Re-It 20
Riciclasi capannoni
Riciclasi capannoni è il ventesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. L’attenzione è posta sui territori improduttivi, in particolare sulle aree coinvolte dalla più recente industrializzazione affidata alle piccole e medie imprese localizzate prevalentemente nel NordEst e nel centro Italia che, per via della crisi economica, hanno interrotto le loro attività. Sono i capannoni proliferanti del capitalismo molecolare a costituire l’oggetto della trattazione, manufatti prevalentemente anonimi che hanno consumato suolo, opere edilizie realizzate in tempi brevi per far fronte a una domanda in alcuni casi reale e in molti altri solo presunta, alimentata dalla speculazione edilizia. Il caso adriatico, in modo specifico i distretti produttivi nelle aree di fondovalle, viene messo a confronto con i distretti produttivi del territorio veneto. I casi studio offrono spunti di riflessione su cui fondare nuove teorie e delineare strategie di progetto finalizzate al riciclo dei capannoni puntando al superamento della zonizzazione industriale, al riequilibrio dell’assetto morfologico del territorio, dunque alla prefigurazione di un nuovo paesaggio.
isbn
RICICLASI CAPANNONI
978-88-548-9076-3
Aracne
euro 28,00
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RICICLASI CAPANNONI
A CURA DI LUIGI COCCIA ALESSANDRO GABBIANELLI
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Progetto grafico di Sara Marini e Vincenza Santangelo Copyright © MMXVI ARACNE editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Quarto Negroni, 15 00072 Ariccia (RM) (06) 93781065 ISBN 978–88–548–9076–3 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. Fotografie: Mariano Andreani: 7; Peppe Maisto: 20, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33; Paolo di Stefano: 36, 112; Alessandro Gabbianelli: 44, 98, Francesca Chioini: 106; Sissi Cesira Roselli: 120, 122, 123, 124, 125, 126, 127, 128, 129, 130, 131, 132, 133, 200; Sabina Favaro: 134; Luigi Coccia: 212. I edizione: Dicembre 2015
PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%
Unità di Ricerca Università IUAV di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino
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Unità di ricerca di CAMERINO Pippo Ciorra Responsabile scientifico Piotr Bronislav Barbarewicz Umberto Cao Luigi Coccia Giovanni Corbellini Marco d’Annuntiis Anna Rita Emili Alessandra Marin Gabriele Mastrigli Lucia Nucci Piero Orlandi Bianca Maria Rinaldi Partecipanti all'unità di ricerca Alessandro Gabbianelli Emanuele Marcotullio Collaboratori Giulia Menzietti Responsabile del Laboratorio Re-cycle
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INDICE
Il declino della Terza Italia Luigi Coccia, Alessandro Gabbianelli
p.11
UNICAM Capannoni nella cittĂ diffusa adriatica Paesaggi sospesi Peppe Maisto
p.21
Il riciclo del banale Marco D'Annuntiis
p.37
Dissoluzione programmata Luigi Coccia
p.45
Metamorfosi degli spazi improduttivi Alessandro Gabbianelli
p.99
Capannoni: caratteristiche tipo-tecnologiche e strategie di riciclo Roberto Ruggiero
p.107
Parchi e reti ambientali per smart territories Massimo Sargolini
p.113
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IUAV Capannoni nella città diffusa veneta Ritratto di un capannone molto stanco Sissi Cesira Roselli
p.121
Urbs in horto: una visione per la città diffusa Paola Viganò
p.135
Una diversa tassonomia della dismissione Cecilia Furlan
p.143
Piccole patrie. Storie dal Nord Est Sara Marini
p.167
Nuovi destini cercasi. La capannopoli veneta Vincenza Santangelo
p.175
Riusare la città della produzione Ezio Micelli
p.201
POSTFAZIONE Architetture perfette Pippo Ciorra
p.213
BIBLIOGRAFIA
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INTRODUZIONE
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IL DECLINO DELLA TERZA ITALIA Luigi Coccia Alessandro Gabbianelli >UNICAM
Distretti industriali e città diffusa sono fenomeni strettamente correlati tra loro. Il primo ha indubbiamente concorso alla manifestazione del secondo; entrambi sono espressione di un principio di organizzazione spaziale, nonché economico-sociale, che opera sul territorio nella sua dimensione estesa. Si può dunque ritenere che, a partire dal secondo dopoguerra, lo sviluppo delle piccole e medie imprese entro specifici ambiti del territorio italiano sia direttamente connesso all’affermazione, nei medesimi ambiti, di un modello insediativo diffuso. Il carattere omogeneo del contesto geografico, generalmente espresso da suoli pianeggianti, e la costruzione di nuove strade a scorrimento veloce hanno favorito l’espansione urbana fatta prevalentemente di capannoni e di case sparse a bassa densità. Il capannone è stato in questi anni il simbolo del capitalismo molecolare1, associato alla diffusione di stabilimenti produttivi operanti nei settori tradizionali dell’abbigliamento, del pellame, del mobilio e delle ceramiche. Lo sviluppo locale e il ruolo dei distretti industriali sono temi centrali nelle ricerche condotte da alcuni economisti italiani negli anni ’70 e ’80; tra questi si distingue Giacomo Becattini che approfondisce l’argomento e pubblica i primi esiti dei suoi studi sulla rivista «Economia e Politica In-
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dustriale»2. Sono quattro i fattori che connotano il distretto industriale. Il primo è la delimitazione territoriale: il distretto nasce e si sviluppa entro aree geografiche circoscritte con specifici caratteri morfologici e antropici che le rendono uniche e quindi distinguibili dalle aree limitrofe. Il secondo fattore è l’agglomerazione in un ambito circoscritto di piccole imprese collegate tra loro. Il terzo è la tendenza ad una suddivisione progressiva del processo produttivo che si organizza in fasi distinte, ciascuna svolta in un impianto specializzato, tutte riconducibili al distretto e alla sua filiera. Il quarto fattore è l’interazione fra sapere contestuale e sapere codificato nel processo produttivo su cui opera il distretto. A tale proposito Becattini ritiene che tutti i processi produttivi reali comportino una mescolanza tra i due saperi e dunque una fertile reciprocità tra tradizione e automazione. Studi economici e sociologici condotti in questi anni si inscrivono in uno scenario post-fordista che descrive la crisi delle politiche macroeconomiche keynesiane, la perdita di peso delle grandi imprese e al contempo lo sviluppo delle imprese minori ritenute, fino agli anni ’70, come una patologia rispetto al fordismo. Becattini propone una rilettura delle teorie elaborate agli inizi del secolo scorso da Marshall, incentrate sul concetto di “labour pooling”, sulla specializzazione delle lavorazioni, sulla interdipendenza tra le imprese che operano all’interno di un determinato contesto locale3. Si comprende dunque il significato dell’espressione “atmosfera industriale” utilizzata da Marshall per restituire il forte legame che si stabilisce tra le imprese appartenenti ad un determinato distretto industriale, e tra le imprese e la comunità locale, fondato sulle relazioni tra gli uomini e sulle loro propensioni al lavoro, nonché sulla predisposizione al risparmio e al rischio, elementi che contraddistinguono la realtà distrettuale. Sono interessanti a tale proposito gli studi condotti dal sociologo Massimo Paci che mette in connessione il fenomeno della microimpresa con quello della famiglia estesa, caratterizzata dalla presenza di legami parentali più ampi di quelli che si stabiliscono tra coniugi e figli, elemento distintivo della realtà italiana ed in particolare di alcuni ambiti regionali. La registrazione di ampie quote di gruppi familiari allargati e comunque la stretta relazione tra nuclei familiari appartenenti allo stesso gruppo avrebbe favorito un rapporto fiduciario a fondamento della costituzione di imprese entro la dimensione distrettuale. Paci ha inoltre riconosciuto nella pratica agricola della mezzadria, sviluppata nelle regioni centrali
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e nord-orientali, un ulteriore fattore che ha concorso alla diffusione di un prototipo di impresa familiare4. Piccole realtà nelle quali prevalgono i rapporti faccia a faccia, reti fiduciarie e vincoli sociali diffusi sono dunque alla base dello sviluppo della piccola e media impresa e di un sistema produttivo radicato ai contesti locali e proiettato sul mercato globale. Arnaldo Bagnasco conia nel 1977 l’espressione "Terza Italia" per indicare alcuni ambiti territoriali investiti da un fermento economico associato alla realtà distrettuale5. I distretti crescono e si sviluppano nel Nord-Est e nel Centro Italia, in particolare lungo la dorsale adriatica, in aree estranee al dualismo classico della economia nazionale. A partire dagli anni ’70, mentre l’agricoltura continua la propria parabola discendente e il triangolo industriale del Nord-Ovest comincia a manifestare i primi segni di cedimento non essendo più in grado da solo di supportare lo sviluppo del Paese, una fitta rete di piccole e medie imprese che, secondo il tradizionale modello di sviluppo avrebbe dovuto essere spazzata via, ha resistito al predominio delle grande impresa industriale e, facendo leva sulle proprie risorse e capacità, si è affermata sul mercato nazionale e internazionale. Alla realtà distrettuale incentrata sull’attivismo delle piccole e medie imprese va associato il concetto di Made in Italy espresso attraverso prodotti di riconosciuta qualità che tendono a veicolare l’immagine del nostro Paese nel mondo. Questo concetto fa riferimento a prodotti manifatturieri, prevalentemente nei settori moda, arredo-casa, alimentari, che utilizzano materie prime selezionate e manifestano una cura nel design, prodotti che nascono da una fertile interazione tra industria e artigianato6. Con un po’ di ritardo, la legislazione italiana recepisce il cambiamento in atto nei settori della produzione industriale e nel 1991, a sostegno delle piccole e medie imprese, viene varata la legge n.317 (art. 36). Seguendo un approccio top-down, la legge attribuisce alle regioni il compito di individuare gli ambiti territoriali destinati alla produzione distrettuale che, sulla base di parametri statistici, avrebbero definito iniziative e risorse per progetti di sviluppo industriale. La legge n.317 viene superata dalla n.140 del 1999 che riconduce i distretti industriali ad una tipologia più generale, quella dei sistemi produttivi locali. Nel 1994, al fine di trasmettere un impulso positivo all’economia in fase di stagnazione, il governo approva la Legge Tremonti a cui fa seguito nel 2001 la Tremonti-bis, entrambe incentrate sulla detassazione degli utili reinvestiti. Inizia la corsa sfrenata alla costruzione del capannone e, pur in assenza di domanda i capannoni,
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intesi come beni strumentali, invadono il territorio divenendo a tutti gli effetti oggetto di mera speculazione edilizia. Il 2008 è ufficialmente l’anno della crisi, anche se i primi segnali si sono avvertiti qualche anno prima. Gli industriali riducono gli investimenti, usano i profitti per ridurre i debiti, tagliano l’occupazione: è il declino della "Terza Italia". La scarsa capacità di innovazione delle imprese italiane associata alla crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro sono alla base del drammatico crollo della produttività italiana. A ciò si aggiunge la delocalizzazione all’estero della produzione e l’entrata sul mercato dei paesi emergenti che, contando su vantaggi di costo legati alla manodopera, sono in grado di offrire prodotti a prezzi più vantaggiosi. La comparazione tra il censimento dell’Industria e dei Servizi redatto dall’ISTAT nel 2011 con quello precedente del 2001 mette in luce il calo della produzione italiana. In particolare l'ISTAT rileva il cambiamento della distribuzione territoriale dei distretti rispetto al 2001. "Nel complesso, tre quarti dei distretti industriali individuati nel 2011 erano già presenti nel 2001, mentre un quarto è un nuovo distretto. La contrazione numerica dei distretti nel decennio - sono 181 nel 2001 contro i 141 del 2011 - e la contemporanea nascita di nuovi distretti industriali si sostanzia in variazioni ben visibili a livello regionale"7. Nel Veneto si sono persi 5 distretti industriali pari al 15,2%, invece nelle Marche la diminuzione conta 4 distretti pari al 17,4%. In termini occupazionali questo significa che nel Veneto gli addetti manifatturieri sono scesi del 3,7% e nelle Marche del 11,8%. Anche i dati sulle imprese artigiane, raccolti dalla CGIA di Mestre, riportano una situazione economica preoccupante. Le osservazioni fatte nel quinquennio 2009-2014 registrano in Veneto una flessione dell'attività pari al 6,9% (-9.934 imprese) e nelle Marche del 7,2% (-3.719 imprese)8. La drammaticità della crisi in corso è stata ulteriormente marcata dalla stampa nazionale e locale che si è soffermata sui numeri delle imprese chiuse, dei fallimenti, degli operai in cassa integrazione, dei disoccupati. Sono ancora i numeri a restituire l’imponente quantità di capannoni inattivi, di volumetria inutilizzata presente sul territorio. Azioni di sensibilizzazione dei cittadini riguardo al surplus di volumetria sono state promosse negli ultimi anni da associazioni no-profit come il report del WWF dal titolo RiutilizziAMO l’Italia, le campagne Disponibile! e SpreKO organizzate da Cittadinanzattiva, i dibattiti sui temi della dismissione e del patrimonio coordinati da Italia Nostra. Riduzione del consumo
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di suolo, risparmio energetico, attenzione agli aspetti ecologici e ambientali sono questioni su cui si dibatte e da cui non si può prescindere nella prefigurazione di scenari rigenerativi dell’esistente. Il declino della "Terza Italia" è impresso nello stato di abbandono dei territori divenuti improduttivi, nella spiazzante desolazione delle aree dei distretti industriali segnate da capannoni vuoti, dismessi o non finiti. Una attenta ricognizione dello stato dei luoghi costituisce un esercizio imprescindibile per qualsiasi azione progettuale finalizzata alla riconversione dei manufatti e più in generale alla rigenerazione delle aree dismesse. Mappare questi territori è cosa difficile: il rapporto tra capannoni attivi e inattivi è in continua evoluzione, molti di essi vivono in modo intermittente, adattano i loro spazi alle mutevoli attività accolte, sono alla incessante ricerca di una nuova immagine capace di riaffermarne la presenza in un contesto agonizzante. Il capannone può essere visto come un tassello di un puzzle complesso, quello della città diffusa, su cui mettere a punto una azione di riciclo che, non esaurendo la sua carica entro i limiti dell’involucro, potrà contaminare l’immediato intorno innescando processi rigenerativi in ambiti spaziali più estesi. Capannone senza padrone è una delle prime iniziative incentrate sulla riconversione degli spazi improduttivi e più in generale delle aree investite dal declino economico del Nord-Est. Promosso dalla Fondazione Francesco Fabbri nell’ambito del Festival delle Città-Imprese, edizione 2011, il workshop di progettazione, avvalendosi del contributo di Aldo Cibic, ha posto al centro dell’attenzione il riuso del capannone e il suo reinserimento nel paesaggio della città infinita veneta. Aldo Bonomi, nell’articolo La metamorfosi del capannone svela il dinamismo del Nord-Est, pubblicato su il «Sole 24 Ore», restituisce il clima di questa esperienza9. Passando dal Nord-Est al Centro Italia, True-topia costituisce un’altra occasione di discussione e confronto sugli effetti del declino economico. In forma di mostra-workshop, True-topia è un evento organizzato nel 2014 ad Ascoli Piceno all’interno della Ricerca PRIN re-cycle. Il tema del riciclo dei capannoni inattivi è stato inscritto in una tematica più generale che riguarda il riciclo dei territori di recente formazione, quindi della città diffusa adriatica, esplorata progettualmente attraverso casi campione10. Superata la degenerazione dei meccanismi finanziari, effetto della legge Tremonti, e la congiuntura economica in crisi, sarà necessario reagire al declino elaborarando nuove politiche di programmazione e gestione delle
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trasformazioni future dei territori investiti dalla diffusione insediativa e dalla proliferante presenza di volumetrie inutilizzate. Sarà utile osservare anche ciò che si muove nell’apparente immobilismo dei territori dell’abbandono, gli esperimenti di riuso degli spazi vuoti da parte delle start up culturali e sociali che, con interventi a basso costo, rianimano questi territori favorendo l’occupazione giovanile. Si dovrà ripartire, come sostiene Giovanni Campagnoli, “da quelle vocazioni artistiche, creative, culturali, artigianali che hanno fatto apprezzare l’Italia nel mondo e che interessano oggi i giovani sempre più capaci di re-interpretarle sulla base di paradigmi contemporanei”11. Si parla dunque di RE-Made in Italy, di un processo virtuoso di riciclo della creatività italiana con ricadute nei diversi settori della produzione materiale e immateriale. In campo architettonico, la rigenerazione dell’esistente dovrà avvalersi di strategie di riciclo sperimentali e innovative, aggiornando il campo dei riferimenti culturali e formali. Attraverso un selezionato repertorio di esempi, si scopre la valenza di una azione di riciclo e la sua applicazione al patrimonio ordinario, si comprende il senso di una azione volta ad attivare un nuovo ciclo di vita all’interno di uno spazio che ha espressamente dato termine al suo primo ciclo vitale. Dalla esaltazione del vuoto della ex fabbrica trasformata da Lina Bo Bardi in centro per il tempo libero del SESC a Pompéia nel 1977 ai più recenti esperimenti di intromissione condotti da O-OFFICE Architects, gruppo di architetti emergenti cinesi, in alcuni opifici dismessi, l’azione di riciclo mostra i suoi effetti nella riconfigurazione delle strutture preesistenti. Agendo su aree liberate dall'industria, l'azione di riciclo innesca anche processi di rinaturalizzazione, come accade nelle sperimentazioni condotte da Michel Desvigne nella Confluence a Lione o nell'Ile Seguin a Parigi che conducono alla definizione di una “natura intermedia”. La cultura del progetto si amplia: indaga i fenomeni in atto risalendo alle tattiche ad essi associate, attinge alle forme dell’arte per mettere a punto strategie innovative. Su tutto ciò la mostra RE-CYCLE, organizzata al MAXXI nel 2011, ha offerto spunti di riflessione ed ha indicato nuove strade da percorre.12. C’è un’ultima questione a monte dei futuri processi di rigenerazione architettonica e urbana, quella che riguarda il fenomeno della decrescita il quale conduce alla contrazione degli insediamenti e dunque alla riduzione della domanda di nuova volumetria edilizia. L’azione di riciclo dei capannoni potrà anche tradursi nella dissoluzione programmata e nella rina-
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turalizzazione delle aree industriali. Dopo la stagione della bottega, del capannone, dei distretti, si giunge alla stagione in cui il territorio diventa fonte di valore nella sua dimensione di bene comune da rigenerare. Sulla demolizione di sei capannoni industriali, pari a 35.000 metri quadri, si fonda il progetto Per la Bellezza promosso nel 2014 dall’imprenditore Bruno Cucinelli nel territorio umbro che sarà finanziato dalla sua fondazione. Un parco dell’Industria, un parco dell’oratorio laico e un parco agrario saranno realizzati nell’area liberata dai capannoni, ai piedi dell’antico borgo di Solomeo. In conclusione è interessante riportare ciò che è accaduto nel 2015 a Reggio Emilia: per la prima volta dal dopoguerra una città italiana ha deciso di riconvertire ad uso agricolo vaste aree del suo territorio destinato a case e fabbriche. Attraverso una delibera di giunta, una serie di aree classificate dal piano regolatore come edificabili, rimaste da anni inutilizzate, sono state riclassificate ad uso rurale. Forse il futuro dell’economia italiana si fonda sul ritorno all’agricoltura.
Note 1. Bonomi, A., Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino, 1997. 2. Becattini, G., Dal settore industriale al distretto industriale. Alcune considerazioni sull'unità d'indagine dell'economia industriale, in «Economia e Politica Industriale», n. 1, 1979. 3. Becattini, G., Invito a una rilettura di Marshall, ISEDI, Milano, 1975. 4. Paci, M. (a cura di), Famiglia e mercato del lavoro in un'economia periferica, Franco Angeli, Milano, 1979. 5. Bagnasco, A., Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Il Mulino, Bologna, 1977. 6. Forti, M., Il Made in Italy, Il Mulino, Bologna, 1998. 7. Direzione Centrale delle Rilevazioni Censuarie e Registri Statistici (a cura di), 9° Censimento dell'industria e dei servizi e Censimento delle istituzioni non profit: I distretti industriali 2011, Istituto nazionale di statistica, 2015, pp. 28-31. 8. Vedi il documento della CGIA di Mestre: Botteghe artigiane in via di estinzione: la crisi ha spazzato via 94.000 attività (http://www.cgiamestre.com/2015/02/botteghe-artigiane-in-viadi-estinzione-la-crisi-ha-spazzato-via-94-000-attivita/). 9. Bonomi, A., La metamorfosi del capannone svela il dinamismo del Nord-Est, in «Il Sole 24 Ore», 8 maggio 2011. 10. Menzietti, G. (a cura di), True-topia. Città adriatica riciclasi, Aracne, Roma, 2014. 11. Campagnoli G., Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a strart-up culturali e sociali, Gruppo 24 Ore, Milano, 2014. 12. Ciorra, P., Marini, S. (a cura di), RE-CYCLE, Electa, Milano, 2011.
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UNICAM Capannoni nella cittĂ diffusa adriatica
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PAESAGGI SOSPESI Peppe Maisto
Percorro la valle. Guardo sapendo di voler restituire la sospensione dei luoghi attraversati. Una sospensione di attività e allo stesso tempo una sospensione di senso. Utilizzo due "misure". Quella dell'assenza. Del vuoto. Dell'attesa. E quella del suolo. Del primo piano vuoto. Delle nature differenti. Il paesaggio dell'industria e dell'agricoltura. Paesaggi che si insinuano. Si alternano. Si sostituiscono vicendevolmente nel tempo e nello spazio. Mi muovo sul limite dei due paesaggi. Dal bordo delle aree posso guardare lontano. Le forme del territorio sono lo sfondo. Frammenti di campagna superano le barriere. Nei recinti dell'industria la campagna si organizza con nuove possibilità. In primo piano è il suolo. È la misura del territorio e dell'edificato. La sua prospettiva segna la linea d'orizzonte al centro di ogni fotografia. L'inquadratura orizzontale presuppone una visione dinamica degli spazi. Spazi che divengono macchine di visione. Che provo a vedere come luoghi di nuove relazioni. La natura spontanea, pioniera, rompe la compattezza dell'asfalto. Si insinua nelle fratture del cemento.
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VALLE DEL TRONTO
ASCOLI PICENO
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CASTAGNETI
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CAMPOLUNGO-MALTIGNANO-SANT'EGIDIO
MARINO
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10000 mq Superficie coperta capannoni utilizzati 1.394.100 mq Superficie coperta capannoni sottoutilizzati 584.000 mq Superficie coperta capannoni inutilizzati 1.285.400 mq
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ANCARANO-CASTORANO
RANO
COLLI DEL TRONTO-SPINETOLI
CONTROGUERRA-MONSAMPOLO
MONTEPRANDONE COLONNELLA CENTOBUCHI
PORTO D'ASCOLI
Ricognizione della Valle del Tronto. Tesi di laurea di Alessia Mogliani e Dario Traini, 2015. Relatore: prof. Luigi Coccia, correlatore: arch. Maria Teresa Granato. Fonti: AutoritĂ di bacino interregionale del fiume Tronto; Provincia Ascoli Piceno, Ufficio Urbanistica; Piceno Consind, ex nucleo industriale; indagine conoscitiva condotta da Sandra Di Berardino e Roberto Grascelli per la tesi di laurea Recycle by Recycle, relatore: prof. Marco D'Annuntiis.
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IL RICICLO DEL BANALE Marco D'Annuntiis >UNICAM
Il sistema produttivo della città adriatica riflette plasticamente la crisi generale che ha interessato l’Italia negli ultimi anni, resa evidente dalla chiusura di migliaia di piccole e medie imprese. Gli inquietanti risultati delle analisi socio-economiche trovano infatti un’inequivocabile e concreta conferma anche negli esiti fisici dei recenti processi di trasformazione territoriale, che qui hanno avuto come risultato un’anomala sovraproduzione di edifici, in gran parte capannoni, spesso mai acquistati e mai usati. Ai problemi di genere - legati al mercato del lavoro, alla competitività esterna nei settori maturi a basso costo del lavoro, all’obsolescenza ed al ridimensionamento della base industriale a cui corrispondono una sostanziale difficoltà all’innovazione e allo sviluppo di settori terziari avanzati - si sovrappongono in questi territori le complicazioni derivanti dalla smodata accumulazione di centinaia e centinaia di oggetti edilizi, di fronte ai quali risulta vano qualsiasi tentativo di sminuirne, riducendoli, gli effetti negativi. Le indagini condotte nel corso degli ultimi anni da alcuni componenti dell’unità di ricerca di Ascoli Piceno hanno evidenziato che nelle principali valli del medio adriatico esistono oltre tre milioni di metri quadrati
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di capannoni inutilizzati, non solo dismessi, ma in gran parte realizzati e mai utilizzati. Dati che raccontano di un immenso patrimonio di beni “immobili” - in quanto tali non trasportabili in altri mercati per incontrare una qualsiasi domanda – generalmente esclusi dall’alta considerazione culturale in quanto oggetti edilizi inerti, banali per localizzazione e forma, senza mai alcuna memoria da alimentare o cancellare, spesso privi di tracce di significati e relazioni precedenti. I capannoni, tuttavia, negli ultimi decenni hanno costituito uno dei materiali principali che hanno alimentato ed informato l’urbanizzazione diffusa, contribuendo a trasformare profondamente i caratteri del paesaggio italiano ed in particolare delle valli fluviali che costituiscono le “costole” del sistema adriatico. Spazi di lavoro realizzati spesso in autopromozione che, nel passaggio dalla domesticità delle prime realizzazioni all’utilizzo della prefabbricazione generalizzata, hanno visto accrescere il proprio ruolo nella progressiva omologazione dei paesaggi vallivi nel segno della produzione. Una caratterizzazione che ha subito un’importante accelerazione dall’inizio degli anni Novanta su impulso di diversi provvedimenti legislativi, nazionali e regionali, di detassazione degli utili delle imprese, qualora investiti nell’acquisto di beni strumentali alle attività1, e di specifici contributi finanziari alle PMI2 per la realizzazione di sedi proprie. Queste disposizioni, infatti, hanno generato una nuova e perversa forma di accantonamento delle risorse, accuratamente “depositate” dalle piccole e medie imprese in anonimi capannoni, che ha prodotto un accumulo per moltiplicazione di elementi banali, determinando la saturazione di quasi tutti i fondovalle. Gli spazi della produzione così connotati, tuttavia, hanno assunto nuovi livelli di problematicità nel momento in cui, a causa della crisi di sistema, hanno ricevuto sempre minori investimenti per la manutenzione o sono stati abbandonati, finendo nel degrado. Per comprendere la dimensione del fenomeno può essere utile considerare alcuni dati che emergono dalle indagini condotte sullo stato di attuazione degli insediamenti produttivi previsti dagli strumenti di pianificazione in alcuni ambiti campione, ad esempio: le Valli del Tordino e del Tronto. Sulla base delle caratteristiche localizzative e insediative, gli ambiti di interesse sono stati suddivisi in sub-ambiti per ognuno dei quali sono state determinate le superfici territoriali complessivamente destinate ad insediamenti produttivi; le superfici fondiarie interessate dall’e-
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dificazione privata, suddivise in aree insediate o da insediarsi; ed infine, le aree già insediate sono state oggetto di una specifica considerazione per verificare se in attività o inutilizzate (dismesse o mai utilizzate). I risultati della ricognizione hanno fornito dati estremamente interessanti per una riconsiderazione delle strategie localizzative ed insediative delle attività produttive. In primo luogo nella valle del Tordino si è rilevato che su una superficie territoriale a destinazione produttiva di oltre 687 ettari, il 32% delle superfici fondiarie (pari a 492 ettari) non sono insediate, mentre il 21% delle aree già insediate sono inattive e rappresentano oltre il 45% delle aree a destinazione produttiva non ancora utilizzate. Nella valle del Tronto, invece, su oltre 3,2 milioni di metriquadrati di superfici coperte a capannoni, ben 1,28 milioni sono inattive (pari quasi al 40% del totale) e 584.000 sottoutilizzate. Dati che nel loro complesso non possono che revocare in dubbio la razionalità stessa delle pianificazioni vigenti e l’opportunità di ulteriori nuove previsioni insediative. Problematicità degli insediamenti industriali La crescita diffusa e disarticolata delle aree industriali diventa oggi problematica per la dimensione del fenomeno, per la qualità dei manufatti costruiti e per la criticità del loro rapporto con gli ambiti contigui. Peraltro, la possibilità di cancellare la presenza degli insediamenti inattivi mediante ipotesi generalizzate di ri-naturalizzazione o ripristino dell’uso agricolo, risulterebbe difficilmente praticabile per i costi da affrontare e per il loro livello di compromissione dei terreni. Appare evidente, quindi, che il problema del surplus edilizio, esploso dal cortocircuito tra degenerazione dei meccanismi finanziari e congiuntura economica di crisi, per la sua rilevanza non può che condizionare tanto le politiche di programmazione e gestione delle trasformazioni territoriali future, quanto le strategie di intervento alla scala urbana ed architettonica. Segnandole, si auspica, nel senso di una maggiore propensione al “riciclo” di beni e risorse esistenti ma inutilizzati, a partire ovviamente dal suolo già ampiamente e spesso insensatamente consumato. Si tratta perciò di ragionare in almeno due direzioni concordi, che da un lato tendano ad un modello di supporto alla produzione diverso dai precedenti, capace finalmente di seguire i percorsi di innovazione emergenti dall’economia post-distrettuale caratterizzati da un aumento di complessità interna degli spazi della produzione e da un maggiore qualità
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degli insediamenti; dall’altro ad un utilizzo più accorto delle risorse presenti nella definizione di programmi di investimenti pubblici e privati nei diversi settori. Nuove esigenze, risposte note La trasformazione dei luoghi di lavoro ed i cambiamenti territoriali indotti, dettati dal mutamento del sistema economico e dalla riorganizzazione di quello produttivo, richiedono proposte basate su parametri e modi radicalmente nuovi. Paradigmi progettuali innovativi emergono, a ben vedere, dagli stessi mutamenti in corso e configurano i nuovi spazi del lavoro non più come semplice accostamento di capannoni, ma come vere e proprie centralità dotate di servizi, centri studi e laboratori di ricerca, spazi per la socialità e la fruizione del paesaggio. In tal senso, due questioni appaiono improcrastinabili per avviare un virtuoso processo di “ibridazione” tra diverse realtà funzionali ed orientare le trasformazioni del territorio attraverso nuovi paradigmi di sostenibilità: la prima, di carattere generale, riguarda la elaborazione di strumenti normativi e progettuali tendenti a garantire una maggiore oculatezza nell’uso delle risorse ambientali e del patrimonio edilizio esistente; la seconda, specificatamente rivolta a perseguire una maggiore stabilità del sistema produttivo, riguarda la necessità di raggiungere un’adeguata sostenibilità ambientale nei processi di approvvigionamento e produzione, e di creare le precondizioni utili ad una maggiore competitività del sistema attraverso l’innovazione tecnologica. La necessità di un aggiornamento del quadro di riferimento normativo, mediante l’introduzione di modalità di controllo e valutazione dello stato di attuazione delle previsioni vigenti a supporto di eventuali decisioni su nuove esigenze di espansione degli insediamenti produttivi, presuppone azioni preliminari utili alla determinazione dell’effettivo fabbisogno di aree edificabili sulla base delle risorse già in campo, non solo in termini di suolo ma anche in termini di patrimonio edilizio inutilizzato. Si tratta tutto sommato di attenzioni insite in una buona pratica della pianificazione territoriale, ma che (evidentemente) occorre riaffermare in modo perentorio. Accanto a ciò, inoltre, proprio per agevolare la re-immissione in circolo del patrimonio edilizio sospeso, appare essenziale sviluppare nelle sedi opportune un’articolata politica di incentivi e defiscalizzazioni ed una revisione della disciplina fallimentare, orientate questa volta a
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favorire e rendere legalmente praticabile il recupero diffuso dei capannoni esistenti ed il riuso dei lotti produttivi urbanizzati, prim’ancora di prevederne di nuovi. Anche per quanto attiene il secondo aspetto, relativo alla sostenibilità degli insediamenti produttivi, occorre riaffermare il ruolo dell’intervento pubblico nella re-infrastrutturazione delle aree produttive esistenti, selezionando quelle di maggior appetibilità, accrescendone la qualità complessiva e promuovendone l’ibridazione funzionale. In questo caso, il pensiero non può che correre alle APEA 3 (Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate), introdotte dall’istituzione della normativa in materia di qualificazione ambientale delle aree produttive con il decreto 112/98, che suggeriscono approcci diversi e innovativi alla pianificazione del territorio e alla gestione imprenditoriale e che tendono a trasformare in senso ecologicamente sostenibile le cosiddette grey-areas4. Le APEA rappresentano infatti un valido strumento di valorizzazione economicoambientale del territorio ed un’operazione strategica per la crescita della competitività del sistema produttivo. Assumendo le “linee guida” definite in altri contesti per l’individuazione, la progettazione e la gestione delle APEA, gli obiettivi che si pongono in primo piano riguardano: lo smaltimento e recupero dei rifiuti; la riduzione delle varie forme di inquinamento; la riduzione del consumo di energia fossile avvalendosi di energie rinnovabili; la salubrità dei luoghi di lavoro e l’implementazione dell’accesso ai luoghi di lavoro attraverso convenzioni con il trasporto pubblico ed il car sharing. Un’adesione operativa ai principi delle APEA permetterebbe di mutare l’attuale considerazione delle aree industriali, generalmente negativa, in luoghi di elevata qualità architettonica ed eco-compatibilità. Non più aree marginali e slegate dal contesto urbano, quindi, ma vere e proprie risorse per elevare la qualità complessiva degli insediamenti. Aree generatrici di investimenti ed occupazione, ma anche spazi da coinvolgere opportunamente nelle dinamiche urbane. Non a caso, infatti, recenti esperienze hanno ulteriormente sviluppato questi concetti anche in senso sociale introducendo nell’area produttiva servizi di tipo collettivo - come quelli centralizzati - verso un nuovo modello di APSEA, cioè un'area produttiva attrezzata ecologicamente e socialmente. I processi delineati presentano tuttavia indubbie difficoltà di gestione sia economica, per le note difficoltà del settore creditizio; sia giuridica
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e normativa, legata ai diritti di proprietà dei suoli e dei manufatti – che rendono opportuna la costruzione di un percorso condiviso tra l’’amministrazione pubblica, portatori di interessi e cittadini. Strategie di programma per le forme del riciclo La dimensione quantitativa degli insediamenti produttivi inutilizzati, come peraltro anche di quelli residenziali, ha assunto nei territori costieri del medio-adriatico proporzioni tali da rendere inefficace qualsiasi ipotesi di una gestione del fenomeno attraverso strumenti e modalità abituali. D’altro canto, anche le esperienze di riciclo più riconosciute ed accattivanti, ma contemporaneamente straordinarie, con difficoltà potrebbero incontrare il medesimo successo in contesti così “quodidiani” e, soprattutto, costituirsi come riferimento appropriato per gli innumerevoli casi di cui qui si tratta. Quanti Palais de Tokio, quanti Eataly, quanti musei o centri espositivi potrebbero credibilmente essere programmati in questi territori? Forse diversi, anche se non così “epici”, ma comunque in un numero insufficiente a risolvere “di per sé” il problema costituito dalle centinaia e centinaia di capannoni inutilizzati e per lo più sparsi in placche insediative che solidificano tessiture rurali. Al contrario, o meglio: parallelamente, per essere credibili di fronte alla enormità del problema, i discorsi sulla forma devono potersi radicare nelle esigenze specifiche dei territori e delle comunità che li abitano; ricercare nelle innumerevoli pieghe del reale, anziché rivolgersi solo ed esclusivamente al proprio unico ombelico, gli ingredienti necessari ad elaborare proposte di senso; accordare le proprie legittime aspirazioni a strategie di programma capaci di virtualizzare il rapporto tra le risorse disponibili, sempre più scarse, e la molteplicità delle questioni in campo, sempre più elevate. Elaborazioni che tengano in debito conto, in primo luogo, l’urgenza di arrestare il declino del sistema produttivo attraverso azioni per l’innovazione ed il potenziamento dei servizi alle imprese la formazione e la ricerca, coerenti con le esigenze del sistema produttivo; in secondo luogo, la necessità di una integrazione e valorizzazione delle filiere produttive, con particolare riferimento a quelle artigianali di eccellenza e delle produzioni agricole di qualità (distretti agro-alimentari di qualità, marchi territoriali, ecc.); infine, l’opportunità di legare i destini dei capannoni alla soluzione di questioni incombenti nella vita delle comunità, legate spesso alla dotazione di spazi per servizi ed attrezzature
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urbane. In questa direzione, un dibattito decennale sull’unificazione delle strutture ospedaliere provinciali in un unico ospedale di vallata o la programmazione di nuovi poli scolastici, palestre o strutture sportive; oppure l’improcrastinabile questione dei distretti energetici, con il corollario delle conflittualità derivanti dalla localizzazione delle attrezzature di stoccaggio e valorizzazione dei rifiuti o delle centrali a biomassa, sono solo alcune delle problematiche ordinariamente riscontrabili che possono costituire occasioni per elaborare strategie di intervento condivise, credibili e reiterabili, per il riciclo di “banali” capannoni quale alternativa ad un ulteriore consumo di suolo; oltre che offrire, a chi è disposto a coglierle, opportunità e temi di sperimentazione formale.
Note 1. Ci si riferisce alla L. 488/92 ed al Decreto di Incentivi del Ministero dello Sviluppo Economico (23/07/2009), nonché ai due decreti legislativi D.Lgs. 357/1994 e D.Lgs. 383/2001, promossi dall’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti. 2. Vedasi in Abruzzo la Legge Regionale 16/2002 (c.d. Legge "capannoni" o Legge Dominici) 3. Le APEA sono state introdotte, a livello nazionale, dall’art. 26 del decreto legislativo n. 112 del 1998, noto come decreto Bassanini, il quale conferisce alle Regioni il compito di emanare proprie leggi per regolamentare le APEA e disciplinare “altresì le forme di gestione unitaria delle infrastrutture e dei servizi delle aree ecologicamente attrezzate da parte di soggetti pubblici o privati”. 4. Il primo tentativo di dare una forma teorica e pratica alla qualificazione ambientale degli insediamenti produttivi, risale alla fine degli anni ’80 ad opera di Frosch R. e Gallopoulos N. E., con la nascita dell’"Ecologia Industriale". In quegli anni, nel nord Europa e in Giappone si sperimentano i primi Eco-industrial Parks, con l’obiettivo di passare da un sistema di produzione lineare (materie prime processi di lavorazione rifiuti) ad un sistema a circuito chiuso in cui lo scarto non rappresenta più un materiale inutilizzabile, ma un prodotto intermedio e come tale da immettersi in un nuovo ciclo produttivo.
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DISSOLUZIONE PROGRAMMATA Luigi Coccia >UNICAM
Sono territori abbandonati quelli che si dispiegano lungo le principali infrastrutture viarie su cui hanno preso forma gli insediamenti urbani diffusi di recente formazione, contrassegnati dalla smisurata presenza di volumetria edilizia inutilizzata. Investita dalla crisi economica che attanaglia da qualche anno il nostro Paese, la città adriatica si offre ancora una volta come caso studio emblematico, come laboratorio sperimentale entro il quale mettere a punto programmi e strategie innovativi, utili ad indagare la realtà contemporanea attraverso lo strumento del progetto di architettura. Dismissione Capannoni dismessi, capannoni sottoutilizzati, capannoni ultimati ma mai occupati, capannoni non finiti sono gli elementi che contraddistinguono le aree improduttive nel territorio medio-adriatico. Il capannone, fulcro delle attività di piccole e medie imprese che nell’arco di un ventennio hanno dato un forte impulso all’economia italiana, è divenuto uno spazio vuoto, il segnale più evidente della crisi in atto. Lo stato di abbandono non investe solamente i capannoni, opere edilizie che, come direbbe Daniele
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del Giudice, “non hanno avuto tempo di accumulare tempo”1, ma anche lo spazio aperto espresso da aree di stoccaggio deserte, parcheggi vuoti, piazzali desolati, strade trasformate in discariche abusive. La natura sta progressivamente reimpossessandosi di questi luoghi; la terra, occultata da manti di asfalto o di cemento, riemerge dalle fratture di assestamento dei getti divenendo il supporto di una vegetazione spontanea. Tutto ciò concorre a descrivere la mutazione in atto: la trasformazione di un paesaggio della produzione, imperniato sulla fertile integrazione di imprese organizzate in distretti, in un dilagante campo di rovine. A distanza di un trentennio, il tema della dismissione dei luoghi del lavoro rinnova la sua attualità nel dibattito urbanistico e architettonico. Nel 1990 la rivista «Rassegna» dedica il n. 42 ai territori abbandonati2, alle aree dismesse, questione che a partire dagli anni ’80 si afferma come cruciale argomento di discussione e confronto a scala internazionale. L’innovazione tecnologica introdotta nei settori della produzione determina la progressiva chiusura di numerosi stabilimenti industriali sorti nell’arco di un secolo ai margini dei principali centri abitati, trasformando così queste aree nevralgiche in territori abbandonati. Gasometri, torri di estrazione, serbatoi, ciminiere, silos, altoforni, magazzini sono solo alcuni degli elementi che concorrono a definire l’architettura degli impianti produttivi dismessi, oggetto di interessanti campagne fotografiche3, una varietà di nomi associati ad un ricco campionario di forme. Tra le due condizioni di abbandono sopra richiamate c’è però una profonda differenza dovuta alla localizzazione delle aree investite dal fenomeno della dismissione e alla consistenza del patrimonio edilizio interessato, una differenza ulteriormente rafforzata dalla congiuntura economica che contraddistingue i due diversi momenti storici in cui le vicende si consumano. Delimitate e periferiche rispetto ai centri storici, le fabbriche impiantate agli inizi del secolo scorso hanno svolto il ruolo di elementi primari nella costruzione della città operaia e, a seguito della dismissione, i loro siti sono divenuti strategici nei successivi processi di trasformazione urbana. Molti dei progetti elaborati negli anni ’80 e ’90 hanno assunto le aree dismesse come terra di conquista, come opportunità di mettere in atto una ulteriore espansione della città mediante il prolungamento di tracciati viari e la costruzione di nuovi isolati residenziali, giungendo così a saturare i grandi spazi vuoti preservati dall’originario recinto su cui in-
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sistevano i manufatti industriali. Solo eccezionalmente si è compreso il valore di queste riserve spaziali e si è inteso mettere in atto una strategia progettuale volta a preservare l’eccezionalità di tali aree entro la morfologia urbana. Così come solo eccezionalmente si è riconosciuto un valore architettonico ai manufatti dismessi, testimonianza di una civiltà appena scomparsa, e si sono conseguentemente adottate soluzioni progettuali finalizzate al riutilizzo di tali opere esaltandone le specifiche qualità spaziali. Rileggendo le relazioni di alcuni importanti progetti presentati in quegli anni si comprende la ragione delle scelte: “occultamento delle infrastrutture”, “demolizione delle fabbriche”, “addomesticamento delle strutture industriali” sono espressioni ricorrenti che restituiscono la volontà di cancellare o smorzare il carattere produttivo originario associato ai luoghi del lavoro4. Isolati e dispersi sul territorio, i capannoni costruiti negli ultimi vent’anni hanno invaso la campagna, effetto di una pianificazione non coordinata, che ha predisposto entro i confini amministrativi dei singoli comuni una o più aree a destinazione produttiva. Alcuni ambiti geografici, come le aree vallive del medio-adriatico, sono state particolarmente investiti da questo fenomeno che si manifesta attraverso una giustapposizione, più o meno rarefatta, di manufatti dalla deludente qualità architettonica, supportati da ingenti opere di urbanizzazione primaria a carico degli enti pubblici. Il ricco vocabolario di nomi utilizzati per identificare i manufatti industriali del secolo scorso è sostituito da un solo nome, capannone, attribuito ad uno spazio ordinario ottenuto dall’assemblaggio di elementi prefabbricati in calcestruzzo armato capace di accogliere una generica attività produttiva. La diffusione di questa tipologia costruttiva è stata ulteriormente favorita dalle recenti leggi finanziarie5 che, nell’intento di fornire un impulso positivo all’economia in fase di stagnazione, hanno proposto la detassazione degli utili reinvestiti, offrendo incentivi fiscali alle imprese che avessero rimesso in circolo i loro capitali nell’acquisto di beni strumentali, tra cui nuovi fabbricati. Ciò si è tradotto nella spropositata realizzazione di capannoni edificati in tempi rapidi per far fronte ad una domanda in alcuni casi reale, ma in molti altri solo presunta, alimentata dalla speculazione edilizia. Patrimonio ordinario La recente crisi economica ha posto un freno alla crescita della città. I
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nuovi fenomeni urbani descrivono processi di contrazione edilizia, piuttosto che di infinita espansione; pertanto il riutilizzo della volumetria esistente si afferma come ineludibile alternativa alla realizzazione di nuove costruzioni. L’ingente patrimonio di opere edilizie inutilizzate, evidente manifestazione di un perpetrato consumo di suolo e di uno smisurato spreco di risorse, costituisce nuova materia di indagine. Il tema del riuso dell’esistente, tradizionalmente associato al recupero del patrimonio storico, si estende così alla consistente presenza di manufatti anonimi che, in anni recenti, hanno invaso il territorio urbanizzato: capannoni dismessi anzitempo o abbandonati prima ancora di essere occupati, capannoni incompiuti che si mostrano come semplici scheletri strutturali. Sottoposto ad un intervento di riuso, questo patrimonio di cose ordinarie richiede una preventiva valutazione, una riflessione su tre aspetti che dovrebbero indirizzare le scelte progettuali6. Il primo aspetto riguarda la consistenza fisica del manufatto: i capannoni sono grandi contenitori, prevalentemente anonimi, atterrati sul suolo con estrema indifferenza rispetto ai contesti locali. Sono spazi blindati, rigidamente chiusi da un perimetro murario realizzato con pannelli prefabbricati, ulteriormente preservati all’esterno da una recinzione che delimita un piazzale di pertinenza. La dismisura dei capannoni si contrappone alla misura delle case rurali dislocate nell’immediato intorno, che hanno resistito al repentino cambio di destinazione d’uso del suolo, da agricolo ad artigianale, previsto dagli strumenti urbanistici. Il secondo aspetto riguarda il valore utilitaristico ed economico del manufatto: il capannone, se pur deludente nelle sue qualità estetiche, è il risultato di un investimento economico e il suo valore è teoricamente proporzionale alla superficie coperta, alle dimensioni planimetriche e volumetriche del fabbricato, e alla posizione in cui è collocato. In pratica il valore di mercato è spesso nullo, ma nonostante ciò, il capannone è pur sempre una risorsa, uno spazio disponibile ad un nuovo utilizzo. Il terzo aspetto è quello più problematico e riguarda il senso delle cose su cui mettere in atto l’azione di riuso, ossia il cumulo di rimandi culturali a cui i manufatti oggetto della trasformazione rinviano. Generalmente i capannoni sono oggetti banali contraddistinti da una evidente carenza semantica che riduce al minimo la capacità di richiamare altre forme se non quelle della stessa natura. Essendo opere di recente realizzazione, non sono forme stratificate, in cui sia possibile leggere i segni del tempo
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trascorso; al contempo non sono forme che esprimano appieno il tempo presente, perché in esse non si coglie innovazione spaziale, tantomeno tecnologica e costruttiva. Gli aspetti analizzati concorrono a identificare il capannone come oggetto di studio mostrando la sua essenza, le sue criticità ma anche le sue virtualità. All’interno di una cultura del riuso, il capannone costituisce una contingenza, una opportunità per fare ricerca sul surplus volumetrico contemporaneo, di cui è emblematica espressione. Per la brevità del suo primo ciclo vitale, il capannone si offre come caso studio per esperimenti di ri-ciclo, ossia di attivazione di un nuovo ciclo di vita che, assumendo la preesistenza come punto di ancoraggio, tenderà a produrre effetti non solo sulla sua struttura spaziale ma anche sul suo intorno, sul contesto di appartenenza. Capannoni e contesti La riscoperta della geografia e la messa in valore dei segni naturali e antropici, a partire dalle trame agricole su cui hanno preso forma insediamenti rurali e urbani, possono contribuire a tracciare il palinsesto della trasformazione. E’ proprio tale palinsesto ad offrire delle opportunità di risignificazione di ciò che attualmente è insignificante: i capannoni, sottoposti ad una azione di riciclo, potrebbero interferire con questa trama rinvenuta e dal confronto-scontro tra le distinte topografie essi si affermerebbero come rivelatori di un possibile cambiamento di senso dello spazio, alla scala architettonica, urbana e territoriale. La trasformazione innescata dal riciclo di un capannone concorrerebbe a definire un campo d’azione ben più ampio di quello sancito dal perimetro murario del fabbricato e dalla sua immediata pertinenza, giungendo persino a soppiantare i limiti della zona industriale e a mettere in discussione il concetto stesso di “area omogenea”, sancito dagli strumenti urbanistici vigenti, che ha ridotto le aree artigianali e industriali ad enclave monofunzionali. Quindi il riuso dei capannoni, oltre ad attivare un nuovo ciclo di vita all’interno della scatola anonima dei manufatti improduttivi, tenderebbe a strutturare nuove relazioni tra le cose disposte sul supporto territoriale, a “cicatrizzare”, come direbbe Remo Bodei, “il lacerato tessuto connettivo della singola cosa con il mondo nel suo complesso”7. Descrivendo i territori della dispersione e soffermando l’attenzione sui “capannoni proliferanti del capitalismo molecolare”8, manifestazione
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dello scatenato liberismo degli anni ’90, fino alla sopraggiunta crisi che ha investito quasi tutti i settori produttivi, Aldo Bonomi giunge a sostenere che “la crisi, più che un attraversamento-adattamento, è una metamorfosi sospesa tra ciò che non è più e ciò che non è ancora”9. La crisi, intesa come mutazione, diviene quindi una opportunità per indagare il cambiamento, rintracciando nelle cose e nei contesti di appartenenza i segnali di una futura trasformazione. In questo senso l’azione di riciclo dei capannoni inattivi si inscrive in un programma di rigenerazione dei territori investiti della diffusione edilizia, fondato sulla riscoperta della dimensione locale degli insediamenti e sulla messa in valore di quelle vocazioni non soppiantate dalla irrefrenabile industrializzazione che ha contribuito ad omologare le forme del costruire e dell’abitare contemporaneo. Programmi e strategie Un progetto di riciclo applicato ad un generico capannone in disuso, uno tra i tanti disseminati sul territorio, presuppone innanzitutto una domanda di trasformazione e la conseguente messa a punto di un programma in cui siano enunciati gli obiettivi e individuati i mezzi con i quali raggiungerli. La recente crisi economica, oltre ad aver prodotto effetti disastrosi su numerose attività produttive ospitate dai capannoni determinandone così l’abbandono, ha inciso negativamente sulle opportunità di immaginare un futuro alternativo, esorcizzando il recente passato. Auspicando il superamento di questa condizione, la ricerca, incentrata sul riciclo del patrimonio ordinario in disuso, si pone come obiettivo lo studio e l’interpretazione della dismissione dei capannoni di recente costruzione e, avvalendosi dello strumento del progetto, punta alla realizzazione di un atlante delle possibili risposte architettoniche, prospettando soluzioni in termini formali ai problemi contingenti. La ricerca progettuale tende così a superare lo stallo della crisi e ad alimentare un immaginario su cui costruire le basi di una nuova società che non potrà esimersi dal fare i conti con questo ingente patrimonio di opere in disuso. A partire da una visione disincantata della realtà, la sperimentazione sul riciclo dei capannoni si afferma come una opportunità di far fronte allo spreco perpetrato negli ultimi anni riutilizzando in modo creativo spazi di recente costruzione disponibili a nuovi usi. Le potenzialità trasformative dei capannoni sono molto ampie e l’apparato dei vincoli, che general-
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mente limita gli interventi sul patrimonio storico, non pone in questo caso restrizioni nelle scelte progettuali, indirizzate a rielaborare spazi neutri scarsamente condizionati dagli elementi strutturali. Il riciclo dell’ordinario non richiede opere di restauro o di consolidamento, in quanto la preesistenza generalmente è in ottimo stato, e neppure obbliga ad operazioni di pura conservazione. All’interno di una logica architettonica, la finalità prioritaria di una azione di riciclo, oltre alla mera opportunità di riutilizzo degli spazi abbandonati, è quella di raggiungere l’innalzamento di qualità della preesistenza attraverso la mutazione di un prodotto ordinario della speculazione edilizia in un’opera di architettura. Rinunciando alla tentazione di demolizione del capannone preesistente e ricostruzione di un nuovo manufatto, l’azione di riciclo punta dunque alla risignificazione dell’esistente. In questo senso il progetto di riciclo è inevitabilmente adattivo sia alla scala architettonica, attuando un compromesso con il manufatto preesistente, che alla scala urbana e territoriale, rammendando il debole tessuto connettivo sconvolto dal casuale atterraggio dei capannoni. Programmi di trasformazione incentrati sulla mixité funzionale e sociale possono indirizzare l’azione di riciclo dei capannoni inattivi e più in generale dei territori abbandonati. Questi programmi sperimentali dovrebbero avere la capacità di produrre degli inediti cortocircuiti tra attività convenzionalmente distinte, rigidamente collocate in spazi specialistici. Lavoro e tempo libero, agricoltura e industria, ricerca e formazione sono i binomi su cui riflettere nell’intenzione di qualificare i nuovi spazi, ibridi e inclusivi, generati dal riciclo dei capannoni10. Attraverso lo strumento del progetto di architettura si potrebbe sottoporre a verifica il senso stesso di una azione di riciclo applicata ad un manufatto ordinario valutando gli effetti di tale azione in termini formali. Nell’intento di riscattare il capannone dall’imperante anonimato e di ristabilire un rapporto con la dimensione contestuale, la sperimentazione progettuale, adoperando opportune strategie, tenderebbe a rendere poroso lo spazio del capannone, trasformando un manufatto blindato, chiuso e protetto in uno accessibile, aperto e interattivo. Tra le possibili azioni strategiche da mettere in atto nel progetto di riciclo dei capannoni in disuso se ne segnalano due. Una prima azione strategica è quella del ri-confinare le aree artigianali e industriali su cui i capannoni insistono. Nell’intenzione di superare la
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connotazione insulare che da sempre ha contraddistinto le aree produttive, si ritiene opportuno ridefinirne i confini. Il riconfinamento potrebbe essere interpretato come sconfinamento, un concetto traducibile in inglese con il termine “trespass”, che significa anche trasgredire, non rispettare quanto disposto dalla legge; nel caso specifico, la parola sottende un invito a non rispettare il regolamento, le norme associate allo strumento di piano e alla zonizzazione urbanistica. Questa provocazione sottende la necessità di ripensare il concetto di zoning e di ridefinire l’apparato normativo mediante il quale si rendono attuative le scelte di piano. L’idea di sconfinamento conduce ad una visione più ampia e lungimirante delle politiche riguardanti la rigenerazione delle aree improduttive, ad una riqualificazione ambientale che investe tutte le scale del progetto. Alla scala urbana l’azione del ri-confinare consente di riconnettere queste aree al disegno più generale del territorio e quindi a definire un sistema di nuove relazioni tra elementi naturali e artificiali dislocati entro un’area-studio. Alla scala architettonica l’azione comporta il superamento di alcuni limiti costruttivi, quelli sanciti dal recinto in cui è inscritto il capannone e dall’involucro che avvolge lo scheletro strutturale, giungendo ad una riconfigurazione dello spazio preesistente che diviene espressione di una fertile interazione ambientale. La seconda azione è quella del ri-dimensionare, ossia ridefinire la dimensione dei capannoni e delle loro aree pertinenziali ritrovando un equilibrio tra spazi pieni e spazi vuoti. Questa operazione si rende spesso necessaria per via della smisurata disponibilità di superficie e volume espressa dai singoli manufatti industriali. Il perseguimento di alcuni obiettivi associati a determinati programmi di riconversione dei capannoni inattivi richiede, attraverso lo strumento del progetto, un passaggio dalla dismisura alla misura degli spazi generati dal riciclo. Il ridimensionamento delle strutture preesistenti comporta dunque una ridefinizione spaziale in termini di conformità, ossia una verifica di adeguatezza dello spazio alle nuove pratiche prevedibili all’interno dei capannoni. La riduzione della superficie coperta, e quindi della volumetria da essa determinata, non può che essere raggiunta attraverso parziali demolizioni oppure attraverso l’intromissione di nuovi corpi, di ridotta dimensione, che siano in grado di generare microcosmi all’interno della struttura preesistente. È palese che l’azione di riciclo non potrà interessare l’infinita quantità di capannoni inattivi, in quanto ad oggi risulta difficile
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delineare un programma capace di rendere disponibile tutto ciò che è in disuso. In questo senso il ridimensionamento potrebbe anche indurre alla rioccupazione parziale o temporanea di alcuni spazi senza escludere la possibilità che tali spazi, a temine di un determinato lasso temporale, possano essere nuovamente dismessi e definitivamente smantellati. Assumendo il progetto di riciclo come una azione dinamica, si potrebbe prevedere un processo di dissoluzione programmata che, agendo entro un arco temporale prestabilito, determini un mutamento di forma e di uso dello spazio, una metamorfosi del capannone fino al possibile suo disfacimento. Senza cedere ad un atteggiamento romantico e senza alcun richiamo ad un’idea di compimento dell’opera coincidente con lo stato di rovina come teorizzata da Georg Simmel, la dissoluzione programmata del capannone potrebbe condurre alla ri-naturalizzazione delle aree improduttive il cui compimento non sarebbe affidato alla casualità degli eventi naturali, ma al progetto di una nuova area produttiva, un parco agricolo-industriale integrato e sostenibile, espressione di un auspicabile riequilibrio tra natura e artificio.
Note 1. Del Giudice, D., "Visionari di quello che c’è", in Wenders W., Una volta, Edizioni Socrates, Roma, 1993. 2. I territori abbandonati, «Rassegna» n. 42, Editrice CIPIA, Bologna, 1990. Il numero curato da Bernardo Secchi e Stefano Boeri offre spunti di riflessione sul rapporto tra i fenomeni di dismissione e le parole che li denotano, con una attenzione più alle condizioni del progetto che alle forme del suo compimento. 3. La fotografia si è soffermata sulla descrizione delle opere industriale destinate alla sparizione. Di straordinario interesse è il lavoro condotto da Bernd & Hilla Becher sul territorio tedesco, e non solo, ma anche quello di Gabriele Basilico sulle fabbriche milanesi. 4. Si rimanda alle esperienze progettuali italiane, in particolare al concorso per l’area del Lingotto a Torino (1983) o a quello per la Bicocca a Milano (1986-1988). Un radicale rinnovamento dell’approccio alla riconversione delle aree dismesse si evince dalle risposte progettuali al concorso internazionale per il Parc de la Villette a Parigi (1982-1983). 5. Si fa riferimento al DL n.357 convertito in L.489 del 1994, conosciuta come “Legge Tremonti” e alla L.383 del 2001, conosciuta come “Tremonti bis”. 6. Viale, G., La civiltà del riuso, Editori Laterza, Bari, 2010. 7. Bodei, R., La vita delle cose, Editori Laterza, Bari, 2009. 8. Bonomi, A., Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino, 1997. 9. Bonomi, A., Il capitalismo in-finito. Indagini sui territori della crisi, Einaudi, Torino, 2013. 10. Sul riuso degli spazi abbandonati e sulla sperimentazione di programmi di attività innovative si rimanda al libro di Campagnoli, G., Riusiamo l’Italia. Da spazi vuoti a start-up culturali e sociali, Gruppo 24 Ore, Milano, 2014.
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DISSOLUZIONE PROGRAMMATA_Strategie Il campo di applicazione della ricerca coincide con il territorio medioadriatico investito da una urbanizzazione diffusa che, a partire dal secondo dopoguerra e in poco più di mezzo secolo, ha interessato la fascia costiera spingendosi progressivamente nell’entroterra lungo le aree di fondovalle. Lo studio si è rivolto ai principali ambiti vallivi, quelli attraversati dalle recenti strade a scorrimento veloce, occupati da un consistente numero di capannoni industriali. Il Metauro, l’Esino, il Chienti, il Tronto, il Tordino e, più a sud, il Pescara e il Sangro sono i fiumi che identificano le vallate con la più alta presenza di distretti industriali e quindi le aree che hanno maggiormente risentito della crisi in atto. Un esercizio ricognitivo, accompagnato dalla elaborazione di mappe interpretative, ha consentito di descrivere il fenomeno della dismissione e di misurare le quantità di spazi inutilizzati1. Di fronte alla incertezza della domanda e alla indeterminatezza dei programmi di riciclo del patrimonio ordinario in disuso, la ricerca ha inteso esplorare il fenomeno e anticiparne i possibili sviluppi, utilizzando il progetto di architettura come strumento conoscitivo e prefigurativo di soluzioni adeguate al riutilizzo di manufatti e suoli dismessi. Operando su alcuni casi campione, espressione di situazioni tipiche e ricorrenti, la ricerca ha messo a punto strategie innovative per la riconversione delle aree dismesse, concorrendo alla definizione di una metodologia di progetto associata al riciclo dei capannoni inattivi. Riduzione volumetrica, interazione spaziale, infiltrazione vegetale, commistione di usi, tendono ad esplicitare una auspicabile dissoluzione progressiva dei capannoni nei contesti di appartenenza. La valutazione delle risposte formali espresse dai progetti, nonché l’adeguatezza delle soluzioni trovate agli obiettivi previsti da un programma ipotetico predefinito, consentono di verificare il senso di una operazione di riciclo applicata ai manufatti presi in esame. Le proposte progettuali, condotte all’interno del laboratorio di 3° anno diretto da Luigi Coccia con Roberto Ruggiero, disposte in successione come pagine di un atlante, concorrono a delineare nuovi scenari all’interno dei territori industriali improduttivi. (L.C.) Note 1. Si rimanda alla sezione Visioni, a cura di Luigi Coccia e Marco D’Annuntiis, in Menzietti, G., TRUE-TOPIA. Città adriatica riciclasi, Aracne, Roma, 2014, pp. 138-139. La mappa pubblicata alle pp. 34-35 di questo volume descrive e misura il fenomeno della dismissione di capannoni su una vallata campione, la valle del Tronto.
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valle del Metauro
valle dell'Esino
valle del Chienti
valle del Tronto
valle del Tordino
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N 43° 49' 42.31'' E 13° 02' 36.75''
N 43° 17' 05.08'' E 13° 41' 07.74''
N 43° 16' 45.51'' E 13° 29' 18.10''
N 43° 16' 22.08'' E 13° 37' 33.49''
N 43° 13' 20.88'' E 13° 19' 34.14''
N 42° 51' 47.22'' E 13° 46' 19.93''
N 42° 43' 36.61'' E 13° 57' 05.64''
N 42° 42' 19.07'' E 13° 49' 07.25''
N 42° 42' 14.58'' E 13° 50' 57.98''
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VALLE DEL METAURO N 43° 49' 42.31'' E 13° 02' 36.75'' località: Madonna del Ponte (PU) superficie: 44.600 mq realizzazione: anni '00 Alla foce del fiume Metauro, il sito si riconosce per la presenza di grandi scheletri strutturali che avrebbero dovuto generare un complesso di capannoni a destinazione industriale. L’opera non è stata portata a termine perché durante le fasi della sua realizzazione è intervenuta la crisi economica che ha reso da subito insostenibile l’operazione richiedendo innanzitutto un cambio di destinazione d’uso e un ridimensionamento degli spazi coperti. Il progetto di riciclo si è indirizzato verso la predisposizione di un centro di produzione cinematografico associato ad una scuola di formazione e ad attrezzature per il tempo libero. Il disegno del suolo costituisce il supporto del nuovo impianto di progetto che riorganizza i nuovi spazi al coperto e all’aperto ricavati tra gli scheletri delle strutture preesistenti. L’azione progettuale se pur radicata alle geometrie strut-
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turali dei capannoni, non esaurisce la sua portata entro i limiti del comparto industriale, ma si spinge attraverso il disegno di un grande attraversamento trasversale alla linea di costa, un nuovo spazio pubblico concepito come una sorta di “promenade� che, oltre a svolgere un importante ruolo distributivo nel centro di produzione, concorre alla definizione di un nuovo sistema di connessione tra il nucleo originario di Fano, l’aeroporto e il mare. [Progetto di Valentina Bonomo e Isabella Calducci]
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VALLE DEL METAURO N 43° 49' 42.31'' E 13° 02' 36.75'' località: Madonna del Ponte superficie: 44.600 mq realizzazione: anni '00 L’area di intervento è localizzata alla foce del fiume Metauro e coincide con il sito dell’ex-zuccherificio di Fano occupato da scheletri in calcestruzzo. Il programma progettuale è incentrato sulla definizione di un nuovo ordine formale che si sovrappone a quello preesistente generando uno spazio destinato alla cultura e all’arte, che sia in grado di offrire come un nuovo spazio per il lavoro e per il tempo libero lungo. Oltre ad accogliere attività occasionali come eventi congressuali, musicali, teatrali ed artistici, la struttura accoglie attività permanenti come spazi per la ricerca e la formazione. Alla rigida stereometria dei nuovi volumi inseriti nella griglia dei capannoni incompiuti si contrappone la geometria circolare di due grandi sale al coperto generate dalla nuova forma del suolo. [Progetto di Maria Grazia Dalò, Aldo D'Autilio e Silvia Diomedi]
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VALLE DEL CHIENTI N 43° 17' 05.08'' E 13° 41' 07.74'' località: Civitanova Marche superficie: 1.600 mq costruzione: anni '00 Il capannone occupa un lotto della zonizzazione industriale di Civitanova Marche, i cui edifici non hanno saturato completamente l’area. Campi a destinazione agricola permangono nell’ambito industriale e nel suo immediato intorno. La localizzazione del capannone in disuso ha indirizzato il programma di riciclo, immaginando la possibilità di trasformare la struttura in un centro agro-alimentare destinato prevalentemente alla ricerca e alla formazione. Il capannone viene ricondotto alla sua essenza spaziale: una grande copertura sostenuta da quattro file di pilastri in calcestruzzo. L’azione progettuale opera all’interno di questo sistema costruttivo elementare mettendo in atto una strategia di intromissione che si manifesta attraverso due configurazioni differenti: la prima è definita da fasce di suolo inclinate che insinuandosi nel capannone generano
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gli spazi localizzati al piano terreno; la seconda è affidata alla sequenza di volumetrie dalla forma stretta e allungata che fuoriescono dalla sagoma dell’originario fabbricato e si proiettano verso l’esterno riconquistando un rapporto visivo con il contesto. [Progetto di Martina Amante e Silvia Lisi]
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VALLE DEL CHIENTI N 43° 16' 45.51'' E 13° 29' 18.10'' località: Piediripa superficie: 9.300 mq costruzione: anni '80 L’area industriale di Piediripa si sviluppa lungo il raccordo autostradale Tolentino-Civitanova Marche, tra Macerata e Corridonia. Le attività produttive sono miste: abbigliamento, arredamento, agro-alimentare. Il programma di riciclo punta a rafforzare le vocazioni del territorio locale attraverso la riconversione di un capannone incompiuto in una struttura espositiva. Il progetto tende a rafforzare il ruolo baricentrico del capannone nell’area industriale, facendone un luogo di convergenza dei percorsi che dagli spazi della produzione conducono agli spazi della esposizione. I percorsi si insinuano all’interno dello scheletro del capannone non finito generando delle gallerie che seguono distinte traiettorie: si sollevano da terra, si inclinano, si piegano per poi ritornare a terra. Ogni galleria è specializzata nella esposizione di una tipologia di prodotto. La
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volumetria originaria prevista dalla costruzione del capannone viene utilizzata solo parzialmente: la copertura viene smantellata, la struttura definita da pilastri e travi in calcestruzzo viene lasciata a vista, la nuova superficie coperta coincide con quella delle gallerie espositive. Lo spazio restante è lasciato all’aperto ed è destinato a giardino. [Progetto di Giovanna Conversano e Lorenza Guerrieri]
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VALLE DEL CHIENTI N 43° 16' 22.08'' E 13° 37' 33.49'' località: Laghi del Quadrifoglio superficie: 2.500 mq costruzione: fine anni '70 L’azione progettuale agisce su quattro capannoni dismessi che insistono su un’area di particolare valore ambientale. Essi sono localizzati nella valle del Chienti, in prossimità dei Laghi del Quadrifoglio, lungo la superstrada che da Civitanova Marche si spinge nell’entroterra. Il programma di riciclo prevede la realizzazione di un centro agroalimentare destinato alla lavorazione e valorizzazione dei prodotti agricoli locali. La trasformazione dei capannoni in disuso è affidata a dei percorsi che, oltre a riorganizzare gli spazi interni, definiscono un sistema di nuove relazioni con il contesto locale: da un lato si ancorano alla tessitura agraria, dall’altro si spingono nei laghi trasformandosi in pontili. Nuovi corpi edilizi si intromettono nei capannoni preesistenti riscattandoli dall’anonimato. [Progetto di Alessandro Angelini e Roberta Saracco
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VALLE DEL CHIENTI N 43° 13' 20.88'' E 13° 19' 34.14'' località: Tolentino superficie: 800 mq costruzione: fine anni '90 L’area industriale di Tolentino si sviluppa linearmente lungo il tracciato della superstrada che da Civitanova Marche si spinge nell’entroterra. L’area è inscritta in un territorio agricolo che, nonostante le recenti trasformazioni, ha conservato il suo disegno originario definito da una geometria di campi stretti e allungati su cui insistono i fabbricati rurali. Il riciclo di un capannone inutilizzato costituisce una opportunità per innescare una riconciliazione tra la trama industriale e la trama agricola e più in generale per mettere in atto un programma di riconversione del capannone incentrato sul rapporto tra produzione e consumo dei prodotti agricoli. La strategia progettuale tende ad esplicitare una interferenza topografica tra la geometria segnata dal lotto industriale su cui insiste il capannone e la geometria dei campi agricoli che trascinata all’interno
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del fabbricato in disuso costituisce il supporto per la definizione di un sistema di micro architetture che accolgono spazi destinati prevalentemente alla ristorazione. I nuovi spazi, che ridimensionano e riorganizzano il preesistente capannone, esplodendo all’esterno, invadono una superficie all’aperto destinata ad eventi fieristici. Il progetto mostra il suo carattere evolutivo: nel tempo il capannone con la sua destinazione industriale, potrebbe progressivamente dissolversi, lasciando il posto ad una rinnovata funzione agricola. [Progetto di Francesco Bianchi e Emanuel Falappa]
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VALLE DEL TRONTO N 42° 51' 47.22'' E 13° 46' 19.93'' località: Spinetoli superficie: 2.600 mq costruzione: anni '90 Il capannone oggetto di indagine occupa una posizione strategica in prossimità della svincolo per Spinetoli, lungo la superstrada Ascoli-Mare. Il programma di riciclo del capannone prevede la realizzazione di un centro vinicolo, uno spazio destinato alla produzione del vino ma anche alla degustazione, nonché centro di ricerca e di formazione. Il disegno dello spazio aperto, ancorato all’originario
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disegno dei campi agricoli, si spinge all’interno del capannone e concorre a definire un nuovo organismo architettonico organizzato per fasce parallele. Le fasce si sollevano e si ripiegano su se stesse generando nuove spazialità inscritte nella volumetria preesistente recuperata solo parzialmente. [Progetto di Marco Borgioni e Alessia Lallone].
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VALLE DEL TORDINO N 42° 43' 36.61'' E 13° 57' 05.64'' località: Colleranesco superficie: 5.500 mq costruzione: anni '80 La zona industriale di Collerenasco presenta numerosi casi di dismissione. Il capannone oggetto di studio, uno stabilimento che produceva prefabbricati in calcestruzzo, occupa una posizione baricentrica rafforzata dall’incrocio di due strade sulle quali si struttura l’insediamento produttivo. Il programma prevede la riconversione del capannone in disuso in un centro di ricerca e formazione, un
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incubatore di idee innovative per il rilancio dell’economia del territorio locale. La strategia progettuale si fonda sulla esaltazione del principio costruttivo espresso dall’edificio preesistente: uno spazio organizzato in tre fasce parallele delimitato da 4 file di pilastri che oltre a sostenere le coperture generano un sistema di carroponti utilizzati per la movimentazione dei prodotti lavorati. Il progetto tende a trasformare il manufatto in una macchina che, operando lungo i binari dei carroponti, genera spazi mobili adattabili alle mutevoli esigenze. Volumi sospesi si diradano o si aggregano a formare ambienti di dimensione variabile. Il disegno a fasce sancito dalla struttura dei pilastri in calcestruzzo si proietta fasciato all’esterno e disegna lo spazio aperto. [Progetto di Marco De Vincentiis e Juliette MassÊ, Silvio Pennesi]
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VALLE DEL TORDINO N 42° 42' 19.07'' E 13° 49' 07.25'' località: Sant'Atto superficie: 1.300 mq costruzione: anni '80 Il capannone è localizzato lungo la SS80 che dal mare conduce a Teramo ed insiste su un’area mista, artigianale, commerciale e residenziale. Il programma prevede la riconversione del capannone inattivo in uno spazio pubblico che accolga al suo interno attrezzature e servizi per gli abitanti di questo segmento di città diffusa. L’analisi del contesto locale ha posto in evidenza la presenza di un fossato che dalla collina scende nel fondovalle raggiungendo il sito occupato dal capannone. Oltre a questo segno naturale l’area conserva la sua originaria vocazione agricole rimarcata dalla geometria dei campi. Il progetto propone una infiltrazione nel capannone di fasce parallele: serre didattiche alternate a percorsi distributivi e nuovi spazi destinati a laboratori e ad esposizioni temporanee. [Progetto di Francesca Ciabattoni e Giada Di Sante]
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VALLE DEL TORDINO N 42° 42' 14.58'' E 13° 50' 57.98'' località: Bellante Stazione superficie: 19.000 mq + 12.800 mq (non finito) costruzione: anni '80 - anni '00 Il capannone oggetto di sperimentazione progettuale occupa un’area compresa tra la SS80 e la superstrada Teramo-Mare, in prossimità del fiume Tordino. La grande dimensione espressa dal disegno delle coperture si confronta con la grande dimensione del piazzale, scandito da filari di pilastri e travi disposti in continuità con la struttura degli spazi coperti, generando un’area per la movimentazione dei prefabbricati prodotti dall’industria, ma anche un’area disponibile per un possibile ampliamento del capannone, una potenziale superficie da coprire. La recente crisi economica che ha investito tra l’altro il settore dell’edilizia ha portato alla progressiva riduzione della produzione di elementi prefabbricati fino alla chiusura dello stabilimento. Il programma di riciclo della struttura dismessa si fonda sulla volontà di riscattare l’intero ambito urbano dall’imperante anonimato espresso da fabbricati residenziali, produttivi e commerciali che insistono su un contesto privo di qualità urbana. Un quartiere di case a schiera aggregate ad emiciclo si afferma come una figura estranea ai caratteri del luogo, un quartiere dormitorio incapace di dialogare con i luoghi del lavoro. La strategia progettuale coincide con un atto rifondativo, un esperimento di riorganizzazione dello spazio affidato alla
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estensione del reticolo definito dalla struttura di pilastri e travi che contraddistingue il capannone preesistente. La nuova trama disegna un grande parco urbano che, oltre a proiettarsi verso il fiume, intende stabilire relazioni con gli insediamenti limitrofi divenendo struttura rigenerativa dell’intero contesto spaziale. Il reticolo dei pilastri genera nuovi spazi pubblici al coperto, un asilo e un centro espositivo, e all’aperto, un playground e un sistema di orti sociali. [Progetto di Eleonora De Fabiis e Erika Di Buò]
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METAMORFOSI DEGLI SPAZI IMPRODUTTIVI Alessandro Gabbianelli >UNICAM
"Parlare di città come di qualcosa che può essere riciclato porta a considerarne ritmi, cicli di vita, metamorfosi. È in questo senso che va interpretato il titolo del famoso libro di Jane Jacobs The Death and Life of the Great American City. La città non segue un percorso biologico immodificabile, ma ha la capacità di rigenerarsi al suo interno, di superare un ciclo di vita e di declino reinterpretando se stessa. Il concetto di ciclo di vita ha una lunga storia nelle scienze sociali ed economiche: parla di mutamento opposto a staticità; di sequenze e avvicendamenti; di flussi, dinamiche e processi"1. Le mappe a pagina 55 mettono in evidenza come le aree produttive situate nelle valli del medio-adriatico assomiglino a isole di un arcipelago nel mare della natura/campagna. “E il Mare per eccellenza, l’archi-pélagos, la verità del Mare, in un certo senso, si manifesterà, allora, là dove esso è il luogo della relazione, del dialogo, del confronto tra le molteplici isole che lo abitano: tutte dal Mare distinte e tutte dal Mare intrecciate; tutte dal Mare nutrite e tutte dal Mare arrischiate”2. Massimo Cacciari in questa descrizione mette in evidenza due azioni contrastanti del mare:
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separare e relazionare. L’arcipelago delle isole produttive ci porta a considerare l’arcipelago-enclave3 formato dalle aree industriali organizzate come territori indipendenti, ma che possono essere collegate tra loro. Si tratta di piattaforme, dallo spessore variabile, che si sono sovrapposte al terreno agrario cancellandone ogni traccia. Su queste si appoggiano i capannoni seguendo spesso griglie regolari e atopiche disegnate dai tracciati stradali. Negli ultimi decenni diversi fattori hanno causato l’abbandono di alcuni manufatti. A causa della flessione del mercato immobiliare ve ne sono altri che non sono mai stati occupati, altri ancora invece sono stati parzialmente costruiti e mai terminati. Il risultato è l’inizio di un processo di metamorfosi di questa superficie che da piano compatto, prodotto delle politiche di una espansione economica che si credeva inarrestabile, diventa un “piano bucato”4 , punteggiato da alberi, eroso dalla natura, una superficie ibrida e porosa in fase di trasformazione pronta per un nuovo “ciclo di vita”. Parlare di metamorfosi significa ragionare attorno la “trasformazione di un essere o di un oggetto in un altro di natura diversa”5. Nel tentativo di accostare i processi di trasformazione urbana a quelli biologici è utile prendere in considerazione anche significati più specifici del lemma, ossia quelli inerenti la zoologia dove per metamorfosi si intende “l’insieme dei cambiamenti morfologici e fisiologici, implicanti un diverso rapporto dell’organismo con l’ambiente, che dallo stadio larvale conducono allo stadio adulto (...)”; oppure in botanica dove il termine descrive “ogni profonda modificazione nella conformazione esterna e nella struttura interna di una pianta cormofita, comparsa e affermatasi nel corso dell’evoluzione, in quanto ha costituito un vantaggio selettivo nell’adattamento funzionale o ecologico a mutamenti ambientali”. All’interno di queste definizioni vengono chiamati in causa concetti come “ambiente”, “conformazione esterna”, “struttura interna”, “evoluzione”, che possono essere declinati nella trattazione sul concetto di metamorfosi degli spazi improduttivi per poter indagare maggiormente il fenomeno e trovare una strategia progettuale che possa agire alle diverse scale: territoriale, urbana e architettonica. La genesi di questo processo di abbandono ha a che fare con l’ambiente in senso assoluto: economico, produttivo e sociale. Ma in un’accezione più vicina alla progettazione architettonica e del paesaggio per ambiente
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si intende lo spazio che circonda una cosa o una persona e in cui questa si muove o vive. Pertanto la conformazione esterna di un edificio si modifica in funzione dell’intorno più o meno prossimo. Le aree e i manufatti più marginali risentiranno maggiormente dell’infiltrazione della natura che si insinua nelle crepe del cemento, o in quelle dei suoli duri alla riconquista del terreno fertile che le è stato sottratto. Le specie pioniere si fanno strada nelle crepe dell’asfalto, si arrampicano sui muri di cemento disgregandone la superficie liscia, erbacee e arbusti colonizzano velocemente le poche superfici permeabili e il capannone si trasforma in un rudere dell’ordinario, testimone di un passato recente che mostra allo stesso tempo uno stato di “dissolvimento e rinascita”6. Frutto di una metamorfosi regolare oppure progressiva - come la definisce Goethe osservando le piante - “che si rivela sempre e gradualmente operante”7, l’edificio si disgrega sotto l’azione del tempo: i materiali si frammentano e cadono “non più costretti ad un innaturale, artificioso sforzo sono di nuovo liberi di ‘imitare’ la natura”8. La struttura si mostra nella sua geometria semplice, gli interni diventano tutt’uno con lo spazio esterno riconquistato dalla natura. Se il destino della pianta è quello di generare ciclicamente il seme da cui proviene che cadendo a terra darà avvio a una nuova vita, quello di un edificio è, probabilmente, diventare un rudere affinché si possano innescare nuovi processi spaziali. Vi sono anche ruderi che non sono mai stati edifici. Si tratta di quei capannoni che sono rimasti incompiuti. Il loro ciclo di vita si è interrotto e si potrebbe associare questa trasformazione a quella che Goethe chiama metamorfosi irregolare che “lascia la sua creatura in uno stato indeterminato, gracile, spesso gradito al nostro occhio ma intimamente debole e inoperante”9. Scheletri di strutture, campi di pilastri che si ergono al cielo come un’opera di land art, suoli che registrano le tracce di nuove geometrie sovraimposte che non si sono mai solidificate. Uno stato di sospensione temporale durante la quale si manifesta “la presenza dell’assente”10, segni della memoria che lasciano grande spazio all’immaginazione di nuovi scenari. Goethe prende in considerazione un terzo tipo di metamorfosi “provocata accidentalmente dall’esterno e, in particolare, dagli insetti”11. Si tratta di un processo di modificazione indotto da un’azione che interrompe la linearità del processo. Una sorta di catastrofe intesa non come fine, ma come “una transizione discontinua qualsiasi che si verifica quando
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un sistema dispone di più di uno stato stabile, o può seguire più di un cammino stabile di trasformazione”12. In questo contesto la catastrofe significa “mutazione di forma, magari riadattamento”13. Accade infatti che gli spazi improduttivi siano occupati da frange sociali più deboli ed emarginate che trasformano l’interno del manufatto in alloggi di fortuna. Oppure gruppi di giovani artisti alternativi lo utilizzano come luogo di ritrovo, distante dai sistemi di controllo urbani e ne fanno il loro campo di sperimentazione. In ogni caso vi è un uso non previsto favorito dal carattere di residualità, atopia e instabilità del sito. La metamorfosi può essere innescata anche da un’azione voluta, intenzionale: il progetto. Una possibilità che viene offerta da questa condizione di abbandono è quella di trasformare le piattaforme industriali in parchi industriali. I primi a teorizzare gli eco-industrial parks furono Ernest A. Lowe, Stephen R. Moran e Douglas B. Holmes nel 1996 con l’uscita del manuale Fieldbook for the development of Eco-Industrial Parks14. Nel 1998 in Italia viene utilizzata, nella legge Bassanini, l’espressione “area ecologicamente attrezzata” per indicare “le aree dotate delle infrastrutture e dei sistemi necessari a garantire la tutela della salute, della sicurezza e dell'ambiente”15. Al di là della terminologia legislativa, in questa sede si preferisce il termine parco a quello troppo generico e meno caratterizzante di area. Il parco rimanda a uno spazio dai confini ben definiti che non rinuncia però a stabilire delle relazioni fisiche ben misurate e controllate con l’esterno, così come abbiamo visto essere la natura delle isole dell’arcipelago. Inoltre il parco contiene al suo interno una serie di spazi e funzioni differenti, autonome e sinergiche collegate da un’infrastruttura comune. Il parco eco-industriale16 è un sistema complesso che mira a una produzione sostenibile e a una riduzione dell’inquinamento attraverso la collaborazione tra le imprese, la comunità locale e la condivisione di informazioni, materiali, acqua, energia, infrastrutture e risorse naturali. Inoltre può essere uno spazio che offre una maggiore quantità di servizi, di comfort ambientale a lavoratori o utenti. Tralasciando gli aspetti prettamente organizzativi di un parco eco-industriale, per i quali si rimanda a una letteratura più specifica, ci si vuole concentrare sull’uso della vegetazione come materiale capace di riconfigurare lo spazio e stabilire nuove relazioni con l’ambiente considerando tempi e cicli delle trasformazione. Le linee guida della Regione Marche danno precise indicazioni per favo-
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rire l’inserimento di queste aree nel contesto paesaggistico ambientale17. Si tratta di criteri che prevedono la progettazione di aree verdi per soddisfare aspetti ecologici, ma anche ricreativi ed estetici. Ma reintrodurre il paesaggio in questi luoghi “implica qualcosa in più che piantare alberi: richiede una nuova infrastrutturazione che si concentri sui sistemi viventi per organizzare nuove relazioni tra terreno, piante, energia solare, vento e acqua, allo scopo di instaurare nuove ecologie che abbiano il potenziale di essere economicamente e ambientalmente sostenibili”18. Andreas Kipar definisce un elenco di obiettivi raggiungibili con l’utilizzo del verde nelle situazione di dismissione: aumento della massa vegetazionale e della varietà dei biotopi; miglioramento della regolazione delle acque meteoriche; miglioramento della qualità dell’aria; miglioramento della qualità dei suoli; mitigazione degli impatti visivi; riconoscibilità di comparti produttivi; criterio di orientamento all’interno; articolazione con gli ambienti circostanti; protezione degli spazi aperti; protezione dell’ambiente spondale19. Quindi, come sostiene Marot, lo spazio aperto deve “diventare un biotopo dove cielo e sottosuolo entrano in molteplici correlazioni definite dalla natura di ognuno di essi. Si tratta di una visione ricca e complessa, al tempo stesso ecologica ed estetica, che estende l’intenzionalità del progetto, sia pure a livello minimale, a tutti gli strati di cui si compone il paesaggio: movimenti di terreno, topografia, suolo, drenaggio, servizi, piantagioni, arredi, e così via”20. Un progetto che interpreta in modo esemplare questa teoria è la sistemazione dello spazio esterno alla Fabbrica Thompson a cura di Michel Desvigne e Christine Dalnoky. Il sistema dei fossi di drenaggio garantisce la raccolta delle acque piovane che verranno riutilizzate per l’irrigazione, struttura la disposizione dei parcheggi, organizza le geometrie della vegetazione costituita da specie che concorrono all’assorbimento delle acque (salici e pioppi). Un secondo impianto vegetale, collocato prevalentemente sul perimetro dell’area, è costituito da specie più nobili e più longeve (pini, faggi e querce). Il caso studio descritto non si riferisce a un contesto industriale in abbandono, tutt’altro. Ma l’approccio dei paesaggisti francesi è un buon modello per ogni progetto di riconfigurazione delle aree industriali poiché prende in considerazione un fattore fondamentale nei processi di metamorfosi: il tempo. Il progetto della fabbrica Thompson lavora su tre tempi diversi: il primo è quello del cantiere durante il quale si deve garantire l’accessibilità al sito; il secondo è quello della vita del-
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la fabbrica che sarà accompagnata dalla presenza di una vegetazione meno longeva, ma di rapida crescita; il terzo, quello della vegetazione nobile, che attiverà una trasformazione più a lungo termine del paesaggio e si relazionerà alla scala territoriale con la piana di Saint-Quentin. Una strategia di progetto che considera “il paesaggio come uno processo più che un prodotto”21 cercando di leggere e interpretare “il ciclo delle stagioni e dei climi, il ciclo dell’acqua, l’alternarsi del giorno e della notte, il ciclo della crescita e del declino”22. La dimensione temporale caratterizza anche i più recenti progetti di rigenerazione urbana del paesaggista francese. Sia nel progetto dell’area della Confluence di Lione che in quella per la riva destra del fiume Garonna a Bordeaux, Michel Desvigne tiene in considerazione la temporalità per definire, attraverso l’uso della vegetazione, una serie di azioni che interessano la trasformazione di lotti esistenti, di aree industriali dismesse, di parcheggi abbandonati e strade. Poiché si tratta di aree vaste, per le quali i tempi di attuazione dei progetti sono molto lunghi, è impossibile prevedere i cambiamenti sociali che potrebbero avvenire nel frattempo, pertanto la strategia utilizzata vuole evitare una pianificazione completa e unitaria del sito. La metamorfosi di queste ampie porzioni di città viene affidata alla riconfigurazone dello spazio aperto. La vegetazione viene utilizzata come struttura ordinatrice all'interno della quale si attueranno, in futuro, la realizzazione di progetti elaborati in funzione delle nuove esigenze urbane. Una strategia aperta per il progetto degli spazi improduttivi che permette di comprendere la dinamicità e complessità del paesaggio affinché si possano definire nuove relazioni tra natura, architettura, società, ambiente in un'ottica che le vede parte della stessa entità. “Se questo secolo ha costruito molto, lo ha fatto senza la coscienza della massa che edificava e senza realizzare degli spazi pubblici alla scala delle urbanizzazioni prodotte. Si tratta ormai di riparare, trasformare, ridefinire spazi e territori già abitati e occupati”23.
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Note 1. Marini, S., Santangelo V. (a cura di), Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio, Aracne editrice, Roma, 2013, p. 98. 2. Cacciari, M., L’Arcipelago, Adelphi, 1997, p. 16. 3. Confronta con Petti, A., Arcipelaghi e enclave: architettura dell’ordinamento spaziale contemporaneo, Bruno Mondadori, Milano, 2007. 4. Vedi Lerup, L., “Stim & Dross: Rethinking the Metropolis”, in After the City, Cambridge, MIT Press, 1995, p. 47. 5. Dizionario Treccani. 6. Purini, F., “La forma storica della decostruzione nell’architettura italiana”, in Moschini, F., Neri, G., (a cura di), Dal progetto. Scritti teorici di Franco Purini 1966-1991, Edizioni Kappa, Roma, 1992, p. 187. 7. Goethe, J. W., Metamorfosi delle piante, Ugo Guanda Editore, 1999, p. 56. 8. Purini, F., Op. Cit., p. 187. 9. Goethe, J. W., Op. Cit., p. 56. 10. Ricoeur, P., La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2003, p. 20. (Ed. orig. La mémoire, l’histoire, l’oubli, Éditions du Seuil, 2000). 11. Goethe, J. W., Op. Cit., p. 56. 12. Woodcock, A., Davis, M., La teoria delle catastrofi, Garzanti, Milano, 1982, p. 47. 13. Ibidem. 14. L’anno successivo uscirà il testo Discovering Industrial Ecology: An Executive Briefing and Sourcebook, Battelle Press, 1997. 15. Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112 art. 26. 16. Franco, M., I parchi eco-industriali. Verso una simbiosi tra architettura, produzione e ambiente, Franco Angeli, Milano, 2005. 17. Vedi Linee guida per le aree produttive ecologicamente attrezzate della Regione Marche, Gennaio 2005. 18. Pollak, L., Il paesaggio per il recupero urbano, in «Lotus», n. 128, 2006, p. 33. 19. Kipar, A., “La bonifica indirizzata: il preverdissement”, in Gargiulo, C., (a cura di), Processi di trasformazione urbana e aree industriali dimesse: esperienze in atto in Italia. Atti del convegno AUDIS 1999/2000, Edizioni AUDIS, Venezia, 2001, p. 179. 20. Marot, S., “The Reclaming of Sites”, in Corner James (a cura di), Recovering Landscape. Essays in Contemporary Landscape Architecture, Princeton Architectural Press, 1999, pp. 51-52 21. Marot, S., “Il ritorno del paesaggio” in Desvigne & Dalnoky, Federico Motta Editore, Milano, 1996, p. 8. 22. Ibidem. 23. Desvigne, M., Il paesaggio come punto di partenza, in «Lotus», n. 150, 2012, p. 22.
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CAPANNONI: CARATTERISTICHE TIPO-TECNOLOGICHE E STRATEGIE DI RICICLO Roberto Ruggiero >UNICAM
La pratica del “recycle” nel campo delle costruzioni ha conosciuto, nell’ultimo decennio, una discreta fortuna. Numerosi filoni di ricerca hanno portato alla nascita di materiali da costruzione riciclati o riciclabili, e non mancano esempi di edifici realizzati interamente secondo queste caratteristiche. Anche l’Architettura d’autore si è talvolta cimentata in questo ambito a partire da alcune esperienze pionieristiche tra cui, forse, la più affascinante ed emblematica è quella di Shigeru Ban1. Più recente è un filone di sperimentazione che ha spostato il focus della ricerca dalla scala del materiale a quella dell’edificio e della città, facendo del recycle uno degli approcci attualmente più innovativi al tema della rigenerazione urbana2. Ragionando prevalentemente alla scala dell’edificio, è difficile ipotizzare strategie di recycle che prescindano dalle caratteristiche tipologiche e tecnologiche dei manufatti. Queste, infatti, pongono di volta in volta vincoli e offrono possibilità diverse all’azione progettuale che, in questo campo, si trova a operare su un “costruito” scarno, ma non per questo meno problematico. Un interessante ed attuale ambito di sperimentazione nel recycle alla scala dell’edificio (che può in alcuni casi coinvolgere
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anche quella urbana) è dato dall’architettura industriale e, in particolare, dall’elevato numero di capannoni che la recessione economica e la delocalizzazione di interi comparti del settore produttivo italiano ed europeo hanno lasciato, come fantasmi, a punteggiare i territori urbani e sub urbani di molte città. E’ questo un patrimonio edilizio vasto, disponibile, disabitato, obsolescente, realizzato seguendo articolazioni spaziali elementari e con tecnologie semplici (ispirate a criteri di praticità ed economicità), tuttavia connotato, nella generalità dei casi, dal requisito di “grande luce”, ovvero dall’assenza, nello spazio interno, di pilastri o altri elementi della struttura. Tali edifici rappresentano un catalogo en plein air di sistemi tecnologici che, nei casi di manufatti relativamente recenti (quelli costruiti a partire dagli anni ‘60), discendono da procedimenti di industrializzazione edilizia e, spesso, di quella prefabbricazione di tipo “chiuso” e “pesante”3. Riferendosi alla visione “sistemica” proposta dalla Tecnologia dell’Architettura4 - per la quale ogni edificio può essere letto come “sistema” composto a sua volta da “sub-sistemi” (struttura, involucro, partizioni, impianti e finiture) - è lecito chiedersi in che misura le diverse tecnologie che caratterizzano questo patrimonio edilizio possono favorire, impedire o magari suggerire innovative strategie di recycle. Tale quesito rimanda evidentemente a un lavoro di ricerca (da tempo in atto nel campo dell’edilizia residenziale), che dovrebbe partire da un censimento dei capannoni e delle loro caratteristiche tecnologiche. Tuttavia, da un primo screening di esperienze compiute recentemente in Europa, emergono almeno tre strategie di recycle (eventualmente integrabili) riconducibili a una scelta di campo del progettista nei confronti dei sistemi tecnologici preesistenti. Wrapping strategy: inscatolamento dell’edificio mediante la sovrapposizione di nuovi strati funzionali e di rivestimento all’interno e all’esterno del suo involucro. Tale strategia presuppone interventi di verifica ed eventuale adeguamento strutturale, laddove la stratificazione funzionale degli involucri costituisce occasione per adeguamenti di carattere energetico ed impiantistico. Il nuovo involucro può anche disaderire (almeno in parte) dalla giacitura originaria dell’edificio e consente allo stesso un rinnovo totale in termini sia di forma che di prestazione. Riferimento: 2012, Bang Architectes, Calais, riciclo di un’industrial hall
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realizzato con sistema costruttivo in acciaio (fig. 1). Inside strategy: inserimento all’interno dell’edificio di strutture leggere del tutto slegate dal suo involucro. Qui la costruzione preesistente può permanere nella sua configurazione originaria (soprattutto nei pochi casi di strutture di pregio) ed essere semplicemente “conservata”. Rifermento: 2012, Comoco Arquitectos, Coimbra, riciclo di un capannone realizzato con sistemi in cls gettato in opera (fig. 2). Naked-strategy: spoliazione del capannone di tutti i sistemi di completamento. La struttura permane quale ultimo baluardo della sua memoria storica5. Tale strategia è forse quella che consente il maggiore livello di trasformabilità del manufatto originario e che lascia maggior spazio alla sperimentazione progettuale. Essa può essere applicata, tuttavia, ai soli manufatti realizzati con tecniche esecutive a secco o almeno miste, laddove necessita dello smontaggio di interi sub-sistemi (la copertura, ad esempio)6. Negli edifici realizzati con tecniche a umido, infatti, i subsistemi non sono di fatto più separabili mediante operazioni distruttive di demolizione. Riferimento: 2012, Big Architects, Copenhagen, riciclo di un capannone realizzato in muratura con copertura metallica (fig. 3). Questi ed altri esempi dimostrano come la pratica del recycle architettonico e urbano non possa prescindere da una lettura in senso tecnologico dei manufatti, che può invece essere decisiva nella ricerca di strategie appropriate e innovative. Essi dimostrano, altresì, che il recycle dei capannoni industriali dismessi costituisce un tema di grande attualità su cui esiste un vasto materiale dove sperimentare queste ed altre strategie di intervento.
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Note 1. L’architetto giapponese ha avuto, tra gli altri, il merito di avere sperimentato la riciclabilità, che è una pratica discendente in primis da un senso di responsabilità verso l’ambiente, all’interno di un quadro di obbiettivi ampio che va dalla “leggerezza” degli edifici, alla loro trasformabilità, semplicità costruttiva (fino all’auto-costruibilità) e basso costo di costruzione. 2. Cfr. Re-Cycle Italy, www.recycleitaly.it. 3. Cfr. Nardi, G., Progettazione architettonica per sistemi e componenti, Franco Angeli, Milano, 1977. 4. La Tecnologia dell’Architettura costituisce, nell’ordinamento accademico nazionale, il Settore Scientifico Disciplinare (SSD) ICAR 12. 5. Nell’ambito delle teorie dell’Open Building, J. N. Habraken immagina la città future come sommatoria di elementi di “supporto” (le infrastrutture) ed elementi di “allestimento”. Relativamente agli edifici, Habraken immagina, da un lato, la struttura e la rete impiantistica, “fisse” come tutti gli elementi infrastrutturali della città; dall’altro, un insieme di sistemi di completamento (chiusure, partizioni, finiture) che sottostanno a una temporalità imposta dall’uomo e dal mutare delle sue esigenze. Cfr. Habraken, 1961. 6. I sistemi derivanti da procedimenti di industrializzazione edilizia e, in particolare, quelli prefabbricati, godono di una maggiore “attitudine” al re-cycle derivante non tanto dalla ipotetica reversibilità dei giunti tra i componenti della costruzione, quanto dalla “concezione sistemica” con cui furono pensati e costruiti e che li rende disponibili a operazioni di manipolazione e ad interfacciare con nuovi e più aggiornati sistemi.
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PARCHI E RETI AMBIENTALI PER SMART TERRITORIES Massimo Sargolini >UNICAM
Questa breve riflessione prende le mosse da una ricerca già pubblicata per i litotipi della Springer (Urban landscape. Environmentale network and quality of life, 2012), e ne coglie le assonanze e le complementarietà con un altro pensiero elaborato dalla Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo, in cui Aldo Bonomi e Roberto Masiero integrano e completano alcune intuizioni territoriali fornendo nuova luce sui cambiamenti in atto, dal punto di vista comunitario-evolutivo e dei processi di produzione. Il denominatore comune sembra essere il riconoscimento della perdita di senso delle azioni progettuali puntuali e localistiche da ripensare e rimettere in gioco nelle profonde relazioni che innescano con un ambito territoriale più esteso. Da una parte, la spinta al consumo di suolo naturale, avvenuta inopinatamente, in molte aree agricole ora invase da inutili infrastrutture, residenze diffuse, o volumi di grandi dimensioni adibiti ad uso agricolo o industriale e altri manufatti spesso inutilizzati; dall'altra, un mondo di aree protette che è numericamente cresciuto, negli ultimi vent'anni, sino a coprire quasi il 12% del territorio nazionale ma, salvo rare eccezioni, senza avere la capacità di contaminare fertilemente i contesti in cui gli stessi ambienti tutelati ricadevano. La separatezza tra gli obiettivi della
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trasformazione per la produzione e quelli della conservazione dei beni ambientali e storico architettonici, nelle loro molteplici espressioni, ha prodotto asfissie e sterilità. Nuove continuità ambientali potranno divenire strutture di rifondazione di smart land "in grado di porre la cultura del parco non più ai margini, rispetto ai processi di sviluppo, ma dentro la metamorfosi degli stili di vita e di consumo” (Bonomi A., Masiero R., 2014). Parchi e aree dismesse La separatezza tra aree protette e contesto territoriale, che in Italia è stata accentuata da una legge quadro (L.394/1991) incapace di gestire il raccordo auspicato, si è sviluppata parallelamente a quella tra paesaggio e territorio, confermata dal Codice per i Beni culturali e il Paesaggio del 2004, che ancora mantiene separate le azioni per la conservazione da quelle per la valorizzazione. In entrambi i casi, è prevalsa la paura di avere a che fare con l’azione "diabolica" del progetto. Troppo tardi ci si è accorti che la mera tutela della risorsa non è la scelta migliore per la preservazione dello stesso bene e che non ci può essere conservazione senza innovazione. Se la sfida dei prossimi anni, per chi si interessa di aree protette, è quella di coglierne il loro straordinario ruolo per innalzare la qualità della vita degli abitanti del pianeta, i parchi italiani (come quelli di buona parte dell'Europa) debbono trovare occasioni per confrontarsi e rapportarsi con il sistema delle aree urbane e periurbane, dove ormai vive più del 50% della popolazione del pianeta, ma anche con quelle aree rurali segnate da un evidente degrado paesistico-ambientale, soprattutto a causa dei processi di abbandono e marginalizzazione. Peraltro, principi e nuovi paradigmi che la questione ambientale solleva, privi delle necessarie implicazioni pratiche e operative di disegno e di gestione, e relegati a un’altra temporalità, non incidono sulle trasformazioni relativamente rapide dell’urbanizzazione diffusa e diventano una giaculatoria di buone intenzioni. Per quanto riguarda il paesaggio, questa grande responsabilità viene deliberatamente assegnata all'urbanistica proprio dalla Convenzione Europea del Paesaggio. La vera rivoluzione introdotta da questa direttiva è quella di invitare chi si occupa di paesaggio a fare i conti con la questione territoriale e urbana nelle sue molteplici espressioni. Avanzamenti europei, sia nel campo del paesaggio che delle aree protet-
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te, hanno mosso acque stagnanti. In questa nuova prospettiva, gli stessi interventi di Adrian Phillips dell'IUCN, già nel 2004, sono molto illuminanti, quando sottolinea esplicitamente che le aree protette debbono agire non "contro" ma "per" le comunità locali. Il desiderio di ripartire dalle comunità è stato confermato, con molta nitidezza, a Jeju (15 settembre 2012) nell'ultimo Congresso dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN). Tra i diciannove principi ribaditi, tutti orientati verso una nuova era di salvaguardia, sostenibilità e soluzioni basate sulla natura, c'è un interesse speciale per il coinvolgimento delle comunità. Alcune parti del trattato si rivolgono espressamente alla tutela dei diritti degli stakeholders socialmente vulnerabili, con particolare attenzione alle popolazioni locali: incoraggiando la condivisione giusta ed equa dei vantaggi provenienti dalle funzioni ecologiche della diversità biologica; sostenendo la presa di coscienza, le conoscenze, la buona governance e gli investimenti sostenibili per dimostrare che la protezione dell’ambiente è affare di tutti e che l’umanità è fondamentalmente dipendente dalla natura; convincendo che la valorizzazione della natura e la mirata gestione dei servizi ecosistemici sono una tappa cruciale per offrire dei vantaggi, dei compensi e un riconoscimento ai guardiani del territorio. L’IUCN guiderà un movimento della conservazione che riavvicini le comunità, la società civile, i governi e gli investimenti al fine di negoziare e di mettere in opera le soluzioni pratiche che ci offre la natura per far fronte alle molteplici sfide dello sviluppo, dimostrando così la loro redditività e misurando e verificando i loro effetti. Nell'esperienza italiana le frange più retrograde dell’urbanistica ancora sembrano non comprendere che è necessario mettere in conto un rapporto interattivo con le tematiche delle aree protette e, più in generale, del paesaggio, e non considerarle altra cosa rispetto alla gestione dei processi di trasformazione territoriale e urbana. Sembra non si riesca a cogliere che l'intervento pro-attivo dei parchi e delle reti ecologiche potrebbe contribuire alla rigenerazione di paesaggi urbani degradati e in balia di forme crescenti di atopia, venendo quindi in aiuto alla gestione progettuale di città confuse e affastellate, da dove viene costantemente espulsa una parte di popolazione che cerca una migliore qualità della vita. Dai dibattiti interni all'INU, o al SIU come pure in ambito internazionale, giungono segnali incoraggianti, nel momento in cui si fanno considerazioni sulla qualità e sulla sostenibilità della città. In tal senso, è eviden-
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te che è difficile parlare di qualità della città a prescindere dagli spazi aperti e dai grandi parchi naturali. Cito una ricerca PRIN del 20061 in cui, nello studiare la qualità della città adriatica, l'unità operativa di UNICAM assume come tema centrale la risignificazione (per finalità strettamente ambientali) delle aree libere, con particolare attenzione ai residui, alle aree dismesse ed ai "ritagli della pratica edificatoria" che, nella regione adriatica, costituiscono un parco di aree disponibili ad interventi strategici per la riqualificazione delle aree di costa e vallive. L’insieme delle aree "non costruite" o di ex aree occupate da edifici industriali o agricoli ora dismessi assicura una riserva di superfici e di spazi nei quali è possibile generare un sistema di nuovi valori per la collettività. Sono vuoti virtuali che, se sfuggono alla logica di essere immaginati solo come "aree in attesa di essere edificate", costituiscono una straordinaria risorsa per la ricostituzione della matrice paesistico-ambientale di fondo, al pari dei parchi e delle aree protette. Armature ambientali per la riorganizzazione territoriale L’avanzamento culturale e disciplinare in materia di “governo del territorio”, registrato in Italia e in Europa in questi ultimi anni, ha di fatto indirizzato l’attenzione sulle armature ambientali intese come elementi costitutivi di nuove forme insediative, a scala urbana e territoriale. Finalmente, si avverte che la natura debba assumere la dimensione di un effettivo paradigma cognitivo rispetto alle forme urbane e territoriali, anche in funzione economica, con ricadute progettuali che investono molteplici scale, ordini del piano e del progetto. Vanno dunque avvicinati due concetti, già di per sé densi di significati (reti ambientali e territori), aggettivandoli, e considerando il valore aggiunto che deriva dalla loro stretta interconnessione geografico-concettuale. In questa prospettiva, assume un valore centrale il confronto della rete ambientale con le città per le funzioni dirette ed indirette che potrà svolgere in rapporto all'innalzamento della qualità della vita dei cittadini. Peraltro, il potenziamento dei servizi forniti dagli ecosistemi rispetto alla tutela di risorse essenziali come aria, acqua o suolo, è un elemento di primaria importanza per lo sviluppo di quella “green economy” che è riconosciuta come via maestra per affrontare l’attuale crisi economica. In questo senso, le reti ambientali possono diventare, da un lato, uno strumento strategico nell’ambito delle politiche di sviluppo messe in
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campo dalla governance, configurandosi come l’avvio del processo per il raggiungimento degli obiettivi definiti dalla “Strategia Nazionale per la Biodiversità” (Ministero per l’Ambiente, 2010) e dalla “EU biodiversity strategy to 2020” (CE; COM 2011 244); dall'altro, la matrice di fondo, il framework per la ridefinizione formale e funzionale della città. A tutti gli effetti si configura come la rete di base nella prospettiva reticolare in cui si muovono le recenti intuizioni delle smart cities2 e delle città creative3. La rete ambientale, come considerata nel caso studio dell'esperienza marchigiana (REM)4 , è un'infrastruttura che, oltre a garantire il passaggio di animali e piante, rimette in gioco, riqualificando e riorganizzando, tutti gli spazi urbani, periurbani ed extraurbani che intercetta, favorendo contatti e osmosi tra aree interne alla città e aree naturali del contesto, aree consolidate e aree in formazione, continuità ecologiche e framework sociali. In questo senso la REM, dialogando con gli ambiti di paesaggio del piano paesaggistico in corso di revisione, evidenziando processi comuni di attuazione, interessa, tra l'altro: la città costiera e le relazioni ambientali residue con le colline; i fondovalle insediati, le connettività fluviali e le spine verdi; i paesaggi agrari e la connettività diffusa dell’entroterra. La REM entra dunque nel groviglio delle altre reti della città e del contesto territoriale, contaminandole e caratterizzandole. Intesse relazioni alle diverse scale, attraversando spazi di natura e di urbanizzato, provocando reciproche, feconde, contaminazioni. In particolare, crea un flusso ecologicamente e antropologicamente capace di rivitalizzare e ridare senso e valore territoriale alle aree interstiziali dei tessuti edificati, alle aree dello scarto o del riuso, alle aree residuali, alle aree agricole in crisi, ivi inclusi i grandi manufatti dismessi o abbandonati. Note 1. "Opere pubbliche e città adriatica. La qualità del progetto nelle interazioni tra costa e sistemi vallivi marchigiani: infrastrutture ed aree dismesse", coordinata da Barbieri P., UNICH. 2. Il dibattito sulle smart cities ha preso avvio dieci anni fa. Si è spesso concentrato sulle nuove città in formazione tralasciando l'intervento sull'esistente. Attualmente, invece, potrebbe supportare i processi di rigenerazione urbana. 3. "Città creativa" evoca la città contemporanea quando è motore di sviluppo sostenibile, e quindi più attrattiva, più dinamica e più vivibile. Per approfondimenti: Florida, R., Cities and the Creative Class. Routledge, Londra, 2005; Carta, M., Quel motore nelle città creative, in «Il Sole 24 Ore», 22/03/2012; Carta, M., Creative city 3.0 New scenarios and project, 2012. 4. Il progetto di REM è stato sviluppato da un gruppo di ricercatori provenienti dalle università di Camerino, Macerata, Politecnica delle Marche, L'Aquila, Politecnico di Torino ed è stato coordinato da Massimo Sargolini (UNICAM).
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IUAV Capannoni nella cittĂ diffusa veneta
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RITRATTO DI UN CAPANNONE MOLTO STANCO Sissi Cesira Roselli
Il progetto fotografico si colloca in Veneto, un pomeriggio di luglio, intorno a un capannone industriale molto stanco. È un ritratto, non un reportage: la cronaca se ne è andata da questi luoghi e si è lasciata alle spalle una maschera dal volto di capannone, vuota di funzioni, orfana di padroni, in attesa di nuove regie. Quelli fotografati sono i resti di una promessa mantenuta a metà. Attraverso un punto di vista parallelo al soggetto si cerca l’ordine dove non c’è: nel caos dell’abbandono, la geometria delle linee tenta di far ritrovare un orientamento preciso nella grande pianura dei destini rovesciati. La fotografia che ne risulta è una raffigurazione sfalsata, non aderisce perfettamente alla verità delle cose, tenta di raddrizzare le storture della realtà e di sovra-esporre coni d’ombra di un’economia pallida. L’obiettivo si pone con rigidità di fronte alla faccia-facciata del capannone, in una danza misurata intorno alle sue occhiaie da giorno dopo la festa, alle finestre dalle palpebre socchiuse, agli intonaci rugosi, alle bocche-porte serrate. Il racconto del suo perimetro slabbrato è lo stesso di tutti gli altri capannoni senza gloria, stanchi di essere stanchi, stanchi di essere immobili.
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URBS IN HORTO : UNA VISIONE PER LA CITTÀ DIFFUSA Paola Viganò >IUAV
I progetti illustrati in queste pagine propongono una riflessione su un territorio, la città diffusa veneta, negli anni della crisi del suo modello economico, sociale ed ambientale. Tuttavia l’interpretazione che ne sarà proposta non è composta di immagini contrastate, di contrapposizioni evidenti come quelle che tradizionalmente associamo al processo di abbandono e di riciclo. Attraverso numerose e lunghe campagne di rilievo, di interviste, di progetti esploratori, di occasioni di dibattito con le istanze locali, ciò che emerge è un quadro sfumato, che mette a dura prova i nostri strumenti analitici e concettuali e di progetto. La crisi economica e la struttura molecolare della piccola e media impresa, incontrandosi, danno luogo a situazioni non dicotomiche entro le quali il tema “Riciclare capannoni” non è la sola operazione rilevante: spesso, nonostante la crisi, non lo è affatto. Esso rappresenta, piuttosto, un’ipotesi iniziale, da falsificare o verificare nel corso della ricerca, capace di introdurre ad un processo più ampio di ristrutturazione e di transizione epocale. E’ di questo processo e delle sue potenzialità che ci siamo occupati a partire da una riflessione sul concetto di ciclo di vita e di città come risorsa1. L’ipotesi che ha guidato lo studio della riqualificazione e del riciclo degli
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spazi della produzione dell'area centrale del Veneto è che capannoni e territorio, nel loro farsi e disfarsi, possono essere immaginati come "risorse rinnovabili" entro condizioni specifiche. In un ambito limitato, ma esemplare, del territorio diffuso, la federazione di comuni del Camposampierese, luogo di sperimentazione istituzionale e di ambizioni politiche e sociali, abbiamo indagato gli spazi, la qualità del sistema produttivo e insediativo, abbiamo individuato famiglie diverse di realtà produttive; riflettuto su energia, mobilità, rischio idraulico e attrezzature; realizzato carte e scenari, progettato strategie e dispositivi aventi per oggetto la loro progressiva trasformazione. Alcune considerazioni sono possibili. La crisi ha portato alla chiusura di numerose attività, ma contemporaneamente alla ristrutturazione profonda di quelle che hanno resistito, offrendo un quadro dinamico di nuove aggregazioni e dislocazioni all’interno dello stesso territorio2 . Non si tratta solo di abbandono, ma di sottoutilizzo, chiusure provvisorie, situazioni di difficile lettura3. Diverse nei termini di connessione o isolamento infrastrutturale, di scala delle placche, di prossimità e mescolanza con i tessuti dell’abitare, le aree produttive sono parte di un progetto anche istituzionale di nuova gerarchizzazione territoriale che privilegia alcune aree rispetto ad altre: a questo portano, ad esempio, i criteri contenuti nel nuovo piano regionale 4. Ad un primo sguardo, essi appaiono del tutto ragionevoli: sostenere e attrezzare le piattaforme meglio connesse, spingere alla trasformazione quelle che si trovano mescolate alle residenze, nelle parti più dense dei centri abitati. Ma se da questi criteri, più che ragionevoli, si passa ai casi concreti di ibridazione spaziale tipici della città diffusa, essi mostrano alcuni limiti che le esplorazioni compiute rivelano con chiarezza. Due esempi possono aiutare queste osservazioni iniziali. La placca ibrida a sud del centro di Camposampiero, della quale si immagina il rafforzamento, ospita ancora oggi attività poco coerenti alla prossimità del centro, come la fonderia che si è costruita ed espansa su se stessa in un bricolage complesso a contatto delle abitazioni. Altre produzioni si sono trasferite recentemente poco più in là, costruendo nuovi capannoni e affittando quelli che restano, affacciati sulle villette poste alla distanza minima dai confini. Al di là della strada, la vecchia Statale del Santo, alcuni edifici commerciali e show-room invecchiano senza consentire, per ora, la loro sostituzione completa. In questo caso, più che immaginare
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di rafforzare la placca industriale, sembra più importante disegnarne finalmente l’ibridazione e l’integrazione al tessuto urbano, qui tra i più densi. Le occasioni di trasferimento delle industrie (che si allontanano, appunto, per trovare condizioni più agevoli di accessibilità, movimento, di espansione possibile) si prestano alla costruzione di nuovi programmi di riuso; il centro di Camposampiero, la prossimità alla stazione ferroviaria e al grande ospedale suggeriscono un’estensione del centro capace di integrare anche alcune forme di produzione. Ma anche questa ipotesi non ha molto senso al di fuori di una riflessione sul futuro della fonderia, per la quale non esiste possibilità di trasferimento, ma solo quella di chiusura, di un lungo processo di bonifica e una buona iniezione di immaginazione programmatica. Poco distanti, verso est ed in prossimità della nuova statale del Santo (uno strano esemplare di strada in rilevato, con svincoli a più livelli, ma costituita di due sole corsie), si trovano le placche industriali più recenti, quelle considerate strategiche perché ben connesse: qui alcuni capannoni sono abitati da cinesi, che vivono e lavorano al loro interno. Il secondo esempio riguarda un’altra placca industriale del Camposam-
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pierese, a Villa del Conte (fig. 1), posta in un’area molto meno densa, debolmente connessa alle grandi infrastrutture, realizzatasi in fasi diverse ed entro un’area idraulicamente molto delicata. In questo caso si tratta di spazi produttivi, che il piano regionale considera non strategici. Nella placca è localizzata un’azienda di mobili, importante, che ha molto investito negli anni recenti nella ricerca alla frontiera del design contemporaneo, ma anche nella propria sede-manifesto, che ospita tra l’altro seminari e gruppi di giovani designers provenienti da scuole londinesi. La placca è intervallata da resti di campagna, qualche orto, alcuni spazi sottoutilizzati o non utilizzati, un nuovo bacino di stoccaggio dell’acqua di ruscellamento, un solo bar che chiude nel tardo pomeriggio. Luogo di alcune performances dell’artista Anna Scalfi5 (fig. 3), come la partita a golf tra imprenditori attraverso i lotti industriali, la placca è anche vicina ad una stazione ferroviaria posta su una linea secondaria non elettrificata che potrebbe essere ripensata, con qualche sforzo, in funzione della prossimità alle industrie. Una nuova organizzazione logistica potrebbe essere messa in atto. E’ proprio in questa stazione che l’artista deposita le sue biciclette “da rubare” proponendo un ragionamento sulla difficoltà a pensare di muoversi diversamente (la paura del ladro di biciclette). La mancanza di connessione ai grandi assi viari è compensata dall’elevata qualità del paesaggio, che tuttavia non è riuscito, fino ad ora6, a generare un’immagine progettuale, positiva della città diffusa. I due esempi riportati, ai quali possiamo aggiungere le micro trasformazioni di capannoni in luoghi per servizi sociali e culturali, ma anche l’emergere di nuove filiere di produzione agricola tecnologicamente
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avanzate in un territorio interamente produttivo, delineano un campo di infinita varietà: situazioni nelle quali collocare l’ipotesi di riciclo. E’ da queste sfumature della crisi che emerge la necessità di una reinterpretazione complessiva del territorio diffuso, sempre a partire da una riflessione sui suoi caratteri e sulle relazioni complesse che si definiscono tra ambienti eterogenei, dove agricoltura e produzione industriale si toccano e interpenetrano. Abbiamo quindi collocato il capannone entro una visione e un’immagine, allo stesso tempo radicate e dense di possibili innovazioni: l’Urbs in Horto. All’interno di questa immagine, il progetto di luoghi del lavoro si inserisce nella valorizzazione del capitale spaziale e naturale, innesca un processo più ampio di riciclo e valorizzazione di spazi ibridi e accostamenti inusuali. Inserite in un grande giardino coltivato, le piattaforme industriali possono approfittare di un’altissima qualità ambientale: un contesto meglio attrezzato e disegnato, il consolidamento di sinergie oggi non comprese rafforzerebbero l'attrattività e la competitività di luoghi dispersi e residuali (fig. 2). Urbs in Horto propone una visione per la città diffusa. Essa è coerente e si alimenta di alcuni concetti esplorati nel corso di ricerche precedenti, integrandone i risultati principali: 1 Il progetto dell’isotropia: la densità del supporto infrastrutturale di questo territorio di razionalizzazioni che si sono stratificate nel tempo lungo costruisce condizioni di abitabilità diffusa, offrendo le stesse condizioni in tutte le direzioni (isotropia). Molte delle sfide ambientali, legate alla mobilità e all’accessibilità, alla distribuzione e localizzazione dei servizi, alla produzione di energia e alla riduzione del rischio idraulico possono essere affrontate entro uno schema d’ordine non gerarchico, entro una “sintassi isotropica”. Da questa prima ipotesi deriva il tema della valorizzazione del supporto diffuso, l’attenzione alle forme, diffuse, dell’acqua, della biodiversità, dello spazio pubblico, dell’accessibilità. 2 High Inten-city e Low Inten-city: una città diffusa non più dipendente dall’automobile apre ad un’articolazione dello spazio in relazione alla mobilità, immaginando un investimento nel trasporto pubblico strutturante e innumerevoli modalità di mobilità lenta, dolce, condivisa. Da questa seconda ipotesi discendono strategie differenziate per le due città, ad alta e a bassa intensità (questioni di riciclo, densificazione, trattamento delle piattaforme industriali, organizzazione dei servizi per anziani…). Nella prima città, ad alta intensità, il trasporto pubblico è strutturante.
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3 Energia e riciclo: la valorizzazione dell’energia grigia, l’embodied energy, si aggiunge alle strategie tradizionali legate alla riduzione dei consumi, alla produzione di energia rinnovabile, al riciclo di energie e alla ricerca di sinergie. Lo scenario 100% recycle, inizialmente proposto nel 2009 nello studio per il Grand Paris7 , abbraccia l’insieme delle strategie, sostiene la non marginalità del deposito di energia contenuta nei luoghi e la necessità di minimizzarne l’utilizzo anche per contenere le emissioni di gas serra. L’ipotesi 100% recycle richiede una costruzione teorica, in corso di elaborazione, di non poco spessore. Nel Product Life Cycle l’evoluzione degli inputs (l’estrazione di risorse dell’ambiente) e degli outputs (l’emissione di sostanze nell’ambiente) di un prodotto e del suo ciclo di vita, chiede di prendere in considerazione tutto il ciclo-processo, dalla pre-produzione al trattamento di fine di vita che può seguire due procedure : restaurando a fondo la funzionalità, del prodotto o di alcune sue parti, oppure recuperando componenti ed energia del prodotto. E’ solo nel secondo caso che il termine riciclo, come obiettivo di una procedura di smontaggio e rimontaggio, compare; nel primo caso si parla semplicemente di riutilizzo. Smontare e rimontare assumono, nel progetto di città e di territorio, il senso della messa in questione di sequenze predefinite, dell’emergere di nuovi ruoli (funzioni e prestazioni), di occasioni di inclusione o esclusione. 4 Urbs in horto: la quarta ipotesi e visione d’insieme per questo territorio affianca alle precedenti l’idea della capacità dei territori diffusi di integrare la produzione nelle sue diverse forme, costruendo paesaggi che includono la produzione di cibo (alle diverse scale: dal consumo familiare nell’orto, alle forme industriali di agricoltura e questo diversamente dalla città densa (fig. 2). La produttività diffusa non è certo un’invenzione recente in questo territorio, disegnato e manipolato in ogni sua parte, suddiviso, drenato, irrigato e coltivato. Grandiosa nuova natura, nella straordinaria citazione di Cicerone in De Natura Deorum si rivela “seconda natura”8. Nel Rinascimento, scrive John Dixon Hunt9, il giardino (di piacere) emerge come terza natura, luogo di meditazione sulle due nature precedenti. La città diffusa è luogo privilegiato di riflessione su un territorio interamente produttivo, sui processi di riciclo in corso, di selezione e di aggiustamento che interessano non solo le piattaforme industriali, ma il suolo e la produzione agricola insieme al governo delle acque (rischio idraulico, tecniche di irrigazione e di utilizzo della risorsa),
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lo spazio pubblico, le forme molteplici di mobilità, i tessuti di villette, i nuclei sparsi ed i centri urbani. Nella città diffusa il giardino si estende alla seconda natura e brani della prima natura, non più sullo sfondo entrano a far parte del grande giardino produttivo. È da questa riflessione che nascono due ipotesi: la prima riguarda la necessità di una ricerca sull’iconografia dei territori diffusi, la seconda la costruzione dell’iconografia dell’Urbs in Horto nella quale, come nei paesaggi di scuola italiana o fiamminga, si riconoscono le tre nature evocate da John Dixon Hunt, ma disposte diversamente nello spazio. Una visione per la città diffusa richiede una sua diversa rappresentazione: è anche attraverso questo smontaggio e rimontaggio attraverso operazioni di progetto che può essere misurata la resilienza territoriale all’opera al tempo della crisi. Note 1. Su questo tema ho scritto in alcune occasioni: Viganò, P., “La ville est une ressource renouvelable: voyages, concepts, projets autour du recyclage” in: D’Arienzo R., Younes C., eds, Recycler l’urbain Pour une écologie des milieux habités, MetisPresses, Genève, 2014; Viganò, P., “Cicli di vita, energia e riciclo”, in: Marini, S., Santangelo, V., eds., Recycle Italy, Viaggio in Italia, Aracne, Roma, 2013; Viganò, P., "Riciclare città", in: Ciorra P., Marini S., a cura di, Re-cycle, Mondadori-Electa, MIlano, 2011. 2. Secondo Luciano Gallo, direttore della Federazione dei comuni del Camposampierese, tra il 2007 ed oggi circa il 30% delle imprese presenti nel territorio della federazione ha chiuso a causa della crisi, ma molte tra le imprese rimaste attive hanno investito e si sono ristrutturate. 3. Si veda la mappa ed il commento di Cecilia Furlan in questo capitolo. 4. Si veda la tesi di laurea “Workscapes: il Camposampierese come prototipo della città diffusa”, E. Breda, F. Scarin, A. Trento, Università Iuav di Venezia, 2014, che analizza le categorie proposte dalla Regione Veneto. 5. Anna Scalfi, Il tempo è il luogo, 28/04-08/07, curato da G. d'Amaro e S. Ferri de Lazara, Art&Co 2011 – Festival delle Città Impresa, fondazione March, Villa del Conte, Padova 6. Il marchio Valle Agredo è stato introdotto dalla Federazione proprio nel tentativo di valorizzare la qualità del paesaggio del Veneto centrale, proponendo un nuovo modello di sviluppo del turismo rurale. 7. Secchi, B., Viganò, P., La ville poreuse – Un projet pour le Grand Paris et la métropole de l’après-Kyoto, MetisPresses, Genève, 2011. 8. E' opera nostra lo sfruttamento dei monti e delle pianure, i fiumi ed i laghi sono in nostro potere, siamo noi che seminiamo i cereali, che piantiamo gli alberi, che fecondiamo i terreni con opere di canalizzazione e di irrigazione, che arrestiamo, che incanaliamo, che deviamo il corso dei fiumi, che ci sforziamo, in ultima analisi, di costituire in seno alla natura una specie di seconda natura (altera natura)”, Cicerone, De Natura Deorum, II, 60, 151-2. 9. «Casabella», n. 597-598, 1993; “The idea of a garden and the three natures”, in Hunt, J. D., Greater Perfection; Hunt, J. D., L’art du jardin et son histoire, Editions Odile Jacob, Paris, 1996. J.D. Hunt cita i due umanisti Bonfadio e Taegio.
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aree arabili in zone irrigue
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* Il titolo riprende il saggio di Marcel Smets Una tassonomia della dismissione, del 1990, pubblicato sul n. 42 della rivista ÂŤRassegnaÂť. Fig. 1 Mappa rappresentante i diversi tipi di scarto nell'area centrale veneta, PA-TRE-VE, (50x50km). Fonte: osservazione diretta C Furlan, tesi di dottorato IUAV, 2005
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UNA DIVERSA TASSONOMIA DELLA DISMISSIONE * Cecilia Furlan >IUAV
Come in molti altri territori europei, anche all’interno dell’area centrale veneta, si inizia a percepire che il lungo processo di sviluppo del territorio si stia concludendo (Fabian, Munarin, 2015), e che un silenzioso processo di metamorfosi stia iniziando. Se, come afferma Corboz (1998), il territorio può essere considerato come un palinsesto queste trasformazioni hanno certamente lasciato delle tracce su di esso. La recente crisi ha infatti messo in discussione gli attuali modelli produttivi, e lasciato in eredità una varietà di spazi non più propriamente utilizzati. Ponendo l’interrogativo: che cos’è lo spazio dello scarto oggi? Quali forme ha? “To waste or waste not. It’s all in the definition...” (B. Quinn 1997). Il concetto di spazio dello scarto, o di wasteland all’inglese, apparentemente sembra abbastanza ovvio. In realtà esistono più di cinquanta differenti vocaboli per denominarlo e classificarlo. Sebbene la comunità scientifica sia concorde nel dichiarare che lo spazio dello scarto sia il naturale risultato di un processo di urbanizzazione, è molto difficile formulare una definizione generale (Berger 2006; Lynch 1990). Storicamente, con questo termine s’intendevano una varietà di ecologie accumunate principalmente dal loro stato di disordine, dalla loro resistenza ad essere
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“addomesticate” e dall’assenza al loro interno di convenzionali segni di urbanizzazione (Di Palma 2014). Il valore di queste aree veniva associato al grado di produttività, che oggi, come nel passato, può essere inteso sia come qualcosa di completamente inutile o come qualcosa di non propriamente utilizzato. Durante gli ultimi trent’anni, diverse ricerche si sono focalizzate su questa mutevole relazione tra produttività e wasteland. Attualmente diverse espressioni circondano questo concetto: "terrain vague" (De Sola Moreles, 1995), “spazi senza nome” (Boeri, 1993; Eshel 2003), “brownfields” (Bowman and Pagano, 2000; Haase, 2008), “liminal space” (Endsjø, 2000), “terre derelitte” (Oxenham, 1966), “wasted space” (Lynch, 1990),“rovine industriali” (Edensor, 2005), “nuove terre” (Marini, 2010), “terzo paesaggio” (Clement, 2012) e “drosscape” (Berger, 2006). Ciascuna di queste definizioni rivela come questi spazi, non più produttivi, abbiano assunto nuove specificità; come i nuovi valori, osservati da altre prospettive, generino nuove logiche e nuove relazioni territoriali. Inoltre, come afferma Bruno De Meulder (2008) il territorio è composto da caratteristiche spaziali che costantemente emergono e si modificano, evidenziando come ogni tipo di processo o di trasformazione sia geograficamente e storicamente radicato nel territorio. Ne consegue che l’osservazione diretta e un’esplorazione territoriale che attraversa scale diverse, può consentire di descrivere la contemporanea complessità degli spazi dello scarto nell’area centrale veneta. Secondo Correa e Busquet capire le differenti forme di spazi dello scarto è la prima fase di un processo di riciclo. Mappare, rendere visibile ciò che non si vede o non si vuole vedere è l’azione primaria proposta all’interno della ricerca. Relativamente all’area in esame la dismissione e l’abbandono appaiono come fenomeni articolati, sia da un punto di vista economico-culturale che spaziale. Il tentativo di mappatura di questi spazi rivela situazioni produttivo-insediative diverse, alcune che sopravvivono e che anzi si stanno rigenerando, altre che lentamente mutano e altre ancora che sono completamente in decadenza (Fabian, Munarin, 2015). Se si cammina all’interno di alcune zone industriali, come nel Camposapierese (PD), ci si trova spesso di fronte a situazioni ambigue, diverse per morfologia, materiale e disposizione, che difficilmente rientrano di categorie specifiche. Attraverso l’osservazione diretta di una serie di spazi misurati , e di
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una porzione di territorio di circa 50x50 km, è possibile osservare come accanto a classiche forme di abbandono, cave estinte, infrastrutture sottoutilizzate, rovine industriali, spesso compaiano forme spurie di “spazio sottoutilizzato”. Questi tipi di spazi si possono identificare come: 1) aree marginali, spesso verdi, disposte come buffer zone tra infrastrutture ferroviarie, stradali, zone industriali, centri commerciali, cimiteri e i vicini tessuti urbani; 2) spazi in transizione come parcheggi sovradimensionati e zone verdi a standard , che sebbene previsti da legge, e localizzato all’interno di zone industriali, o zone commerciali, vengono completamente dimenticati, lasciando spazio allo sviluppo di diversi tipi di vegetazione spontanea. Possono essere inoltre identificati come spazi in transizione, capannoni svuotati ed usati come magazzini, case semi-abbandonate, edifici produttivi e commerciali non più in uso ma ancora in buono stato perché adiacenti ad abitazioni private ecc. Quest’arcipelago di elementi, come chiaramente visualizzato nella fig. 1, seppur frammentato non è un insieme inerte, al suo interno incarna un futuro potenziale. Un futuro, non composto di grandi trasformazioni, tipiche di altri momenti storici, come tra il 1980 e il 1990, ma di ciò che si potrebbe definire discrete innovazioni. Infatti, la micro struttura di questi frammenti silenziosi permette di stabilire relazioni “morbide” tra loro e il contesto che li circonda, proprio in mancanza di una loro precisa definizione. In un’ottica territoriale questi luoghi sono come pezzi mobili di un mosaico fitto. La sovrapposizione di questi spazi con altri sistemi, come il sistema idrologico, infrastrutturale e quello energetico, può aprire inaspettate relazioni e forse avere la capacità di riarticolare l’ordinamento spaziale di un territorio disperso come l’area centrale veneta.
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Superficie permeabile Superficie totale area dismessa
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Ex mugnificio 0 Purina, Silea
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Ex mulino Toso 0 Chiari e Forti, Silea
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Ex Vaserie Trevigiane, Quinto di TV
Ex cave, Lughignano
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Ex fornace Torzo, Musestre
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0,5 Km
Fig. 3 Rilievo di diversi tipi di zone industriali dismesse, disposte lungo il fiume Sile, una delle più importanti infrastrutture fluviali che attraversa parte dell'area centrale veneta. Fig. 4 Tassanomia della dismissione. Analisi degli edifici industriali dismessi, studiati in base alla vicinanza all'infrastruttura fluviale, al parco, ai centri abitati, ai servizi, al sistema di mobilità lenta, al sistema di trasporto pubblico. Fonte: tesi di laurea "Vuoti a rendere", studente: G. Cavallari, Luglio 2015. Relatore: prof. P. Viganò, tutor: Furlan e Pagnacco.
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corsi d'acqua
corridoio 5
ferrovia
strade a bassa percorrenza
strade a media percorrenza
strade ad elevata percorrenza
autostrade
poli industriali sovra-comunali
placche non soggette a piano
placche industriali da riqualificare
placche industriali ampliabili
placche industriali dei poli
UNA GEOGRAFIA DELLA PRODUZIONE
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Fig. 1 Mappa rappresentante le diverse zone industiali, distretti produttivi e tipi di produzione. Carta elaborata durante la preparazione della tesi di laurea "Workspace". Studenti: Breda, Scarin, Trento Marzo 2014. Relatore: Prof. P. Viganò, Tutor: Cavalieri, Curtoni, Furlan e Pagnacco. Fig. 2 Placca industriale di Camposapiero. Foto: studenti EMU semestre invernale 2013/2014.
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y k
siner sinergie dell sinergie des
Points Edifici connessi a Buildingdelle support for dispersed- eco supporto attivitĂ Points nomical activities related to public commerciali Building for dispersed- eco transportsupport connectivity. nomical activities related to public Points transportsupport connectivity. Building for dispersed- eco TWINS activities related to public nomical Emphasizing advantages from the transport connectivity. Points TWINS proximity of industrial platforms and Points Building support for dispersed eco Emphasizing advantages from- the residential environments. Building support forrelated dispersed eco nomical activities to - public proximity of and TWINS Zone industriali - exchange ofindustrial services, platforms energy & - ac nomical activities related from to public transport connectivity. residential environments. Emphasizing advantages the connesse a zone resicessibility. -transport exchangeconnectivity. services, energy & - acand proximity ofofindustrial platforms denziali cessibility. environments. residential TWINS -TWINS exchange of services, energy & - ac CORRIDORS Emphasizing advantages from the cessibility. Emphasizing advantages from the Indutrial platforms with platforms direct access proximity of industrial and CORRIDORS proximity of industrial platforms and to regional environments. infrastructure and close residential Indutrial platforms with direct residential environments. relation with the exits. - exchange of services, energyaccess & - ac to regional infrastructure and & CORRIDORS Zone industriali con-cessibility. exchange of services, energy -close ac high intensity environments relation with the exits. Indutrial platforms with direct access nesse corridoi infracessibility. - high intensity to regional and close strutturali di infrastructure ad environments alta intensitĂ relation with the exits. CORRIDORS -Building high intensity environments forwith dispersed eco CORRIDORS Indutrialsupport platforms direct-access nomical activities Indutrial platforms direct to regional infrastructure and close Building support forwith dispersed -access eco Related to public transport connectiv to regional infrastructure and close relation with the exits. nomical activities ity relation with theenvironments exits. - high intensity Related to public transport connectiv Building support for dispersed - eco - high intensity environments ity nomical activities INFRASTRUCTURE Related to publicoftransport A combination regionalconnectiv car- based Zone industriali INFRASTRUCTURE ity infrastructure. The main road network Building support for - eco connesse connesse a dispersed Afor combination regional based transport of of goods and acar hierarchy Building support for dispersed - eco nomical activities sistemi di trasporto infrastructure. The main road network INFRASTRUCTURE of fast public transport. nomical activities Related to public transport connectiv pubblico for transport of goods and acar hierarchy A combination of regional based -ity train Related to public transport connectiv of fast public transport. infrastructure. The main road network - highway ity --train for transport of goods and a hierarchy network INFRASTRUCTURE --highway of fast public transport. INFRASTRUCTURE Aexits combination of regional car based network -A -train node combination of regional carnetwork based infrastructure. The main road --exits highway stop infrastructure. The mainand road network for transport of goods a hierarchy Linee ferroviarie node -for network goods and a hierarchy of transport fast publicoftransport. Autostrada - stop exits of fast public transport. - train --node -train highway Reticolo stradale --stop -highway network --network exits Uscita autostradale --exits node Nodi --node stop Fermate - stop
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Regional platformsindustriali located in close relationship Piattaforme situate vicino with highway exits and railroad stops. alle uscite alle infrastrutture principali, Regional platforms located in close relationship with highway exits and railroad stops. autostradali e alle fermate ferroviarie.
25 km
25 km
Industrial development sorte connected a Zone industriali in with relazione medium city center through historical evolution. centri urbani. Industrial development connected with a medium city center through historical evolution.
25 km
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25 km
Recent development of medium sized platforms in close - 25 km relation with water courses 25 km tionship with a residential counterpart. Recent development of medium sized platforms in close relation with water courses Zone industriali sorte durante gli ultimi Zone industriali sortein relazione a cortionship with a residential counterpart.
venti anni.
si d'acqua.
Fig. 1 Mappa rappresentante le diverse zone industriali nel territorio del camposampierese (25x25 Km) e loro relazioni con il territorio. Fonte: esplorazioni progettuali studenti Master EMU, semestre invernale 2013/2014 (L. Carvalho, A. Chranioti, R. Gupta, M. Nagels, M. Zhang).
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HIGH INTEN-CITY E LOW INTEN-CITY
Fig. 1 Esplorazioni progettuali riguardanti il territorio del camposampierese (25x25km). Tema: Rivalutazione della placca industriale di Cazzago (PD) a partire dal riuso degli spazi industriali abbandonati e sottoutilizzati. Fig. 2-3 Analisi dell'evoluzione del costruito nell'area di Cazzago (PD), in nero gli edifici costriuti prima del 1990, in rosso gli edifici costruiti a partire dal 1990. Fonte: studenti Master EMU, semestre invernale 2013.2014 (L. Carvalho, A. Chranioti, R. Gupta, M. Nagels, M. Zhang). Prof. B. Secchi, prof. P. Viganò, tutor: Curtoni, Furlan.
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L’esperimento qui presentato si focalizza sulla zona industriale di Cazzago (PD), compressa tra due importanti assi infrastrutturali, l’autostrada A4 Venezia Milano e sulla linea ferroviaria Venezia Padova, e collocata in una zona esondabile [fig. 1]. Di conseguenza, la prima strategia proposta consiste nel trasformare alcune aree verdi marginali, in bacini aperti per raccolta delle acque piovane, modellando il terreno e riaprendo o ridisegnando il sistema originario di scoline. Le vasche di dimensione maggiore sono disegnate come “depositi” per l’approvvigionamento idrico a servizio dell’agricoltura. La seconda strategia riguarda invece i singoli edifici industriali, spesso disegnati come scatole da scarpe, e talvolta semplicemente sottoutilizzati solo come depositi. Ricoprendo le coperture con pannelli solari e piccole serre, i diversi capannoni diventano, attraverso un minino intervento, attivi produttori di energia, rifornendo i vicini nuclei abitativi e le abitazioni più isolate. Atri edifici sottoutilizzati possono essere invece trasformati internamente per ospitare servizi come palestre o locali notturni sfruttando l’elevata accessibilità della placca industriale, e una relativa distanza dai centri abitati. Infine le superfici asfaltate sovradimensionate vengono ripensate, attraverso minimi interventi, o appropriazioni temporanee, come spazi pubblici e trasformati come luoghi di ritrovo e di interazione tra i lavoratori, come il lavoro dell’artista Anna Scalfi sulla placca industriale di Villa del Conte Camposampiero (PD).
Placca industriale: Cazzago
Edifici industriali costruiti prima del 1992 Edifici industriali costruiti dopo del 1992
Tessuto urbano
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Tessuto urbano costruito prima del 1992
Interventi strategici
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1.Z
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En
Ene edi
energy production
Spazi cilopedonali che entrino all'interno delle aree industriali
Orti urbani
Cit
Pavimentazione continua per lo spazio pubblico
Creazione di nuovi spazi per l'acqua
Sfruttare le coperture degli edifici industriali per la produzione di energia elettrica rinnovabile
Fila
Riciclare le scoline e i canali sottoutilizzati
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strategici
Water management 1.Zone di ritenzione dell’acqua 2.“Piazze d’acqua”
“Agro Parco”
1.”Piazza Mercato”, promozione prodotti locali
2. Agricoltura locale - allargare il sistema di scoline - potenziare la raccolta e distribuzione dell’acqua -diversificare la produzione
3. Orti urbani
-
energy production
energy production
4.Acquedotto Ripensare alla circolazione dell’acqua
Rain Water collection
Waste Water purification from households
City
Retain water in subsurface wetlands along water stream save water in winter and use in summer
Rain Water collection and purification
Mobilità lenta
Summer
1. Piste ciclabile -che entrano all’interno della piattaforma industriale
Filament
Water distribution in orchards
Winter
City
Rain Water collection and purification 2. Pavimentazione continua per lo spazio pubblico
Energia Filament Energy di riciclo proveniente dagli edifici industriali e residenziali
Rain Water collection City
Waste Water purification from households Retain water in subsurface wetlands along water stream save water in winter and use in summer
Rain Water collection and purification
Summer
Filament
Water distribution in orchards
Winter
Fig. 4 Rivalutazione della placca industriale di Cazzago (PD) a partire dal riuso degli spazi industriali abbandonati e sottoutilizzati. Fig. 5-6 Strategie progettuali. Fonte: studenti Master EMU, semestre invernale 2013.2014 (L. Carvalho, A. Chranioti, R. Gupta, M. Nagels, M. Zhang). Prof. B. Secchi, prof. P. Viganò, tutor: Curtoni, Furlan
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Water
HIGH INTEN-CITY E LOW INTEN-CITY: Workscape
Fig. 1 Inquadramento progettuale sul territorio del camposapierese (25x25km). Fonte: studenti Master EMU, semestre invernale 2013/2014 (L.Carvalho, A.Chranioti, R, Gupta, M Nagels, M. Zhang). Prof. B. Secchi, prof. P. Viganò, tutor: Curtoni, Furlan. Fig. 2 Strategie progettuali per rivalutare la placca industriale di Camposampiero. Studenti: Breda, Scarin, Trento, Marzo 2014. Relatore: Prof. P. Viganò, tutor: Cavalieri, Curtoni, Furlan e Pagnacco.
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Sei strategie per riciclare Il tessuto produttivo e una visione
Riciclo degli spazi sottutilizzati o abbandonati all'interno della placca industriale, favorendo una mixitè delle imprese e dei servizi destinati ai lavoratori.
Riciclo degli spazi sottutilizzati o abbandonati,creazione di grandi spazi liberi, per favorire l'inserimento di attivitĂ temporanee.
Riciclo degli spazi sottutilizzati lungo gli assi stradali, per favorire la creazione di spazi pubblici.
Riciclo degli argini fluviali nei pressi degli edifici industriali abbandonati come occasione per la creazione di nuovi spazi collettivi.
Riforestare le zone verdi sottoutilizzate ai margini delle infrastrutture.
Rivalutare le zone verdi sottoutilizzate lungo le infrastrutture fluviali, in spazi pubblici, riconnettendoli con il sistema di mobilitĂ lenta.
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Servizi esistenti
Bike sharing
Scoline
Corsi d'acqua e canali
Piste ciclo-pedonali
Ferrovia
Spazi pubblici attrezzati
Spazi pubblici verdi
Spazi pubblici pavimentati di progetto
Tessuto urbano esistestente
Edifici sottuutilizatti, destinati ad attivitĂ temporaranee
Densificazione del tessuto urbano e produttivo
Edidci riciclati secondo le strategie descritte
Fig. 1 Scenario per rivalutare la placca industriale di di Camposampiero. Fig. 2-3-4-5 Suggestioni progettuali. Immagini. Fonte: tesi di laurea, studenti: Breda, Scarin, Trento, Marzo 2014. Relatore: prof. P. Viganò, tutor: Cavalieri, Curtoni, Furlan e Pagnacco.
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URBS IN HORTO
Riciclare gli edifici industriali, che siano semplici capannoni o fabbriche piÚ articolate, investe il territorio intero, il territorio considerato come un risorsa rinnovabile, permettendo la creazione di nuovi dialoghi, che partono da i principi di prossimità ed integrazione. Lo scenario del riciclo sviluppato, nell'approccio Urbs in horto, mostra un insieme di fortunate coincidenze, create dalla vicinanza tra edifici abbandonati che possono essere riqualificati, parcheggi sovradimensionati e aree verdi marginali che possono rispondere alla domanda di nuovi spazi per l'acqua, edifici industriali, capannone, abitazione e zone agricole che possono essere integrate secondo il principio della mixitè. Le esplorazioni progettuali, nella zona di Camposampiero e Villa del Conte (PD) hanno mostrato come questo approccio possa far fare un balzo economico, culturale e tecnologico in avanti, in cui una forma urbana, per nulla caotica, ma strutturata secondo un sistema di strade e canali, possa essere rinnovata a partire dalla sua specifica eterogeneità .
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Placca industriale Squizzato, Villanova di Camposampiero [Analisi]
Placca industriale Squizzato, Villanova di Camposampiero [ Esplorazione del potenziale]
Zone esondabili
Zone pavimentate sottoutilizzate
Bacini di raccolta dell'acqua
Centrale elettrica da biomassa
Stazione ferroviaria
Serre
Aree verso a standard sottoutilizzate
Riuso di parti di edifici abbandonati
Riuso di parti di edifici abbandonati per attivitĂ temporanee
Zone agricole
Raggruppamento attivitĂ commerciale, servizi e abitazioni
Fig. 1 Urbs in Horto. Scenario per rivalutare parte del territorio diffuso di Camposampiero. Fonte: Workshop Recycling city 3 "Urbs in Horto", Venezia, Giugno 2014. Fig. 2 Urbs in Horto. Visioni per rivalutare la placca industriale di Villa del Conte. Fonte: studenti Master EMU, semestre invernale 2014/2015. Prof. P. Viganò, tutor: Curtoni, Mazzorin.
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Fig. 4 Urbs in Horto. Scenario per rivalutare parte del territorio diffuso di Camposapiero. Fonte Workshop Recycling city 3 "Urbs in Horto", Venezia, Giugno 2014. Fig. 5-6 Modello Urbs in Horto, placca limitrofa al centro di Camposampiero. Tesi di laurea di T. Pietropolli, Luglio 2015. Relatore: prof. P. Viganò, tutor: Pagnacco.
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Fotografie raffiguranti la placca industriale di Villa del Conte. Fonte: studenti Master EMU, semestre invernale 2014/2015.
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«Àncore 1», rivista a cura di Sara Marini e Alberto Bertagna, “edita” in occasione del workshop Capannone senza padrone, Festival Città Impresa, 26-30 aprile 2011
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PICCOLE PATRIE. STORIE DAL NORD EST Sara Marini >IUAV
Nel 2011 viene presentato al pubblico italiano il film Cose dell'altro mondo di Francesco Patierno, dopo tre anni viene proiettato nelle sale cinematografiche Piccola patria di Alessandro Rossetto. La ricerca del cinema veneto sulla propria terra ricorre senza mai diventare particolarmente nota: resta un'eco di provincia. I due film parlano della fabbrica, del disegno del territorio, mettendo al centro un mosaico sociale segnato da desideri d'autonomia ed istinti d'indipendenza. In Cose dell'altro mondo, inaspettatamente e inspiegabilmente, un giorno gli extracomunitari di una qualsiasi cittadina del Nord Est spariscono, tutto si ferma a partire dalle fabbriche. Piccola patria prende le mosse dall'incontro di due ragazze in un gigantesco Grand Hotel che campeggia in una campagna urbanizzata a brandelli. I rapporti tra le persone di diversa nazionalità sembrano costituire la trama centrale dei due racconti, in realtà senza lo scenario in cui si muovono gli attori le due storie sarebbero incomprensibili. Si tratta di una terra, il Veneto, che continua a credere nel lavoro e che ha "riversato" questa fiducia in forma di architettura e di città. I due film riflettono due aspetti dell'attuale stato dell'architettura della produzione in Veneto. Il primo fenomeno che caratterizza lo scenario è la scomparsa di funzio-
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ni necessarie (in rapporto alla quantità di volumi disponibili) alla quale è conseguita anche un'inutilità delle forze lavoro e una loro, conseguente, "sparizione". Alla dismissione di diverse attività produttive corrisponde la volatilizzazione di alcune occupazioni possibili dello spazio e il cambio di rotta di alcune popolazioni in cerca di un lavoro. Il secondo sintomo è il problema del gigantismo o della grande dimensione dei manufatti che galleggiano in assenza di massa urbana e di un possibile nuovo destino o ruolo. In un paesaggio macchiato da realtà produttive, che si volevano autonome come piccole patrie, trovano campo i due problemi. Nel 2001 la legge Tremonti bis ha permesso la costruzione dilagante di capannoni. Oggi la cronaca racconta la demolizione che un imprenditore ha inflitto alla sua proprietà pur di non pagare le nuove tasse che vigono su questi manufatti. Il capannone si è trasformato, in poco tempo e grazie alla crisi economica, da monumento della produzione e del benessere a spazio "vuoto" di cui è molto difficile disfarsi. Su questi volumi si addensano sentimenti contrastanti: sono considerati patrimonio edilizio (spesso di scarsa qualità architettonica e tecnologica) in virtù di un volume a cui da sempre è collegata un'ipotetica rendita, sono però anche e sempre più idrovore di investimenti dettati da precisazioni normative o nuove tassazioni. L'archivio, immenso e anche difficilmente mappabile, di questa realtà in dismissione presenta molte sfumature: spesso i capannoni non sono vuoti ma sottoutilizzati, alcuni sono stati abbandonati perché l'azienda ha costruito una nuova sede più grande in un luogo "meno compromesso" dove affermare una nuova immagine. Il progetto è chiamato a confrontarsi con i due problemi accennati precedentemente e anche a cercare all'orizzonte nuove o antiche tendenze. Il primo problema, dettato dall'assenza di funzioni che possano occupare i volumi disoccupati mette il progettista nella condizione di riaprire, dilatare lo spettro di azione dell'architettura come chiedeva a suo tempo Giancarlo De Carlo1. Non si tratta più e soltanto di definire una soluzione, di disegnare una trasformazione ma serve programmarla, impostarne i presupposti e condividerli con i possibili attori interessati. È necessario progettare non solo la scena ma anche lo scenario. Cercare per questi edifici oggi inutili un nuovo ciclo di vita può apparire una forzatura dal sapore modernista, per contro nessun incentivo appare all'orizzonte per condurli alla demolizione. La distanza dalle magnifi-
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che sorti e progressive è però evidente nel momento in cui il progetto non agisce per prospettare un unico possibile disegno da realizzare in toto ma, di nuovo decarlianamente, opera per tentativi alla ricerca di punti di ancoramento dove innestare nuove derive. Linee di tensione e nuovi fulcri sono appunto un'ipotetica risposta al secondo problema. Il gigantismo è un tema prolifico per l'architettura2 se questa però si trova in città, ma quando, come in questo caso, gli edifici sono persi in un territorio urbanizzato la grande dimensione è la messa in forma di un problema. Serve allora ri-accendere questi giganti in alcuni punti e rendere comunitaria la loro grande dimensione. Chiaramente si tratta di strategie che si attestano e trovano senso nel valore o meno dell'elemento murario e dello spazio, senza i quali ogni azione sarebbe solo un'inutile forzatura. Un dato fondamentale però segna una nuova e diversa direzione: la produzione è cambiata. Non serve più aumentare la cubatura per implementare il numero delle macchine o degli addetti, oggi le aziende che hanno un buon profitto lavorano in spazi di qualità con modalità artigianali che possono ritornare in centro città.3 Ritorno che non disegna una risposta salvifica per le carcasse dell'industria che ricorrono nel paesaggio veneto. Servono però storie concrete dal territorio, come tre ipotetici film dalla provincia, per raccontare in concreto le direzioni incrociate di problemi e soluzioni e per tracciare una prospettiva. Prima storia. Capannone senza padrone e ritorno Era il 2011 quando la Fondazione Fabbri di Pieve di Soligo in occasione del Festival Città Impresa organizza il workshop Capannone senza padrone. Tra i diversi casi studio proposti è presente un lanificio attivo dal 1795, la cui area di produzione è grande come il centro di Follina al fianco del quale sorge questa cittadella del tessuto. L'impianto ha conosciuto diversi momenti di espansione e stratificazione: è possibile leggere sulla pelle e nella planimetria i differenti modi di lavorare, di mettere in uso spazi aperti e relazioni tra le parti. La struttura industriale (nel 2011) presenta caratteri ambigui: custodisce un archivio dalle radici profonde, un tesoro indelebile, al contempo la grande dimensione dell'insediamento invece di essere un valore è un peso. Sono presenti nel recinto della fabbrica due capannoni costruiti negli anni Settanta del Novecento che hanno conosciuto vari passaggi di proprietà e sono, in sostanza e alla lettera, senza padrone perché all'asta giudiziaria da tempo. I due capannoni sono di
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scarsa qualità, o meglio partecipano ad un paesaggio anonimo fatto di mere ripetizioni mentre le spazialità interne si offrono a diversi utilizzi. La situazione sembra quella di una nobile scena decaduta in cui lo spazio, oltre a presentarsi come risorsa, rappresenta un concreto problema di gestione. La risposta progettuale sviluppata in questa prima esperienza prova ad insistere sui due capannoni, presupponendo un acquisto degli stessi da parte dell'amministrazione – data la loro posizione nevralgica di scambio tra la città e la fabbrica e con il corso d'acqua presente. Per il capannone più "solido" – meno compromesso dall'azione del tempo e più grande – viene ipotizzato l'insediamento progressivo dell'archivio dei tessuti punteggiato da aree laboratorio. Per il secondo volume si progetta uno spazio delle feste, definito attraverso la sola messa in sequenza delle differenti festività, religiose e non, capaci di riempirne lo spazio e di portare nuovi finanziamenti impostando una sorta di fund raising ante litteram. In sintesi la risposta progettuale ragiona su un tempo lento di trasformazione da attuarsi con azioni progressive che cercano di raccogliere attorno al problema della dismissione la partecipazione di addetti ai lavori e al contempo del "grande numero". La storia conosce altre due occasioni di progetto. La seconda prende corpo a distanza di un solo anno dalla prima e si articola intorno alla sostituzione progressiva dei due capannoni con altre architetture "più resistenti". La funzione ipotizzata è ancora l'archivio implementato dalla presenza di alcune residenze per studenti interessati alla storia dell'azienda. La precisazione del programma funzionale è dettata da esigenze concrete dei proprietari della fabbrica: la memoria della produzione sembra progressivamente prendere la scena chiedendo spazi per la rimessa in uso delle idee, per nuovi cicli di vita dell'immateriale. La terza occasione di progetto si sviluppa all'inizio del 2015: le cose sono cambiate poco e molto, allo stesso tempo. Dal punto di vista dei manufatti poco è mutato, l'azienda nel tempo ha però concretizzato le indicazioni tracciate nel primo workshop: facendosi carico di un progetto culturale di sensibilizzazione sociale della propria presenza nel territorio, organizzando incontri ed eventi, coinvolgendo le forze "progettanti" del luogo. La trasformazione sul piano architettonico non insiste su una reale manomissione dell'esistente ma su un alloggiamento progressivo di nuove attività. L'archivio sta prendendo corpo nel primo piano del volume centrale dell'azienda, i due capannoni senza padrone sono saltuariamen-
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te utilizzati per set pubblicitari. La proposta di progetto questa volta si concentra sulla definizione delle azioni di recupero degli spazi riattivati, sulla messa in sicurezza e sull'accessibilità. Si ipotizza poi che, in un secondo tempo, si possa procedere con la realizzazione nelle vecchie officine abbandonate, prossime ai due capannoni senza padrone, di residenze legate a laboratori per la produzione immateriale. Le caratteristiche architettoniche e tecniche (ridotta dimensioni degli spazi e tecnologia tradizionale di costruzione) di questo nucleo dell'insediamento ne permette il progressivo e parziale recupero. Gli spazi riattivati dovrebbero ospitare le officine di nuove forze lavoro insediate nel territorio: nuove generazioni che stanno investendo nell'artigianato e che si riconoscono nello spirito inclusivo dell'azienda. In sostanza il progetto in questa storia è un rimbalzo continuo di scommesse sul tempo e sullo spazio, è un movimento in avanti e a ritroso in una sorta di verifica continua delle possibilità. Seconda storia. Il destino del capannone Nel 2011 l'Università Iuav di Venezia raccoglie problemi dal territorio per farne temi di workshop della durata di tre settimane di lavoro. Uno dei casi è un capannone nel comune di Bassano del Grappa non distante dal centro storico. L'esercizio didattico è arricchito dal dialogo con l'amministrazione e con il proprietario. L'area presenta una superficie di 30.000 metri quadrati, quasi interamente occupata dal volume. Il capannone è utilizzato parzialmente come magazzino. Precedentemente ospitava una fabbrica che produceva cucine che si è trasferita in un'altra sede più grande costruita ex novo. Anche in questo caso il capannone è in cemento armato e non presenta nessun elemento di qualità se non la sua grande superficie. Oltretutto insiste in un'area dove erano presenti diverse attività produttive evidentemente dismesse. In questo caso più che le proposte progettuali elaborate è paradigmatica la domanda posta dal proprietario. Va premesso che il capannone viene acquistato nel 2008 per essere demolito e lasciare spazio a nuove palazzine di appartamenti ma chiaramente il mercato, in poco tempo, rende questa ipotesi antieconomica. Viene valutata una seconda possibilità che prevede sempre la demolizione del manufatto al fine di costruire un centro commerciale ma lo strumento urbanistico, che aggiorna le direttive comunali, pubblicato poco tempo dopo l'acquisto, stabilisce una precisa altra area dove devo-
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no sorgere i grandi volumi commerciali e ne sancisce il numero massimo. Il committente chiede di non sviluppare un progetto con un'ipotesi precisa di trasformazione ma di disegnare il possibile destino dell'area a partire da una funzione da inventare, escludendo chiaramente residenze e grandi centri commerciali. Questa seconda storia sposta, ancora di più rispetto alla prima, lo spazio del progetto dalla formalizzazione di architetture e spazi alla definizione di funzioni, investitori e acquirenti. La prefigurazione ruba la scena alla definizione di ipotesi salde: si tratta di ri-disegnare il destino del territorio e la sua vocazione, si tratta di scrivere nuove storie più che statici sipari. Terza storia. Factory o del ritorno in città La terza storia si svolge oggi e ha come campo di sperimentazione la ricerca universitaria. In occasione di una collaborazione incentrata sul progetto di archivi immateriali, l'azienda coinvolta chiede di poter individuare un manufatto che possa accogliere il proprio luogo di lavoro in modo tale che non solo sia progettata la struttura digitale ma anche gli spazi per utilizzarla. La società pensa di occupare un capannone da individuare a Porto Marghera. Le condizioni sono cambiate: i costi per bonificare i terreni di Marghera non permettono di sviluppare come previsto la trasformazione dell'area in polo terziario. Anche i progetti delle aziende sono cambiati in pochi anni. La società coinvolta si occupa di prodotti informatici e dello sviluppo e dell'insediamento dell'arte visiva nel territorio. Il centro storico di Venezia è oggi un'alternativa concreta agli spazi industriali dismessi. La produzione può tornare in città, anche in una città fragile come quella lagunare, perché non è inquinante, produce più idee che cose, ha bisogno di scambi culturali più che di accessibilità e poi soprattutto perché ha bisogno di una “nuova vecchia scena”. Vengono mappati gli edifici religiosi non più utilizzati per il culto che punteggiano silenziosamente l'isola: anche questi manufatti sono in attesa di un nuovo ruolo, di una nuova gestione, di tornare ad essere parte della città. Le ex-chiese possiedono, a differenza dei capannoni, un'innegabile ricchezza architettonica e spaziale, certo sono soggette a vincoli più rigidi, sicuramente sono attrezzabili solo investendo sull'effimero e su architetture a tempo determinato: la scena ha già il respiro dell'immutabile. Sembra di assistere così ad uno scontro impari tra spazi disponibili in città e volumi disoccupati che punteggiano il territorio. Si è costretti a
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confronti improbabili ma oggi resi necessari dal problema della scelta tra oggetti che pongono regole rigide e volumi che offrono spesso solo la propria esposta disponibilità al cambiamento. Si è di fronte alla possibilità di operare con certezza in pochi punti da definire, tra edifici che dell'eterno hanno la consistenza e spazi solo vuoti in attesa di nuove storie.
Note 1. "Un’operazione di architettura passa per tre momenti: la definizione del problema, l’elaborazione della soluzione, la valutazione dei risultati. La sequenza dei tre momenti è irreversibile e alla fine del percorso l’operazione è considerata conclusa. [...] La partecipazione implica la presenza degli utenti lungo tutto il corso dell’operazione. Questo fatto genera almeno tre fondamentali conseguenze: ogni momento dell’operazione diventa una fase del progetto; anche l’«uso» diventa un momento dell’operazione e quindi una fase del progetto; i diversi momenti sfumano uno nell’altro e l’operazione cessa di essere lineare, a senso unico e autosufficiente. [...] Il compito del progettista non è più di sfornare soluzioni finite e inalterabili, ma di estrarre le soluzioni da un confronto continuo con chi utilizzerà la sua opera. La sua immaginazione sarà tutta puntata a svegliare l’immaginazione dei suoi interlocutori e la soluzione uscirà dal contatto tra le due, passando attraverso una concatenazione di alternative sempre più aderenti alla natura del problema che si affronta. [...] La progettazione architettonica diventa un processo." G. De Carlo, L'architettura della partecipazione, Quodlibet, Macerata, 2013 (Ed. or. 1972). 2. Grande dimensione, megastruttura e bigness sono questioni che hanno attraversato il pensiero e il progetto architettonico declinando, con accezioni differenti, le possibilità proprie al gigantismo dei manufatti. Si veda a questo proposito la voce Grande nel testo G. Corbellini, Ex-libris. Parole chiave dell'architettura contemporanea, 22 publishing, Milano, 2007. 3. Si veda a questo proposito il testo di S. Micelli, Futuro artigiano, Marsilio, Venezia, 2011.
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«Àncore 3», rivista a cura di Sara Marini, “edita” in occasione del workshop Il destino del capannone, Wave 2011, 27 giugno-15 luglio 2011
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NUOVI DESTINI CERCASI. LA CAPANNOPOLI VENETA Vincenza Santangelo >IUAV
Il territorio italiano è sempre più teatro di una serie di processi di trasformazione dei modi di abitare e produrre1, che in parte intercettano i territori della città dispersa2 e disegnano nuove geografie. Negli ultimi trent’anni si è passati dall'industria, come grande apparato di produzione e lavoro, ad altre modalità come il terziario, il commercio, la produzione più individuale, i distretti, ecc. Se fino ad alcuni anni fa al centro di molti dibattiti c’era il problema del destino delle grandi aree dismesse – rispetto al quale sono stati fatti degli esperimenti di riqualificazione, bonifica e progettazione –, oggi ci si confronta con nuove forme di dismissione la cui caratteristica rispetto alle precedenti è che se le prime erano più esplicitamente circoscrivibili nel tempo e nello spazio, oggi invece sono di natura più puntuale e meno rintracciabili3. Lo svuotamento dei capannoni, materiale e di senso, è una delle nuove forme di dismissione con cui confrontarsi: piccole luci che si spengono, simboleggiando dismissioni totali o parziali in attesa di nuovi destini. Shoebox. La proliferazione e il disincanto Già alla fine degli anni Ottanta gli Statunitensi coniano il termine “Shoe
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box building”4 per definire gli edifici costruiti come scatole con finestre a nastro o intere superfici vetrate, realizzati con costi ridotti e spesso privi di qualità progettuale e tecnologica. Scatole grandi ma allo stesso tempo fragili – palesando in alcuni casi una precarietà strutturale oltre che progettuale – calate sui territori come astronavi, dove adattare di volta in volta svariate funzioni, dai centri commerciali alle imprese mediopiccole, non intrecciando alcun rapporto nei contesti dove atterravano. Scatole che ben che ben presto hanno cominciato a costellare e colonizzare in maniera virale i territori della produzione italiana, dal Nord Ovest, culla del fordismo italiano, al Nord Est, avamposto dell’individualismo proprietario, approdando anche nelle poche realtà produttive del Centro Sud. Nel 2001 la legge Tremonti bis5 assegna incentivi fiscali alle imprese che reinvestivano i propri utili in “beni strumentali”, che si traducono materialmente nella costruzione di capannoni, diventando simbolo di un nascente capitalismo molecolare6. Nonostante fosse ormai in crisi, e forse già concluso da tempo, il capitalismo territoriale, la moltiplicazioni dei capannoni procede con ritmi frenetici: dai 398.703 capannoni nel 2000 si passa ai 701.978 nel 2011, segnando un incremento del 76% in undici anni7, di cui l’80% nei piccoli comuni e per lo più localizzati in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Si coagulano in microcosmi fondati sulla ripetizione della logica capannone-villetta, dove il capannone diventa ben presto il simbolo identitario di un capitalismo personale8 e orizzontale in una campagna organizzata. Una proliferazione che si arresta con l’attuale crisi, che sta dimostrando un carattere tutt’altro che transitorio. In Veneto, secondo delle stime approssimative, in soli cinque anni sono stati costruiti capannoni che nell’insieme costruiscono un capannone alto 10 metri, largo 28 e lungo più di 200 chilometri. Nonostante l’urgenza e la pervasività del fenomeno all’oggi c’è una grande lacuna per quanto riguarda la quantità di queste scatole che dilagano nella campagna veneta, la condizione in cui versano e quali i possibili destini. Affiorano dati parziali: nella Provincia di Vicenza è vuoto un capannone su quattro e nella Provincia di Treviso uno su cinque; nel Comune di Asigliano Veneto è stata costruita una zona industriale di 392.000 metri quadrati, di cui solo il 15% è utilizzato; i 16.000 e 17.000 metri quadrati dei Comuni di Laghi e Lastebasse hanno una saturazione pari a zero. Numeri che diventano il rumore di fondo9 della trasformazione del territorio veneto generata
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dalla crisi, indizi da cui partire per provare a ragionare su un fenomeno tutt’ora in corso. Il competitivo Nord Est, imperniato sulla Regione Veneto, ha esaurito lo slancio degli anni Novanta. Le nuove esigenze dei mercati internazionali, l’onda della globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, i nuovi paradisi economici e fiscali oltreconfine hanno esposto le piccole-medie aziende venete ad una competizione sempre più incalzante ed esigente, facendo venire a galla problemi strutturali come la carenza di un’adeguata rete di collegamenti, l’insufficienza di specializzazione nel settore della formazione, la scarsità di investimenti nell’ambito della ricerca e dei rapporti con i poli culturali e creativi. Oggi il Nord Est è in una condizione di disincanto, in bilico fra la chiusura del precedente ciclo e l’ideazione e costruzione di un nuovo modello, ma anche alle soglie di un futuro tutto ancora da scrivere, provando a partire dai germi di innovazione che stanno affiorando dai territori della crisi. Nuovi destini. La metamorfosi La metamorfosi parte dalla crisi, anzi la crisi stessa è già una forma di metamorfosi e quindi per poter immaginare nuovi cicli produttivi è necessario partire dagli effetti della crisi stessa, immaginando dei futuri praticabili per i capannoni in attesa. Per ogni capannone c’è da inventare, progettare e realizzare un destino. Se i capannoni localizzati nel centro urbano, o nelle immediate prossimità, possono essere anche agevolmente riconvertiti in loft di lusso per le nuove classi emergenti, per i capannoni della città dispersa veneta è necessario un cambio di prospettiva e di azione, considerandoli all’interno di un sistema fatto di centri storici non più minori, paesaggi culturali che acquistano sempre più valore, nature ancora vergini, patrimoni immateriali sedimentati nel corso dei secoli. Sono territori in cui cominciano a germinare nuove tendenze: le esperienze di green economy, il ritorno delle aziende storiche e la riconfigurazione delle loro piattaforme industriali (ad esempio la Diesel con il suo nuovo headquarter a Breganze), la rete dei festival ed eventi (Festival Città Impresa, Fuori Biennale, Comodamente). La condizione di stand-by in cui vengono lasciati molti capannoni dismessi in attesa della fine della crisi o le occupazioni parziali per funzioni che fuoriescono dal centro urbano per approfittare dei costi ridotti sono delle
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risposte precarie che possono dare soluzioni provvisorie nel breve periodo. Per innescare una metamorfosi che cambi le regole del gioco sono necessarie delle azioni più radicali e incisive, puntando sulla produzione di innovazione e conoscenza, coinvolgendo all’interno dei processi i vari attori, dai proprietari che domandano nuovi destini per i loro capannoni fino all’esercito di soggetti inediti come i makers (produttori digitali con stampanti 3D), i knowledge workers, le communities, gli hubs, colmando il vuoto materiale ma anche operativo. Le strategie progettuali devono intervenire sull’intero ciclo di vita del capannone e non limitarsi ad unico grado di trasformazione, altalenando fra la dimensione temporanea e transitoria di alcuni interventi e accogliendo anche processi di demolizione parziali o totali del manufatto stesso. Inglobarlo all’interno di nuovi organismi, articolargli intorno nuove strutture, addizionargli sopra altre realtà, innestargli all’interno altre architetture, duplicarne la presenza endogenamente o esogenamente diventano alcune delle possibili strategie per innescare la metamorfosi e dare qualità alla quantità di capannoni in attesa e ai paesaggi in cui ricadono10.
Note 1. Marini, S., Bertagna, A., Gastaldi, F., (a cura di), L’architettura degli spazi del lavoro. Nuovi compiti e nuovi luoghi del progetto, Quodlibet, Macerata, 2013. 2. F. Indovina, Dalla città diffusa all’arcipelago metropolitano, Franco Angeli, Milano, 2009. 3. Cfr. Marini, S., Santangelo, V., Viaggio in Italia, Aracne, Roma, 2013; Marini, S., Santangelo, V., Recycland, Aracne, Roma, 2013. 4. The Encyclopedia Americana, 1989, p. 238. 5. Si fa riferimento alla L. 383/2001, nota come legge Tremonti bis, proposta dall’allora Ministro dell’Economia. 6. Bonomi, A., Il capitalismo molecolare. La società al lavoro nel Nord Italia, Einaudi, Torino, 1997. 7. Bonomi, A., Rullani, E,. Il capitalismo personale, Einaudi, Torino, 2005. 8. Dati 2013 Confindustria. 9. Ippolito, F., Rumore di fondo, in L. Molinari (a cura di), Ailati. Riflessi dal futuro, Skira, Milano 2010. 10. Cfr. «Àncore 1», rivista a cura di Sara Marini e Alberto Bertagna, “edita” in occasione del workshop Capannone senza padrone, Festival Città Impresa, 26-30 aprile 2011; «Àncore 3», rivista a cura di Sara Marini, “edita” in occasione del workshop Il destino del capannone, Wave 2011, 27 giugno-15 luglio 2011.
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Spazi e tensori territoriali, ieri
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Spazi e tensori territoriali, oggi verso domani
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Spazi e costruzioni, ieri
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Spazi e costruzioni, oggi verso domani
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Direzioni progettuali. Costruire situazioni per favorire la condivisione di spazi tra gruppi sociali differenti, data anche l'impossibilitĂ di avere un unico interlocutore per concretizzare il riutilizzo degli spazi dismessi
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Prima storia. Primo tempo. Capannone senza padrone Lanificio Paoletti, Follina Archivio Storico Paoletti. Ex Finissaggio. Archivio storico analogico (lane, tessuti, ecc...) e digitale (informazioni) e attivitĂ di atelier legate ai tessuti (workshop, scuole, ecc...) con possibilitĂ di ospitare residenze temporanee
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Prima storia. Secondo tempo. I due capannoni in progressiva demolizione Lanificio Paoletti, Follina Direzioni/scenari. La città imperfetta di Alice Poma Immaginario modello di diffusione degli oggetti inseriti nell'area Paoletti. I due ex capannoni diventano potenzialmente nucleo di propagazione per edifici-oggetto che vanno ad inserirsi nel contesto urbano, modificandolo e modificandosi con esso. Si prospetta così l'evoluzione di una città invasa, una città che per la natura stessa degli invasori si potrebbe definire “imperfetta”
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Prima storia. Secondo tempo. I due capannoni in progressiva demolizione Lanificio Paoletti, Follina Direzioni/azioni. La cittĂ imperfetta di Alice Poma
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Prima storia. Secondo tempo. I due capannoni in progressiva demolizione Lanificio Paoletti, Follina Direzioni/scenari. Metallic monster di Giovanni Bordin, Giangiacomo Borin
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Prima storia. Secondo tempo. I due capannoni in progressiva demolizione Lanificio Paoletti, Follina Direzioni/azioni. Metallic monster di Giovanni Bordin, Giangiacomo Borin
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Seconda storia. Il destino del capannone Ex Sava, Bassano del Grappa. Da ÂŤAncore 3Âť Abbandoni/scenari. Spazi dell'abbandono e della produzione a Bassano del Grappa
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Seconda storia. Il destino del capannone Ex Sava, Bassano del Grappa. Da ÂŤAncore 3Âť Direzioni progettuali. Abitare il capannone di Antonio Lamarina, Filippo Pedrazzoli, Luca Paiuscato, Riccardo Massaro / Movimento plastico di Federico Marini / Degrado attivo di Luca Cavinato, Marta Dionese, Stefano Moresco con Serena Bortolussi, Vittoria Zattera, Maria Vittoria Perin
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Il Leviatano di Chiara Buccolini, Luca Chiumento, Enrico Toniato con Stefania Dal Bianco, Nicola Lavarda, Gloria Trevisan / Sustainable Recyclin Factory di Francesco Renoffio, Francesco Tronchin, Matteo Sartori, Deborah Zaggia / Sinapsi tra gli shed di Giulia Fungher, Elisa Volpato con Laura Cattalani, Anna Saggionetto
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RIUSARE LA CITTÀ DELLA PRODUZIONE Ezio Micelli >IUAV
La lunga fase di stagnazione economica del nostro Paese modifica i modi di elaborare e promuovere lo sviluppo delle città. Le valutazioni sul settore del real estate e delle costruzioni divergono. Se alcuni contano sul ritorno alle condizioni dei primi anni del secolo con valori e volumi in costante crescita, altri - più lucidamente - riconoscono la natura strutturale dei cambiamenti e la necessità di un mutamento in grado di coniugare in modo originale redditività e sostenibilità, consenso e sviluppo. Ciò vale anche per la città della produzione, per le tante aree a destinazione produttiva realizzate negli ultimi decenni. Per anni le nostre imprese hanno scommesso sull’immobiliare per sopperire a una capitalizzazione modesta, hanno realizzato capannoni per sostenere patrimonialmente la crescita. È stato il tentativo di superare, per via immobiliare, i limiti del “capitalismo molecolare” (Bonomi, 1997): se il capitale è assente, il capannone ne rappresenta il surrogato. Ora, queste costruzioni non servono più o si rivelano sovradimensionate. Realizzati nella convinzione - condivisa con il sistema finanziario - che l’investimento immobiliare fosse a rischio nullo, oggi i capannoni rivelano, in molte aree del Paese, una redditività quasi azzerata e prospettive
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di valorizzazione nel tempo assai incerte. Il recupero dei luoghi della produzione si lega a città condizionate da una crescita modesta e ineguale. Ciò impone un diverso rapporto con il patrimonio dei beni a destinazione produttiva, con un ragionamento che può essere esteso al patrimonio residenziale, alle infrastrutture, alle attrezzature collettive. Il riuso dello stock esistente, declinato in ragione dei diversi contesti spaziali ed economici, sembra essere una delle categorie più promettenti per comprendere le modalità con cui operare nella città del prossimo futuro. Il ragionamento che propongo è diviso in sei paragrafi. Nella prima delineo ciò che è possibile chiamare il new normal dell’economia italiana: sostanzialmente un mondo a crescita modesta e spazialmente ineguale. Nella seconda provo a evidenziare come la prospettiva della valorizzazione del patrimonio esistente consenta una convergenza tra economia ed ecologia, cui la cultura del progetto può dare un contributo importante. I tre paragrafi successivi presentano una possibile geografia dei luoghi della produzione: i luoghi destinati all’abbandono, i luoghi della sostituzione per effetto dei tradizionali meccanismi della rendita urbana, infine i luoghi in cui l’esercizio del recycle rappresenta una sfida inaggirabile. Un ultimo paragrafo riflette sulla forma e sulla tecnologia del riuso e del recycle. I capannoni e la città nel new normal dell’economia italiana L’economia italiana non cresce da circa quindici anni. Se consideriamo la variazione del prodotto interno lordo per abitante, il Paese dal 1999 ad oggi si è impoverito in termini reali di poco oltre due punti percentuali. Nello stesso arco temporale, gli stessi paesi dell’area mediterranea hanno beneficiato di un aumento della ricchezza - ad esempio la Spagna, con oltre 8 punti percentuali - senza considerare l’impetuosa crescita dell’area nordeuropea guidata dalla Germania (+21%). L’assenza di crescita ha condizionato l’investimento pubblico nelle nostre città e i mercati immobiliari delle nostre città1. Dopo la fase di grande crescita dei valori immobiliari, individuabile con buona approssimazione tra il 1999 e il 2006, i mercati hanno intrapreso un’inversione di tendenza che riguarda sia le quantità che i valori. Qualche numero è utile per restituire l’ampiezza della svolta: il numero delle transazioni di immobili residenziali, di gran lunga la quota più
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consistente del mercato immobiliare nazionale, è sceso da oltre 845.000 compravendite nel 2006 a 448.000 nel 2013 (fonte Agenzia delle Entrate); i mutui del settore residenziale ammontavano a 31,45 miliardi di euro nel 2007 e sono scesi a 10,98 miliardi nel 2013 (fonte Ance e Banca d’Italia). Considerare accidentale e transitoria l’attuale fase economica sarebbe poco lucido. L’analisi dei tassi di crescita dell’economia italiana e del debito pubblico, oltre ai dati demografici del nostro Paese, suggeriscono una lettura diversa dell’attuale fase economica. Vi sono buone possibilità che lo sviluppo modesto o nullo delle città sia la norma. Tassi di crescita dell’uno per cento del PIL, valori risibili per i paesi emergenti, potranno essere la consuetudine e non l’eccezione. La nuova normalità, il new normal dell’economia post-recessione, condiziona amministrazioni e investitori. La fine della crescita non è per sempre e non è per ogni luogo: alcune aree del Paese potranno crescere con scarti significativi rispetto alla media e alcune aree potrebbero trovarsi in una fase di declino analoga a quella sperimentata in tante shrinking cities nordamericane (Coppola, 2012). Se gli anni del dopoguerra - i trenta gloriosi - sono da archiviare senza esitazione, sarebbe un errore ritenere che le nostre città siano senza risorse nella sfida. Le difficoltà della crescita non devono essere confuse con la ricchezza di beni immobili accumulati in lungo periodo di pace. Una ricchezza sia privata che pubblica: un patrimonio immobiliare privato che rappresenta la parte più consistente del risparmio di famiglie e imprese; un capitale infrastrutturale che ha comunque consentito al nostro Paese di entrare tra i primi dieci paesi sviluppati del pianeta. Città incapaci di ritrovare importanti flussi finanziari possono e devono sfruttare meglio il capitale fisso accumulato per ammodernare le infrastrutture a costi contenuti, valorizzando selettivamente ciò che oggi è attualmente disponibile; possono e devono impiegare al meglio le opportunità di riqualificazione del patrimonio residenziale sotto il profilo funzionale e tecnologico senza dilatare il già ampio confine delle città o, più precisamente, dei “sistemi territoriali locali” (Calafati, 2009); possono e devono adattare il patrimonio non residenziale alle rinnovate esigenze di mercati mutati. Estrarre valore, significato, energia: la convergenza sul riuso La convergenza tra una diversa prospettiva di carattere economico e al-
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cuni temi della ricerca architettonica appare evidente. L’agenda di una parte della cultura architettonica appare allineata con lo sviluppo delle nostre città. Si tratta di riciclare il patrimonio esistente, attribuire ad esso nuovi significati e nuove forme, trasformarne le funzioni. Per l’architettura il riciclo consente di attribuire nuovo significato a ciò a prima vista appare inutilizzabile, in opposizione alla demolizione e ricostruzione di immobili e quartieri. Il ragionamento è analogo, da un punto di vista economico, per chi intenda estrarre valore da un patrimonio dal valore ancora inespresso, per assicurare il massimo rapporto costo/efficacia delle limitate risorse a disposizione. La convergenza non si limita al rapporto tra economia e architettura, ma si estende alla dimensione ambientale della trasformazioni urbane. L’attività di recycle non riguarda solo il valore economico e il senso stesso di forma e funzioni del progetto, ma include l’energia contenuta nei manufatti. I processi di densificazione e riuso della città esistente costituiscono la via maestra per costi energetici più contenuti rispetto a quelli di altre forme di insediamento (Owen, 2009) e rappresentano il modo in cui è possibile estrarre l’embodied energy ancora presente nelle costruzioni esistenti (Power, 2008; Viganò, 2012). Valore, significato, energia: il riciclo dei contenuti, materiali e immateriali, della città e delle sue costruzioni si presta a una sovrapposizione di letture a carattere interdisciplinare che ne evidenzia la ricchezza. Tuttavia, la lettura economica delle trasformazioni urbane impone una declinazione delle modalità con cui il riciclo potrà avere luogo. La selezione dei beni suscettibili di riuso Una geografia del recycle dei luoghi della produzione appare possibile e necessaria. Marini (2013) sottolinea la necessità di una selezione dei materiali ereditati dalla storia - poco importa se abitazioni, ferrovie, capannoni. Tale selezione divide ciò che non è recuperabile da ciò che lo è, separa le parti di un manufatto o di una parte di città capaci di esprimere un nuovo significato, formale e funzionale. Un’analoga selezione è doverosa anche dal punto di vista economico. Se immaginiamo che la ripresa economica possa avere luogo, pur in forma limitata alla luce dei dati evidenziati, essa non necessariamente avrà pari intensità in tutto il Paese. Con buona probabilità, riguarderà, ad una scala territoriale ampia, soprattutto le parti del nostro Paese meglio connesse
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a un mondo riorganizzato dalla globalizzazione. Alcune aree si ritroveranno a essere beneficiarie di simili cambiamenti, altre lo saranno meno. E’ plausibile ipotizzare che le parti del nostro territorio meglio attrezzate sotto il profilo del capitale fisso sociale saranno le più pronte a ritrovare la strada della crescita, mentre altre aree potrebbero non conoscere le condizioni per attivare i processi di riciclo per la ragione che non vi è alcun interesse a trasformare manufatti in assenza di una domanda finale. Per alcune parti del nostro territorio non ci sono le condizioni economiche perché si possano attivare processi di riciclo e riuso, perlomeno se basati su risorse private. Per le aree dismesse o sottoutilizzate di alcune parti del Paese non c’è alcuna strategia di riuso, perlomeno nel breve periodo. I luoghi della produzione, i tanti capannoni che punteggiano le nostre periferie, non sfuggono a questa prospettiva. Il loro valore di mercato è spesso nullo e la proprietà lo valuta a volte negativo quando, a fronte di prospettive reddituali e patrimoniali modeste, il carico fiscale si rivela importante. Come è avvenuto nelle città americane strette dal declino demografico ed economico (Glaser, 2011), è possibile considerare la demolizione di un’edilizia senza alcuna prospettiva di valorizzazione2. Governare processi inversi a quelli cui siamo abituati da decenni di crescita significa ridurre il perimetro dell’urbano liberandosi di beni che non servono e anzi rappresentano un costo per la comunità e per la proprietà. Progettare la città che si restringe appare una sfida perché, se è chiaro cosa vuol dire opporsi al consumo di suolo, meno evidente appare il progetto di città che deliberatamente riduce gli spazi a disposizione nella consapevolezza che aree abbandonate possono trasformarsi in altrettante occasioni di degrado. Demolire e ricostruire: le aree della trasformazione Un secondo discrimine riguarda le aree in cui il riuso può avere luogo. Due opzioni appaiono possibili: i luoghi in cui il recycle costituisce una tra le molteplici possibilità, e quelli in cui il recycle è l’unica opzione. I luoghi capaci di attrarre nuova domanda e di offrire nuove possibilità di ricchezza possono conoscere l’interesse degli investitori che ne immaginano il riuso e la riqualificazione. E’ il caso, ad esempio, delle aree oggetto di importanti investimenti pubblici a cui fa seguito un vantaggio posizionale che determina nuove condizioni di domanda insediativa. E’ il
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caso, ancora, delle stazioni ferroviarie ad alta velocità, oppure, ad una scala diversa, di aree che si trovano a essere beneficiarie di altre infrastrutture o altre dotazioni territoriali. In simili contesti la strategia del riuso può essere un’opzione, ma non necessariamente la più convincente sotto il profilo economico. Laddove infatti la densità sia oggetto di un considerevole aumento, la demolizione e ricostruzione di nuovi manufatti, o di un nuovo quartiere, diviene la scelta più razionale poiché massimizza simultaneamente il profitto e le rendite. Le amministrazioni, dal canto loro, potrebbero trovare più conveniente il percorso della demolizione e ricostruzione. Soprattutto in aree a media bassa densità, l’aumento dell’edificabilità permette di recuperare, in favore della comunità, quote di plusvalore in sede di negoziato tra amministrazione e privati (Micelli, 2011). Un simile scenario riguarda aree e beni di rilievo, ma limitati di numero. Ciò può accadere laddove la struttura proprietaria si riveli semplificata e dove siano significative le possibilità di aumentare con successo le densità edificatorie e/o la qualità delle funzioni insediate. La proprietà valuterà con minore interesse l’opzione del recycle e considererà la demolizione e ricostruzione l’ipotesi più conveniente all’aumentare dello scarto di valore tra i beni esistenti e il potenziale edificatorio. Per alcuni ambiti produttivi, il destino può essere quello della sostituzione con nuove funzioni di superiore appetibilità. In alcune città, ad esempio, la funzione commerciale acquisisce e trasforma spazi destinati alla produzione per nuove strutture di media o grande dimensione. Con le parole dell’economia urbana (Camagni, 2011), laddove il valore della rendita ecceda il valore dei capannoni esistenti, la trasformazione per demolizione e ricostruzione diviene la soluzione più razionale. Non si tratta di estrarre valore da ciò che già esiste, poiché sotto il profilo economico, i manufatti esistenti rappresentano un ostacolo alla massimizzazione di rendite e profitti . La demolizione e ricostruzione riguarda ambiti limitati e parziali dei centri di maggiore rilievo, sulla scorta della dinamica speculativa della rendita fondiaria. Quando quest’ultima eccede il valore dei beni esistenti, la proprietà riterrà conveniente demolire e ricostruire sfruttando le opportunità offerte dagli strumenti urbanistici. Per alcune aree, dunque, i luoghi della produzione sono destinati a essere sostituiti. I numeri e le tendenze del mercato sembrano tuttavia relegare una simile prospettiva
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a limitati contesti territoriali e non certo a diventare la trasformazione ordinaria dei tanti capannoni che affollano le periferie delle nostre città (Micelli, 2014). I luoghi del riuso Non tutti i luoghi potranno generare una domanda significativa. Molte città potrebbero conoscere nel futuro una crescita contenuta. Le disponibilità finanziarie delle amministrazioni impediscono ampi e importanti progetti di nuova infrastrutturazione a cui associare interventi di trasformazione radicale della città. E’ legittimo immaginare dunque che interventi di questa natura siano localizzati nei nodi urbani di maggiore rilievo. In una simile prospettiva, il recycle dei capannoni della città diffusa del Nord Est e delle fabbriche della città lineare della costa adriatica, appare l’unica opzione da un punto di vista economico. Fino a pochi anni fa era opinione corrente che nuove possibilità edificatorie avrebbero potuto determinare le condizioni per la demolizione di edifici e quartieri superati funzionalmente e inefficienti tecnologicamente. Tuttavia, le attuali condizioni di mercato, il drastico calo della domanda e l’azzeramento dei valori delle aree di nuova edificazione hanno imposto un atteggiamento diverso nei confronti dell’edilizia esistente. A ciò si aggiunge la frammentazione proprietaria, legata a decenni di incentivi all’investimento immobiliare, con i rilevanti costi di federazione della proprietà in vista di ambiziosi progetti di trasformazione radicale di aree e immobili, per avere una chiara restituzione dei vincoli che oggi rendono il riuso come l’unica opzione possibile. In una fase di contrazione dei redditi e del credito alle imprese, appare improbabile che tutti i proprietari aderiscano alla rottamazione della città del dopoguerra (Dragotto e India, 2007). In assenza di sorprese, le nostre città hanno nel recycle l’unica prospettiva credibile. Se una città come Parigi, che certo non sconta i limiti allo sviluppo di molte aree del nostro Paese, ha iniziato a “concentrarsi sull’idea di costruire sopra, in mezzo, sotto, intorno, dentro gli edifici esistenti” (Ciorra, 2011), allora appare cruciale riscrivere l’agenda della imprese industriali e della finanza che dovranno dedicarsi con determinazione a nuovi modelli di intervento. Una nuova estetica del recycle La sfida è importante per la cultura del progetto, così come lo è per le
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aziende della filiera e per la finanza. Si tratta di investire energie e intelligenza sulla realizzazione di una qualità confrontabile con quella dei progetti di nuova realizzazione. Sotto il profilo formale ed esecutivo, la sfida è trovare una qualità nei processi di riuso senza la quale il rischio è di rendere spazialmente evidenti gerarchie progettuali che riflettono gerarchie sociali. La città delle nuove costruzioni e la città che si ricicla: la prima quella verso la quale tendere appena le risorse lo consentano, la seconda rappresenta il luogo in cui si è condannati a restare nel caso in cui le risorse a disposizione lo impongano. Se il riuso non riesce a imporre un linguaggio architettonico nuovo e originale, è possibile che esso non divenga null’altro che un rattoppo a forme e strutture superate, ad architetture e opere la cui permanenza è legata all’incapacità di promuovere nuove forme, di organizzare nuovi processi. Magari si tratta di un rattoppo utile, capace ad esempio di rendere energeticamente efficienti immobili obsoleti, ma l’incapacità di promuovere soluzioni organiche che tengano insieme le dimensioni della forma e delle tecnologie, e dunque dei costi e della sostenibilità economica degli interventi, costituisce un problema di non poco conto. La mappa del riciclo e delle nuove costruzioni rischia di trasformarsi nella mappa della “città dei ricchi e la città dei poveri”, esaltando differenze sociali ed economiche che negli ultimi anni hanno conosciuto un profondo allargamento anche in Europa (Secchi, 2013). Per parti intere delle nostre città, il riciclo può divenire null’altro che il rimedio alla scarsità delle risorse, la soluzione progettuale e tecnica che rivela plasticamente la debolezza di ampie fasce della società a migliorare la propria condizione sociale ed economica. Strette tra i centri storici e le nuove aree di espansione, le nostre periferie rischiano l’impasse per l’incapacità non solo tecnica ed economica, ma anche progettuale di attribuire a queste parti della città un valore estetico riconoscibile e apprezzato. Non mancano i casi di riuso premiati e acclamati (Ciorra e Marini, 2012). Tuttavia, è ancora prematuro affermare che una simile estetica abbia conquistato le platee più vaste del pubblico dell’architettura, con un auspicato effetto di trascinamento dell’industria delle costruzioni e della finanza. Non è affatto scontato che questa sfida sia affrontata con successo. E’ nota la propensione delle imprese alla realizzazione di nuovi interventi rispetto al recupero dell’esistente. La scarsa capacità della nostra cultura progettuale di integrarsi con i processi costruttivi e finanziari non
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permette di dare per acquisita una sintesi capace di spostare nella città esistente, con successo, il campo di azione privilegiato della trasformazione a tutte le scale. L’agenda della ricerca e della sperimentazione, tuttavia, sembra comunque chiaramente delineata.
Note 1. Sottolinea Camagni (2012: 60) come “negli ultimi 20 anni il sistema Italia ha sottoinvestito sulle città, apparentemente a causa della crisi fiscale nazionale e locale e delle difficoltà di utilizzare il project financing per opere di rilievo” e come “la sottocapitalizzazione delle nostre città non è solo verificabile in senso quantitativo, ma anche in una serie di squilibri e di costi sociali: elevati costi individuali e sociali della mobilità; bassa efficienza energetica; insufficiente offerta di spazi pubblici a carattere ricreativo e culturale; bassa qualità urbana nelle aree di nuova urbanizzazione ed anche in molte aree di trasformazione; bassa qualità dell’aria e, in molti casi, basse condizioni igienico sanitarie rispetto agli standard internazionali”. 2. Alle fine del decennio scorso, il Detroit Blight Removal Task Force, incaricato di gestire il problema del degrado urbano, aveva stimato che fosse necessaria la demolizione di 40.000 edifici per eliminare potenziali fonti di problemi sociali e ambientali (Owens, 2015).
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ARCHITETTURE PERFETTE Pippo Ciorra >UNICAM
Gli autori lo sanno, ci ho messo un po’ a trovare il tempo per leggere e scrivere un post-testo a questo libro. La ragione è nell’ovvia congestione, che scompare magari dalle nostre città in crisi ma non dalle nostre vite sballottate ancora in puro stile anni ‘90, ma anche in una specie di inconscia resistenza alla lettura della pubblicazione numero 20 sviluppata nell’alveo della nostra ricerca Recycle. Ora finalmente, complice l’isolamento aviatorio, riesco a leggere con calma i testi, a guardare un po’ i progetti, a considerare posizioni e ipotesi. Capisco che mi sbagliavo, è un libro vero, che mette in fila voci autorevoli e rimette in fila i temi legati alla questione del riciclo in modo “necessario”, muovendosi agilmente tra premesse storico-economiche, sintesi sociologiche, visioni architettoniche, urbanistiche e di scala “vasta”. Ringrazio gli autori, dopo un vagabondare esasperato intorno ai temi del riciclo e anche intorno a temi che col riciclo hanno poco a che fare la ricerca ritrova qui il suo centro, si avvicina alla sua conclusione e mette ordine in un insieme complesso, dove finalmente si cerca di distinguere tra indagine, lettura e proposte. Il libro ha quindi per me due facce. Da un lato una ricapitolazione virtuosa ed efficace delle questioni “progettuali” del riciclo, dove per proget-
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to, come spiegano bene alcuni autori, si intende anche una categoria di azioni che in genere non consideriamo parte del processo progettuale (a meno di non tornare a De Carlo). Dall’altra è una specie di preview di una sconfinata topografia horror. Mi sprofonda infatti nel “vuoto”, tema tante volte accarezzato con passione e desiderio dagli architetti post-postmoderni. Mi fa pensare a una mappa del vuoto a scala almeno europea, fatta di migliaia di “capannoni senza padrone” (randagi?), di uffici invenduti in Olanda, di quartieri disabitati in Spagna, di estate extra-lusso che certamente qualcuno possiede (russi, mediorientali, cinesi ma anche greci, italiani, spagnoli) ma che nessuno abita a Londra (e finalmente anche a Milano). Per non parlare poi, extra UE, delle città svuotate dalla guerra in Siria, Iraq e Libia, o dei grattacieli superdeluxe comprati per investire, ma con case troppo care perché qualcuno possa davvero abitarci, a Miami. Poi ovviamente, ce lo ricorda Micelli, le shrinking cities in stile Detroit o Cleveland, almeno quelle che non riescono a riciclarsi facendo confezionare pacchi Amazon o DHL di notte a tutta la popolazione (di creative industry nel libro ce n’è giustamente poca). Senza contare che ancora in Italia, con tutto il ritorno all’agricoltura e la passione per gli orti urbani, domestici, “da camera”, ci sono anche tre milioni di ettari svuotati del loro contenuto agricolo, forse una delle prime questioni a cui porre rimedio. Insomma si potrebbe disegnare ancora un altro planisfero fatto solo di edifici vuoti e assenze inquietanti: sarebbe sconfinato e assegnerebbe perfino a riciclatori assatanati come noi un compito superiore alle nostre forze. Ma c’è vuoto e vuoto, ci spiegano gli autori. Ci sono vuoti “a perdere” che finiremo per dover demolire per non pagare le tasse, e ci sono vuoti che generano profitto e PIL, come quelli delle torri residenziali della rigeneration londinese. Di nuovo, rispetto al profluvio di letteratura sul riciclo (lo dico da primo colpevole), in questo libro c’è per la prima volta un tentativo di distinguere tra riciclo possibile e riciclo impossibile, tra sopravvivenza e demolizione, tra scale diverse – in relazione alle potenzialità – del riciclo. Il libro ci parla anche di casi in cui il riciclo sarebbe un errore e di situazioni in cui le iniziative relative alle persone e alla loro attività sono più importanti di quelle intraprese sugli edifici. Ai tempi della mostra Recycle pensavamo di aver colto l’acme comunicativo del tema, sia in relazione all’interesse delle comunità scientifiche sia a quello della società e del corpo politico. Sbagliavamo. La crescita
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ulteriore e la capacità di penetrazione del tema ci sorprendono ancora oggi. Vuol dire che nella formula c’è davvero un nocciolo che potrebbe contribuire concretamente a vivacizzare sia il pensiero architettonico italiano sia la voglia di agire della società. Paradossalmente, però, quella più in ritardo sembra ancora un volta l’architettura, almeno quella vera, costruita. Da alcuni casi studio del testo apprendiamo infatti che in molti casi la società, intesa come tessuto economico e qualche volta perfino come politica, appare pronta e attrezzata per muoversi sul terreno del riuso creativo e inusuale. Per l’architettura invece dobbiamo dire che tra i mille casi di riuso, rigenerazione, recupero, restauro, retrofit, ristrutturazione, sono ancora pochi quelli realizzati che sembrano aver colto le potenzialità espressive e artistiche del tema. Come se gli architetti faticassero ancora a liberarsi da modi novecenteschi di pensare alla forma e alla bellezza. O come se i committenti fossero pronti a rischiare la realizzazione di un hub artigianale material-digitale nella vecchia fabbrica ma non ad allocarlo in uno spazio che ne sottolinei il potere (estetico) eversivo, il potenziale di novità. Sconsolati, non ci rimane che stordirci con una dose abbondante di una buona e vecchia droga old style, l’architettura da star, nella versione “perfetta” ordita a Milano dal miglior committente possibile a scala nazionale (e non solo), dall’architetto più fico del mondo, dal contenitore più adatto e da un quartiere che fremeva voglioso nell’attesa di un atto di gentrification. Visitando la Fondazione Prada di Milano, meravigliosamente riciclata (e non “preservata”) dallo studio OMA, si è assaliti da sensazioni contrastanti. Certamente l’ammirazione per un progetto davvero coerente con le sue premesse e “innovativo”, almeno per il grande pubblico e per la carriera di Koolhaas. Ma insieme all’ammirazione un lieve senso di rabbia e frustrazione, e la domanda che ronza nell’orecchio: visto che ne parliamo da vent’anni, visto che sul tema abbiamo fatto e visto centinaia di bei progetti (accademici, teorici, visionari, artistici), perché mai non abbiamo saputo o potuto farlo noi?
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Finito di stampare nel mese di dicembre del 2015 dalla tipografia «la Cromografica S.r.l.» 00156 Roma – via Tiburtina, 912 per conto della «Aracne editrice int.le S.r.l.» di Ariccia (RM)
Re-It 20
Riciclasi capannoni
Riciclasi capannoni è il ventesimo volume della collana Re-cycle Italy. La collana restituisce intenzioni, risultati ed eventi dell’omonimo programma triennale di ricerca – finanziato dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – che vede coinvolti oltre un centinaio di studiosi dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio, in undici università italiane. Obiettivo del progetto Re-cycle Italy è l’esplorazione e la definizione di nuovi cicli di vita per quegli spazi, quegli elementi, quei brani della città e del territorio che hanno perso senso, uso o attenzione. L’attenzione è posta sui territori improduttivi, in particolare sulle aree coinvolte dalla più recente industrializzazione affidata alle piccole e medie imprese localizzate prevalentemente nel NordEst e nel centro Italia che, per via della crisi economica, hanno interrotto le loro attività. Sono i capannoni proliferanti del capitalismo molecolare a costituire l’oggetto della trattazione, manufatti prevalentemente anonimi che hanno consumato suolo, opere edilizie realizzate in tempi brevi per far fronte a una domanda in alcuni casi reale e in molti altri solo presunta, alimentata dalla speculazione edilizia. Il caso adriatico, in modo specifico i distretti produttivi nelle aree di fondovalle, viene messo a confronto con i distretti produttivi del territorio veneto. I casi studio offrono spunti di riflessione su cui fondare nuove teorie e delineare strategie di progetto finalizzate al riciclo dei capannoni puntando al superamento della zonizzazione industriale, al riequilibrio dell’assetto morfologico del territorio, dunque alla prefigurazione di un nuovo paesaggio.
isbn
RICICLASI CAPANNONI
978-88-548-9076-3
Aracne
euro 28,00
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