliari che coincidono con una persona, questi 'isolamenti' sono considerati, in un'idea di modernità che vuole tutto collettivo e partecipato, tristi situazioni da curare. Lo stesso isolamento è qui manifesto per una nuova idea di città dove finalmente l'architettura e il paesaggio sono disegnati per fare spazio al singolo, per fargli vivere la sua solitudine per niente rumorosa. Piccoli interventi puntellano, senza farsi troppo notare, il quartiere: sono nidi dove, finalmente, è possibile stare soli. Il mare al Biscione Il singolo può costruirsi, inventarsi determinati spazi, il collettivo può progettare la stessa quantità moltiplicata per il numero dei suoi componenti. Gli attuali 2.000 cittadini del Biscione possono, con piccole risorse moltiplicate, regalarsi la più grande piscina della Liguria, portare il mare nel
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proprio quartiere: è la forza del collettivo che denuncia quello che il singolo non può fare (salvo eccezioni). Il futuro è qui costruito senza false retoriche sul vivere insieme: la condivisione semplicemente può convenire, può rendere fattibili architetture della bigness. Al Biscione si va in vacanza La città è anche e soprattutto dei turisti, i cittadini l'abbandonano, la deturpano, i turisti si accontentano di fare qualche foto, trovare divertimenti e guardare come se tutto fosse stato creato qui e ora solo per loro. Il Biscione del futuro è un parco del divertimento per ospiti fugaci, mille sono le lingue con cui vengono sovrascritte le informazioni sui cartelli, i suoi abitanti si apprestano a rendere più piacevole possibile il soggiorno a chi è di passaggio. Il futuro è Venice. Multietnica Finalmente la città è multietnica e lo sarà a partire da un quartiere che oggi espone simboli di un'unica religione in ogni vano scala quasi a decretare che un unico pensiero è possibile. Il quartiere si veste e si traveste con le architetture e i simboli di mondi distanti qui insediati. Come in un carnevale veneziano luoghi lontani e tempi diversi convivono in un unico spazio. Il quartiere non è più tale: è tutti i continenti mescolati assieme a decretare una realtà meticcia e al tempo stesso riconoscibile nelle sue moltiplicate diversità. In ottavo Le otto visioni di un altro Biscione non viaggiano verso la stessa direzione, anzi. Da un appunto, da un dato, da un'aspirazione o da un problema sono costruite narrazioni alternative come in una storia che non vuole imporre un unico finale ma è più interessata a mettere in essere derive, sliding doors. Forse questi otto racconti vogliono solo sommessamente continuare a convivere e non cercano alterazioni o predominanze reciproche. È l'idea di modernità, scritta sulla pelle del manufatto, a chiedere un'altra unica idea, a volere una seconda veste totalizzante per evitare che quello che prima era un eroico procedere verso il futuro continui a presentarsi quale eterna nostalgia.
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Politecnico di Milano prof.ssa Elisa Cristiana Cattaneo STUDENTI
IMMAGINI
Daniele Balbiano
pag. 82 Biscione telaio = pattern generativi
Cesare Benedetti
pag. 85 psycho-map
Giulia Bonaiuti Laris Conti Giulia Dastoli Manuela Favale Erika Pisa Nicola Violano Alessandro Zena
Elisa Cristiana Cattaneo >POLIMI
CApOVOLGERE, CONSUMARE, FRUGARE NEL RESTO O LA NEGATIVITà DESIDERATA Che ne è del resto oggi, per noi, qui, ora, di un Hegel? (Jacques Derrida)
"Non c’è resto. Quando si toglie tutto non resta niente. È falso. L’equazione del tutto e del niente, la sottrazione del resto, è falsa da un capo all’altro. Non è che non ci siano resti. Ma questo non ha mai realtà autonoma, né un luogo proprio: è ciò la cui suddivisione, circoscrizione, esclusione designa [...] È attraverso la sottrazione del resto che si fonda e prende forza la realtà [...] La cosa strana è che non c’è affatto alcun termine opposto in un’opposizione binaria [...] niente dall’altro lato della barra. 'La somma e il resto', l’addizione e il resto, l’operazione e il resto non sono affatto opposizioni distintive. E tuttavia quello che si trova dall’altro lato del resto esiste, è anzi il termine messo in evidenza, il tempo forte, l’elemento privilegiato in questa opposizione stranamente asimmetrica, in questa struttura che non lo è affatto. Ma questo termine messo in evidenza non ha affatto un nome. È anonimo, instabile e privo di definizione. Positivo, ma solo il segno negativo gli dà forza e realtà. A rigore, esso non potrebbe essere definito se non come il resto del resto. Il resto rinvia così ben più che a una
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divisione chiara a due termini localizzati, a una struttura girevole e reversibile, struttura della reversibilità sempre imminente, dove non si sa mai qual è il resto dell’altro, in nessuna struttura è possibile operare questa reversibilità [...], o questa mise en abyme [...] in tal senso si può parlare del resto come di uno specchio, o dello specchio del resto [...] L’impossibilità di determinare quello che è il resto dell’altro caratterizza la fase di simulazione e di agonia dei sistemi fondati sulla distinzione, fase in cui tutto diviene resto e residuale. Inversamente, la scomparsa della barra fatidica che isolava il resto e che permette ormai ad ogni termine di essere resto dell’altro caratterizza una fase di reversibilità in cui virtualmente non c’è più resto. Le due opposizioni sono 'vere' simultaneamente e non si escludono. Sono esse stesse reversibili" (1). Il pensiero sul ‘resto’, sull’oggetto del passato da riabilitare, se inteso alla luce del pensiero di Baudrillard, ci permette un cortocircuito di senso all’interno delle scienze urbane. Tema ormai oltremodo dibattuto, piuttosto che delinearne le strategie d’uso, intendiamo mettere in luce uno dei suoi possibili passaggi epistemologici, in modo tale che anche il pensiero (e l’immagine del progetto) possano usufruirne, capitolando. In questo senso, ci pare di poterlo declinare secondo i seguenti momenti: esiste un senso del resto che prevale sulle opposizioni distintive, in cui il termine debole (il resto, il materiale residuo) riacquisti valore non residuale; il processo di utilizzo dei resti (concettuali o meno) viene affidato ad un processo di ready-made; il resto permette una nuova significazione del tutto. Le tre posizioni considerate ci permettono di rafforzare l’idea che, conclusi i sistemi finiti e causali, appaia un materiale cognitivo marginale in grado di generare nuove possibilità di significato. Questo materiale di scarto risulta essere il più fruttuoso proprio per la sua proprietà di generare un cortocircuito del pensiero, portandolo all’esasperazione: un luogo limite di chiusura del precedente e di apertura ad una nuova risignificazione. Il resto quindi, lavorando materialmente ed immaterialmente, permette un totale ribaltamento dei sistemi forti, delle logiche assolute, a vantaggio di un ‘divenire minore’ che non implica la sua considerazione come marginalità di un tutto ma, piuttosto, una nuova modalità di decifrabilità ed azione. In un certo senso, esso rappresenta una nuova metafora ed un nuovo punto di crinale all’interno della ricerca urbana.
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La negatività desiderata Come delineato nel testo di Baudrillard infatti: “Il resto è diventato ora il tema forte. È sul resto che si fonda una nuova intelleggibilità. Fine di una certa logica delle opposizioni distintive, in cui il termine debole funzionava come termine residuale. Oggi tutto si capovolge ... non è più un’economia politica della produzione a digerirci, ma un’economia politica della riproduzione, del riciclaggio – ecologia e inquinamento – un’economia politica del resto. Tutta la normalità è rivista oggi alla luce della follia, che non era che il suo resto insignificante. Privilegio di tutti i resti, in tutti i campi, del non-detto, del femminile, del folle, del marginale, dell’escremento e del rifiuto in arte, etc [...] Ma questo non è ancora che un’inversione della struttura, di ritorno del rimosso come tempo forte, di ritorno del resto come sovrappiù di senso, come eccedenza (ma l’eccedenza non è formalmente diversa dal resto, e il problema del dispendio dell’eccedenza in Bataille non è diverso da quello del riassorbimento dei resti in una economia politica del calcolo e della penuria: solo le filosofie sono differenti), di una maggiore offerta di senso a partire dal resto. Segreto di tutte le ‘liberazioni’, che giocano sulle energie nascoste dall’altro lato della barra. Ora siamo davanti a una situazione molto più originale: non quella dell’inversione pura e semplice e della promozione dei resti, ma quella di una instabilità di ogni struttura e di ogni opposizione, che fa sì che non c’è più resto, per il fatto che questo è dappertutto e infischiandosi della barra, si annulla in quanto tale” (2). Nella posizione del pensiero dell’autore, emerge una condizione molto più radicale di un semplice ribaltamento delle condizioni, dal fatto al resto del fatto. Si evidenzia piuttosto che il resto, nella sua possibilità propulsiva, possa considerarsi come l’annullamento di ogni condizione duale, di ogni riconnessione con l’‘intero’ (per negazione addizione o sottrazione), degli elementi che sempre hanno caratterizzato il percorso dell’architettura (quantomeno quella eurocentrica). In questo senso, esso ci riporta ad un sistema di pensiero e di immagini costantemente in disequilibrio, che basa sull’instabilità il proprio statuto fondativo. Esasperando quindi il concetto di resto, non inteso come parte rimanente rispetto ad un altra condizione di non resto, di ‘corpus’, l’unica via è il portarne al limite la carica, in modo che esso possa essere totalmente liberatorio rispetto ad ogni possibilità di far ricadere, o di ricollocare, il pensiero sul resto in un pensiero appurato e stabile, che semplicemente
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sposti le proprie dinamiche da un contenuto all’altro senza liberarsi della propria struttura epistemologica. Così infatti si esprime ancora Baudrillard: “Non è quando si è levato tutto che non resta niente, ma quando le cose si capovolgono senza fine e l’addizione stessa non ha più senso [...] Bisogna spingere al consumo insensato dell’energia per distruggerne il concetto. Bisogna spingere alla rimozione massima per distruggerne il concetto. Quando l’ultimo litro di energia sarà stato consumato (dall’ultimo ecologo), quando l’ultimo indigeno sarà stato analizzato (dall’ultimo etnologo), quando l’ultima merce sarà stata prodotta dall’ultima forza lavoro restante, quando l’ultimo fantasma sarà stato spiegato dall’ultimo analista, quanto tutto sarà stato liberato e consumato 'con l’ultima energia', allora ci si accorgerà che questa gigantesca spirale dell’energia e della produzione, della rimozione e dell’inconscio, grazie alla quale si è riusciti a racchiudere tutto in una equazione entropica e catastrofica, che tutto questo non è altro in effetti che una metafisica del resto, e questa stessa sarà risolta di colpo in tutti i suoi effetti” (3). Esiste quindi una necessità di metabolizzare il resto, perché non rientri nel ciclo di ri-produzione e di riciclaggio (del pensiero e della forma), che lo faccia ricascare nelle condizioni stabili (4). Egli tenta quindi di definire una nuova e completa irreversibilità, di senso ovviamente, prima che di prodotto. 'Consumare il resto' perché esso possa scatenare nuove condizioni cognitive, lontane da ogni tentativo di ri-(uso, produzione, riciclo) delle logiche di pensiero e da ogni ribaltamento delle stesse, che non farebbero altro che ripresentarsi, secondo altre terminologie, ma nelle stesse dinamiche. Nuovamente, è la ‘presenza’ ad essere scartata, la permanenza dell’evento, dei suoi meccanismi ed i suoi poteri deduttivi e oggettuali. In un certo modo, come evidenziato da Paolo Pagani (5), si potrebbe accostare questa idea di resto con quella portata alla luce anche da Bataille, secondo il quale l’esistenza di un residuo improduttivo diventa focale per il pensiero intellettuale e poetico. Come afferma Mario Perniola: “Il recupero della poesia e dell’arte al positivo, secondo Bataille, non riesce mai completamente. Resta sempre un elemento residuale, marginale, inafferrabile, che non si lascia ridurre nel recinto assegnato a questa attività, che non può essere addomesticato. Questo elemento selvaggio è il desiderio, da cui la poesia e l’arte prendono origine, senza tuttavia riuscire a soddisfarlo […] La negatività desiderata, eccedente, sprecata, quel residuo ines-
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senziale che sfugge alla concretezza dell’economico, dell’utile, dell’azione progettata, costituisce per Bataille il fondamento della comunicazione e dell’espressione, la differenza irriducibile”. Estremizzando la posizione, non esiste quindi nessuna possibilità di riciclare il resto, l’oggetto del disavanzo, perché solo in esso sussiste la condizione di un nuovo senso che elimini i rapporti dicotomici con il tutto. Il resto quindi, non solo è eventualità per una nuova epistemologia, ma anche luogo del ‘nuovo immaginato’ per antonomasia. Luogo di conclusione definitiva dei meccanismi precedenti. In esso quindi, si concentra la possibilità di rinnovo urbano, materiale ed immateriale. Il minoritario, lo scarto diventa finalmente generativo.
Ready-made Esattamente come nell’opera duchampiana, che mette in discussione i costrutti teorici relativi al poetico, che solo accidentalmente mirano all’arte, si viene ad attuare in questo modo una 'consumazione del pensiero'. Duchamp, amplificando la scepsi cartesiana, esemplifica infatti come l’arte possa ravvedersi solo attraverso l’eliminazione dei propri resti. Esattamente come in Glas (6) di Derrida, nella relazione Hegel-Genet, il ripensamento del resto permette infatti operazioni anagrammatiche, anamorfiche, permette una nuova antologia di azioni: “E se l’inassimilabile, l’indigesto assoluto giocasse un ruolo fondamentale nel sistema? Quale riscatto teorico per ciò che resta? Si risponderà che l’escluso assicura uno spazio di possibilità ed organizza il terreno a cui non appartiene, risultando quindi come il vero trascendentale, non più reincorporabile, anzi come il trascendentale del trascendentale. È il tempo che resta dopo il sapere assoluto, il tempo che avanza nonostante il sistema, quello stesso tempo che la dialettica aveva cercato di piegare alle sue leve, di annullare (tilgen) e superare facendo della triade un circolo, smussandone gli angoli, facendone un testo: un testo che resta e in cui fermenta lo spirito con le sue esalazioni, i suoi effluvi e fervori, nello scialo di un’economia non più ristretta solo alla circolazione e al computo, ma aperta allo spreco della perdita […] Il tempo in avanzo è quello che non si ha ma si dona, il tempo fuori tempo e a controtempo della sorpresa impensata, il tempo senza tempo dell’arte. Che cosa resta del testo? Dell’opera di un artista? [...] se indaghiamo davvero sul resto, che ne è di quel resto che neanche rimane perché letteralmente non si forma e perciò si sottrae con uno sberleffo ad
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ogni ontologia? [...] Che cosa resta del ‘resto’ quando lo si mette così in pezzi? Lo scarto, come indica il nome, ritaglia il testo in quadrati o lo eleva al quadrato, lo divide in quarti più o meno regolari, lo esalta (al contrario o proprio per questo) o vi riverisce la carta, a meno che non lo distribuisca come carte da gioco. Che ne è del testo come resto, insieme di pezzetti che non procedono più dal tutto e non ne formeranno mai più uno?” (7). Derrida aggiunge un passaggio ulteriore nel pensiero sul resto: esso acquisisce valore ‘sostanziale’ non solo in termini di risignificazione dello spazio ma, in primis, nel concetto di tempo. Il cortocircuito che il resto, ossia l’oggetto ereditato dal passato, innesta nel tempo e nella storia, permette, nella logica di un pensiero costantemente in disequilibrio, di schivare simultaneamente sia il tempo presente (e il progetto come risolutivo di un problema immanente), sia il passato come déjà vu, sia il futuro, grazie alla possibilità dello scarto di intervenire in modo provvisorio. Se nella lingua italiana esistono modalità per evitare il tempo come immanenza e linearità (grazie al congiuntivo come possibilità, al futuro anteriore come accavallamento dei tempi e al condizionale come probabilità), in una ricerca che non permette spazio per le analogie con le forme esistenti (concettuali o meno) né lineari, si tenta di rivedere i codici operativi del progetto attraverso la nozione che già Deleuze aveva enucleato nel passaggio dal Kosmos (che presuppone un ordine) all’Aion che “schiva il presente”, infinitamente suddivisibile e sfuggente al passato come al futuro (8), in una predilezione per il divenire. Il resto, se non riciclabile, permette infatti una simultaneità temporale, al punto che: "In quanto schiva il presente, non sopporta la separazione né la distinzione del prima e del dopo, del passato e del futuro. È proprio dell’essenza del divenire l’andare, lo spingere nei due sensi contemporaneamente: Alice non cresce senza rimpicciolire, e viceversa. Il buon senso è l’affermazione che, in ogni cosa, vi è un senso determinabile; ma il paradosso è l’affermazione dei due sensi nello stesso tempo […] Questo tempo è l’Aion [...] Appare chiaramente la complementarietà del passato e del futuro; ogni presente infatti si divide in passato e in futuro, all’infinito. O piuttosto un tale tempo non è infinito, poiché non ritorna mai su di sé, ma è illimitato in quanto pura linea retta le cui estremità non cessano di allontanarsi nel passato, di allontanarsi nel futuro” (9). Il resto permette quindi un'accezione promiscua di tempo prima che di
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spazio, tale da far esistere una compresenza / indefinitezza di diverse condizioni storiche, senza che ne venga prefissata una come determinante e distintiva. In questa direzione, per il progetto di architettura si apre la possibilità di lavorare con un tempo sempre immaginario, riattivando in continuazione nuove possibilità formali e di risignificazione; di slegarsi da una visione di firmitas e di fissità come sottese alla volontà designativa del progetto, che si orienta piuttosto su di una volontà non fissativa, mobile e temporanea, legata ad un’idea di infirmitas temporale. Il resto quindi come forma del possibile. Questo processo di risignificazione o di distanza rispetto ai modelli della storia permette, come indagato da Marot (10) particolarmente nell’opera di Smithson, una visione performativa della memoria e dei suoi oggetti, ne predilige il carattere attivo, progettuale e processuale. L’indagine sul ricordo, sull’‘oggetto del passato’, toglie la storia da ogni tentativo di cristallizzazione, e ne permette continuamente la rivisitazione dei contenuti e delle forme, assenti o presenti della città. Il resto evita la ‘memoria storica’. È, invece, in quanto facoltà che contraddistingue l’esistenza singolare, una sorta di ‘ricapitolazione ontogenetica’ dei diversi modi di essere storici. Indagando come questo senso del tempo possa lavorare come metodo per il progetto, l’idea di un tempo accavallato e concomitante è riallacciabile al futuro anteriore come tempo promiscuo nel quale l’archeologia si presenta alla rovescia (11). Come sostiene ancora Paolo Virno: “Il futuro anteriore è un ‘tempo’ linguistico, ma anche un modo di esperire, inquietante ed enigmatico [...] L’attesa, per un attimo, si atteggia nel ricordo [...] Tutte le ipotesi alternative contenute nel momento attuale vengono attivate da uno sguardo, per così dire, posteriore […] Allorché le possibilità contrastanti con i ‘fatti’, alle quali si appellano i vinti, siano riconosciute ed apprezzate, occorre intendere il presente come il futuro anteriore di tutto ciò che è avvenuto in precedenza, ossia come una prova di appello per gli sviluppi alternativi che sono stati condannati in primo grado. Se esaminato dall’angolo prospettico del futuro anteriore, l’intero passato esce dalla sua paralisi apparente, di nuovo è agitato dai molteplici e contraddittori decorsi che racchiudeva in sé a ogni passo” (12). La scelta effettuata per il progetto sull’edificio di Daneri a Genova, alla luce di queste considerazioni, è stata quella di lavorare in termini paradossali
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e di cortociruito. Prediligendo una sua interpretazione come manufatto di paesaggio, piuttosto che elemento-oggetto costruito nel paesaggio, l’INACasa diventa un elemento tecnonaturale, una batteria energetica, in grado di rendere la natura circostante (urbana e ‘naturale’) performativa in termini di efficienza e non di forma. L’edificio perde quindi tutti i suoi connotati di luogo dell’abitare, di iper-manufatto, di relazione estetica e storica con il suo contesto e la sua genesi. In questo senso, la mancanza di definizione di un progetto vero e proprio, di un dispositivo o più dispositivi in grado di ‘riattivare’ l’oggetto nella propria definizione originaria, è orientata dalla volontà di scardinarlo dal suo essere icona del passato da rinnovare, da rigenerare o da riabitare. Esso, eliminata la propria valenza strutturale ed architettonica, si presenta esclusivamente come carica da inserire in un nuovo pensiero sulla città. Un pensiero debole, che agisce con dispositivi infrafree (quindi anti urbani per antonomasia) e naturali, ove la natura diventa artificio ed amplifica le proprie capacità adattive, trasformandosi in tecnonatura. In questa direzione, il progetto proposto scardina l’oggetto da ogni sua connotazione storica e spaziale, diventando piuttosto il paradosso di una città che non esiste.
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NOTE 1. Baudrillard J., Quando si toglie tutto non
versione, in «Kainos» n. 4-5, 2004.
resta niente, in «Traverses» n. 11, 1978. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte: “Niente residuo, ciò significa non solo che non c’è più un significante e un significato, un significato dietro il significante, ciò che significa anche che non esiste più, come nell’interpretazione psicoanalitica, un’istanza rimossa sotto un’istanza rimovente, un latente sotto un manifesto, dei processi primari che giocano a rimpiattino con dei processi secondari. Non c’è più un significato, qualunque esso sia, prodotto dal poema, non c’è più un pensiero del sogno, dietro il testo poetico [...] non c’è un’economia libidica più che non ci sia un’economia politica [...] perché l’economico, ovunque sia, si fonda sul resto (soltanto il resto permette la produzione e la riproduzione) – che questo resto sia il non condiviso simbolicamente che rientra nello scambio mercantile e nel circuito d’equivalenza della merce ... che questo resto sia semplicemente un fantasma, cioè ciò che non ha potuto risolversi nello scambio ambivalente e nella morte, che, per questa ragione, si risolve in quel precipitato di valore inconscio individuale, di stock rimosso di scene o di rappresentazioni, che si produce e si riproduce secondo l’incessante coazione a ripetere. Valore mercantile, valore significato, valore rimosso / inconscio – tutto questo è fatto di ciò che resta [...] questo resto ovunque si accumula e alimenta le diverse economie che governano la nostra vita”. 5. Pagani P., Il resto fra integrazione e sov-
6. Baptist G., Cio che che resta, in «Kainos» n. 4-5, 2004. 7. Ibidem. 8. Deleuze G., Logique du Sense, Éditions de Minuit, Parigi, 1969. 9. Ibidem. 10. Marot S., L’art de la mémoire, le territorie et l’architecture, 2010. 11. Crotti S., Verso un'archeologia del futuro urbano, in «Urbanistica» n.88, Agosto 1987. 12. Virno P., Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
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UniversitĂ degli Studi della Basilicata prof. Ettore Vadini arch. Vito Fortini STUDENTI
IMMAGINI
Federica Bonavero
pag. 95 Retro Fit_s. Schermi invisibili
Linda Buondonno
pag. 97 Retro Fit_s. Flussi verdi
Danilo Chiesa
pagg. 102-103 Visione prospettica
Giorgia Console
pagg. 104-105 Visione alternativa
Virginia Cosenza Giulia Mazzieri Johnny Nicolis Chiara Pucci Guido Maurizio Urbani
Ettore Vadini >UNIBAS
INASpETTATE
RELAZIONI
Quando a metà anni '50 il gruppo di professionisti coordinati da Luigi Carlo Daneri e Eugenio Fuselli venne incaricato dall’INA-Casa della progettazione del Quartiere di Forte Quezzi a Genova – una piccola città di case per lavoratori per 4400 abitanti – la sociologia urbana in Italia andava consolidandosi a fatica, dentro e fuori l’Università. La nuova disciplina, che si accreditava come quella necessaria ad analizzare le inedite relazioni uomo-città, ma che per l’Italia del boom economico era più migrante-città, si configurava come campo di studi relativamente specializzato, in quanto derivazione di quella rurale, molto più presente per tradizione nell’accademia italiana. Nonostante tutto la sociologia rurale favorì in Italia l’avvio dell’urbana in un’epoca peraltro tarda se la si pone a confronto con quella del suo sviluppo nei paesi anglosassoni. E i sociologi urbani del nostro paese di quegli anni, avversati da molti architetti e urbanisti ma sostenuti da un lungimirante Adriano Olivetti (1), hanno dovuto far riferimento all’esperienza e all’elaborazione concettuale maturata in altri paesi europei ed in modo particolare negli Stati Uniti con la nota 'scuola di Chicago'. Così in Italia lo sviluppo della sociologia urbana, più in generale la riflessione delle
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scienze sociali sui fenomeni e sui processi urbani, ha seguito un percorso piuttosto difficile: dopo aver pagato un ritardo storico dovuto alla censura della politica culturale del regime fascista, è riuscita arduamente prima a riallacciarsi al dibattito internazionale e poi a definire quadri problematici – che si direbbero 'in continuità' – che hanno messo in luce almeno due innegabili specificità del caso italiano, qui necessarie da ricordare, data la realtà sociale delle città italiane negli anni del 'boom economico' e della 'questione meridionale'. Da una parte quindi l’interessante realtà della civiltà contadina, come Matera, una questione composita che vede straordinariamente impegnata la sociologia (2) “sulla famiglia, sulla comunità, sul gruppo, sulla struttura delle aggregazioni, all’interno di spazi che talora sembrano avvicinarsi più alla dimensione di vita del tipo urbanizzato, che non nel disperso rurale, come spesso avveniva altrove” (3). Dall’altra l’inedita realtà settentrionale neo borghese nelle città capoluogo all’interno del cosiddetto 'triangolo industriale', come Genova, con il problema della socializzazione alle nuove strutture da parte degli immigrati, il problema del permanere in loro un profondo 'legame' con i luoghi d’origine. Se vogliamo la 'Chicago' italiana, dove si registra l’esordio di un certo tipo di analisi sulla città e di un certo tipo di impatto con la realtà sociale immigrata, è Genova dove a metà anni '50 prendono l’avvio i primi studi sui problemi dovuti alle difficili relazioni dei lavoratori migranti alla città. Con l’Inchiesta sugli abituri (4) e Quartiere operaio (5) si inizia in Italia, nelle città industriali, uno studio specifico sul sistema urbano e la vita di gruppo. Genova, come Milano e Torino, costituirono in quegli anni i luoghi prediletti delle scienze sociali per lo studio dei fenomeni di crescita urbana nelle periferie e di socializzazione dei nuovi arrivati. Se a cavallo della metà del 900 era stata la questione contadina a creare le maggiori tensioni sociali in Italia, dalla metà degli anni '50 è la questione urbana a porre i maggiori problemi. Per centrare meglio il problema delle relazioni alla città di quegli anni, occorre qui ricordare brevemente il fenomeno migratorio interno italiano del secondo dopoguerra e la dimensione che assunse quella produzione residenziale di iniziativa pubblica per accoglierlo. Come noto l’esplosione degli spostamenti interregionali, concluso l’evento bellico, fu dovuta ai consistenti trasferimenti della forza lavoro meridionale verso il Nord Italia. I flussi migratori corrisposero cioè in larga misura ai
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trasferimenti delle popolazioni contadine delle regioni a economia prevalentemente agricola (tutte quelle del Mezzogiorno) verso le città del cosiddetto triangolo industriale (Lombardia, Liguria e Piemonte) che fino alla fine degli anni '60 assorbì complessivamente quasi i tre quarti dei circa 4 milioni di immigrati. Questa sorta di diaspora verso le principali aree metropolitane industrializzate, oltre Roma, ha significato un parallelo e consistente spostamento della domanda di alloggi dai luoghi di esodo verso le città di attrazione lavorativa provocando forti tensioni sociali e di mercato. Fatta la premessa, veniamo al caso concreto e specifico di Forte Quezzi a Genova. A Genova, in particolare, il problema della casa nel dopoguerra si pose da un lato come necessità di interventi immediati per la ricostruzione e il recupero degli alloggi danneggiati e dall’altro come definizione di una politica che avviasse un processo di sostenuta produzione edilizia per rispondere alla forte domanda sociale di alloggi da parte degli operai immigrati. Quest’ultima trovò nella Legge Fanfani, il Piano INA-Casa per l’incremento dell’occupazione operaia agevolando la costruzione di case per lavoratori (6), una risposta che fu certamente un modello avanzato di economia sociale, ispirato al New Deal americano, ma in un quadro di necessità interdisciplinari che vide solo in alcuni casi nazionali (7) l’apporto delle scienze sociali in fase progettuale. Così Genova, sempre più città-operaia ma anche città-laboratorio, nonostante alcune carenze strutturali, si vedrà comunque sede di alcuni tra gli esempi più importanti di edilizia residenziale pubblica italiana. I progetti per i quartieri operai, sui quali le migliori firme dell’architettura italiana, trovarono immediatamente spazio dentro la critica di settore: “Negli anni '50 e '60, le fotografie e i disegni dei quartieri INA-Casa riempiono libri, quotidiani e riviste, evidenziando una crescente attenzione per i temi della residenza popolare che supera ampiamente i recinti disciplinari” (8). In particolar modo Forte Quezzi, che per inciso rappresenta il più coraggioso esempio italiano di unità d’abitazione alla maniera lecorbuseriana, si pone da subito all’attenzione della critica nazionale con esponenti divisi tra estimatori (Bruno Zevi) e censuratori (Renato Bonelli). Quella del gruppo di Daneri e Fuselli per il Biscione fu una coraggiosa scelta di campo, diversa rispetto al generale panorama offerto dai grandi insediamenti residenziali pubblici nelle periferie di Roma, Milano o Torino. In sostanza fu una sperimentazione innovativa a tuttotondo, che 'trasgrediva' la tradizione costruttiva dell’INA-Casa, nelle tipologie, nelle tecniche
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costruttive, nei materiali, nelle relazioni e distribuzioni spaziali, nel modo di abitare: la scelta di rompere la continuità spaziale di due lunghi blocchi con due corridoi pubblici coperti – il primo alla quota di ingresso dove erano previsti servizi e attività commerciali e il secondo al quarto piano per il passeggio e il gioco dei bambini – non era e non è solo un raffinato gesto compositivo. Ed anche la previsione di un centro sociale e di una chiesa, quest’ultima realizzata solo quindici anni fa, nonché dei giardini tra un blocco e l’altro lavoravano nella direzione di un nuovo modo di abitare il quartiere popolare. Ma anche a Genova l’ubicazione dei nuovi quartieri INA-Casa avvenne sulle aree più periferiche, in più qui accidentate, con la motivazione dei suoli meno cari. Anzi, spesso l’incidenza di questi sui costi era quasi nulla, visti gli interessi della proprietà fondiaria che cedeva gratuitamente le aree più esterne per alzare la propria rendita lì grazie alle urbanizzazioni pubbliche di 'collegamento' alla città. Così è avvenuto che per lunghi anni, prima della 'saldatura' alla città il più attraverso sanatorie, le operazioni dell’INA-Casa orfane di servizi e lontane dai posti di lavoro , come a Forte Quezzi, si concretizzassero in quartieri 'isolati' dando luogo ad 'appigli' della speculazione fondiaria, a 'focolai' dell’emarginazione delle classi sociali più deboli. Le critiche a Forte Quezzi sono oggi definitivamente smentite dalla realtà di un quartiere vivo che vede proprio nelle interviste agli abitanti (seconde, terze generazioni, e nuovi acquirenti) fatte durante il workshop di progettazione BorderLine il poter cogliere un apprezzamento diretto, senza equivoci, delle qualità architettoniche e urbane e paesaggistiche, dunque dell’abitare, del Biscione. Certamente la realizzazione e la messa in funzione dei servizi previsti dal progetto avrebbero contribuito a rendere più 'accettabile' il quartiere anche agli occhi degli scettici dell’architettura, in modo ignaro esso è stato sovente oggetto di feroci critiche per le condizioni di vita sociali a cui addirittura avrebbe portato il suo coraggioso progetto urbano e architettonico. Congetture verso quelle poche eroiche architetture italiane tuttavia oggi smentite nella sostanza dai residenti, a oltre 50 anni dalla sua realizzazione, dichiaratamente soddisfatti del 'taglio' degli alloggi, della dimensione intima, della qualità ambientale e panoramica in cui si trova il quartiere, ovvero riconoscendo al progetto di Forte Quezzi una rara e sostenibile qualità dell’abitare. Se ancora esistono i problemi, come peraltro in mol-
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ti altri quartieri delle città italiane, sono oggi come sempre imputabili ai servizi, ancora insufficienti, sintomaticamente surrogati da iniziative autogestite degli abitanti, delle associazioni di quartiere, che quasi per una sorta di bisogno biologico tendono autonomamente a dare una rilevanza spaziale a quei fenomeni sociali contemporanei di cui l’aspetto esteriore è solo un dettaglio marginale. Inaspettate relazioni. In altre parole questo significa che oggi acquisita noi una conoscenza più ampia e multifattoriale di una piccola città ex-operaia diventa necessario attribuire a quel modello spaziale una logica e una dinamica interna fatta di nuove inter-relazioni fra ambiente fisico e struttura sociale, non più debole, ma che si dirimono ancora con i servizi. “Infatti, nonostante le aggressioni edilizie ai margini e i servizi mai completati, le sue unità residenziali, così fortemente caratterizzate nel paesaggio, non costituiscono un’enclave periferica [...]” (9).
NOTE 1. Tra le tante cose, Adriano Olivetti ebbe il merito con le Edizioni di Comunità di pubblicare in anteprima in Italia le ricerche e gli studi della scuola di Chicago. 2. Nel 1951 Adriano Olivetti, Vice Presidente dell’UNRRA-CASAS e Presidente dell’INU, forma una commissione interdisciplinare per lo studio della città e dell’agro di Matera. Il Gruppo di studio coordinato da Friedrich G. Friedmann (sociologo e antropologo), era formato Giuseppe Isnardi (per la geografia), Francesco Nitti (storia), Tullio Tentori (etnologia), Eleonora Bracco (paleoetnologia), Federico Gorio e Ludovico Quaroni (urbanistica), Rocco Mazzarone (demografia), Lidia De Rita (psicologia), Giuseppe Orlando (economia) e Rigo Innocenti (assistenza sociale). 3. Guidicini P., Nuovo manuale per le ricerche sociali sul territorio, Franco Angeli, Milano, 1998. 4. Cavalli L., Inchiesta sugli abituri, Inchieste
dell’Ufficio studi sociali e sul lavoro del Comune di Genova, 1957. 5. Cavalli L., Quartiere operaio, Inchieste dell’Ufficio studi sociali e sul lavoro del Comune di Genova, 1958. 6. La legge del 1949 darà il via in Italia alla costituzione di un vasto patrimonio di case a basso costo e a volte di alto livello qualitativo con la costruzione di 400000 alloggi distribuiti nei due settenni del programma. 7. Come per esempio avvenne a Matera per La Martella o più tardi a Terni per il Villaggio Matteotti. 8. Bucci F., Lucchini M., La casa per tutti: la Stadtkrone di Genova. Il Biscione, la lezione di Le Corbusier e il piano Fanfani, in «Casabella» n.793, settembre 2010, pag. 51. 9. Bucci F., Lucchini M., La casa per tutti: la Stadtkrone di Genova. Il Biscione, la lezione di Le Corbusier e il piano Fanfani, in «Casabella» n.793, settembre 2010, pag. 52.
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passerella parco
collegamento verticale
collegamento verticale
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Vito Fortini >UNIBAS
UN NUOVO CICLO DEL MODO DI ABITARE
IL CAMBIAMENTO DEI pROTAGONISTI, IMpLICAZIONI E ASpETTI SOCIALI
La società e l’arte hanno il medesimo destino. Gli uomini hanno bisogno di poter pensare i loro rapporti reciproci. Ognuno ha bisogno di poter pensare il rapporto con gli altri, o perlomeno con alcuni altri, e, per far ciò, di inscrivere questo rapporto in una prospettiva temporale. Il senso sociale (il rapporto) ha bisogno, per svilupparsi, del senso politico (di un pensiero dell'avvenire). In altri termini, il simbolico (il pensiero del rapporto) ha bisogno della finalità (1). (Marc Augè)
Indagando sul significato della radice bauen, costruire, Heidegger afferma: ”Apprendiamo tre cose: 1. costruire è propriamente abitare; 2. l’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra; 3. il costruire come abitare si dispiega nel 'costruire' che coltiva, e coltiva ciò che cresce; e nel 'costruire' che edifica costruzioni. Se consideriamo questi tre punti troviamo un’indicazione e osserviamo questo: che cosa sia, nella sua essenza, il costruire edifici, noi non siamo in grado neanche di domandarlo in modo adeguato, e tanto meno possiamo adeguatamente deciderlo, finché non pensiamo al fatto che ogni costruire è in sé un abitare. Non è che noi abitiamo perché abbiamo costruito; ma costruiamo e abbiamo costruito perché abitiamo,
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cioè perché siamo in quanto siamo gli abitanti (die Wohnenden)" (2). Il filosofo tedesco al terzo punto ci suggerisce una riflessione sulla crescita e sulle modificazioni dell’abitare legate al costruire e al tempo. Ma cosa produce nuove istanze nel modo di abitare se non i cambiamenti della società? E noi, saremo in grado di rispondere alla necessità di abitare diversamente lo spazio domestico, con un nuovo costruire? Nell’arco di cinquant’anni, dall’epoca in cui fu costruito il quartiere di Forte Quezzi, quello che Tafuri definì il più spettacolare complesso residenziale del secondo settennio INA-Casa (3), i paradigmi esistenziali sono mutati. È cambiata la società, il lavoro, l’economia, la cultura, la politica e quelli che potevano essere i bisogni degli abitanti di quel luogo si sono trasformati. All’epoca della realizzazione le città si modificavano su presupposti politici che rispondevano alle necessità indotte da uno sviluppo economico incipiente in una società particolarmente impegnata in questioni di lotta di classe. In quel momento la città, in quanto organizzazione sociale, risultava modellata da altre ragioni: la città 'prodotto del capitale', quella della concentrazione che sollecita il collettivo e la città 'organizzazione spaziale del capitale', che era l’insieme delle singole case che favoriva la dispersione delle famiglie (4). Il progetto di Daneri fu protagonista in una stagione dove, il rapido sviluppo economico che dall’inizio degli anni '50 si protrasse per il decennio successivo, fu caratterizzato da elementi contrastanti. Da una parte, l’Italia realizza una rapida industrializzazione, con lo sviluppo di grandi imprese che diventano il fattore propulsore dell’economia; dall’altra si assiste alla migrazione di un flusso crescente di persone che si spostano dal sud al nord e dalla campagna alla città, provocando la congestione dei centri urbani. ”Possiamo affermare che negli anni '70 l’italiano si è 'sprovincializzato', si è aperto verso una dimensione europea, verso la civiltà industriale” (5). Necessitavano enormi spazi per accogliere la forza lavoro e il chiaro riferimento del progettista fu il piano Obus di Le Corbusier per Algeri, “un progetto unitario a livello urbano, capace di riassorbire in unica 'opera' tutto il complesso rapporto tra tipologia e morfologia” (6). Anche a Genova furono sperimentate dai diversi progettisti intervenuti, soluzioni con nuovi rapporti fra tipo e forma che affermavano la libertà di scelte riservate all'abitazione individuale ma che rimanevano coerenti col progetto urbano. L’impatto dimensionale del complesso è notevole, ma a fronte di questa smisuratezza di scala territoriale, l’architettura degli edifici esprime
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una dimensione domestica quasi da casa singola. Negli edifici più grandi il piano a uso pubblico, solitamente collocato fra il terzo e quarto livello, è in grado di riassettare virtualmente la quota zero dell’edificio, disimpegnando così una serie di sistemi di risalita e dando l’accesso a quattro o sei alloggi. Questa soluzione tipologica, in una comunità fatta di gruppi e sottogruppi di piccole dimensioni, consentiva rapporti e legami sociali simili a quelli che le famiglie di emigrati avevano lasciato nelle campagne o nelle province del sud. De Carlo nel 1964, riferendosi alle concezioni teoriche degli architetti razionalisti, affermava che per la prima volta nella storia della cultura fu introdotto il principio dell’indissolubilità tra architettura e urbanistica, come tipico della condizione socio economica dell’epoca: “Nell'ambito di questo principio hanno assunto il modello della città specializzata, coerentemente con esso, hanno elaborato una metodologia di intervento sulle diverse strutture e infrastrutture urbane diretta a razionalizzarle separatamente per poter conseguire la massima efficienza globale” (7). Un’efficienza perseguita attraverso l’applicazione di apparati tecnico-concettuali come la definizione degli standards e la conseguente ricerca morfologica e tipologica. Genova fu una delle occasioni per verificare l’applicazione di questi principi: in quel momento il modo d’uso dello spazio era radicalmente modificato rispetto al passato e gli elementi che contribuirono maggiormente al cambiamento furono individuati nell'incremento del benessere economico nell'accrescimento della mobilità territoriale e sociale e nella moltiplicazione delle scelte (8). Oggi le condizioni sociali sono cambiate, i protagonisti non sono più gli stessi, la casa non ha più la stessa funzione che aveva prima che si alterassero i rapporti tradizionali tra comunità e spazio. L’individuo sente la necessità di esprimere, in essa, se stesso, la propria personalità, senza condizionamenti sociali e culturali. La casa perde la funzione di status symbol degli anni '70 / '80, e rappresenta la storia di chi vi abita con i ricordi, il gusto e gli strumenti informatici usati anche per lavorare; diventa un importante strumento per raccontare la propria identità individuale e familiare. In questo sistema di relazioni il paradigma informatico che oggi pervade l’esistenza umana, assume grande importanza; la sua influenza per definizione degli spazi dell’abitare è fondamentale se si considera lo spazio dell’abitazione come un’estensione dello spazio / lavoro. "Lo spazio riservato al lavoro ed allo studio, nell'appartamento borghese, è quello del terminale di una scrivania-visore in cui appaiono e scompaiono istan-
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taneamente i dati di una teleinformazione in cui le tre dimensioni dello spazio costruito sono trasferite alle due dimensioni di uno schermo, o meglio di un'interfaccia, che non sostituisce solo il volume della vecchia stanza, con i suoi mobili, le sue mensole, i suoi documenti ed il suo piano di lavoro, ma elimina anche lo spostamento più o meno lontano, del suo occupante. Tale trasmutazione, in cui il nuovo centro di gravità è costituito dall'effettivo contenimento inerziale del nuovo ufficio, punto nodale della nostra società (tecno-burocratica), illustra, se ancora ve ne fosse bisogno, l'attuale nuovo spiegamento 'post-industriale'" (9). Gli abitanti non sono le grandi famiglie dei flussi migratori, ma le giovani coppie, i single, gli anziani. La casa deve solo consentire lo svolgimento di alcune attività ad individui normalmente impegnati altrove. Nel mondo del lavoro una delle condizioni del tempo nel nuovo capitalismo è considerata la flessibilità. Questa sperimenta il tempo 'scollegato' mettendo a rischio la capacità delle persone di trasformare le proprie personalità in narrazioni continuate (10). D’altro canto è già acquisita, nella cultura architettonicourbanistica contemporanea e in quella socio-politica, la volontà di non consumare più suolo e di ridurre al massimo lo spreco delle risorse; da qui la necessità di riqualificare il patrimonio esistente. La radicalità dei fenomeni di mutamento nella società, nelle città e nel pianeta impongono interventi sul patrimonio esistente anche in maniera decisa. ”Il che non vuol dire necessariamente sostituire alle terapie dolci la chirurgia […] ma lavorare per autentici processi di metamorfosi, che non si accontentino delle forme trovate, ma le ripensino in modo radicale e creativo” (11). Anche
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a Genova non potendo conservarsi la stessa struttura relazionale, né l’impianto tipologico / morfologico, diventa necessario rigenerarsi, riadattarsi, rimodellarsi, in una sola parola, riciclarsi. Il ruolo dello spazio pubblico Stabilita l’inadeguatezza delle cellule abitative e la necessità di ripensarle in un nuovo ciclo più coerente e adeguato alla vita sociale contemporanea, la nostra attenzione si sposta sulla dotazione infrastrutturale, di servizi e standards del quartiere, rimasti immutati dall’epoca della sua costruzione. È immediata, per chi sale dalla città, la percezione dell’esiguità dei collegamenti viari e lo diventa ancor più quando si raggiunge Forte Quezzi avendo la percezione diretta della dimensione del quartiere. Daneri si pone con estrema chiarezza e grande consapevolezza critica la questione del problema tra infrastruttura e città: conosce bene i rischi della città specializzata e quindi i fenomeni legati al pendolarismo come quello dei collegamenti tra le aree residenziali e i luoghi di lavoro che solitamente avvenivano in situazioni di estrema congestione. La ricerca dell'autosufficienza nelle strutture residenziali, era un obiettivo prioritario, un caso particolare del più generale tentativo di riorganizzare la città attraverso la massima razionalizzazione di ogni sua parte. “È il tentativo di risolvere il problema della residenza nel luogo in cui si localizza anteponendo le questioni della sua intrinseca organizzazione al problema dei suoi rapporti con la città; partendo dal particolare per risalire ad un assetto complessivo equilibrato, risultato di un assemblaggio di organi intrinsecamente
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bilanciati” (12). Oggi la vita sociale degli abitanti ha acuito ancor più la necessità di un potenziamento delle connessioni infrastrutturali ma anche la valorizzazione di servizi come le aree verdi del quartiere che circondano gli edifici; aree peraltro mai usate ma di grande qualità ambientale e paesaggistica. L’autosufficienza del vivere contemporaneo e la necessità di permettere una fruizione sovralocale della notevole riserva ambientale e paesaggistica impongono connessioni dirette e immediate con la parte bassa della città, con hub di trasporti pubblici in grado di mettere in rete il flusso dei movimenti.
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NOTE 1. Augè M.. Rovine e macerie. Il senso del tempo, Bollati Boringhieri, Gravellona Toce (VB), 2004. pag. 137. 2. Heidegger M., Saggi e discorsi. Mursia, Milano, 1976, pag. 98. 3. Tafuri M.. Storia dell’Architettura italiana, Electa, Torino, 1982. pag. 61. 4. Buratto F., Lelli M.. La città come rapporto sociale, De Donato, Bari, 1975, pag. 24. 5. Bolis M.. Giovani coppie e modi di abitare, Franco Angeli, Milano, 2010, pag. 41. 6. Aymonino C.. Il significato delle città, Marsilio, Venezia, 2000, pag. 100. 7. De Carlo G.. Questioni di architettura e
urbanistica. Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, pag. 45. 8. Ibidem pag. 54. 9. Virilio P.. Lo spazio critico. Dedalo, Bari, 1998, pag. 74. 10. Sennet R.. L'uomo flessibile, Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale. Feltrinelli, Milano, 1999, pag. 28. 11. Bocchi R.. Il futuro delle città fra rigenerazione rammendo innesto e riciclo, in https://www.academia.edu/9174799/ 12. De Carlo G., Questioni di architettura e urbanistica. Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, pagg. 43-44.
"Sapienza" UniversitĂ di Roma prof. Federico De Matteis prof. Luca Reale STUDENTI
Vasiliki Geropanta
Nora Annesi
Juan Lopez Cano
Shadi Awajan
Eleonora Lucantoni
Paolo Macchiavello
Chiara Meucci
Nicola Masotti
Dorotea Ottaviani
Davide Pagiaro
Paola Ricciardi
Cristina Parodi
Michela Romano
Alex Rubatto
Stefano Santoro
Jacopo Scudellari Fabio Stranieri
IMMAGINI pagg. 110-111 Spazi rifiutati + Today's wonder
DOTTORANDI
pagg. 116-117 Terrazze: la tentazione di
Massimo Dicecca
esistere
Federica Fava Valentina Frasghini
Federico De Matteis Luca Reale >UNIROMA1
LIBERE INTERpRETAZIONI DEL pIANO LIBERO TRA FORTE QUEZZI E CORVIALE
possiamo condurvi sulle colline sovrastanti Genova? Il cielo è azzurro, il mare risplende in lontananza e tutto è pace profonda. La città sotto ai nostri piedi brulica di vita, ma non è ancora arrivata a contaminare con la sua indolente fretta i contrafforti montani. Soltanto laggiù una grande opera di contenimento sembra voler sbarrare il paesaggio, quasi a evitare un pericolo metafisico di frane. Ma, a guardare bene, non si tratta di un manufatto di ingegneria: tutt’altro, è una diga abitata, che si annoda sapientemente lungo i contorni del monte, avvolgendone gli speroni e dando al paesaggio un connotato solido. Così il quartiere Forte Quezzi potrebbe apparire agli occhi di un immaginario viaggiatore che approdi sui monti sopra Genova. Un luogo che vive, a suo modo, una condizione felice: l’isolamento degli abitanti viene compensato, almeno in parte, da una posizione paesaggisticamente eccezionale, da una situazione architettonica capace di raccogliere i frutti più maturi dell’esperienza dell’INA-Casa. Rispetto ai successivi piani di zona – dove la gestione dello spazio tra gli edifici diventerà il primo problema (oggi la maggiore risorsa in termini di trasformabilità) – a Forte Quezzi, grazie certo alla condizione orografica, troviamo l’isolamento rispetto alla
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struttura urbana ma anche la compattezza della città. C’è la prossimità, dunque, forse manca un po’ la promiscuità tra le cose, ma non meno di un qualsiasi quartiere residenziale dell’epoca. Questo è quanto il workshop genovese del settembre 2013 ha evidenziato: serve davvero 'rigenerare' Forte Quezzi? Oppure, come a noi pare più plausibile, il quartiere è pronto per crescere nella sua statura urbana, abbandonando per sempre quella condizione di dolorosa marginalità nella quale era stato originariamente concepito, per diventare finalmente centro? Abbiamo visitato Forte Quezzi, parlato con gli abitanti. Ne abbiamo discusso a lungo con i nostri studenti e dottorandi: ma a fronte del degrado evidente di tante altre 'periferie' italiane, alla povertà dello spazio architettonico e sociale, quanto abbiamo trovato in cima ai colli genovesi non era, per dirla con Venturi, poi così male. Forte Quezzi tiene insieme al tempo stesso un’impeccabile resa del disegno alla scala del quartiere, microcosmo autosufficiente in grado di dare identità ad una comunità, con un primo tentativo di salto di scala dalla città al paesaggio. La domesticità dell’abitare collettivo, sempre in bilico tra lo sconcertante provincialismo del dialetto vernacolare e la tendenza alla monumentalizzazione della casa popolare, trova qui una sintesi originale, forse unica. Rileggendo i lavori prodotti dagli studenti in quella settimana emerge un fatto saliente e che sembra accomunarli pressoché tutti: Forte Quezzi può essere di più di quanto non sia oggi. Vi è, annidato fra le pieghe paesaggistiche della diga, un potenziale di spazio che è ancora tutto da sfruttare: risorsa preziosa. Non vogliamo dunque partire da qui per mettere Forte Quezzi al centro? Fra tutti ci colpisce il 'piano libero' del complesso: poiché è a oggi veramente uno spazio 'libero', come in attesa che qualcuno arrivi e ne faccia deflagrare il potenziale. Come se Daneri & co. avessero messo da parte una 'riserva di spazio', un granaio di provviste per un inverno urbano che di certo nei flamboyant anni '60 non si poteva nemmeno immaginare, ma che forse nella visione (a suo modo prudente) della tarda Ricostruzione si intuiva sarebbe tornato, prima o poi, utile. È uno spazio indefinito che non è un collegamento funzionale, non è un’espansione dell’alloggio, non è uno spazio del tutto pubblico. Ma è proprio l’indeterminazione (con la densità elemento essenziale perché una città sia tale, sostiene Saskia Sassen), a conferire un enorme potenziale al quartiere. Sospeso tra l’abitare e altri possibili usi il Biscione offre spazi comuni né occupati, né rifiutati o abbandonati. Semplicemente da inventare. Per chi
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– come noi – viene da Roma e crede ancora che la fine del ponentino sia stata determinata dall’improvvida erezione della diga insicura di Corviale, l’associazione tra 'piani liberi' è immediata e desolante. Il sogno dell’architetto a Corviale non si è avverato: nel 'chilometro lanciato' di Fiorentino, una sorta di Forte Quezzi ortodossamente e ideologicamente rettificato, il piano libero non è mai stato veramente libero. Pensato per diventare la 'strada in quota', luogo del commercio, dello scambio, della libera associazione, i progettisti del Piano di zona n. 61 operarono – forse con colpevole incoscienza, o forse solo per improvvida incapacità – una delle più errate scelte dell’architettura italiana: dare vita ad un attacco a terra separato dalla strada da un vasto fossato, nel quale non nuotano grossi rettili ma solo tristi automobili. Se la strada non è al piano terra, allora si trasferirà al 'piano libero', sembra risuonare un ipotetico pensiero di Fiorentino. Ma di fallimentari esperimenti architettonici se ne erano (già allora) visti tanti, e si sa che spesso le persone non usano gli spazi che gli architetti vorrebbero usassero: a volte quasi per ripicca. Oggi dunque, saltata definitivamente l’idea della street in the sky, a Roma come ai Robin Hoods Gardens, è fondamentale pensare la trasformazione del piede dell’edificio, modificandone completamente l’attacco al suolo. Corviale non ha un marciapiede: Fiorentino immaginava che chi arrivasse a Corviale con l’autobus approdasse direttamente nelle 'piazze' tramite le superscale, da cui poi, salito al piano libero, avrebbe potuto serenamente passeggiare lungo la vera 'strada', in quota e interna all’edificio. Va ora ripensata completamente la galleria al piano terra, che è invivibile e che potrebbe dar risposta ad alcune delle principali urgenze: favorire il più possibile gli attraversamenti trasversali tra il versante urbano e quello paesaggistico del serpentone, garantire la necessaria porosità dell’edificio, attivare con nuove funzioni un fronte strada realmente urbano. Diventato, negli ultimi venti anni, prima simbolo del degrado periferico, poi cavia da esperimento (al limite dell’accanimento terapeutico), Corviale avrebbe bisogno di connessioni ma anche di aria, dovrebbe 'respirare' nel punto dove poggia sul terreno, oggi un doppio livello di parcheggi e cantine. L’aver considerato Corviale non un edificio ma un pezzo di città (ma a sezione costante!), ipotesi corretta e condivisibile, sembra aver innescato in questi anni un effetto boomerang, attivando molte iniziative e interventi al contorno dall’alto e dal basso (PRU, contratti di quartiere, comitati e associazioni), ma di fatto non sfiorando mai il cuore della questione. Si è
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continuato a girare attorno all’edificio, senza avere il coraggio, o il potere, o la volontà di affrontare direttamente il problema. La cosiddetta compartimentazione (o verticalizzazione) di Corviale, più volte invocata dagli abitanti ed oggi (forse) in via di realizzazione, avvicinerebbe, in linea di principio, il serpentone romano al Biscione genovese, il cui piano libero è oggi di fatto uno spazio semi-pubblico, straordinario belvedere su un orizzonte dilatato, raggiungibile solamente dai compressi atri di distribuzione e dai vani scala (privati) degli alloggi. Occupato con abitazioni irregolari fin dall’inizio, il piano libero di Corviale sta subendo al contrario un processo di istituzionalizzazione e perdita di indeterminazione che, avallando la destinazione residenziale, di fatto priva l’edificio della sua 'camera di decompressione', addomesticando, forse con troppa scrupolosità, l’utopia lineare di Fiorentino. A Forte Quezzi il piano libero è uno spazio alternativo al piano terra, ma non lo sostituisce: il piano terra c’è, magari non è un boulevard o una rambla, ma ci si può camminare, si può toccare l’edificio, incontrare persone, comprare le sigarette o il tonno in scatola. A Corviale no: il tonno in scatola lo trovi solo al quarto piano, pertanto devi prendere l’ascensore, separarti dal terreno, arrivare in quota e… e non trovare nulla. Tornando allora alla nostra domanda, e per concludere, come intervenire sul Biscione? Ma soprattutto, intervenire? Perché il progetto non sia superfluo – peggio ancora dannoso – e per non imboccare le strade impervie che conducono al giudizio di valore sui singoli manufatti nel delicato campo del restauro del moderno (contemporaneo?), restano allora due strade, forse di più. Da un lato la possibilità di rilanciare il Biscione con una visione che investa il suo futuro, qualcosa che ne trasformi decisamente il significato e l’immagine, non appoggiandosi semplicemente alla sua gloriosa storia. Dall’altro ci torna alla mente uno scritto in cui Alejandro de la Sota riporta un episodio piuttosto illuminante: un alunno domanda all’architetto Richard Neutra cosa si dovesse fare se in una piazza di un centro storico rovinasse una casa che formava uno dei fronti della piazza stessa. Se fosse più opportuno, nel reintegrare il vuoto, ripetere una copia esatta della casa crollata, à l'identique, o proporre un raffinato pastiche, o ancora un’architettura che usasse un linguaggio schiettamente contemporaneo. Il vecchio professore rispose semplicemente: “Chiamerei un buon architetto”.
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STUFF IT Federica Fava, Juan Lopez Cano, Eleonora Lucantoni, Dorotea Ottaviani
Il lavoro presentato di seguito sviluppa un ragionamento sulle potenzialità dello spazio pubblico offerte dal complesso residenziale di Forte Quezzi. La proposta progettuale elaborata durante le giornate di studio muove dall’osservazione della discrepanza tra il reale stato degli spazi collettivi di Forte Quezzi e i termini utilizzati per definire il tema della ricerca: Spazi Rifiutati. Mentre il concetto di ‘rifiuto’ ricorda immagini di degrado o di abbandono dei luoghi, gli spazi di Forte Quezzi si presentano, al contrario, estremamente curati quanto disabitati. Dall’analisi dello stato complessivo degli edifici, la carenza di attrezzature e l’isolamento di cui soffre l’intero complesso edilizio è piuttosto affiancata da un surplus spaziale, definito in particolare da locali commerciali vacanti al piano terra e dagli spazi terrazzati ai livelli superiori, belvedere ‘dimenticati’ sulla città di Genova. Il ragionamento proposto lavora su questo ‘eccesso’, ribaltandone i significati. La sovrabbondanza di spazio viene quindi interpretata come risorsa disponibile, materia malleabile adatta a trasformazioni veloci attraverso nuovi usi definiti dagli abitanti stessi. Forte Quezzi diventa perciò oggetto immaginifico dove sperimentare soluzioni possibili, effimere, luogo continuamente aperto a nuove definizioni attraverso il progetto temporaneo. Gli edifici residenziali assumono la valenza di contenitori, scatole vuote da riempire secondo necessità e desideri in continuo mutamento. Ridimensionando significati e regole, la nuova visione proposta altera la scala dimensionale e per-
cettiva del complesso residenziale, modificando i rapporti esistenti tra edifici, abitanti e città. Il progetto presenta 'un complesso residenziale à la carte' a tempo determinato – giorno, mese, anno – permanente, un catalogo di scenari quantificati attraverso unità di misura non convenzionali, elaborate in base agli usi possibili che il surplus spaziale consente di ipotizzare. Punto, linea, superficie e volume suggeriscono per associazione nuove possibilità dell’architettura, trasformata in scena fissa, supporto durevole di un paesaggio in continuo rinnovamento. La lunghezza di una pista da corsa, il volume di un’automobile, lo spazio occupato da una persona rappresentano quindi indicazioni verso un modo differente di immaginare lo spazio, suggestioni utili a ritrovare nel contesto contemporaneo il significato di architetture ereditate dalla storia recente delle nostre città.
FORTE QUEZZI 1956-20XX Massimo Dicecca, Vasiliki Geropanta, Chiara Meucci, Stefano Santoro
Il lavoro del nostro gruppo si è sviluppato partendo dalla considerazione iniziale che l'insediamento abitativo di Forte Quezzi, a discapito dei rumors della critica architettonica e delle impostazioni di partenza dello stesso workshop BorderLine, possegga delle innegabili qualità intrinseche per le quali valesse la pena di pensare a un discorso progettuale in positivo piuttosto che a uno che muovesse dai suoi punti critici. Nello specifico, abbiamo ritenuto particolarmente significative le soluzioni strutturali, morfologiche e tipologiche approntate
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per questo complesso di edifici, e da esse abbiamo strutturato un ragionamento preli-
modo nel dimensionamento degli alloggi), andando a formare un unicum inscindibile
minare all'individuazione di alcune strategie di progetto che si costruisse principalmente su un metodo comparativo, attraverso il quale evidenziare, con una selezione di casi studio per forza di cose faziosa, quegli aspetti architettonici che, approfonditi e rielaborati, rappresentassero un potenziale punto di partenza. Abbiamo considerato difatti Forte Quezzi rispetto al panorama di realizzazioni coeve, selezionando alcuni interventi INA-Casa accostabili per dimensione e morfologia, e altri interventi 'classici' sparsi per l'Europa. L'intento è stato quello di sottolineare come il quartiere genovese rappresentasse effettivamente un esempio di architettura in cui i principi della modernità erano stati applicati con successo. Il sistema strutturale prefabbricato, in chiaro contrasto rispetto alle consuete politiche dei cantieri INA-Casa e capace di 'piegarsi' a soluzioni talvolta più raffinate di quelle ottenute con un sistema misto in calcestruzzo e muratura, è stato usato con consapevole maestria, esaltando l'abilità di Daneri nel concepire l'architettura nella sua scala territoriale come in quella del dettaglio. L'aspetto morfologico di edificio-bordo innestato lungo le curve di livello, soglia costruita rispetto alla continua espansione urbana, rivendica la sua adeguatezza a distanza di più di mezzo secolo, oltre ad offrire una promenade architecturale panoramica, modernista ed irripetuta. Strettamente legato alla conformazione tettonica e morfologica del Biscione è il sistema tipologico-distributivo, che ci è sembrato eccezionalmente coeso e solidale con essi (pur manifestando alcune inadeguatezze figlie dei tempi, in particolar
dal quale sono partite le nostre considerazioni progettuali. La proposta progettuale si articola distinguendo una strategia di intervento che riguarda gli spazi interni da una che riguarda gli spazi esterni agli organismi edilizi di Forte Quezzi. Per ognuna delle due strategie individuate sono state poi descritte tre differenti azioni progettuali, prefigurandone il risultato architettonico e spaziale. Per quanto riguarda gli interventi interni si è scelto di lavorare sia sugli spazi liberi o inutilizzati, sia sulle unità abitative che compongono il sistema edilizio. È stato quindi ipotizzato di rifunzionalizzare il piano commerciale, che oggi risulta inutilizzato, attraverso l’inserimento di nuove unità abitative e di caratterizzare le superfici della copertura, del piano libero e del piano commerciale con l’inserimento di vegetazione. Per quanto riguarda gli alloggi, invece, l’azione progettuale prevede un’interruzione della ripetitività dei tagli esistenti con l’obiettivo di ottenere una maggiore flessibilità e differenziazione dell’offerta residenziale. La strategia di intervento esterna lavora, invece, sul tema della crescita dell’organismo edilizio. La prima azione progettuale esterna prevede l’espansione delle singole unità abitative attraverso l’aggiunta di volumi aggettanti sul prospetto nord, mentre le altre due azioni proposte prevedono l’estensione del sistema edilizio in lunghezza e in altezza. Inizialmente la distinzione delle strategie progettuali, prima in interne ed esterne poi in ulteriori sottocategorie, nasceva dall’esigenza di individuare all’interno di un sistema edilizio complesso, come quello di Forte Quezzi, azioni progettuali distinguibili
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l’una dall’altra. Successivamente si è ipotizzata la possibilità di combinare le differenti
di tanti altri luoghi della città, c’è ancora spazio per abitare. Abbiamo scelto di inter-
strategie per prefigurare esiti progettuali articolati che potessero lavorare su tutti gli spazi del complesso genovese.
venire dall’esterno verso Forte Quezzi, e da Forte Quezzi verso l’esterno. Vogliamo che Genova torni a guardare Forte Quezzi e che Forte Quezzi chiami a sé la città come punto di osservazione privilegiato per la sua posizione orografica e per la qualità intrinseca dei grandi piani liberi sospesi verso il territorio. Iter progettuale: 1. individuare un percorso dalla città a Forte Quezzi; 2. scegliere lungo il percorso dei 'punti notevoli', punti adatti per la contemplazione ('contemplare: guardare con assorto e intenso interesse'); 3. creare dei dispositivi per la contemplazione: un cannocchiale, uno specchio, una cornice con seduta, una terrazza. Guardare da vicino, da lontano, in modo diretto, in modo riflesso, in piedi, seduti, dall’alto, dal basso. Contemplare non è solo guardare, è un’attività che coinvolge tutto il corpo; 4. sistemare i dispositivi lungo il percorso in coincidenza con la posizione dei punti notevoli; 5. dotare i piani liberi e le terrazze di Forte Quezzi di un sistema d’illuminazione; 6. creare un codice attraverso l’uso del sistema d’illuminazione. Nel labirinto della città, il percorso è un filo d’Arianna che orienta e guida verso l’oggetto della nostra contemplazione. Quando gli abitanti di Forte Quezzi vogliono, possono diventare, da oggetto, soggetto della contemplazione. Comunicare con la città attraverso il loro codice luminoso. Dire: “Siamo qui. Ora no”. Aprire i piani liberi e le terrazze alla città. Dire: “Vieni. Sali su. Voltati indietro”. Senza nostalgia del passato, e anche senza nostalgia del futuro. "Guarda le meraviglie di oggi”.
TODAY’S WONDER. PICCOLA GUIDA DI GENOVA
ALLE
MERAVIGLIE
Cluadia Bernardini, Valentina Frasghini, Paola Ricciardi, Michela Romano
Genova è una città stretta tra il mare e le montagne. Come una vena si insinua nel territorio. I forti la presidiano dall’alto. Il Quartiere INA-Casa Forte Quezzi è l’avamposto del territorio intatto, a cui si è ancorato con la forza del messaggio di una stagione dell’architettura. Diceva fiducia nel futuro e eroismo. Produzione. Efficienza. Massa. Un’asserzione brutale che paradossalmente non il paesaggio, alle cui curve si adagia come per secoli ha fatto la sapiente antropizzazione delle coste liguri, ma la città ha frainteso, espulso, dimenticato. Oggi Forte Quezzi domina dall’alto una città che gli si ribella con la forza dell’indifferenza. Ai suoi piedi, quel meccanismo che aveva messo in moto la sua costruzione ancora alimenta la crescita della città, anche se con battute d’arresto e in modo disordinato. Produzione. Efficienza. Massa. Ma la fiducia e l’eroismo hanno ceduto il passo alla nostalgia e al dubbio. Forte Quezzi è la cattiva coscienza che riporta in superficie i fallimenti di una stagione dell’architettura. Visibile ovunque, è reso invisibile dall’aura di una fama immeritata. Perché se solo fosse guardato da vicino, si potrebbe scoprire che qui, a differenza
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TERRAZZE
UniversitĂ degli Studi "Gabriele d'Annunzio" di Chieti - Pescara prof. Domenico Potenza prof. Alberto Ulisse STUDENTI
IMMAGINI
Alessandro Bonfiglio
pagg. 122-123 Total Red. ContinuitĂ
Simone Cavallo
pag. 129 Total Red. Inside / Outside
Giulia Cecchi
pagg. 130-131 Total Red. On the edge
Danilo Chiesa Fernando Cocco Alberto Gaglio Giovanna Gaioni Annamaria Gnecco Francesco Martone Massimo Loia Maristella Quinto Valeria Ripamonti
Domenico Potenza >UNICH
L'ABITARE SOCIALE AI TEMpI DELLA GLOBALIZZAZIONE L’attuale panorama architettonico internazionale, del quale la scena europea è espressione sensibilmente distorta, sembra essere attento, soprattutto in questi ultimi anni, alla celebrazione delle grandi trasformazioni urbane operate in particolar modo dalle grandi star dell’architettura globale. Molto spesso si tratta di soluzioni architettoniche di forte impatto comunicativo che concentrano, al proprio interno, il soddisfacimento di quella richiesta di contemporaneità che la città non riesce ad esprimere nel suo complesso. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, e nonostante l’arrembaggio delle architetture griffate, i territori urbani continuano a trasformarsi soprattutto a partire dalla grande pressione imposta dal mercato edilizio, che ha ormai del tutto saturato ogni area vuota di quelle parti di città cosiddette consolidate. Si pensi in particolar modo al boom edilizio che ha preceduto la crisi economica degli ultimi anni (con la complicità delle banche e dei mutui sub-prime) ed a quanto tutto questo abbia influito, in termini negativi, sull’immagine delle nostre città, con particolare riferimento alle condizioni di quello che una volta si chiamava l’abitare. La trasformazione in questi casi è stata di fatto consegnata sostanzialmente alla capacità del mercato e dei costruttori di saper mettere a red-
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dito la gran parte delle proprie potenzialità economiche (con la complicità di molte amministrazioni accondiscendenti). Una trasformazione che ha prodotto esiti di grande impatto, alimentando forme di mutazione talvolta radicali che hanno sostanzialmente contribuito a definire il volto attuale delle città, specialmente quello delle immediate periferie e delle nuove zone di espansione urbana, senza tralasciare le tante aree libere, dismesse, riconvertibili, abbandonate, degradate e / o in attesa di soluzione, nelle zone più prossime al centro. Tuttavia, nonostante il settore delle costruzioni abbia abbondantemente raddoppiato il numero degli alloggi annui realizzati dal 2002 al 2007 (tralasciando il periodo di crisi che proprio a partire da questi anni mostrava i primi segni di insofferenza economica), il ‘problema casa’ non sembra ancora trovare soluzione, riproposto tale e quale ad ogni nuova programmazione politica, sociale ed economica. Una nuova sensibilità sembra comunque prendere corpo in questa direzione, con particolare riferimento a quelle classi sociali che, per ragioni economiche e soprattutto a partire dall’aggravarsi della crisi, sembrano ancora lontane dal dare soluzione al problema dell’alloggio. Ne sono testimonianza alcune interessanti iniziative, dedicate espressamente al tema del ‘social housing’, che hanno trovato terreno fertile di discussione (e purtroppo solo quello) intorno alle nuove forme di sviluppo dei programmi di edilizia sociale quali ad esempio: la mostra al MoMa Delivery house; La casa per tutti alla Triennale di Milano; Madrid in progress - developing social housing esposta in occasione del congresso dell’UIA di Torino; per finire a L’Italia cerca casa (tema proposto da Francesco Garofalo per il padiglione italiano alla Biennale di Venezia). Nonostante tutto, quello dell’abitare sociale continua ad essere un tema marginale (e questo è evidente soprattutto in Italia), anzi potremmo dire emarginato, proprio da quelle trasformazioni che hanno animato le modificazioni urbane dai primi anni del nuovo secolo. Nello stesso tempo, tuttavia, rimane un ambito di ricerca ancora centrale per dare risposta ai modi ed alle forme dell’abitare contemporaneo nell’era della globalizzazione. Quello della ricerca sui temi dell’abitare è stato senza dubbio uno degli ultimi argomenti problematici che hanno animato l’attenzione e l’interesse degli architetti più impegnati in Europa. Una ricerca che, a partire dalle radici della modernità, ha elaborato nei primi anni del '900 sperimentazioni urbane fortemente innovative, che hanno prodotto gli esiti più interessanti proprio negli anni '50-'60 ed in parte nei primi anni '70. Sono, questi
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ultimi, gli anni in cui maggiormente si è sperimentato un nuovo modello dell’abitare, ed in particolare dell’abitare sociale. Ne sono una valida testimonianza i numerosi complessi di edilizia residenziale pubblica realizzati nella più importanti regioni d’Europa, con un significativo contributo offerto proprio dalla cultura architettonica italiana che, in questi stessi anni, ha realizzato gran parte del suo patrimonio edilizio-residenziale pubblico. Un patrimonio di grande qualità che, ancora oggi e nonostante una inesistente programmazione manutentiva, si presenta in condizioni accettabili sotto l’aspetto architettonico seppur sostanzialmente modificato nelle dinamiche sociali iniziali che lo avevano generato. Proprio a partire da queste esperienze, una vera e propria manualistica dell’abitazione sociale (soprattutto in Italia) viene messa a punto in questi anni con un grande contributo di studi e ricerche che ha accompagnato la gran parte delle trasformazioni urbane, dalle grandi città del nord alle più piccole realtà del centro e del sud del Paese. Nella maggior parte degli studi (molti dei quali ancora oggi di una certa attualità) si individua la forza che assume il ruolo dell’abitare, intesa come qualità della condivisione dello spazio del vivere quotidiano, sia pubblico che più propriamente privato. È proprio l’attenzione a comporre la distribuzione di questo spazio dell’'abitare comune' che genera la qualità delle aggregazioni dei moduli abitativi; dall’interno verso l’esterno (e viceversa) il progetto predispone dinamiche relazionali capaci di svelare, poco a poco, il suo funzionamento e le tecniche compositive che lo hanno generato. Questo accade soprattutto nei grandi complessi residenziali nei quali, oltre al soddisfacimento degli standard minimi dell’abitare, c’era la necessità di restituire una dimensione qualificata dell’urbano, intesa come spazi per la socialità, intorno ai quali costruire una nuova identità di quartiere quale parte integrante della città. È questo il caso specifico del grande complesso edilizio del Biscione, come lo chiamano a Genova, progettato da un gruppo di qualificatissimi architetti coordinati dall’altrettanto qualificatissimo Luigi Daneri; ma anche di tanti altri insediamenti residenziali di dimensioni analoghe costruiti in questi stessi anni. Complessi che, proprio in ragione della propria grandezza, si costituivano come vere e proprie parti di città, con la necessità di accogliere servizi ed attrezzature capaci di soddisfare tutte le esigenze di agglomerati così grandi. Un equilibrio indispensabile di residenze, di servizi, di spazi di relazione e di condivisione, di luoghi di rappresentanza
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che, purtroppo, nella maggior parte dei casi non ha funzionato, in nessuno quasi di questi grandi complessi. Non tanto per problemi di natura fisica, spaziale, architettonica o distributiva, quanto per una inesistente azione di mediazione proprio nella qualificazione ed utilizzazione degli spazi collettivi e di quelli destinati ai servizi ed alle attività commerciali e produttive. Alla soddisfazione dei nuovi standard dell’abitare non si è affiancata una parallela attività di coinvolgimento dei residenti nella organizzazione e gestione degli spazi comuni né, tantomeno, una sensibilizzazione per l’utilizzazione degli spazi commerciali e produttivi (anche attraverso una concreta politica di agevolazione economica). Un equilibrio che oggi si è ancora più palesemente alterato, in ragione delle mutazioni sociali e delle trasformazioni, talvolta anomale, delle periferie urbane. A questo si aggiungano sia le scelte politiche che hanno favorito la concentrazione della distribuzione commerciale in aree sempre più specializzate, sia la trasformazione, non di meno sostanziale, delle forme di aggregazione sociale, proprio a partire dai nuclei familiari originariamente insediati (in queste grandi unità abitative) che hanno progressivamente: mutato la loro composizione iniziale; variato i rapporti di relazione con il contesto; modificato il regime di occupazione degli alloggi, riscattando e / o vendendo la proprietà. Nonostante tutto, l’architettura conserva ancora, con palese disinvoltura, una qualità spaziale capace di assorbire in larga misura le profonde modificazioni stratificatesi nel tempo, al netto di quegli spazi originariamente pensati per le relazioni sociali,
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le attività collettive, i servizi e le attrezzature che hanno definitivamente perso (o forse non l’hanno mai avuta) la propria carica aggregativa. Quale ruolo dunque per il progetto di riqualificazione di questi spazi e quali le modalità di intervento per restituire una dignità dell’abitare a questi luoghi ancora oggi in attesa di soluzione? Oggi gli architetti sono quasi del tutto isolati, nella perseveranza ostinata di pensare ad una società specchio dei propri progetti. Hanno perso il contatto con la dimensione reale delle trasformazioni, nella convinzione di progettare edifici capaci di generare (per forma) soluzioni improbabili, anziché affrontare le questioni che sono alla radice dell’abitare umano – come dice Carlo Ratti nel suo saggio su Architettura Open Source – non sono affatto orientati verso una progettazione aperta, dimenticando che la realizzazione dei propri edifici incide meno del due per cento dell’edilizia globale. “L’idea – quindi – non è quella di occupare un po’ di spazio, ma di innescare relazioni e reti sociali, stimolare nuovi schemi e nuove situazioni di movimento urbano all’interno della città. Evento, non forma: ecco cosa l’architetto dovrebbe mettere a disposizione” (Hans Ulrich Obrist in Architettura Open Source, a cura di Carlo Ratti, Einaudi, Torino 2014), in particolare per una azione concretamente significativa di riqualificazione di insediamenti residenziali di questa portata. È questa la strada esplorata dal gruppo degli studenti di Pescara nel tentativo, fattivamente praticato, di ristabilire un dialogo convincente e partecipato tra gli abitanti del quartiere e gli spazi in attesa di esser ‘occupati’.
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Alberto Ulisse >UNICH
DOVE ABITA DANERI
TOTAL RED LA pINZA DEL SIGNOR B.!
- Buongiorno Signora. - Chi siete? - Siamo un gruppo di studenti di Architettura, provenienti da diverse città italiane, e stiamo facendo un workshop qui a Genova. Mentre la Signora tenta di ripetere quel termine straniero utilizzato dallo studente – workshop, dalla pronuncia non ordinaria – nel viso dubbioso prova a sillabare e poi si rivolge ancora al ragazzo: - Studiate architettura e venite qua a fare cosa? Architettura? Qui non c’è architettura. - Signora noi abbiamo come tema lo spazio collettivo del progetto di Daneri. - Chi è questo Daneri? Hanno votato un nuovo politico? Nessuno è venuto a chiederci voti per un Daneri… - No, no Signora. È l’architetto che ha progettato questo complesso residenziale dove anche Lei abita. - Ah… Breve momento di pausa, i due si guardano negli occhi e poi la Signora, ancora con la spesa tra le mani, irrompe interrogando violentemente il ragazzo:
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- …e lui, si! Lui – questo Daneri – dove abita? Quale potrebbe essere il fallimento peggiore se pensare alla qualità del progetto come qualità di forma o di materiale e non come costruzione di uno spazio umano da abitare? Eppure il complesso di Luigi Daneri è uno dei migliori esempi di architettura collettiva in Italia, a Genova. Purtroppo spesso nel tempo questi grandi complessi residenziali hanno subìto – alla verifica nel contemporaneo – due violenze: la prima che molto spesso (quasi sempre) sono state fondate come cattedrali fuori dai centri abitati, la seconda è che alla costruzione della residenza non ha seguìto la realizzazione dei servizi. In alcune realtà urbane si assomma una terza condizione negativa: quella di aver collocato persone in riserva, al gancio, ai domiciliari. E mancano ancora i luoghi di incontro, di aggregazione. Gli spazi pubblici. Gli spazi pubblici non sono solo le piazze: i luoghi, o le stazioni e gli shopping mall: i luoghi dell’atopicità / i non luoghi, ma ancora una volta tornano ad essere tutti quei tessuti urbani residuali che attendono di essere riappropriati d’identità da parte di un vivere collettivo. Sono i conflitti i nuovi materiali che dilatano il lessico per una riscrittura degli spazi della città; non si può procedere nell’annullarli ma, al contrario, bisogna lavorare sui territori di margine come occasioni per il progetto urbano, riconoscendo in essi le debolezze urbane e i caratteri di transitorietà. Gli spazi della città che quotidianamente viviamo ed abitiamo, sono costantemente sottoposti a contraddittorie domande e differenti usi. Sarebbe utopico (ci ricorda Massimo Cacciari) voler superare questo loro aspetto fondativo, visto che sono il riscontro tangibile di quel carattere identitario di una stratificazione urbana molteplice e spontanea, ma occorre registrarle e dare loro forma. I rapporti tra progettista e fruitore spesso non vengono considerati nella definizione di progetti urbani così importanti; è in corso un grande rinnovamento nel modo di progettare le nostre città sull’onda del movimento Open Source e dei nuovi modelli di partecipazione di rete (Carlo Ratti). - Salve ragazzi, potete scendere qui. - Scusi ma il Biscione qual è? - He he ragazzo, ci sei dentro. Era il terzo giorno di workshop (il secondo al Forte Quezzi) e non tutti
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riuscivano ancora ad orientarsi. Come fosse possibile non accorgersi di entrare in una nuova e differente realtà urbana, di abbandonare il centro di Genova, di cominciare a risalire le curve che solcavano la collina in un autobus povero di persone? Forse si era rapiti dallo sguardo che alle spalle osservava la città, un diverso volto di Genova, sul mare. - Ecco lo spazio comune… il ballatoio …il belvedere su Genova… è bellissimo stare qui! Intanto i ragazzi del gruppo coordinato da Potenza / Ulisse cominciavano ad occupare e misurare col corpo e capire lo spazio aperto del ballatoio del complesso di Daneri. Per i tre giorni successivi gli studenti hanno abitato lo spazio; si son relazionati, confrontati e scontrati (perché la vernice poteva rimanere lì sul battiscopa per sempre – sosteneva una anziana signora che spesso passava facendo finta di nulla ma solo per controllare cosa stessero facendo i ragazzi – una macchia come possibile segno arrivato dall’esterno, dalla città a scardinare quell’ordinario spazio del vuoto). Infatti il vuoto tra le cose è stato l’attore non protagonista del lavoro site specific. La seconda giornata è stata molto più difficile della precedente. - Ma cosa dobbiamo considerare qui? Sembra tutto uguale! Scusi professore ma non ci sembra di vedere elementi di discontinuità in cotanta continuità reiterata… Era difficile per loro entrare nello spazio che ordinariamente avrebbero potuto percorrere nelle loro città e cambiare il punto di vista: cominciare ad osservarlo da abitante nomadico ad abitante stanziale. Era difficile trovare regole, eccezioni, leggere ed interpretare l’esistente in maniera diretta 'standoci dentro'. Era indubbiamente un esercizio difficile per tutti, ogni volta che si compiono queste performace urbane i soggetti, gli oggetti, le spazialità i materiali urbani cambiano. - Hei professore! professore! Ragazzi venite – pausa con affanno – guardate qui… c’è un varco! Era una scoperta continua, anche un semplice e banale passaggio verso la collina retrostante poteva divenire eccezione, rivelazione ed occasione relazionale tra le cose. Questa volta non erano teorie e segni tracciati su carta distanti dai luoghi che venivano messi in atto, in questo momento il processo metodologico-mentale era messo in crisi per tutti: si cominciava 'dalla fine' (ma c’è un inizio specifico di scala e di approccio al progetto dello spazio? Soprattutto: c’è una 'fine'? E se la fine fosse lo start?). - Salve, stiamo abitando lo spazio.
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- Ma se noi ci abitiamo da trent’anni e lo percorriamo sempre, tutti i giorni, voi state 'abitando'? - È un modo di appropriazione debita dello spazio per poter svelare occasioni differenti Signora; vede questa parte non è uguale alle altre di tutto il Biscione; e no! C’è un passaggio, un varco verso il retro, verso il parco. - Ragazzo sai quanti di noi non ne conoscono l’esistenza? Qui si passa, si cammina, si percorre e sembra di conoscerlo questo spazio. Ci sembra tutto uguale. - Noi stiamo facendo del vostro spazio di percorso 'un salotto'. - Un salotto? Qui per strada un salotto? Il ragazzo si accorge di aver anticipato i tempi di reazione e specifica alla Signora: - Utilizziamo lo spazio come se fosse un luogo domestico, della propria casa ma in comunione con gli altri… insomma lo abitiamo! Qualcosa era cambiato nell’approccio alla lettura degli spazi (seppur minimi) che compongono la città. I ragazzi cominciavano a toccare con mano questo materiale: lo spazio aperto, vuoto, pubblico, relazionale… che costruisce occasione di incontro o – spesso – può dar esiti opposti (se mal progettato o gestito). - Ma quella è vernice??? Colore?? - Si, vernice, o meglio colore per pareti che uno sponsor di vicino Genova gentilmente ci ha fornito; noi lo utilizziamo come materiale da costruzione, per costruire / definire uno spazio vuoto dentro un vuoto. La signora comincia a non capire; nel frattempo si avvicina una signora anziana che domanda ai due cosa mai fosse tutto quel casino.. una fiera? una manifestazione? - Eh eh eh. No, nessuna fiera o manifestazione, i ragazzi stanno dando vita a questo spazio; ora è tutto rosso. Oggi dobbiamo sempre più saper cogliere quelle tracce latenti di mutazione urbana (in una processualità in divenire) principalmente in quei luoghi che la città oggi ci consegna ed, attraverso azioni di progetto, adattarli ad un nuovo senso metropolitano. Essi sono: le aree dismesse, i lotti liberi in attesa di essere riconfigurati, gli spazi di residualità urbana, la superficie sotto / accanto / tra / sopra le case, i porticati dell’ERP e le corti aperte, i recinti tra le strade e gli edifici bordo-strada, il parco le piccole attività commerciali che soffrono il confronto con i giganti del commercio, il recinto del campo sportivo, l’asilo, il centro sociale – strutture che spesso
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versano in condizioni di degrado urbano e sociale e molte volte sono 'ricovero per altri mercati' – gli scheletri imponenti di edifici mai conclusi, i supermercati dismessi ed abbandonati, le loro aree asfaltate recintate… sono solo alcune delle fertili occasioni urbane che l’architetto / progettista (e lo studente in Architettura) può riconquistare. - Grazie Signor B.! - Di nulla ragazzo; è bello vedervi qui ad animare questo spazio. Spesso questo lungo porticato è utilizzato dai ragazzi solo per andare con gli skate. - Ma non avete mai provato ad aprire spazi che si trovano su questo porticato come possibili luoghi per socializzare, stare insieme, incontrarsi, fare feste (ritrovo per anziani, per guardare le partite in tv insieme, per una festa di compleanno….) una sorta di co-housing per servizi collettivi. All’Università spesso ci fanno immaginare questi spazi di servizio – spazi per la condivisione – all’interno di quartieri residenziali lontani dai centri urbani come questo. - Eh eh eh – sorride amichevolmente il Signor B. – si, infatti …all’Università! Anche io quando andavo all’Università ci dicevano che le cose erano in un determinato modo, poi nella realtà erano molto più distanti. Noi qui siamo
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'una città'. Hai presente quante famiglie qui ci abitano? Hai modo di pensare quante differenti esigenze, modi di pensare e di vedere le cose possono avere tutte le persone che ci abitano? - Grazie per la pinza, finiamo e gliela riconsegno io direttamente. - Mi raccomando ragazzo, ci tengo molto alle mie cose. È la modificazione / costruzione dello spazio che induce ad usarlo in maniera differente; esso modifica, nega e – a volte – facilita le relazioni. E se coinvolgere i residenti (o futuri residenti) nel progetto fosse motivo di accoglimento della res publica? Potrebbe, il progetto urbano, farsi portatore di esigenze per una comunità sociale? Esistono (sicuramente si) meccanismi di riconoscibilità da parte dei residenti? Tutto questo avrebbe la forza di costruire una cultura sociale differente, a partire dal progetto urbano? È la nuova frontiera del progetto o un’esigenza da rinnovare? Sicuramente creare senso di identità (De Carlo, Ratti, …) porterebbe ad un processo di progetto partecipato differente. - Hei Francesco, cos’hai nella borsa? In fondo nella sacca… - Caspita mamma!!! Mi sono dimenticato di riconsegnarla…. - Cosa? A chi? - È la pinza del Signor B.! [Luoghi, fatti e personaggi sono reali]
UniversitĂ degli Studi di Genova prof. Alberto Bertagna prof. Massimiliano Giberti STUDENTI
IMMAGINI
Serena Amatulli
pag. 134 I Love Biscione. Contaminazioni
Alessio Biagi
virali: abitare flessibile
Marco de Nobili
pag. 137 I Love Biscione. Contaminazioni
Elita D’Onghia
virali: contaminare le superfici
Paolo Fagliarone
pagg. 138-139 I Love Biscione. Contaminazio-
Jair Galvan
ni virali: occupare gli spazi
Pietro Iacobucci
pagg. 140-141 I Love Biscione. Contaminazio-
Maura Mantelli
ni virali: occupare gli spazi
Stefania Marino Fabio Pellicciotta Matteo Tressi
Massimiliano Giberti >UNIGE
I LOVE BISCIONE
OCCUpAZIONE pROpRIA DI UNO SpAZIO DIMENTICATO
La tesi del progetto coordinato dall’unità genovese è che sia possibile, attraverso un radicale ripensamento degli usi degli spazi di un complesso residenziale consolidato, proporre una nuova offerta abitativa fatta di interventi a cubatura zero, in cui interessi privati ed esigenze collettive giochino un ruolo equilibrato e complementare, agendo sul tessuto urbano e sul paesaggio circostante con operazioni che siano sostenibili e rispettose dell’ambiente ed allo stesso tempo innovative e trasformative. La strada praticata è quella dell’appropriazione degli spazi non utilizzati nel complesso residenziale, immaginandoli come ambiti privati: una sorta di estensione della propria casa dislocata in altri luoghi. Per amare qualcosa è necessario desiderarne il possesso, poterne effettivamente disporre, influenzandone il destino e, possibilmente, agendo per migliorarne le condizioni. Per amare il Biscione è quindi fondamentale poterlo vivere in ogni sua parte come una somma di micro ambiti privati e, quindi, come un sistema continuo di luoghi pubblici. Obiettivo di I Love Biscione è la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente con un unico programma di rigenerazione, declinato in quattro sistemi di differente scala: interni, facciate, spazi pubblici e spazi rifiutati.
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Il lavoro proposto agli studenti intende esplorare questi territori attraverso progetti sperimentali basati esclusivamente su nuove forme d’uso di ciò che già esiste, capaci di fare interagire competenze e logiche gestionali differenti: dalle soprintendenze alle amministrazioni locali, ai progettisti. Gli studenti sono stati organizzati in cinque unità di lavoro a partire dalla scala 'minima' dell’unità abitativa, riallestita 'customizzandone' gli interni, attraverso dispositivi che trasformino gli spazi in funzione delle nuove esigenze. Due le unità che hanno lavorato su questo tema, differenziando il programma in residenziale e lavorativo. Gli interni sono stati 'svuotati' per essere riallestiti attraverso elementi minimi, mobili e flessibili, che rispondano a diverse esigenze abitative e lavorative, trasformabili nell’arco delle 24 ore, di una stagione o dell’intero arco di una vita. Oltre il perimetro dell’unità, la facciata è terreno fertile per sviluppare soluzioni che coniughino risparmi energetici apprezzabili e linguaggi formali, percettivi-estetici. Coltivare la facciata producendo, ad esempio, uva, è una possibilità resa concreta da semplici tecniche di agricoltura pensile, che favorisce la condivisione di tempo e spazi abitati, innestando anche altre forme di collaborazione: dalla raccolta, alla vinificazione, alla vendita. Il sistema dello spazio pubblico si apre a nuovi livelli di fruizione, valutando la fattibilità di interventi atti a collegare tutti i piani disponibili: strade, portici, tetti. Ridisegnare anche solo bidimensionalmente le superfici dei tre livelli collettivi del Biscione, ovvero i parcheggi, la loggia del IV piano e il tetto, produce un cambiamento di senso in quelli che comunemente vengono considerati ambiti specializzati. È così che il parcheggio diventa un mercato temporaneo, che il tetto si trasforma in parco attrezzato per lo sport e che le logge vengono occupate da attività private ma di portata collettiva, come botteghe, laboratori o, anche, un asilo autogestito. Infine il sistema degli spazi rifiutati ambisce a conquistare quella specificità originalmente programmata ma negata dalle dinamiche di sviluppo del progetto, dall’assimilazione dei residenti, dalle logiche amministrative. Ogni sistema produce uno scenario simulato, per il quale si immagina un possibile programma d’uso. Il risultato è una somma volutamente non controllata di abusi autorizzati, grazie ai quali il complesso di Forte Quezzi viene riconquistato dai suoi abitanti, ricambiandone l’affetto, attraverso la messa a disposizione dei suoi generosi spazi. Il successo di un’operazione come quella proposta da I Love Biscione è intrinsecamente legato alla concreta applicabilità dei progetti derivati dal
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lavoro dei docenti e degli studenti coinvolti nel workshop. Constatiamo il fatto che esiste un vuoto da colmare nel processo progettuale e nei modelli di gestione e amministrazione delle città. Questa consapevolezza implica la necessità di una azione approfondita negli ambiti della critica architettonica, della costruzione, dello sviluppo immobiliare, del marketing territoriale, dell’ambiente: tutti sbocchi concreti per I Love Biscione. In altri termini è inutile profetizzare cambiamenti la cui attivazione presuppone investimenti, azioni politiche, concertazione, compromesso: ciò che I Love Biscione propone sono azioni immediate, generate spontaneamente dai residenti, senza mediazione alcuna. Se il progetto funzionerà come testimonianza del fatto che sia possibile applicare il modello proposto ad una serie di casi concreti, primo tra i quali quello del Quartiere INA-Casa Forte Quezzi di Genova, le conseguenze potranno essere: confronto e collaborazione per la stesura di progetti di architettura realmente realizzabili; divulgazione dei risultati ottenuti attraverso la pubblicazione di libri ed articoli su riviste specializzate; collaborazione con istituzioni pubbliche e private per la stesura di piani di intervento che coniughino esigenze di tutela e promozione del patrimonio architettonico. Il lavoro proposto intende collegare capacità e sensibilità differenziate, proprie delle diverse attitudini dei ricercatori, progettisti, amministratori e conservatori coinvolti, per convogliarle in un’esperienza operativa di alto livello, in grado di valorizzare un quartiere nel suo complesso e quindi una parte di territorio, unendo mondo professionale e accademico.
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4° piano.Rilassiamoci Istruzioni per l’uso: Amache poltroncine cuscini...e un buon libro!! 10 €
piano terra. SI MANGIA!! istruzioni per l’uso: addobbi colorati sedie di legno una grande tavolata... e che ognuno porti il suo piatto!! 20 €
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In facciata. VERTICAL PARK istruzioni per l’uso: abbigliamento da climbing noleggio delle struttre 200 € e tanta dinamicità!!
Nel verde BUONA VISIONE!! istruzioni per l’uso: un proiettore un lenzuolo ben teso 50 € Il tuo film preferito e tanti amici!!
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Finito di stampare nel mese di marzo del 2015 dalla « ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l. » 00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15 per conto della « Aracne editrice int.le S.r.l. » di Roma