Re-Cycle Op_Positions II

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06 RE-CYCLE OP_POSITIONS II


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RE-CYCLE OP_POSITIONS II

A CURA DI SARA MARINI SISSI CESIRA ROSELLI


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Progetto grafico di Sara Marini e Sissi Cesira Roselli

Copyright © MMXIII ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it info@aracneeditrice.it via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN ISBN 978-88-548-7240-0 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: giugno 2014


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PRIN 2013/2016 PROGETTI DI RICERCA DI INTERESSE NAZIONALE Area Scientifico-disciplinare 08: Ingegneria civile ed Architettura 100%

Unità di Ricerca Università Iuav di Venezia Università degli Studi di Trento Politecnico di Milano Politecnico di Torino Università degli Studi di Genova Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Università degli Studi di Napoli “Federico II” Università degli Studi di Palermo Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara Università degli Studi di Camerino


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Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell'omonimo convegno che si è tenuto il 4 aprile 2014 presso l'Università Iuav di Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Recycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito l'incontro veneziano. Il Laboratorio Re-cycle è un tavolo che vede lavorare assieme i responsabili degli undici laboratori presenti nei diversi Atenei coinvolti nella ricerca: Sara Marini e Stefano Munarin per l'Università Iuav di Venezia, Chiara Rizzi per l'Università di Trento, Andrea Gritti per il Politecnico di Milano, Mauro Berta per il Politecnico di Torino, Raffaella Fagnoni e Alberto Bertagna per l'Università di Genova, Francesca Romana Castelli per L'Università di Roma "La Sapienza", Fabrizia Ippolito per l'Università "Federico II" di Napoli, Daniele Ronsivalle per l'Università di Palermo, Consuelo Nava per l'Università "Mediterranea" di Reggio Calabria, Francesca Pignatelli per l'Università "Gabriele d'Annunzio" di Chieti Pescara, Giulia Menzietti per l'Università di Camerino. Hanno lavorato alla segreteria del convegno Sissi Cesira Roselli e Vincenza Santangelo dell'Università Iuav di Venezia.


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INDICE

RE-CYCLE OP_POSITIONS Re-cycle: molecolare/sistemico Maurizio Carta

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Rischio totale Vincenzo Gioffrè

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Coppie oppositive e spazi interstiziali: l’in-between realm Piero Ostilio Rossi

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NOTO/INNOVATIVO Il riciclo è noto e/o innovativo Fabrizia Ippolito

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Noto, innovativo, riciclato. Il concetto di “obversione” e le strategie artistiche di re-cycling Marco Senaldi

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Per una comunità riciclante Massimo Angrilli

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Dal “building of the city" al “recycling of the architecture”: mutazioni terminologiche e trasformazioni di senso Umberto Cao

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Innovare per costruire un nuovo telaio territoriale Massimo Lanzi

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6 Bricolage e progetto di riciclo Lina Malfona

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PERI_KYKLOS. Un manifesto per il riciclo in cinque tesi Nicola Marzot

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Noto/innovativo Dina Nencini

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Re-cycle è: noto/innovativo Andrea Oldani

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Da “identità” a “identità”: nuovi linguaggi Rita Simone

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Macchine per dimenticare Giovanni Corbellini

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Nulla di nuovo sotto il sole Maurizio Costantini, Andrea Revolti

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Au recycle comme à la guerre Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Andrea Iorio

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Futuro pregresso Enrico Forestieri, Ludovica Niero, Gennaro Postiglione

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Quale cantiere? Paola Galante, Roberto Serino

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La questione è come convivere con manufatti abbandonati – antichi o recenti che siano – in un territorio saturo Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Cristiana Mattioli, Federico Zanfi

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Rinaturactivazione resiliente Emanuela Nan

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Motore... azione! È innovativo mettere in scena il noto Chiara Olivastri

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7 (Re)create (re)place. From wasteland to wastecture Giamila Quattrone, Simon Petty

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Urban web cycle Gianbattista Reale

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Dalla materia formata. Riciclaggio e progetto di architettura Margherita Vanore

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AUTORIALE/POLITICO $XWRUL LQWHUSUHWL UHJLVWL ,O GLIÂąFLOH HTXLOLEULR WUD LQWHQ]LRQH SURJHWWXDOH H contrattazione politica Mauro Berta

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La spettro del politico. Ri-cicli, opposizioni e immaginazione sociologica Federico Boni

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Mappe e nuovi cicli di vita. Rappresentanza (politica) e rappresentazione (autoriale) dei territori dell'abbandono Carmen Andriani, Emilia Corradi, Raffaella Massacesi

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AutorialitĂ /Politica: il progetto degli effetti Alessandro Armando, Michele Bonino, Francesca Frassoldati, Mattia Giusiano

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Ermeneutica del riciclo. O, per dirlo altrimenti, a mo’ di perifrasi e fuor di pleonasmo, ciò che si deve riciclare è giĂ in parte riciclato Alberto Bertagna

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Re-cycling critical agency Ilaria Di Carlo

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6KDULQJ ODQGVFDSH UHWL FROODERUDWLYH SHU L SDHVDJJL GHO ULÂąXWR Antonia Di Lauro

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Per un'architettura anonima Francesca Pignatelli

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8 Riciclo. Un atto politico di reinvenzione del mondo Anna Terracciano

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Un-mask the space Annie Attademo

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Drosscapes Vincenzo Bagnato, Francesco Marocco, Sabrina Scaletta

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Affrontare le condizioni emergenti di sottoutilizzo e abbandono a partire da poche – o molte – opere d’autore è ridicolo e disperante Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Cristiana Mattioli, Federico Zanfi

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Garbage market come tactical urbanism. Strategie individuali di riciclaggio, poetiche d’autore e traiettorie politiche dei paesaggi degli scarti Cristina Mattiucci

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Remix selettivo Ludovico Romagni

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RE-CYC

POSIT


CLE OP_ TIONS

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RE-CYCLE: MOLECOLARE/SISTEMICO Maurizio Carta >UNIPA

Il modello di sviluppo dopato entro cui abbiamo vissuto consolati dalle sue aporie ha prodotto una costante erosione di risorse urbane, di cui quella del suolo è solo una sineddoche, sebbene la più evidente. Abbiamo consumato soprattutto le strutture identitarie dei palinsesti culturali e le trame vegetali delle città, abbiamo anestetizzato metabolismi vitali e interrotto i cicli delle acque, dei rifiuti e della mobilità rendendoli inefficaci. Abbiamo eroso la capacità dell'urbano di intrattenere una relazione osmotica con il rurale, abbiamo sedato la capacità produttiva e generativa delle manifatture, così come abbiamo dimenticato il valore rigenerativo della manutenzione edilizia. La crisi ci chiede il coraggio di una metamorfosi, un mutamento strutturale in cui le città siano chiamate a riattivare i propri capitali territoriali guidate da una urbanistica in grado di garantire nuove forme di convergenza tra sostenibilità culturale, economica, ambientale e sociale non


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solo attraverso l’adozione di rinnovate visioni di futuro, non solo attraverso l’uso di nuovi paradigmi ma soprattutto attraverso l’efficacia delle decisioni e la qualità dei progetti. All'urbanistica viene chiesta l'assunzione di responsabilità di rigenerare le proprie condizioni di esistenza e ruolo, nonché di riconsiderare il suo stesso nucleo epistemologico (Ricci, 2012). A mio parere siamo di fronte alla nascita delle prime forme di un re-cycling urbanism di cui è utile indagare indizi e pratiche per individuare genealogie, riconoscere epistemologie, definirne i protocolli ma soprattutto per definire i dispositivi progettuali per ripensare l’urbanistica nell’era della metamorfosi (Carta, 2013). La crescente domanda di progetti di città più sostenibili perché capaci di alimentare comunità intelligenti e di generare ecosistemi creativi richiede nuovi modelli insediativi, processi di pianificazione e strumenti di progettazione capaci di ridurre la pressione urbana, di contenere l'impronta ecologica e di diminuire le diseconomie da congestione (Ferrao and Fernández, 2013). La necessità di comprensione del funzionamento degli ecosistemi urbani, delle loro interazioni con i sistemi sociali e del ruolo che essi svolgono nel sostenere la ripresa economica può trovare una risposta efficace nel recupero creativo dei materiali urbani. Riciclo è oggi uno dei più ricorrenti pensieri-guida per le trasformazioni urbanistiche delle città che vogliano percorrere la strada della sostenibilità, della qualità e della creatività. Ma per sfuggire all’effetto mantra occorre che la questione non riguardi solo il tradizionale riutilizzo dei materiali, degli spazi, degli edifici o dei rottami urbani, quanto invece la necessità di definire un “paradigma del rinnovo dei cicli”, cioè un re-ciclo come rigenerazione – architettonica, culturale, sociale ed economica – degli insediamenti urbani attraverso una immissione in nuovi cicli di vita dei complessi urbani, dei tessuti insediativi e delle reti infrastrutturali in dismissione, in mutamento o in riduzione funzionale (Marini, Santangelo, a cura di, 2013). Il riciclo vive della costante opposizione tra la seduzione di un’azione “molecolare” istantanea e locale, fatta di tattiche, di azioni di guerriglia e di innovazioni dei dispositivi progettuali, e la più impervia strada di un approccio “sistemico” in cui è l’intera città che diventa oggetto di un nuovo paradigma dei cicli. Riciclare le città per sperimentare una crescita senza espansione e uno sviluppo senza consumo, vuol dire non solo utilizzare le macerie/materie delle città in metamorfosi di sviluppo, ma vuol dire agire sulla innovazione strutturale degli stili/cicli di vita, sui comportamenti/


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valori e soprattutto sulla regolazione/progettazione dei re-insediamenti. Le città del riciclo sistemico dovranno agire entro un nuovo capitalismo – sintesi della innovazione della terza rivoluzione industriale, dell’azione dei makers e degli startuppers, della produttività della sharing economy – più responsabile e capace di rimodellare gli obiettivi della produzione dei beni materiali e immateriali, ma soprattutto capace di ripensare il modello insediativo: un nuovo capitalismo che produca riusi, ricicli ed evoluzioni creative (Kaletsky, 2010). L'impegno degli amministratori più intelligenti, degli urbanisti più sensibili, degli architetti più capaci e delle imprese più innovative sarà quello di lavorare su insediamenti urbani caratterizzati dalla eccedenza e sovrapproduzione di complessi urbani in mutamento, tessuti insediativi in dismissione e reti infrastrutturali in trasformazione, i quali dovranno essere affrontati attraverso azioni di modifica, di rimozione o di reinvenzione grazie a cui le componenti vengono ricreate, senza distruggerle ma mutandone le funzioni perseguendo un’ottica generativa e aumentando la loro resilienza creativa. Pianificare nell'era del re-ciclo urbano significa rifiutare la consolazione di un approccio molecolare e accettare la sfida dell’approccio sistemico, organico, e farsi guidare da una nuova visione che sia lungimirante per guardare lontano nell'orizzonte dell'innovazione, ma anche capace di riguardare indietro recuperando sapienze, rituali e pratiche. Servono anche paradigmi efficaci e progetti concreti intesi come impegni che devono agire per un’urbanistica che sappia influire sul metabolismo urbano, ricombinando il codice genetico contenuto nelle aree di riciclo, spesso frammentato o tradito, ma ancora in grado di generare nuovo tessuto urbano. Sono ormai numerose le tracce che ci fanno riconoscere la necessità di un recycling urbanism che, a partire dalle riflessioni teoriche e dalle numerose pratiche di re-ciclo in contesti che le sperimentano da tempo e non solo come reazione alla crisi (Mostafavi and Doherty, eds., 2010), sappia proporre nuovi paradigmi, protocolli e soprattutto strumenti progettuali per una città che voglia riattivare i suoi cicli di vita entro una nuova visione di futuro, di nuovo generatrice e non consumatrice. Tutto questo richiede un cambio di paradigma in cui il territorio venga inteso quale risorsa da preservare, non solo in termini di riduzione del suo consumo, ma soprattutto considerandolo un detentore di «cellule di sviluppo» spesso dimenticate, sottoutilizzate o mistificate dall’illusione di onnipotenza del progressismo. Serve quindi una profonda innovazione dei protocolli


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e soprattutto degli strumenti dell’urbanistica perché sappiano agire sulle cellule per riattivare l’intero organismo, non limitandosi al “rammendo”. Nella più ampia cassetta degli attrezzi del re-cycling urbanist dovranno trovare posto programmi di rigenerazione urbana basati su distretti di riciclo urbano, all’interno dei quali, a esempio, integrare e valorizzare la domanda pubblica, la riduzione del consumo, gli incentivi energetici e fiscali e l’esigenza privata di interventi di riqualificazione (Mozas, 2012). La loro fattibilità potrà essere sostanziata dalla stipula di patti di riciclo a sostegno dei distretti che incentivino e premino azioni sistemiche riguardanti gli edifici, gli spazi pubblici, la mobilità, il ciclo dei rifiuti, l’infrastrutturazione digitale e le nuove manifatture, come a esempio sta facendo Barcellona attraverso l’applicazione del City Protocol agli isolati dell’Ensanche (Guallart, 2014) o le più recenti sperimentazioni su Palermo Re-verse, la sperimentazione che l’Unità di ricerca di Palermo sta conducendo insieme al Comune sulla «città inversa» composta dall'armatura delle aree dismesse o sottoutilizzate, come progetto-pilota del nuovo piano regolatore. Alla città della rendita fondiaria e immobiliare, ormai pressoché esaurita a dispetto di chi crede ancora che debba essere regolata o possa essere incentivata, occorre sostituire la città della “redditività sociale e creativa”, in grado di agire con maggiore efficacia sulla stratificazione delle risorse e sulla ciclicità delle energie, sulla qualità come valore e sul progetto come orizzonte. Città che sappiano riciclare il suolo già utilizzato per evitare di disperdere risorse (elettriche, termiche, idriche, agricole, infrastrutturali, culturali), per costruire quartieri intelligenti, non solo in senso tecnologico, ma nel senso di più senzienti e abitati da comunità più sensibili stimolate alla partecipazione collettiva per la riattivazione dei cicli urbani. Il re-cycling urbanism ci chiama all’impegno di una nuova responsabilità e una nuova ermeneutica del progetto come esito non più di una distruzione creativa à la Schumpeter ma di una creatività generatrice fatta di cure, di recuperi e di riattivazioni di città che tornino a essere dispositivi sociali per alimentare cicli di vita, “nutrici e pascolo” dei talenti degli abitanti (Emery, 2010), magneti per attrarre idee, propulsori per generare innovazione e produrre nuove economie e armature per rafforzare reti di solidarietà. Ci impone che vengano attivate azioni sistemiche orientate al riciclo, non solo attraverso la riattivazione degli edifici, delle aree latenti e dalle infrastrutture escluse dalle scelte del modello di sviluppo drogato, ma soprattutto attuando politiche urbane efficienti e creative, sensibili ai


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capitali culturali e paesaggistici e capaci di generare nuovo valore, non solo finanziario, ma qualitativo. Un'azione sistemica richiede agli urbanisti di non accontentarsi di gestire la ritirata strategica dall'urbanizzato, di governare efficacemente la contrazione, di essere obiettori di crescita o di imporre normativamente la riduzione del consumo di suolo, ma dovranno adottare un pensiero/azione che faccia delle “pietre di scarto” le nuove pietre angolari della città nel tempo della metamorfosi.

Bibliografia M. Carta, Reimagining Urbanism. Città creative, intelligenti ed ecologiche per i tempi che cambiano, List Lab, Trento 2013. N. Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’architettura. Casagrande, Bellinzona 2010. P. Ferrao, J. E. Fernández, Sustainable Urban Metabolism, MIT Press, Cambridge 2013. V. Guallart, 7KH 6HOI 6XI±FLHQW &LW\, Actar, Barcellona 2014. A. Kaletsky, Capitalism 4.0. The Birth of a New Economy in the Aftermath of Crisis, Perseus, New York 2010. S. Marini, V. Santangelo (a cura di), Re-cycle Italy. Nuovi cicli di vita per architetture e infrastrutture della città e del paesaggio, Aracne, Roma 2013. M. Mostafavi, G. Doherty (eds.), Ecological Urbanism, Lars Müller, Baden 2010. J. Mozas, Remediate, Reuse, Recycle, in «a+t Reclaim», spring-autumn, n. 39-40, 2012. M. Ricci, Nuovi paradigmi, List Lab, Trento 2012.


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RISCHIO TOTALE Vincenzo Gioffrè >UNIRC

Nelle stesse ore in cui si svolge il convegno Re-cycle Op_positions a Palazzo Badoer a Venezia, l’Agenzia delle Entrate consegna in Parlamento /D PDSSD GHOO HYDVLRQH ±VFDOH LQ ,WDOLD. Lo studio analizza la condizione del Paese, per aree provinciali, secondo sette parametri: dimensioni e popolosità, pericolosità fiscale, pericolosità sociale, tenore di vita, struttura produttiva, accesso a servizi tecnologici, presenza di infrastrutture. L’esito è una mappa che rappresenta il territorio nazionale secondo otto categorie dai nomi particolarmente evocativi, quanto inusuali, ma estremamente efficaci per descrivere condizioni specifiche: “Niente da dichiarare”, “Stanno tutti bene”, “Gli equilibristi”, “Rischiose abitudini”, “Non siamo angeli”, “L’industriale”, “Metropolis” e “Rischio totale”. Quest’ultima definizione, non certo edificante per chi abita nei territori interessati, riguarda l’intera Calabria, diverse province di Sicilia, Campania, Puglia (in totale 11,2 milioni di residenti).


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Gli aspetti che concorrono per rientrare nella categoria “Rischio Totale” sono una spiccata pericolosità fiscale e sociale associata ad un bassissimo tenore di vita. Lo studio ci riporta brutalmente al mondo reale, una condizione complessiva di criticità che forse continua ad essere sottovalutata; sottolinea l’emergenza sociale in determinate parti del territorio nazionale legate anche e soprattutto alla bassa qualità della vita in aree di recente urbanizzazione. Con un cortocircuito – alquanto improbabile – tra gli stimoli forniti dalle tesi affermate durante i lavori del convegno Re-cycle Op_positions e i dati preoccupanti che emergono dallo studio svolto dalla Agenzia delle Entrate, si possono trarre alcune considerazioni. Il riciclo è prassi imprescindibile In vaste aree dell’Italia, e del pianeta, la crisi da congiunturale sembra essere ormai strutturale con conseguenze, non più transitorie o temporanee, che esasperano ulteriormente criticità preesistenti di carattere sociale, ambientale, economico. Il perdurare di questa condizione di crisi sta determinando un radicale cambiamento degli stili di vita provocando forme di “adattamento”; il riciclo è una forma di adattamento alla crisi, consiste nel ridurre i consumi e prolungare, con inventiva e creatività, il ciclo di vita degli oggetti. Il riciclo, oggi, è prassi non più opzionale ma necessaria e imprescindibile. Non solo nelle comunità in crisi la pratica del riciclo è tornata d’attualità, come risposta a disagio e malessere, ma anche nelle comunità “ricche” c’è la consapevolezza che senza una lungimirante politica preventiva il sistema collassa. Sono infatti le comunità “ricche” che applicano il riciclo con maggiore efficacia e precisione come principio base di politiche urbane di ampio respiro: San Francisco, Copenaghen, Vancouver, Stoccolma, Malmö, Portland, Amburgo. Il principio del riciclo – nelle sue declinazioni più sperimentali e innovative sui temi dell’agricoltura, mobilità sostenibile, trattamento rifiuti urbani – è anche una strategia applicata con successo nella pratica del rinnovamento della qualità urbana in contesti particolarmente difficili: Bogotà, Curitiba, Detroit, Medellin, Tel Aviv. Il riciclo non rischia, quindi, di “passare di moda”, almeno non in tempi brevi, e la ricerca Re-cycle Italy continua ad essere particolarmente di attualità.


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Mobilitare risorse locali non solo economiche Non c’è riciclo senza un coinvolgimento attivo della comunità di abitanti – si tratti di raccogliere lattine di alluminio vuote per farci biciclette o risignificare pezzi di città e paesaggio – «Il progetto del riciclo invoca un coinvolgimento attivo, perché lavora sull’inadempiuto e sull’imperfetto, chiama in causa il soggetto e la comunità» (Gianni Celestini). Così l’ipotesi di estendere la pratica del riciclo dagli oggetti a architetture e infrastrutture della città e del paesaggio continua ad avere una carica simbolica particolarmente efficace per coinvolgere la comunità di abitanti nei processi di rinnovamento degli spazi di vita quotidiana. In buona parte delle tesi proposte al convegno Re-cycle Op_positions la materia del riciclo sembra essere soprattutto il paesaggio nelle sue declinazioni più precarie: dello scarto, del rifiuto, dell’abbandono. Si tratta dei “resti” dei recenti processi (fallimentari) di modernizzazione del territorio, macerie su cui si concentra la ricerca progettuale e teorica. «I resti sono medium della modernità e le comunità di oggi si misurano nella capacità di prendersi cura dello scarto» (Rocco Ronchi). Per questi luoghi «è necessario innescare processi a bassa intensità di capitali, ma non di qualità di intervento, con la mobilitazione di risorse locali non solo economiche» (Ezio Micelli). Si tratta quindi di sperimentare nuove modalità partecipate di intervento che utilizzano strumenti di sviluppo locale e interpretano le spinte sociali provenienti dal basso per risignificare quell’enorme quantità di «capitale di energia grigia» (Adriano Paolella) oggi sottoutilizzato che non può essere semplicemente demolito o disperso ma risignificato in nuovi usi. Nuovi immaginari per i paesaggi del rifiuto La ricerca e la pratica in architettura si è decisamente spostata, negli ultimi decenni, da un approccio «oggettuale» a «processuale» (Umberto Cao); le tre dimensioni: ecologica, economica e sociale sono strettamente correlate tra loro ed il progetto si misura in un approccio tra «total recycle design e total recycle process» (Consuelo Nava). Ma il riciclo oltre che pratica ecologica in architettura è soprattutto pratica creativa, è «dispositivo espressivo» (Pippo Ciorra). Re-cycle mette in difficoltà la figura dell’autore, non è comunque una rinuncia al progetto, è semmai dispositivo che accoglie dati trovati, «processo come essenza di ricerca formale» (Sara Marini). Così architettura da «autoriale» diventa «autorialità contrattata» (Mauro Berta) quindi processo politico; il ruolo dell’architetto – soprat-


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tutto nelle visioni dei ricercatori e studiosi delle generazioni più giovani che intervengono al convegno Re-cycle Op_positions – è «risolutore di conflitti» (Alessandro Armando); «l’architetto diviene solver provider che supporta e indirizza gli abitanti per trasformare potenziali visioni in soluzioni reali» (Antonia Di Lauro), «Re-cycle può quindi essere interpretato come un’attitudine, ossia una modalità comportamentale auto-indotta» (Cristina Sciarrone). L’architetto legge e interpreta le aspirazioni delle comunità e le vocazioni dei luoghi; più che la dimensione materiale – progettare forme o spazi – emerge l’esigenza di lavorare ad un rinnovamento della dimensione immateriale. L’obiettivo sembra rispondere all’emergenza della contemporaneità, ovvero produrre nuovi immaginari per i paesaggi del rifiuto, dell’abbandono, dello scarto; luoghi in cui vive e si concentra la maggiore quantità della popolazione del pianeta. Il riciclo è quindi dispositivo espressivo per «reinventare rituali» nelle pratiche di vita quotidiana, una nuova «sacralità di tutti i giorni» (Federico Boni) negli spazi pubblici e collettivi per favorire l’interrelazione tra individui. La comunità al centro della scena Il successo della ricerca Re-cycle Italy nell’ipotizzare e sperimentare processi di trasformazione e rinnovamento della città e del paesaggio, sarà tanto maggiore quanto maggiore sarà il coinvolgimento attivo della società civile: le comunità di abitanti, il mondo dell’associazionismo, i rappresentati delle istituzioni pubbliche e del mondo produttivo, le scuole a tutti i livelli, ecc. L’approfondimento teorico del convegno Re-cycle Op_position è particolarmente utile alla comunità scientifica del gruppo di ricerca per stimolare il dibattito e il confronto interno; è un avanzamento culturale sull’interpretazione del concetto di re-cycle in architettura cercando, non a caso, strette correlazione con economia, filosofia, sociologia. L’emergenza della contemporaneità è il miglioramento della qualità della vita negli spazi della quotidianità, quei paesaggi maggiormente compromessi e danneggiati negli ultimi decenni ma con potenzialità latenti ancora inespresse; problematiche di tale rilevanza e complessità richiedono un approccio multidisciplinare. Gli esiti del convegno saranno ancora più utili se avranno una successiva interpretazione e attuazione nella sperimentazione applicata ai territori del reale. Nelle pratiche più efficaci di rinnovamento urbano e del paesaggio, oggi, sembrano avere maggiore successo e prevalere atteggia-


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menti partecipanti piuttosto che posizioni assertive e perentorie espresse con progettualità chiuse e definitive. Il buon esito di interventi per assegnare nuovi cicli di vita a infrastrutture e architetture di città e paesaggio è determinato dalla capacità dei progettisti di dialogare con la comunità e dare forma a nuovi comportamenti in relazione a nuove emergenze economiche, ambientali, sociali. Si tratta, quindi, di delineare nuovi approcci e strumenti secondo il principio di assegnare un ruolo attivo alla società tutta: «la comunità al centro della scena» (Franco Zagari); per interpretare una condizione in rapida evoluzione che impone, nella ricerca e pratica in architettura, una nuova «dimensione umanistica» (Renato Bocchi).


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COPPIE OPPOSITIVE E SPAZI INTERSTIZIALI: L’ IN-BETWEEN REALM Piero Ostilio Rossi >UNIROMA1

Il tema dell’in-between realm – dello spazio intermedio in e tra le cose – fu introdotto nel dominio concettuale dell’architettura e del progetto urbano da Aldo van Eyck negli anni Cinquanta e poi successivamente ripreso da Herman Hertzberger in molti suoi progetti come egli stesso sottolinea nel capitolo Lo spazio abitabile fra le cose nel libro Lessons for students in architecture1. «Nella produzione teorica e pratica dei due architetti – ha ricordato Daniela Cerrocchi su Hortus – l’in-between nasce come lo spazio della soglia, una zona intermedia che interagisce tra ambiti spaziali comunicanti». Appartenendo contemporaneamente ad entrambi, questo “spazio abitabile tra le cose” favorisce il contatto e la relazione tra “mondi diversi e spazi distinti”. E più avanti: «Van Eyck elabora una rappresentazione dei vuoti urbani che ribalta il sistema urbanistico normativo imposto dall’alto, sostenuto dal CIAM, a favore di un approccio dal basso, realista e situazionale, in armonia con quanto assunto dai membri del


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Team X […] La città appare come un artefatto composto di frammenti, in cui il vuoto accede in divenire alle potenzialità relazionali attraverso un processo di “intermediarità” (inbetweening)». Com’è noto, a partire dal 1947, Van Eyck applicò e diede figura a questa sua visione degli spazi interstiziali urbani realizzando alcune centinaia di aree per il gioco dei bambini nei lotti residuali di Amsterdam (dati aggiornati indicano che quelle realizzate fino al 1974 sulla base dei suoi indirizzi progettuali sono più di 860 2), recuperando in particolare quelli prodotti dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale. I suoi progetti («uno dei segreti meglio mantenuti del XX secolo», è stato scritto3) hanno contribuito, con un progressivo processo di moltiplicazione degli effetti, a modificare in maniera significativa il paesaggio urbano della città. I campi per il gioco dei bambini di van Eyck – con la loro strategia “dal basso”, interstiziale e policentrica – sono stati la prima concreta proposta alternativa all’urbanistica dei CIAM e alla functionele stad di Cor van Eesteren; gli altri membri del Team X – Alison e Peter Smithson, Giancarlo De Carlo, Candiolis, Josic & Woods, tra gli altri – ne avrebbero successivamente sviluppato i princìpi. Tutti i campi da gioco sono VLWH VSHFL±F e il risultato è «da una parte una serie di mappe in cui sono inseriti i campi da gioco, dall’altra, una famiglia di forme create dalla realtà, sino ad allora senza precedenti in architettura o nell’urbanistica»4. L’aspetto più originale e significativo di questi spazi è infatti «la qualità di rete che assumono se considerati come un insieme: sono concepiti come una costellazione, uno schema costituito da unità che nascono situazionalmente legate al tempo, al caso e alle circostanze»5. Nell’architettura contemporanea il principio concettuale dell’in-between è stato diffusamente recuperato come base teorica dell’agire progettuale: l’esempio più noto è costituito dal lavoro di Bernard Tschumi che, sia negli scritti che nei progetti, fa continui rimandi all’in-between come al sistema di spazi tra-le-cose, deputato ad accogliere il movimento delle persone, i flussi, gli eventi. Tra i suoi progetto più noti, il Fresnoy Art Center di Tourcoing, mi sembra che riassuma in maniera paradigmatica questa linea di pensiero trasferendola in pratica di progetto e in figura architettonica. In termini teorici il dominio dell’in-between sembra collocarsi su di una riva concettuale opposta a quella alla quale approda il concetto di Op_positions che fa da cornice ai contributi presentati al convegno di Venezia e pubblicati in questo libro. I caratteri intrinsecamente pragmatici


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e adattivi del principio dello spazio in e tra le cose rifiutano quello delle coppie oppositive, ma al contrario si insinuano tra di esse accogliendo e sintetizzando temi ed elementi di entrambe; il concetto del “non solo, ma anche” esprime in maniera efficace le caratteristiche inclusive dell’inbetween, ma anche la possibilità di riferire ad esso una molteplicità di processi e di pratiche che oggi attraversano la dimensione operativa degli interventi sui manufatti, sulla città e sul paesaggio. In realtà, molti dei paper presentati alle quattro sessioni del convegno tendono ad esprimere linee di pensiero più legate ai principi di congiunzione, coordinazione e correlazione tra le coppie oppositive autoriale/politico, economico/ecologico, etico/estetico e noto/innovativo piuttosto che al prevalere di un termine sull’altro. Perfino una coppia apparentemente disgiuntiva come economico/ecologico produce riflessioni che tendono ad ibridare i due termini attraverso il classico procedimento dialettico tesi, antitesi, sintesi. Probabilmente è il paradigma stesso del riciclo a spingere il pensiero in questa direzione, poiché è la complessità dei fenomeni analizzati e dei casi studio presi in esame a suggerire di accettare (hegelianamente?) che la vera natura delle cose si possa cogliere solo quando si considerino insieme (e quindi non disgiunti) i loro caratteri essenziali e le loro relazioni di differenza e alterità rispetto tutto ciò da cui sono diverse. Al dominio dell’in-tra e dell’in-between realm fa infatti esplicito riferimento Alan Berger a proposito dei drosscape che egli considera spazi instabili e in qualche modo “in sospensione”, spazi che si insinuano nel periurbano occupando le aree interstiziali lasciate libere dalla crescita a macchia di leopardo tipica dello sprawl delle città contemporanee. Berger ritiene infatti che questo genere di paesaggi dello scarto emergano da due tipi di processi: o come sottoprodotti della rapida urbanizzazione e della crescita orizzontale caratteristica dello sprawl urbano, o come conseguenza della dismissione di aree industriali non più produttive in termini economici perché tecnologicamente superate. Sono quindi spazi disarticolati di ogni genere: sterminate aree di parcheggio, terreni inutilizzati, aree abbandonate perché in attesa di sviluppo, lotti non edificabili, discariche di rifiuti e di scarti di produzione, aree di stoccaggio delle merci. Per loro natura, i drosscape sono distribuiti in modo frammentario e sono molto spesso ubicati sui margini delle infrastrutture viarie; sorgo-


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no “spontaneamente”, al di fuori di ogni strategia urbana obbedendo a ragioni di razionalità minima, senza un piano che ne definisca appropriatamente ubicazione, consistenza e dimensione, che ne coordini e ne relazioni le attività, che ne massimizzi l’efficienza e ne minimizzi l’impatto ambientale e paesaggistico. Nei necessari processi di qualificazione, le tematiche del riciclo possono costituire delle linee strategiche di intervento in considerazione del fatto che le condizioni generali della società impongono ormai di operare per reimpiegare i materiali di scarto, per ri-costruire più che per costruire, per ri-naturalizzare piuttosto che per urbanizzare, per definire, insomma, una concreta risposta della cultura visiva e progettuale al tema pressante della sostenibilità. La tematica dell’As found fa da cornice e da sfondo a queste strategie. As found è la capacità di guardare diversamente e dare nuovo significato a ciò che è ordinario, che attiene alla vita cosi com’è; è la capacità di progettare raccogliendo tracce e indizi, recuperando segni e significati che appartengono al quotidiano e al sentire comune: è insomma la base teorica di un atteggiamento dialettico tra strumenti disciplinari e realtà che ben si adegua alla tematica del riciclo. Questo perché As found è un comportamento politico, un’attitudine antiutopica e ha una forte componente etica che ne regola i comportamenti. Ma As found significa anche molte altre cose: Alison e Peter Smithson, che coniarono il termine a metà degli anni Cinquanta, lo consideravano innanzitutto un procedimento che accomunava molte discipline (l’architettura, l’arte, il cinema, la fotografia, il teatro) allo scopo di individuare un comune filone di ricerca; una ricognizione percettiva della realtà che costituiva la base necessaria per radicare l’architettura non solo nei bisogni delle persone, ma anche nel loro immaginario figurativo. Ma As found è anche il titolo di un convegno internazionale che si è svolto a Copenhagen nel giugno del 2010, organizzato dalla København Universitet e ci ricorda come il concetto di sito stia guadagnando un’attenzione sempre maggiore nel campo degli studi dell’architettura del paesaggio, della pianificazione, della progettazione architettonica e della conservazione. Ciò che è già nel sito – o meglio l’uso e l’interpretazione che si dà di esso – è diventato un aspetto determinante per l’approccio teorico verso il progetto e questa maggiore consapevolezza conduce – è questo l’assunto del convegno – a nuove teorie, nuove pratiche e nuove politiche. Nella sintesi introduttiva che Renato Bocchi ha presentato in occasione


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dell’apertura del convegno, c’è un punto che mi sembra di particolare interesse se si assume il punto di vista dell’As found ed è quello che riguarda l’interrogativo se il riciclo possa diventare anche uno VSHFL±FR innovativo paradigma per il progetto contemporaneo e l’emergere, all’interno dei paper e delle relazioni, di una dimensione estetica, autoriale ed innovativa del progetto di riciclo che si ricollega per altro ad una specifica declinazione del problema indagata in una sezione della mostra Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta6. Ritengo che, all’interno delle diverse tematiche di Re-cycle Italy, questa linea di ricerca meriti attenzione e occasioni di confronto per ampliare ed indagare le potenzialità di un simile interrogativo e per articolare ulteriormente la gamma delle possibili risposte.

Note 1. H. Hertzberger, Lessons for students in architecture, 010 Publisher, Rotterdam 1991. Tr. it. Lezioni di architettura, a cura di M. Furnari, Laterza, Roma-Bari 1996. 2. Cfr. L. Lefaivre, Puer ludens, in «Lotus International», n. 124, 2005, pp. 72-85. 3. Ibid., p. 72. 4. Ibid., p. 74. 5. Ibid., p. 77. 6. Cfr. P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Recycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Fondazione MAXXI-Electa, Milano 2011.


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NOTO / INNOV


VATIVO

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IL RICICLO È NOTO E/O INNOVATIVO Fabrizia Ippolito >UNINA [UNINA2]

Nel quadro di un dibattito sul riciclo in architettura, condotto per opposizioni, il binomio noto/innovativo offre i termini estremi di una riflessione che, attraversando le loro molte sfumature, può porre alcune questioni riguardo sia alla teoria che alla pratica del progetto1. Da una parte questioni centrate sulla possibilità di definire il riciclo come nuovo paradigma, che scaturisce dal nostro tempo, propone una strategia per rispondere alle domande contingenti e introduce un nuovo termine nel dibattito sull’architettura; dall’altra questioni centrate sulla possibilità di individuare il riciclo come attitudine innovativa al progetto, che interviene sull’esistente trasformandone il senso, esprime capacità di vederlo in modo nuovo e libertà di trarne soluzioni inedite e latenti. In aggiunta, l’interrogazione sul riciclo come pratica nota, che si perpetua da sempre nella cultura progettuale e nei paesaggi, o che si può riconoscere oggi, con nuovi criteri di interpretazione, in un patrimonio esistente di progetti.


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Sullo sfondo, altre opposizioni, tra continuità e discontinuità, originale e rivisitazione, possono rappresentare termini di un dibattito più ampio, che riconduce diverse discipline a un terreno condiviso, dal quale può emergere l’assonanza tra le condizioni contemporanee del progetto come manipolazione dell’esistente e dell’arte come reinterpretazione (Marco Senaldi)2. 1. Il riciclo come nuovo paradigma Mutuato dal sapere comune e da altre discipline, rilanciato in questi anni di crisi da chiamate alla riduzione, alla decrescita, al riuso, al ripensamento di visioni di sviluppo e modernità e di ordinamenti disciplinari del progetto, il riciclo può assumere un’utilità nel dibattito sulla realtà e la cultura progettuale attuale. Radicato nelle contingenze, impegnato nella definizione di propri strumenti e strategie e di un proprio statuto culturale, si candida a essere nuovo paradigma3 per il progetto di architettura, città e paesaggio. Il riciclo come nuovo paradigma è radicato nelle contingenze. In un momento nel quale i territori si riscoprono consumati da anni di espansione, in un paesaggio nel quale la crisi rivela spazi di dismissione e ritrazione, in un tempo nel quale urgenze ambientali economiche e sociali spingono a fare tesoro di tutte le risorse, mentre si dissolvono le concezioni monolitiche di modernità e sviluppo, il confronto con l’esistente assume caratteri di intensità e necessità, e il riciclo entra nel dibattito progettuale. L’ottica del riciclo, rivolta ai territori attuali, può sollevare i temi dei manufatti abbandonati della città recente e di quella consolidata (Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Cristiana Mattioli, Federico Zanfi), degli spazi vuoti e dei paesaggi residui (Massimo Lanzi), dei nuovi paesaggi urbani esposti a obsolescenza (Emanuela Nan), della spazzatura e degli scarti (Giamila Quattrone), sollecitarne usi creativi, scrivere nuove modalità di azione (Chiara Olivastri), suggerire raccomandazioni su protocolli d’intervento (Massimo Angrilli). E se, nell’affrontare questi temi, le recenti ricerche sulla città rappresentano un retroterra consistente, che comprende l’urbanistica del paesaggio e quella ecologica, la definizione dei paesaggi di scarto, le riflessioni su cicli di vita, dissipazioni e crisi, alcuni esempi di politiche, ma anche diversi casi di pratiche urbane4, la ricerca progettuale sul riciclo trova una propria specificità nell’attenzione all’esistente, a condizioni e circostanze, materiali e dinamiche, domande e potenzialità, rivolgendoli in ingredienti di una strategia d’azione. Questa strategia, che risponde sul


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piano locale a un richiamo globale alla riduzione, nell’esplorazione di una via italiana può trovare ragioni nelle esigenze, nei vincoli, nelle crisi e nelle risorse dei nostri paesaggi. Ma il nuovo paradigma supera le contingenze. In un momento nel quale, insieme con le crisi dei territori e delle loro visioni, entrano in crisi ordinamenti consolidati del progetto, il ricorso al riciclo è l’occasione per un ripensamento di tecniche come di immaginari, per una manipolazione dell’esistente che si muove tra il riconoscimento di necessità e la ricerca di possibilità espressive, proponendo un nuovo termine al dibattito d’architettura5. Un contributo nell’ottica del riciclo al dibattito culturale sul progetto può passare in rassegna altri termini e tendenze (Umberto Cao), prendere in prestito strumenti e processi da altre discipline (Gianbattista Reale), ragionare in termini di sistema e di funzionamento (Maurizio Costantini, Andrea Revolti), o di programma e di visione (Lina Malfona), delineare un approccio operativo (Andrea Oldani) o tentativo (Nicola Marzot). Oscillante tra aspetti pragmatici e concettuali, aperta a suggestioni eterogenee, che attengono a molti campi culturali, dall’arte alla politica alla filosofia all’ecologia all’economia, agli studi sui materiali e sui rifiuti6, la riflessione intorno a una teoria del riciclo in architettura passa per la loro confluenza nel progetto, per tesi, opere e autori centrati su reinvenzioni e manipolazioni, e trova fondamento in rassegne recenti, a partire da quella intitolata a questo tema. Se Re-cycle7 ha messo in mostra una tendenza dell’architettura attuale, Re-cycle Italy può verificarne implicazioni e lanciarne proiezioni, anche a partire dalla postazione italiana. Individuare il riciclo come nuovo paradigma può voler dire, nel contesto dei territori attuali, elevarlo a strategia e, nel contesto del dibattito progettuale, individuarlo come tendenza, offrendone dei principi, una casistica di esempi e un fondamento culturale, tracciandone traiettorie aperte a completamenti. 2. Il riciclo come attitudine innovativa al progetto Se alcuni connotati del riciclo sono l’aspetto adattativo e sovversivo, l’adesione alle circostanze e alle occasioni, l’inclusione di errori e imperfezioni, un’ottica fondata sul riciclo può produrre germi di innovazione. Nodi di riflessione possono essere lo scarto, inteso come oggetto di rielaborazione, ma anche come posizione dello sguardo, e il tempo, inteso come materiale di progetto.


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Il riciclo come attitudine innovativa al progetto prescinde dalla ricerca del nuovo per ricavare novità dall’esistente. Rinnovare le cose trovate, rinnovare lo sguardo che le osserva, rinnovare il processo progettuale sono esiti più che obiettivi di un’attitudine al progetto che lavora con poco, approfitta di quello che ha a disposizione, si muove nelle pieghe del tempo e dello spazio, nelle contraddizioni, non perseguendo l’innovazione, ma raggiungendola quasi per incidente, o come effetto collaterale della risposta a necessità e occasioni. Guardare al riciclo in questa chiave comporta una riflessione sul processo progettuale, che può implicare un movimento intorno al ciclo preferendo gli spazi di incertezza, del termine, dell’oggetto, del progetto (Nicola Marzot), una capacità di riconoscere il futuro nel passato (Gennaro Postiglione) o di praticare la dimenticanza, che ha che fare con la doppia attitudine allo scarto come selezione e spostamento dello sguardo (Giovanni Corbellini), di produrre attraverso questo spostamento slittamenti di senso delle cose (Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Andrea Iorio), o rinnovamenti di vita delle forme (Margherita Vanore), di reinterpretare il tempo della costruzione (Paola Galante, Roberto Serino), di riconoscere, tra le tecniche, al montaggio la possibilità di produrre innovazioni linguistiche (Rita Simone), di evidenziare un rivolgimento di visione stabilendo differenze col progetto di assemblaggio (Lina Malfona). Per quanto queste riflessioni non si riferiscano necessariamente a questi tempi, a questi tempi appartengono molte ricerche centrate sui fenomeni di mutazione dello spazio e sui meccanismi innovativi del progetto, che comprendono il parassitismo, la bassa definizione, la progressione, ma anche l’attivismo e la partecipazione, e molte altre tattiche progettuali, spesso proposte in forma di atlanti o di manuali8, mentre una riflessione su questi meccanismi orientata alla specificità innovativa del riciclo può tendere a una chiarificazione delle intenzioni, con differenziazioni dal riuso, il recupero, la riqualificazione, e a una diversa consapevolezza d’uso, che può passare, anche, per una loro catalogazione. Nell’individuare il riciclo come attitudine innovativa al progetto, l’interrogazione riguarda le modalità, i materiali, i dispositivi e i processi progettuali di interventi sull’esistente che ne modificano il senso, la possibilità di precisarne le intenzioni e di codificarne i passi e gli strumenti. Un’avvertenza può riguardare il rischio che un eccesso di codificazione possa depotenziarne il carattere innovativo.


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3. Il riciclo come pratica nota Radicato nel proprio presente, fondato sulla risposta alle occasioni, l’intervento sull’esistente inteso come reinvenzione può essere rintracciato nell’architettura di tutti i tempi. Un patrimonio di edifici e spazi manipolati, di pratiche di trasformazione, adattamento, migrazione di materiali architettonici e urbani, e di teorie delle pratiche e nobilitazioni di espedienti, balza all’attualità nelle condizioni odierne; riconosciuto, rinominato, è materiale di rielaborazione teorica nel dibattito corrente sul riciclo. Il riciclo come pratica nota è testimoniato da un repertorio di esempi e studi che possono essere messi in nuova luce. Ammettere una consuetudine alle azioni di riciclo può servire a ritrovarle nell’architettura nella città e nel paesaggio, e nel sapere progettuale, identificandole come patrimonio condiviso, a riconoscere novità non tanto all’attitudine al riciclo in sé, quanto al suo uso e alla sua declinazione attuale. Guardare al riciclo come cosa nota può voler dire riscontrare analogie con esempi del passato e continuità nella pratica del mestiere, ma anche individuare differenze e discontinuità nelle condizioni cambiate (Andrea Oldani), ribadire un’attitudine allo sguardo di scarto sul banale (Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Andrea Iorio), rintracciare dei precedenti alle teorizzazioni attuali e una specificità dell’architettura nel rinnovarsi delle forme (Margherita Vanore) o dell’origine, e discutere se ci sia niente di nuovo sul fronte del pensiero (Dina Nencini). Se alcuni frammenti di queste riflessioni si possono rintracciare nelle ricerche sull’architettura senza architetti e i paesaggi vernacolari, nelle esplorazioni dei paesaggi banali, nelle letture delle stratificazioni di alcune architetture urbane – e nell’elevazione a modello di alcuni casi speciali –, nelle teorie sulla vita delle opere e delle loro forme9, e ulteriori potrebbero emergere dal richiamo ad alcune opere o al lavoro di alcuni autori, o ad alcuni momenti dell’architettura, l’interpretazione del riciclo come pratica nota tende a combinare tutti questi frammenti in un unico paesaggio culturale, fatto di teorie e opere, luoghi e architetture, produzioni anonime e d’autore – le rovine di Bosra abitate, gli anfiteatri di Arles, Nimes e Lucca o il palazzo di Spalato trasformati in città, e le loro letture, il progetto stratificato di Eisenman per Cannaregio, l’High Line di New York trasformata in passeggiata, il Palais de Tokyo progettato incompiuto10 – composto per analogie secondo il filo conduttore del riciclo. In questo paesaggio, che stabilisce familiarità inattese, può risiedere la possibilità di liberare una teoria del riciclo dalle urgenze e i vincoli del legame


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esclusivo con la contemporaneità proiettandola in un tempo più ampio dell’architettura, ma anche il rischio di ridurre questo tempo a luogo di perenni ricorrenze. L’interrogazione sul riciclo come pratica nota riguarda la possibilità di riconoscere un’attitudine propria dell’architettura all’adattamento, al sovvertimento, alla reinvenzione, al dialogo col proprio tempo, e il richiamo a misurare su condizioni mutate la ricerca di nuovi atteggiamenti11. Se l’azione progettuale del riciclo produce uno slittamento di senso dell’oggetto, reinventando cose note, una teoria del riciclo di fronte al binomio noto/innovativo produce un analogo spaesamento, riscrivendo i termini dell’opposizione. Mentre, in estrema semplificazione, si può dire che il riciclo è una pratica nota, innovativa in sé, che si propone rispetto alle attuali contingenze dei territori e del dibattito culturale come nuovo paradigma, abbandonata la semplificazione, le diverse accezioni di questi termini e i loro spazi di ambiguità creano la possibilità di espandere il campo di riflessione, non tanto per conciliare posizioni, quanto per sperimentare posizionamenti. Ampliato il campo, il ritorno ai termini originari dell’opposizione, come il ritorno della contemporaneità a termini come continuità e discontinuità, originale e rivisitazione, ri-descritti dalle vicende che li hanno attraversati, offre una terza strada, nella quale risiede l’obversione delle strutture concettuali (Marco Senaldi) e, forse, la forza sovversiva del riciclo. Se il progetto di riciclo è tentativo, e ha il potere di sovvertire l’esistente, può essere tentativa la sua teoria, e sovversiva, quando non cerca risposte a domande date – la crisi, la condizione post-moderna – ma prova a riformulare le domande.

Note 1. Il testo fa riferimento alla sessione noto/innovativo del convegno Recycle Op_positions, provando a restituirne premesse ed esiti, alla luce dell’istruttoria e dei contributi pervenuti. Tra parentesi i riferimenti ai contributi. 2. M. Senaldi (a cura di), Cover Theory. L’arte contemporanea come

reinterpretazione, Libri Scheiwiller, Milano 2003. 3. M. Ricci, Nuovi paradigmi, List Lab, Trento 2013. 4. Tra le altre, per l’urbanistica letta nella chiave del paesaggio C. Waldheim, The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, New York 2006; A.


37 Berger, Drosscape. Wasting Land in Urban America, Princeton Architectural Press, New York 2007; M. Mostafavi, G. Doherty, Ecological Urbanism, Lars Muller, Baden 2010; per le politiche urbane il caso di Detroit; per le pratiche urbane gli esempi di Tactical Urbanism in www.streetplans. org. 5. P. Ciorra, Per un’architettura non HGL±FDQWH, in P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, Electa, Milano 2011. 6. Per fare solo due esempi, N. Bourriaud, Post-production. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmediabooks, Milano 2004 (ed. or. 2001); W. McDonough, M. Braungart, Cradle to Cradle: Remaking the Way We Make Things, North Point Press, New York 2002. 7. P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, cit. 8. Tra le altre, per il parassitismo S. Marini, Architettura parassita. Strategie di riciclaggio per la città, Quodlibet, Macerata 2008; per la bassa definizione M. Lupano, L. Emanueli, M. Navarra, /R ± Architecture. Architecture as a Curatorial Practice, Marsilio, Venezia 2010; per le azioni urbane G. Borasi, M. Zardini, Actions. What you can do with the city, CCA, Montréal 2008; per le tattiche, F. Ippolito, Tattiche, Il Melangolo, Genova 2012. 9. B. Rudovsky, Architecture without Architects. A Short Introduction to NonPedigreed Architecture, University of New Mexico Press, Albuquerque 1987; J. B. Jackson, Discovering the Vernacular Landscape, Yale University Press, New Heaven and London 1984; A. Rossi, L’architettura della città, Marsilio, Venezia 1966; H. Focillon, La vita delle forme, Einaudi, Torino 1990.

10. Cfr. mostra e catalogo P. Ciorra, S. Marini (a cura di), Re-cycle. Strategie per l’architettura, la città e il pianeta, cit. 11. Cfr. A. Ferlenga, Ricicli e correzioni, in ibid.


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NOTO, INNOVATIVO, RICICLATO. IL CONCETTO DI “OBVERSIONE” E LE STRATEGIE ARTISTICHE DI RE-CYCLING Marco Senaldi >IULM Milano

Uno dei più longevi tormentoni pubblicitari, risalente agli anni Ottanta, ha per sempre sdoganato l’altrimenti astrusa logica del “terzo incluso”. Come alcuni ricordano, lo slogan inventato dall’agenzia Pirella per il primo detersivo con ammorbidente prodotto dalla Henkel partiva dalla tipica domanda: «È nuovo?». La replica, che in termini logici potrebbe avere solo due valori, reciprocamente escludentisi, o affermativo («Certo che è nuovo!») oppure negativo («No, è usato…»), faceva emergere invece un’inattesa “terza possibilità”: «È nuovo? – No, lavato con Perlana!». Così, una semplice pubblicità ci ha introdotto per sempre nella tipica situazione contemporanea in cui ci troviamo a che fare con una dimensione indecidibile che, pur non essendo più quella di partenza, non è nemmeno il suo opposto immediato. Anche se ormai ci siamo abituati a questa situazione, essa nondimeno mantiene in sé qualcosa di sorprendente, come quando dobbiamo giudicare di un oggetto riciclato che, sì, è in se


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stesso innovativo, eppure è realizzato con materiali preesistenti, quindi noti, e che dunque incarna, nella sua stessa essenza, una sorta di strano paradosso. Paradosso con cui l’arte contemporanea si è costantemente confrontata con le sue opere e le sue pratiche, si direbbe da quando esiste – o almeno da quando un artista (autoproclamatosi non-artista) come Marcel Duchamp, ribaltò un oggetto comune dichiarandolo “arte”. Per tentare di descrivere questa condizione, ormai largamente diffusa, della contemporaneità, si potrebbe fare appello alla semi-sconosciuta nozione logica di “obversione”1. Il termine “ob-versione” (che vorrebbe indicare un rovesciamento, un ribaltamento di una pre-esistente “versione” di qualcosa) è derivato dalla logica classica. Si chiama obversione quella legge logica per cui: A è diverso da non-A, ma è identico a nonnon-A. In pratica, l’obversione è una estensione del principio di identità e di non contraddizione, le due colonne della logica classica. La prima dice che A è =A; la seconda, che, se questo è vero (ma non può non esserlo, è intuitivo), allora necessariamente affermare che A=non-A implica errore logico, contraddizione. Se però, davanti a non-A mettiamo un altro segno di negazione, neghiamo cioè la negazione di A, (o, anche, invertiamo l’inversione di A), allora non-non-A torna ad essere un A. Le seconda negazione annulla la prima, il secondo “non”, aggiunto al primo “non”, riporta al dato di partenza. Per cui se A=A, allora A=non-non-A, cioè la seconda inversione inverte la prima e si ha una doppia inversione o obversione. Da un punto di vista logico, il fatto è che A si ripeta sia di qui che di là del segno di uguaglianza = non comporta alcuna difficoltà, perché i simboli sono puramente dei veicoli segnici, non hanno realtà, sono puramente formali. Eppure, in qualche modo, questi simboli, proprio per dar conto di qualcosa che invece si vuole unico, auto-identico e coincidente in sé con sé, devono duplicarsi. Per ribadire l’identità di una sostanza, occorre fare un passo, fatale, fuori di essa; la sua auto-identità è stabilita, sì, ma a prezzo di un inevitabile raddoppiamento. Da un punto di vista filosofico questo è già piuttosto strano perché, nel principio di identità, A, in un certo senso, compare due volte, va contato per due. Come Heidegger non mancherà di notare: «Perché una cosa possa essere ‘la stessa’ un solo termine è più che abbastanza. […] La formula comune del principio di identità vela precisamente ciò che il principio vorrebbe dire, cioè che A è A, in altri termini, che ogni A è lui stesso lo stesso.» 2


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Ma Heidegger prosegue con una osservazione fondamentale: infatti, dopo l’idealismo tedesco «non abbiamo più il diritto di rappresentarci l’unità dell’identità come la semplice uniformità e di trascurare la mediazione che si afferma al cuore dell’identità».3 In effetti, nella legge dell’identità c’è qualcosa che non aveva mancato di colpire i filosofi idealisti sul finire del secolo XVIII – cioè alle soglie della modernità. Personaggi come Kant e Fichte prima, Schelling e Hegel poi, si erano resi conto che la logica classica descriveva un sistema statico, e si chiesero pertanto se, invece, nelle formule stesse del sistema, non ci fosse una specie di dinamica intrinseca. In questo senso, Fichte è stato il primo a porre radicalmente la questione dell’identità logica, notando che nell’equazione fondante A=A il secondo termine è già la UL²HVVLRQH del primo. Tale riflessione deve esser posta da altro che da A, e questo altro è per Fichte la prima cosa di cui siamo immediatamente certi, cioè l’Io. 4 Fichte pertanto sostituisce ad A (il segno per la sostanza aristotelica), il termine Ich (Io), il segno per la sostanza cosciente. La stringa classica viene quindi riscritta così: Io=Io. Il cambiamento è senza dubbio cruciale. L’identità, così intesa, funziona solo per l’Io, cioè per una coscienza. Nella stringa classica qualunque altro segno può prendere il posto di A, anche B è =B, C=C,… n=n, poiché ogni sostanza è identica a un’altra, ma nella riscrittura fichtiana questo è del tutto impossibile, infatti: «In questa proposizione [Io sono Io] l’Io è posto con il predicato dell’identità con se stesso, non in modo condizionato, ma assolutamente… L’Io si pone da se stesso, esso è in virtù di questo semplice porsi di sé da sé.» 5 È questo il famoso primo principio della Dottrina della scienza. Questo passo stabilisce il carattere processuale che rende l’identità un’identificazione sempre LQ ±HUL ma mai raggiungibile – un principio che però implica necessariamente che l’identità sia anche una non-identità, una disidentità. Quest’ultimo termine è diverso da “differenza”, perché la differenza implica una semplice diseguaglianza, come fra A e non-A, mentre la disidentità è una incongruenza interna alla sostanza cosciente, cioè al soggetto, all’Io. Io è dunque implicitamente disidentico da se stesso – e non a caso il termine Nichtidentität, cioè disidentità viene coniato da Hegel, in relazione proprio allo sviluppo dialettico della coscienza.6 La nozione di disidentità qui messa in campo fa rileggere il principio fichtiano in questo modo: se


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Io=Io, allora Io=non-Io, e viceversa; ossia: Io uguale Io implica Io disuguale Io. Questa stringa non ricorda forse il celebre paradosso di Russell, per cui R appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso? 7 Questa osservazione permette di afferrare il concetto di “obversione” da un nuovo punto di vista, non solo non più strettamente “logico”, ma ricorsivo ed esistenziale, come processo che ri-descrive la nostra identità e la nostra stessa esistenza. Se torniamo alla nozione logica di “obversione”, vediamo che la seconda negazione che si aggiunge alla prima nel caso di non-non-A, sembra far “ritornare” A identico a ciò che era in partenza; ma se questo percorso a ritroso è compiuto da una sostanza cosciente, cioè da un Io (e non da un A qualunque), esso incide sulla sua identità, modificandola in maniera irreversibile. L’Io doppiamente negato è un Io “ritornato”, che è in tutto identico all’Io di partenza, e insieme è disidentico da esso, proprio a causa della negazione “subita”, e della “negazione di questa negazione”. In questo senso, nella prospettiva obversiva, la base da cui cominciare non è affatto l’identità, ma la disidentità quale legge generale della coscienza, il suo punto fondamentale. E la disidentità è pertanto intrinseca nel modo con cui la coscienza stessa si auto-percepisce e si autodescrive, descrizione identitaria che risulta pertanto sempre spostata, “sfasata” rispetto a se stessa.8 Per capire questo aspetto drammatico della disidentità, ci si potrebbe rifare, qui, ad una memorabile scena di Total Recall (Paul Verhoeven, 1990), in cui il protagonista Doug Quaid (Arnold Schwarzenegger) scopre di non essere quel che credeva di essere, ossia un mite operaio edile, e che la sua deliziosa mogliettina (Sharon Stone) è invece una killer spietata che cerca di ucciderlo. Dopo averla ridotta all’impotenza è lei stessa che beffardamente gli dice: «La tua vita non è che un sogno!» – al che lui ribatte con la famosa (e fichtiana) domanda: «If I am not Me – den who da hell am I?» – «Ma se io non sono io, allora io chi diavolo sono?». Sfuggito rocambolescamente a una serie di attentati, sconvolto, sdrucito e incredulo egli infine osserva un “altro sé” su un monitor. La sua controfigura mediale – che è indiscutibilmente lui stesso, cioè il suo Io! – gli appare però in tutta la sua disidentità: indossando un elegante smoking, il suo alter-non-Ego gli dice qualcosa di ancor peggio: «Ricorda che Tu sei Me!» – gettandolo così nella confusione più totale. Se consideriamo la sequenza, osserviamo che Schwarzenegger “vero”


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vede un altro Schwarzenegger (in smoking) che gli si rivolge dicendogli che sono la stessa persona. L’invito a sentirsi se stesso non viene da un altro individuo (un “altro” Io), ma dall’Io stesso, che però è percepito come diverso, anzi drammaticamente opposto all’Io, eppure uguale a lui – dunque, non un semplice “Altro” qualunque, ma un non-Io ben determinato, Quaid stesso. Quaid, però, appare “rovesciato”, in quanto appare a se stesso all’interno di un apparato mediale, nella dis-uguaglianza da-sé introdotta dal video. È chiave in tutto questo processo il ruolo di “riproduzione tecnica” del video come agente di duplicazione – infatti la ripresa di Quaid in smoking deve essere stata fatta tempo prima, però già in previsione di quando sarebbe stata vista da Quaid malridotto e fuggiasco. Dato che l’io di Quaid viene interpellato dal suo altro mediale con un “Tu” («Ricordati che Tu sei Me!») è evidente che siamo di fronte non ad una semplice messa in divenire del processo di identificazione, ma di una sua inattesa “ricorsività”, che introduce una non-congruenza entro l’Io come tale. Dire “Io” in tal caso non implica più in maniera diretta l’auto-identità dell’enunciante – in altre parole, Io, il termine pronunciando il quale siamo implicitamente assunti come esistenti nel discorso, può simultaneamente assumere il senso di non-Io, un senso dunque obverso.9 Slavoj Zizek ha notato come già Kant nella Critica della ragion pura introduca una differenza tra giudizio affermativo, negativo e LQ±QLWR (Unendliche). L’affermazione positiva “l’anima è mortale” può infatti essere negata in due modi: possiamo negare un predicato (“l’anima non è mortale”), o affermare un non-predicato (“l’anima è non-mortale”). La differenza è esattamente la stessa di quella, nota a ogni lettore di Stephen King, fra la frase «non è morto» e la frase «è non morto». Il giudizio infinito apre un terzo dominio che scalza la distinzione tra morto e non-morto (vivo): i «non-morti» non sono né vivi né morti, sono i mostruosi «morti viventi».10 In altri termini, già Kant introduce un tertium (giudizio infinito) tra affermazione e negazione, che consiste nella doppia negazione. Vivo è =vivo, e naturalmente diverso da non-vivo (=morto). Ma un “non-morto”, cioè un “non non-vivo”, è ben altra cosa da un vivo, è il fantomatico mortovivente, in altre parole uno zombie, un soggetto che “ritorna” dopo la negazione della negazione, dopo la sua stessa morte.11 L’identità di identità e disidentità è la vera identità, il vero tertium da includere – ma è anche un qualcosa di intimamente sbilanciato, diseguale


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in sé, come un nastro di Moebius dove le due superfici opposte passano una nell’altra, ma al solo patto di incrociarsi in un punto nodale, critico, obverso appunto.12 Si sarebbe tentati di applicare questa dialettica al caso dell’opposizione tra “noto” e innovativo”, così feconda di suggestioni nel caso della pratica di “recycling”, non solo architettonico, facendo riferimento al ben noto caso del cosiddetto movimento “appropriazionista” o “simulazionista” sorto a New York negli anni Ottanta.13 In pratica, negli stessi anni in cui i pubblicitari nostrani coniavano slogan che ribaltavano la logica classica (inconsapevolmente citando una lunghissima tradizione filosofica!), gli artisti contemporanei si davano “da fare nel ri-fare” (copiare, citare, simulare, emulare, “ri-ciclare”…) opere del passato artistico, lontano e recente.14 Arthur Danto, nel suo celebre testo sulla “fine dell’arte” come l’abbiamo sempre conosciuta, menzionava appunto il caso dell’artista citazionista/ appropriazionista Mike Bidlo come paradigma di una nuova fase artistica post-storica.15 Bidlo infatti era, ed è, noto per aver “ri-fatto” tutta una serie di opere di altri artisti, da Warhol a Morandi, da Fontana a Picasso, intitolandoli, obversivamente “not”: Not Warhol (Brillo Box), 1995, è ad esempio un rifacimento delle celebri Brillo Boxes di Andy Warhol del 1964, a cui Danto fa riferimento. Ma, se solo si pensa alle citazioni della nostra Transavanguardia, alle ri-fotografie di Louise Lawler, ai rifacimenti dei ready-made duchampiani di Sherrie Levine, al ri-utilizzo di oggetti quotidiani di Haim Steinbach, è chiaro che l’esempio di Bidlo è solo uno fra i tanti possibili. Gli anni del postmodernismo nascente, in cui gli artisti producevano opere sempre precedute da un prefisso, Not Warhol, After Duchamp, Hommage to Picasso e via dicendo, sono gli anni dei “simulacri” – ed un simulacro è un po’ l’equivalente oggettivo di ciò che per il soggetto è lo zombie. Ora è molto interessante notare che un artista come Mike Bidlo sembra usare “una sola” negazione davanti al titolo dei propri rifacimenti, come nel caso dei Not Warhol. Bisogna però “saper contare” le negazioni: le Brillo Boxes di Warhol, infatti, al loro primo apparire (nel 1964), furono fortemente criticate perché non sembravano affatto delle opere d’arte. Nell’idea di Warhol si trattava di mettere in discussione l’artisticità delle merci, il loro look appariscente, la loro capacità seduttiva “pop”: le sue erano perciò delle opere di “non” arte, opere che portavano una


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negazione dentro se stesse, che erano arte solo in quanto smentivano la loro stessa identità artistica. Quando Bidlo replica le Brillo Boxes, e le chiama Not Warhol (Brillo Box) in effetti aggiunge un “non” supplementare: quello che lui nega, non è più l’oggetto mercificato come tale (le “originarie” scatole di cartone delle pagliette per lavare i piatti), ma la negazione warholiana di quelle merci. Bidlo parte dal fatto incontestabile che in circa trent’anni le scatole di Warhol si sono affermate come vere e proprie sculture dotate di un valore iconico, artistico e mercantile indiscutibile – che si può persino parodiare, senza per questo poter tornare alle “pacifiche” scatole di pagliette Brillo che hanno scatenato tutta questa dialettica.16 Tuttavia, talvolta il ri-utilizzo disidentico della cosa stessa è ancora più complesso – come nel caso di un’opera particolarmente problematica, sempre di Warhol, quale i suoi Flowers, realizzati nel 1965. Come molti sanno, Warhol aveva preso il tema dei fiori ingranditi da una foto di una fotografa dilettante, Patricia Caulifield, apparsa su un rotocalco, e ne aveva fatto un pattern per creare enormi serigrafie multicolori. La Caulifield più tardi fece causa a Warhol e ottenne almeno un parziale riconoscimento del suo contributo come “autore” – anche se la cosa è controversa, dato che l’immagine di partenza era stata tagliata, ingrandita e ri-colorata nelle versione di Warhol, che era già dunque un “ri-fare” al tempo stesso innovativo e “banale”, rivoluzionario proprio per l’utilizzo radicale dell’estrema banalità (cosa c’è di più insignificante di un mazzo di fiori ingrandito?).17 La cosa ancor più stupefacente però è che, pochi mesi dopo la mostra di Warhol, un’altra artista sua amica e praticamente coetanea, cioè Elaine Sturtevant, (nata nel 1930) pensò di “ri-fare” il rifacimento di Warhol. Nella sua prima personale del 1965 anzi la Sturtevant organizzò in galleria una vera parata di “ri-facimenti”: diversi Flowers di Warhol, una Flag di Jasper Johns, e inoltre Lichtenstein, Raushenberg, Stella, Oldenburg, Segal, Rosenquist, insomma, tutti artisti pop che erano avevano esposto poco prima nelle più importanti gallerie newyorkesi. Ogni quadro era stato realizzato accuratamente dalla Sturtevant stessa, riprendendo scrupolosamente le diverse tecniche pittoriche di ogni autore – l’encausto per Johns, i dots per Lichtenstein, il calco in gesso per Segal e via dicendo. Per i Flowers, Sturtevant aveva addirittura usato il telaio serigrafico originale di Warhol: lei glielo aveva chiesto, e lui glielo


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aveva prestato. In un’intervista, interrogato sul senso dei Flowers, pare che Andy abbia addirittura mormorato: «I don’t know. Ask Elaine».18 Benché il lavoro di Sturtevant fosse inizialmente accolto con benevolenza, ben presto la sua pratica di “ri-facimento” iniziò a generare aperto risentimento. Anzi, per usare le parole di Sturtevant stessa in un’intervista a Peter Halley, verso la sua opera cominciò a montare una horrendous hostility da parte di tutto il mondo dell’arte, evidentemente impaurito dalla radicalità del suo gesto, il che la costrinse a interrompere l’attività per oltre un decennio, fino appunto agli anni Ottanta in cui il suo lavoro fu (superficialmente) assimilato al già citato simulazionismo postmoderno.19 Non occorre essere degli intenditori però per capire che l’operazione di “ripetizione differente” di Sturtevant non ne fa parte: lungi dall’essere un elegante gioco di citazioni a distanza (storica e mentale), l’operazione della Sturtevant è davvero una “negazione della negazione” dialettica dell’opera di partenza. La “seconda volta” dell’opera, che Sturtevant riesce a creare, genera un disturbante sdoppiamento dello sguardo che ci mette sull’avviso e ci spinge alla fatale domanda su “cosa stiamo veramente guardando?”. Pensiamoci un momento. Quando guardiamo un Flower di Warhol possiamo pensare al consumo delle immagini, alla cultura di massa, alla perdita di senso della Natura in un universo industrializzato, ecc.; ma quando guardiamo un Flower (identico) di Sturtevant, e “sappiamo” benissimo che non è di Warhol, cosa stiamo effettivamente guardando – se non l’impossibile scarto, le minime “differenze” tra originale (ammesso che esista) e copia (ammesso che sia tale), ossia cosa stiamo guardando se non la differenza-in-quanto-tale? Si potrebbe addirittura arrivare a dire che, se il passo compiuto da Warhol nei confronti della civiltà dei consumi è stato enorme, dato che ci ha fatto capire che si trattava di una civiltà del “consumo delle immagini” e dei segni – il contributo di Sturtevant non è da meno, dato che ci spinge a riflettere sull’identità di ciò che veramente guardiamo e per conseguenza, dato che “noi siamo ciò che vediamo”, sulla nostra stessa identità. Per riprendere l’esempio fatto sopra, di fronte a un Warhol siamo in un film di fantascienza, ma di fronte a un Sturtevant siamo in un film di fanta-identità: siamo come Schwarzenegger di fronte all’immagine video di se stesso: «Se questo quadro non è se stesso, allora io chi sono?» – o, per metterla in termini filosofici, siamo in pieno idealismo: il banale A=A del


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falsario, diventa qui l’Io che cerca se stesso di fichtiana memoria. Non a caso, gli interessi della Sturtevant sono divenuti sempre più filosofici (nell’ultima retrospettiva a Parigi ha persino “ripetuto” la serie televisiva Abécedaire di Deleuze, peraltro autore del fondamentale saggio Differenza e Ripetizione, del 1969), e ha sempre più insistito sul fatto che la vera funzione delle sue opere non consiste in un piacere visivo, ma nello shifting mental structures, nello scardinamento le nostre strutture mentali. E non è forse in questo slittamento che risiede l’essenza concettuale di ogni possibile operazione di autentico re-cycling?

Note

1795, pp. 19-20; ed it., cit., pp. 147-49.

1. Per questo concetto, rimando al mio saggio in prossima uscita Obversione. Vivere nell’epoca della disidentità, 2014.

6. G .W. F. Hegel, Phanomenologie des Geistes, Bamberg und Wurzburg, Goebhardt 1807; ed. it. a cura di V. Cicero, Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, Milano, 1995, p. 275.

2. M. Heidegger, Identität und Differenz, I ed. Guenther Neske, Pfullingen 1957, ed. it. Identità e differenza, Adelphi, Milano 2002, p. 2. 3. Ibid., p. 9, sott. nostra. 4. J. G. Fichte, Oeuvres Choisies de philosophie prémiere – Doctrine de la science, a c. A. Philonenko, Vrin, Paris 1972; Les principes de la doctrine de la science, 1794-1795, p. 25; «il movimento dell’Io agente in questa funzione è il seguente: A (il termine assolutamente posto) è =A (quello sul quale è riflesso)»; cfr. ed it. Fondamento dell’intera dottrina della scienza, (basata sulle edd. 17945 e nuova ed. 1802) a cura di G. Boffi, Bompiani, Milano 2003, p. 163. Fichte cioè vede la duplicità del principio di identità, afferra che il secondo A già è “spostato” rispetto al primo. 5. J. G. Fichte, Oeuvres Choisies, cit., Les principes de la doctrine de la science, 1794-

7. Sui successivi due principi di Fichte e sul loro carattere problematico, cfr. S. Zizek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico, Ponte alle Grazie, Milano 2013, cap. 3. 8. Il punto è messo in chiaro da Zizek con riferimento agli studi di D. Henrich (che rimprovera alla dialettica hegeliana di finire in un “circolo vizioso”); cfr. S. Zizek, Il Grande Altro, Feltrinelli, Milano 1999, pp. 142-143 (orig. in Id., Enjoy Your Symptom!, Routledge, London 1992, pp. 69-110); per Zizek l’impasse fichtiana è la soluzione hegeliana. 9. Naturalmente, non si deve dimenticare il contesto spettacolare entro cui il dialogo ha luogo – contesto che, per quanto esso appaia veritativo, resta pur sempre rappresentativo, “falso”, hollywoodiano. L’intera retorica sci-fi dell’innesto di memoria, del viaggio su Marte, dello


47 spionaggio galattico, ecc., hanno qui però non solo lo scopo “narrativo” di rendere “più potabile” la filosofia di Fichte, Hegel e compagnia, ma di “distrarre” lo spettatore dal contenuto profondo della esperienza di disidentificazione, proprio “servendogliela” come piatto forte della serata. Total Recall dunque (come Matrix, Face Off, e tutta questa serie di film) possono costituire dei begli esempi di obversione, ma non costituiscono minimamente la “critica dell’obversione” – anzi, ne fanno parte integrante, sono la “colonna ideologica” (l’“ideo-track”, proprio nel senso di soundtrack o “colonna sonora”) della società obversa.

contemporanea nella mostra Cover Theory, Officina della Luce, Piacenza, del 2003, cfr. M. Senaldi (a cura di), Cover Theory. L’arte contemporanea come reinterpretazione, Scheiwiller, Milano 2003.

10. S. Zizek, Leggere Lacan (2006), ed. it. a cura di M. Carboni, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 67.

19. P. Halley, Interview, in ibid., p. 267.

11. Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura [1781-87], ed. it., Laterza, Bari 1979, 2 voll.; vol. I, p. 108 (libro I, Cap. I, Sez. II, § 9). 12. La figura topologica individuata da Moebius cioè, non consisterebbe solo in un “indolore” passaggio da una superficie all’altra, ma implica un punto “extrageometrico” di torsione, un nodo in cui la figura nel suo complesso si torce, si incurva catastroficamente – a livello metaforico ciò significa che la figura della disidentità implica un simile punto di “forzatura” a livello “extralogico”. 13. Cfr. D. Cameron (a cura di), New York Art Now, Politi editore, Milano 1988. 14. Cfr. S. Reynolds, Retromania: Pop Culture’s Addiction to its own Past, Faber & Faber, New York 2011. 15. A. Danto, After the End of Art, Princeton U.P., Princeton 1997, p. 12 e sgg. 16. Mi sono occupato di queste forme di re-interpretazione nell’arte

17. Il caso è stato approfondito da M. Buskirk, The Contingent Object of Contemporary Art, MIT Press, CambridgeLondon 2003; cfr. cap. 2 Original Copies, p. 81 e sgg. 18. Per tutti questi aspetti cfr. AA.VV., Sturtevant. The Razzle Dazzle of Thinking, exhib. cat. Musée d’art moderne de la Ville de Paris, JRP Ringier, Zurich 2010.


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PER UNA COMUNITÀ RICICLANTE Massimo Angrilli >UNICH

Questo contributo propone un elenco aperto di principi che puntano all’innovazione prendendo spunto da iniziative già note, ricondotte entro una comune cornice di senso data da significato e missione del termine Re-cycle. L’obiettivo è individuare alcuni punti utili ad orientare l’azione di quanti si impegnano da diversi fronti (legislativo, fiscale, economico, progettuale, ecc.) a favorire le politiche del riciclo urbano, riducendo le attuali difficoltà dovute a complessità e sovra-produzione normativa; ai costi spesso insostenibili; alle carenze della conoscenza e delle occasioni di intervento, in altre parole ad un quadro complessivo che oppone alla pratica del riciclo condizioni avverse. Si ritiene infatti che una seria politica di riciclo (che dia quindi luogo anche all’espressione di una nuova cultura progettuale, come auspicato in avvio della ricerca PRIN) potrà affermarsi soltanto se apparirà economicamente conveniente, socialmente desiderabile, oltre che culturalmente stimolante.


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Tali condizioni devono essere create sia attraverso l’uso intelligente e coordinato di norme e strumenti già disponibili (con un approccio di bricolage intellettuale), sia mediante il ripensamento di regole e processi che oggi impediscono l’azione, sia per mezzo dell’invenzione di nuovi dispositivi legislativi che si propongano di rendere attuabile l’intervento di riciclo. Si noti bene che quest’ultima azione non vuol essere finalizzata alla produzione di regole entro le quali imbrigliare la pratica del riciclo, non vuole cioè produrre una burocratizzazione del riciclo. Ciò che si vuole ottenere mediante nuovi dispositivi legislativi è l’esatto opposto: cioè la sua semplificazione. Come è noto il riuso di manufatti comporta il più delle volte complesse ed estenuanti procedure di verifica di aderenza a norme in materia di destinazioni d’uso, di sicurezza sismica, di vincoli storico-architettonici e di quant’altro rende poco fattibile l’azione del riciclo. Occorre cioè prendere atto dei numerosi vincoli che oggi si frappongono tra progetto e riciclo architettonico, urbanistico e paesaggistico. Credere ad una pratica artistica del riciclo è, alle attuali condizioni, sicuramente affascinante ma anche molto ingenuo, la libertà espressiva è paradossalmente realizzabile solo in un contesto amministrativo dotato di regole chiare. Occorre poi orientare una parte del lavoro della ricerca Re-cycle Italy verso la costruzione di una efficace azione di pressione sugli enti di governo (anche a livello europeo) che conduca a gettare le basi per una stagione di programmazione economica finalizzata al sostegno delle iniziative di riciclo urbano. L’attuale centralità della città nell’agenda europea di sviluppo sostenibile e coesione sociale, sostenuta dal Parlamento Europeo, dal Comitato delle Regioni e dalla Commissione Europea, è una occasione propizia per avviare politiche europee e nazionali di promozione di progetti di riciclo urbano. Un sostegno economico per lo start up di imprese specializzate nel riciclo di manufatti ed aree urbane è oltremodo necessario, così come sarebbe prezioso, per le amministrazioni locali, beneficiare di un sostegno economico per il lancio di progetti pilota. Il settore edilizio, dopo una lunga fase espansiva (1995-2006), iniziata a metà anni Novanta e che aveva fatto registrare i valori più elevati a partire dal secondo dopoguerra, è ancora in fase di recessione. Gli indicatori segnalano l’avvio di una nuova fase che sembra segnata da una riconfigurazione del settore, basti pensare che tra gli investimenti effettuati dalle imprese di costruzioni quelli più significativi riguardano gli impianti di energia rinnovabile (FER), un mercato che al 2011 era già più importante


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di quello delle nuove costruzioni residenziali. D’altra parte la crisi, che sta ridisegnando il mondo, non poteva non produrre effetti su un settore così importante per l’economia, come il settore della trasformazione urbana. Inoltre secondo il CRESME «già oggi il 67% del mercato delle costruzioni è rappresentato da interventi di riqualificazione del patrimonio esistente ed è probabile che il mercato del rinnovo edilizio sarà in crescita nei prossimi anni, trainato in particolare dagli interventi di riqualificazione in chiave energetica, ma anche anti-sismica». Sempre secondo il CRESME «l’intensità di tale crescita dipenderà molto dalla capacità delle politiche pubbliche di creare un sistema di incentivi capace di accelerare il processo di riqualificazione.»1 Occorre convincersi che se sostenuto da una politica di finanziamenti statali e regionali il riciclo urbano potrebbe contribuire non poco allo sviluppo di importanti settori economici, aiutando in particolare il comparto della green economy. Il riciclo implica minor consumo di suolo (secondo i dati di ISPRA si consumano otto metri quadrati di suolo al secondo) ed una riduzione delle esternalità ambientali negative connesse alla realizzazione di nuovi manufatti e infrastrutture e attribuire priorità al riciclo del suolo edificato esistente rispetto all’ulteriore consumo di suolo inedificato consentirebbe di disaccoppiare lo sviluppo urbano dal consumo della risorsa suolo. I principi che seguono si propongono in definitiva di fissare alcuni obiettivi che dovrebbero aiutare ad inquadrare meglio, sia dal punto di vista degli attori pubblici, sia dal punto di vista del progettista, il processo del riciclo urbano, dando per scontato che vi sia condivisione sull’urgenza di un nuovo approccio al tema della trasformazione urbana, i cui driver in futuro saranno riuso, rigenerazione e riciclo. Importanza del riciclo urbano Il riconoscimento dell’importanza del riciclo urbano, per i suoi contenuti ecologici, etici, estetici ed economici, deve permeare le principali azioni che a diverso titolo investono il territorio e le città. Il riciclo urbano ha contenuti ecologici perché attraverso il riuso dell’energia incorporata, quell’energia cioè impiegata nel ciclo di produzione di manufatti ed infrastrutture da riciclare (compresa la quota di energia indiretta utilizzata per la produzione ed il trasporto delle materie prima, come cemento, carpenteria e laterizi) consente di risparmiare sul con-


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sumo di nuove risorse e sull’impiego di energia fossile. Il riciclo urbano è etico in quanto consente di riutilizzare aree già urbanizzate e manufatti già costruiti evitando così di impegnare nuovi suoli. Ha contemporaneamente potenzialità estetiche in quanto invita ad elaborare una nuova estetica, fondata sulla tensione tra forme del passato e linguaggio della contemporaneità, rinnovando il lessico dell’architettura (vedi ad es. opere di Lacaton & Vassal come la trasformazione de La Tour Bois le Prêtre). Il riciclo urbano è economico perché se sostenuto dai finanziamenti statali e regionali disponibili sull’edilizia (concessi prioritariamente a comuni, città metropolitane e province che avviano azioni concrete per localizzare le previsioni insediative nelle aree urbane dismesse) consente di evitare la perdita di attività economiche presenti nelle aree di espansione (in particolare quelle agricole) ed aiuta lo sviluppo di nuovi settori dell’economia come la green economy. Censimento del riciclabile La conoscenza e la mappatura del patrimonio di opere e spazi riciclabili come condizione preliminare per l’impostazione di politiche di riciclo. All’interno del territorio edificato sono presenti numerosi edifici, manufatti e spazi dismessi e degradati, ma ancora suscettibili di riuso. La conoscenza di tale patrimonio e la valutazione del grado di riciclabilità ed utilità residua sono indispensabili per avviare politiche di riciclo urbano. Tali politiche devono essere integrate a quelle da attivare ai fini del minor consumo di suolo, coerentemente con quanto previsto dal DDL ConteniPHQWR GHO FRQVXPR GHO VXROR H ULXVR GHO VXROR HGL±FDWR che all’art. 4 prevede la formazione di elenchi di aree suscettibili di prioritaria utilizzazione a fini edificatori di rigenerazione urbana e di localizzazione di nuovi investimenti produttivi e infrastrutturali, vincolando la realizzazione, nel territorio dei comuni inadempienti, di interventi edificatori che comportino consumo di suolo inedificato. Occorre prevedere negli strumenti di pianificazione comunale e provinciale la realizzazione di censimenti di aree e manufatti dismessi all’interno del territorio urbanizzato comunale con la valutazione del loro grado di riuso e riciclabilità, al contempo occorre introdurre nei regolamenti urbanistici comunali norme che condizionano lo sviluppo edilizio su aree inedificate alla preventiva verifica di riciclabilità di aree già edificate o manufatti dismessi all’interno del territorio comunale e preventivamente censiti dal comune.


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Semplificazione normativa e contenimento dei costi L'attuale quadro normativo e le vigenti regole per la tassazione delle attivitĂ edilizie non favoriscono lo sviluppo di una economia del riuso e del riciclo. Il recupero dell’esistente è pertanto allo stato attuale piĂš oneroso ed i processi autorizzativi sono spesso piĂš lunghi rispetto a quelli necessari per le nuove realizzazioni. Ăˆ necessario semplificare le procedure di cambio di destinazione d’uso e di messa a norma (energetica, sismica, ecc.) per i progetti che si impegnano a riciclare tessuti urbani degradati inserendovi attivitĂ e funzioni che richiederebbero l’impegno di suoli inedificati. Ăˆ necessario inoltre promuovere politiche di riduzione dei costi, almeno nei casi in cui non vi sia cambio di destinazione d’uso, riconoscendo in primo luogo (come ha fatto recentemente il TAR Piemonte con la sentenza n. 1009 del 16 settembre 2013) che gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria per il recupero di immobili abbandonati non sono dovuti in quanto lo stato di abbandono non azzera il carico urbanistico precedente e, pertanto, il privato non è obbligato a pagare nuovamente il contributo di costruzione. Incentivazione del riciclo /H GLIÂąFROWj H OH LQFHUWH]]H GHULYDQWL GDO TXDGUR GHVFULWWR DO SXQWR SUHFHGHQte rendono poco conveniente il riciclo, insieme al contenimento dei costi è necessario dunque promuovere forme di incentivazione attraverso politiche ÂąVFDOL H GL SUHPLDOLWj HGLOL]LD FRQVLVWHQWL QHOOÂŞDWWULEX]LRQH GL XQ GLULWWR HGLÂącatorio aggiuntivo, rispetto a quello previsto in via ordinaria dagli strumenti urbanistici, riconosciuto quale premio per il raggiungimento di obiettivi di interesse pubblico il risparmio di suolo. Occorre prevedere, nelle leggi regionali e negli strumenti di pianificazione comunale e provinciale, l’istituto della premialitĂ edilizia per interventi di riciclo di aree e manufatti dismessi o degradati, attraverso cui attribuire un surplus di diritti edificatori da quantificare caso per caso in relazione ai benefici conseguiti dalla collettivitĂ in seguito all’intervento di riciclo ed ai costi connessi alla riqualificazione (ad esempio nel caso in cui il riciclo riguardi aree industriali da bonificare preventivamente). In aggiunta o (a seconda dei casi) in alternativa alle misure di incentivazione edilizia si possono prevedere forme di incentivazione fiscale per quelle imprese che investano sul riciclo del patrimonio abbandonato.


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Per una cultura progettuale multi-cycle thinking La cultura progettuale non tiene oggi in adeguata considerazione il concetto di ciclo di vita delle opere architettoniche, ciò impedisce la programmazione delle possibilità di riciclo futuro dell’ambiente costruito. L’approccio multi-cycle thinking si propone di prevedere già in fase di progetto il riciclo futuro delle opere architettoniche, urbanistiche e paesaggistiche, considerando contemporaneamente e preventivamente i cicli di vita successivi a quello per il quale le opere sono state pianificate. Questa visione progettuale coinvolge diverse scale della progettazione e molteplici dimensioni del riciclo, da quelle attinenti al singolo componente di un edificio a quelle attinenti interi complessi di edifici e spazi aperti. Il recente progetto del Parco Olimpico di Londra è un esempio di applicazione dell’approccio multi-cycle thinking, dove in fase di pianificazione e progettazione sono state previste modalità di riciclo delle opere giunte alla fine del loro primo ciclo di vita. Sperimentazione Sempre più spesso si assiste allo sviluppo di iniziative spontanee e auto-organizzate di riciclo creativo di manufatti e spazi dismessi (vedi ad esempio l’iniziativa Teatro Valle Occupato) che denunciano con chiarezza l’esistenza di una domanda di riuso alla quale gli enti pubblici non sono al momento in grado di dare risposte strutturate. Occorre dunque incentivare progetti pilota di rilevanza urbana (eventualmente sul patrimonio pubblico) finalizzati a intercettare e sperimentare usi temporanei e modalità d’utilizzo emergenti e innovative per edifici e spazi dismessi, in particolare per il riciclo creativo e la valorizzazione del patrimonio pubblico inutilizzato e sotto-utilizzato (vedi l’iniziativa URBACT Network on temporary uses as tool for urban regeneration ed il recente decretolegge 91/2013 – art. 6 – che prevede la destinazione di immobili dismessi di proprietà dello Stato a studi di giovani artisti, per favorire il confronto culturale e la realizzazione di spazi di creazione di arte contemporanea). Nota 1. Città, mercato e rigenerazione 2012. Analisi di contesto per una nuova politica urbana (elementi di sintesi). Ricerca promossa da CNAPPC e ANCE, realizzata dal CRESME.


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DAL “BUILDING OF THE CITY” AL “RECYCLING OF THE ARCHITECTURE”: MUTAZIONI TERMINOLOGICHE E TRASFORMAZIONI DI SENSO Umberto Cao >UNICAM

Negli ultimi cinquanta anni il tema del rapporto tra architettura e città o, se volete, del progetto della città, si è sviluppato senza momenti di discontinuità, ma si è progressivamente modificato sul piano terminologico. Queste mutazioni e le loro contaminazioni, per quanto spesso originate da eventi occasionali o scritti di particolare successo, vanno considerate con una certa attenzione, se non altro come fenomeno culturale, perché comunque si pongono in sintonia con le grandi trasformazioni materiali ed immateriali del pianeta. È il caso del termine “riciclo” che si pone al tempo stesso come presupposto teorico e come finalità operativa di questo nostro impegno scientifico, ma che, più in generale è diventato termine indicativo di un modo diverso dell'agire progettuale. Proprio per contribuire a capire meglio il perimetro concettuale del termine e quanto ci sia di noto e quanto di innovativo, potrà essere utile un accenno alle diverse definizioni che in circa ottanta anni hanno inquadrato il rapporto tra l’esi-


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stente e il nuovo, sia alla scala dell'architettura che a quella della città e del paesaggio antropizzato. Nel primo decennio del dopoguerra, mentre nelle città europee si aprivano i cantieri della ricostruzione e l’urbanistica veniva praticata come strumentazione tecnica per dare ordine allo sviluppo, era già diffuso in Europa The culture of the cities (1938) di Lewis Mumford con la promozione di concetti nuovi, quali building of the cities e city design, che oggi tradurremmo in “architettura delle città” e “progetto urbano” (allora tradotti malamente in “urbanistica”); oppure observers of cities, oggi “studiosi delle città” (allora tradotto in “studiosi di urbanistica”). Tanto più avanzata era la terminologia usata da Mumford per spiegare i fenomeni urbani e tanto meno la cultura urbanistica del tempo riusciva a coglierne le valenze innovatrici. Eppure proprio dal “regionalismo mumfordiano” doveva partire quel riscatto della città come “forma” – non più come “tecnica” – che avrebbe definitivamente allontanato l’epoca contemporanea sia dal retaggio ottocentesco che dal funzionalismo modernista. In pochi anni l’Occidente si riprese dalla guerra, ma insieme alla crescita del benessere le città manifestarono la loro ipertrofia aprendo sinistri presagi di futuri danni ambientali. Occorrevano nuovi strumenti di analisi e di progetto. La forma della città contemporanea – si diceva e si scriveva proprio in questa scuola veneziana – non può che trarre origine dalla analisi dei fenomeni urbani e dalle permanenze che la storia ci consegna: si cominciò a parlare di “architettura della città”. Fu così che non solo gli architetti, ma anche gli urbanisti più sensibili presero atto dei primi segnali


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di fallimento dei processi pianificatori sostituendo al termine progettazione urbanistica quello di “progettazione urbana”: dunque non solo quantità e processi, ma qualità e forma. La salvezza era nella storia e il concetto di “sviluppo della città” fu in breve (anni Ottanta) sostituito con quello più prudente di «modificazione dell’esistente» (Gregotti, «Casabella» n. 498/9). Ma la tutela ed il vincolo sulla città storica sembravano paralizzare le applicazioni di un pensiero teorico di matrice italiana che si stava diffondendo in Europa. Ci si chiedeva: se le tracce e le permanenze della città storica guidano la forma della città contemporanea, allora il concetto di progettazione urbana coincide con quello di trasformazione di parti di città che possono anche appartenere a quella storia. Così il conflitto tra “architetti conservatori” e “architetti innovatori” si stemperava nel termine “trasformazione urbana”. Con il passaggio dalla economia produttiva a quella di scambio, ma anche con l’esplosione della rivoluzione telematica e delle reti virtuali, le trasformazioni del territorio subirono una accelerazione che colse impreparata la politica e il governo del territorio, perché le città crescevano più velocemente delle capacità degli urbanisti di prefigurarne l’evoluzione: la cultura architettonica non si era accorta che le città avevano infranto i loro confini e si erano estese nel paesaggio. E fu sprawl. Cambiano ancora le parole, cambiano le procedure di intervento. Stavolta però non in modo univoco: mentre i “luoghi” diventano “nonluoghi”, si diffondono termini come “progettazione delle infrastrutture”, e “progettazione delle reti”. Il paesaggio ridefinito dalla Convenzione europea in termini inclusivi di contenuti naturali e antropici, materiali e culturali, locali e globali, viene assunto come risorsa per la progettazione interscalare: ma non è la pacificazione tra la dimensione dell'architettura e quella dell'urbanistica che invece si scontrano, proponendo diverse interpretazioni del termine “progettazione del paesaggio”. Su finire del secolo, mentre in Occidente la nuova dimensione della città diffusa metteva in discussione quasi tutti i principi e i dispositivi di intervento nella città compatta tradizionale, nei paesi in via di sviluppo (Medio Oriente, Oriente, America latina), la metropoli contemporanea esplodeva diventando fenomeno di indagine sociologica ed economica (Biennale di Venezia di Burdett del 2006). In una rincorsa frenetica sospinta da una crescita economica impressionante, la nuova megalopoli terzomondista bruciava i tempi, riallineandosi in pochi anni ai problemi della città occi-


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dentale. E fu crisi ambientale. Nascono termini nuovi come “rarefazione”, “densificazione”, “stratificazione”, quasi sempre applicati a conurbazioni esistenti sui quali il progetto deve intervenire con procedure flessibili che includono dispositivi non sempre finalizzati alla nuova edificazione. Nel nuovo secolo di parole ce ne sono troppe, usate male e con finalità improprie; ad esempio il termine onnicomprensivo di “progettazione sostenibile”, che riempie le pagine di tanti studi di comodo e di tante riviste commerciali. Ormai non c'è progetto di architettura che non sia accompagnato da uno schema nel quale tante freccette indicano il percorso di un'aria che diventa calda d'inverno e fredda d'estate in virtù di improbabili invenzioni tipologiche su fondazioni, murature e intercapedini. E non c'è piano urbanistico che non sia integrato da relazioni che parlano di paesaggio, tutele, reti ecologiche ed altre ragioni giustificative – a posteriori – delle scelte fatte. Questo mentre una pioggia di finanziamenti agevolati indirizzati alla sperimentazione di nuove fonti energetiche concede alibi per inevitabili speculazioni edilizie. In realtà la buona architettura, bene costruita, è per definizione sostenibile; l'architettura di qualità “in-sostenibile” non esiste. Da qui prende corpo l'ultima definizione, quella che ci riguarda direttamente, il “riciclo dell’esistente”, un concetto che ha senso se poggia su quattro ragioni. La prima è il degrado fisico dell'architettura. L'architettura contemporanea non è duratura sia perché il mercato non è stabile e quindi non suggerisce certezze di investimento, sia perché i materiali si deteriorano più facilmente di una volta. La diffusione della carpenteria metallica e di apparati effimeri di natura sintetica comporta per il fabbricato una vita che spesso non supera i vent'anni. Koolhaas è stato premonitore ed aveva ragione: facciamo di questo problema una virtù e rendiamo flessibile – e forse anche temporanea – l'occupazione del suolo. La seconda è la necessità di costruire a “saldo zero”. Ovvero di non aggiungere cubatura all'esistente: si deve costruire tanto quanto si demolisce. È rimasto poco spazio dentro e fuori dalle metropoli, gli equilibri ambientali e climatici non funzionano più. Dentro la metropoli il contrasto tra zone pregiate e zone povere aumenta sia in termini di quantità che di qualità. Fuori dalle metropoli il paesaggio è contaminato dallo sprawl in un “disequilibrio regolato” sincrono al movimento delle merci e alla mobilità del lavoro, quindi difficilmente modificabile. La terza è l'impoverimento degli spazi pubblici. I luoghi collettivi della città non sono più i luoghi della “polis” – lo diciamo da tempo – ma gli spazi


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del consumo. Se non c'è “merce” non c'è attrazione, anche quando questa “merce” è la storia e la cultura, ovvero il target del turismo di massa; anche questo lo diciamo da tempo. In entrambi i casi gli spazi pubblici rischiano di diventare i luoghi del desiderio e della frustrazione, perdono il loro carattere di spazi della comunità per diventare gli spazi del dissenso e del degrado. La quarta ed ultima ragione è la crisi economico-finanziaria dei paesi occidentali. Una crisi cronica e in larga parte irreversibile: l'Occidente e in particolare l'Europa non avrà più l'egemonia economica del pianeta anche se resterà il più grande deposito di cultura e democrazia. E guardando ai nostri territori questo spiega lo spaventoso volume di relitti edilizi che lo popolano: una sorta di metafora, una determinazione concreta di un sistema produttivo che si è bloccato. In questa ottica “riciclo dell’esistente” si integra con il concetto di “rigenerazione urbana”. Ma è legittimo “ri-generare” la città o ri-ciclare le sue architetture? Ha senso riportare il costruito allo stato nativo, restituirlo alle origini? E, se legittimo, cosa significa questo ennesimo spostamento del significato di progettazione architettonica e urbana? Naturalmente non si tratta di tornare indietro nel tempo o nella storia della città, anche perché non esiste nella città un punto zero del rewind. Allora spostiamo l'accezione del termine da “oggettuale” (concetto di “nato” o di “creato”) a “processuale”, e cioè quello che risponde alla domanda: attraverso quali necessità si è formata e sviluppata quella parte di città o quell'opera di architettura? Capire questo ci consente di riformulare la domanda in questi termini: cambiando le necessità come può modificarsi quella parte di città o quell'opera di architettura? In questa logica possiamo rigenerare anche il nostro pensiero, perché anche la teoria è processo, perché muove dalle origini del problema, le studia, le storicizza e cerca di svilupparle logicamente. La cultura architettonica e urbana è sempre attraversata dai grandi cambiamenti tecnologici, economici, sociali e ambientali, che la rendono permeabile ad altri saperi, ma fragile, sospinta a sperimentare, talvolta obbligata a cambiare rotta ancora prima di avere raggiunto significativi risultati. Ecco allora che il termine Re-cycle per essere innovativo non solo terminologicamente deve diventare articolato e molteplice, declinandosi in vario modo con l’unica irrinunciabile condizione di non rinchiudersi in una dimensione disciplinare esclusiva, che non esiste più, ma di accettare la realtà “brutta sporca e cattiva” che anima la città e la rende cosa (o casa?) vissuta.


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2. Immagini 1. M. Carrari, 5LFLFOR GL XQR §VFKHOHWUR DUFKLWHWWRQLFR¨ DG XVR PHUFDWR ±OLHUD FRUWD 3URFHGXUD GL riciclo e planimetria, 2014 2. M. Carrari, 5LFLFOR GL XQR §VFKHOHWUR DUFKLWHWWRQLFR¨ DG XVR PHUFDWR ±OLHUD FRUWD 3URVSHWWLYD, 2014


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INNOVARE PER COSTRUIRE UN NUOVO TELAIO TERRITORIALE Massimo Lanzi >UNINA

Il territorio urbano contemporaneo ci appare da tempo come una realtà dai contorni indefiniti e priva di aree consolidate, per cogliere le nuove regole insediative all’interno di questa «incerta rappresentazione di una vasta urbanizzazione»1 dobbiamo ricorrere alla selezione di alcune immagini (±JXUH) e a ciascuna di esse associare luoghi e situazioni specifiche dove la figura si realizza. In questo lavoro di catalogazione una delle figure più caratterizzanti è quella dei vuoti, degli spazi aperti, delle aree imbrigliate tra le maglie delle reti, degli spazi creati dalle infrastrutture e immediatamente dimenticati. Una porosità negata che costituisce il «vero tessuto connettivo della città diffusa»2. Lo spazio vuoto assume, infatti, sempre maggiore rilevanza, penetra all’interno delle conurbazioni, cinge gli oggetti e i manufatti, s’insinua all’interno della città pubblica e si configura come un “vuoto continuo”: «un unicum spaziale che contiene al suo interno realtà diverse, spazialità com-


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plesse, spazi dentro uno spazio, distinguibili a differenti scale di lettura e che è in grado di contaminare i frammenti stessi».3 Dell’uso allargato del territorio e della percolazione attraverso questa “massa filtrante”4 l’urbanistica non si è occupata a sufficienza, considerandola un aspetto minore che poteva trovare risposta entro i vecchi sistemi di reti gerarchizzate, ma per quanto l’intreccio dei “tubi” (le reti dell’acqua, dell’agricoltura, della mobilità e dell’energia) apra rilevanti prospettive sulla rappresentazione e sul funzionamento del territorio urbano, la banalizzazione di questa idea nei termini dell’esattezza e dell’autoreferenzialità, ha generato interstizi senza riconoscere a essi un vero e proprio ruolo. «Noi urbanisti – afferma Bernardo Secchi – pensiamo sempre ai condotti principali, dotati di rubinetti di entrata e di uscita (caselli autostradali, stazioni ferroviarie), ora ci dobbiamo interessare ai capillari, definire e organizzare le reti delle reti».5


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D’altro canto, l’accelerazione indotta dagli esiti della recessione economica e dagli effetti della crisi ambientale nel radicale cambiamento di priorità e pratiche territoriali di carattere spaziale, ci porta a riconoscere l’accumularsi di nuove forme di “spazio vuoto” all’interno del territorio urbano. Si tratta di tutti quei territori latenti che, accomunati dalla condizione di abbandono, rifiuto e dismissione, giunti alla fine del loro ciclo di vita si sono infiltrati nei tessuti della città consolidata e della dispersione metropolitana e hanno disegnato una porosità del tutto nuova, un “palinsesto di scarti e rifiuti dell’urbanizzazione orizzontale” diverso dalla tradizionale retorica dei grandi vuoti urbani che ha caratterizzato la prima dismissione industriale. Come aveva lucidamente anticipato Italo Calvino: «I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell’una e dell’altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l’altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spagliato rotoli dalla parte di Leonia e una valanga di scarpe spaiate, calendari d’anni trascorsi, fiori secchi sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere».6 La genesi di queste nuove figure del vuoto è dunque “involontaria”, legata com’è all’assenza del progetto e agli scarti di una progettazione poco attenta. Nella quotidiana esperienza urbana li percepiamo come Terrain Vague7, vuoti interni alla città, spazi in disuso, sottoutilizzati o del tutto abbandonati, comunque usciti dal circuito produttivo e consumistico della Generic City8 e da questa scartati sino a costituire un serio problema di gestione urbana. Ma essi sono anche il frutto di quei processi di declino urbano di lungo periodo, noti come shrinkage (Oswalt, 2005) che, legati al circolo imperfetto tra declino economico, calo demografico ed emigrazione, stanno assumendo un’importanza sempre maggiore in Europa. Infine, possiamo riferirci a questi territori dello scarto come ai waste landscapes9 di Alan Berger, paesaggi “rifiuto” nel senso di spazi lasciati indietro dallo sviluppo, funzionali ai processi metabolici di crescita urbana, ma rimasti ormai privi di destinazione. Berger chiama questi territori drosscape: «[…] a term created to describe a design pedagogy that empahsizes the productive integration and reuse of waste landscape throught the urban world […] The term Drosscape implies that dross, or waste, is scaped, or resurfaced and reprogrammed by human intentions […]»10. Il dross (termine che stava indicava la schiuma emessa dai metalli durante


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il processo di fusione per prendere in seguito il significato di materiale senza valore, di scarto, scoria, rifiuto) diventa, in questo modo, la materia grezza della città contemporanea al tempo della crisi; una sfida per i progettisti che non devono cercare un’urbanizzazione che non produca scarti, ma piuttosto integrare gli inevitabili scarti in una più flessibile strategia estetica di progetto. In questa rappresentazione del territorio urbano come uno “spazio interstiziale tra reti e infrastrutture” (Sola Morales, 1995), i drosscape sono l’occasione per il cambiamento e la sperimentazione. Essi costituiscono, come aree residuali e territori di latenza, una vera e propria “riserva di territorio” in grado di porre un tema di sviluppo che è al contempo di natura urbanistica e ambientale. Da un lato il riuso di questi spazi sottoutilizzati o del tutto abbandonati può rappresentare, soprattutto nel tessuto europeo altamente densificato, una risorsa fondamentale per la città in divenire. Dall’altro la mancata gestione della dissipazione, l’accumularsi incontrollato di residui non riassorbiti, il loro evolvere a contatto con altri sistemi innesca processi potenzialmente distruttivi e imprevedibili: lo spazio annichilisce nel degrado e crea vere e proprie enclave, ferite mai cicatrizzate che rafforzano la sensazione di barriera e di scollamento interno del tessuto urbano. Il futuro aspetto della città dipenderà quindi dalla reinterpretazione dell’insieme dei luoghi dello scarto e dei loro paesaggi e non potrà non tener conto anche del loro consumo e della necessità del loro recupero/riciclo al fine di ricucire i tessuti urbani e periurbani nei quali tali aree ricadono. Occorre quindi individuare gli scarti, identificare i problemi potenziali e le opportunità intrinseche per poterli riutilizzare. Il riconoscimento di questi luoghi ci permette di costruire una “carta al negativo” del territorio metropolitano: una mappa di viaggio che introduce nuove geografie ed esercizi di immaginazione capaci di rivelare mutamenti più vasti; di riconoscere segnali e indizi di nuove possibilità; di costruire occasioni di scambio tra punti di vista e visioni spesso conflittuali. D’altro canto i drosscape non compongono un territorio vuoto e senza connotazione, bensì – per effetto delle interazioni e interferenze con gli spazi rurali, con le reti delle acque e con quelle infrastrutturali – ci offrono un interessante scenario progettuale. Si tratta di assumere la prospettiva di una nuova forma della città nella quale i territori dello scarto non siano trattati come frammenti o riserve bucoliche, ma come strumenti operativi, simili a “giunti” in grado di articolare i diversi sistemi (ecologico, infra-


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strutturale e culturale) nella definizione di un nuovo paesaggio. Occorre recuperare una sensibilità topologica che affermi il valore intrinseco del suolo e preservi quello dell’assenza in contrapposizione al vuoto: una nuova topografia urbana, dove i termini di scarto e spazio pubblico possano essere esperiti secondo usi e modalità certamente inedite, multiple e addirittura parziali in stretta relazione con le trasformazioni, le domande e gli equilibri delle società contemporanee. L’intreccio di territorio storico, forme insediative e dinamiche ecologiche propone, infatti, «racconti e domande progettuali molto diversi dal passato, riguardo sia al carattere dei luoghi in cui maturano, sia a quello delle scale e dei materiali coinvolti nelle trasformazioni urbane, facendo emergere un repertorio diversificato di esperienze che forse consente di abbozzare una prima tassonomia dei nuovi territori del progetto urbano»11. Ne scaturisce l’esigenza di una convergenza disciplinare nella quale la dimensione paesaggistica possa essere considerata una piattaforma di riferimento per l’agire progettuale. I network paesaggistici (i grandi dispositivi ambientali e infrastrutturali con cui si danno forma i flussi e le pratiche d’uso del territorio diffuso) hanno, infatti, la forza di proporre figure e racconti, di ridisegnare in modo incrementale la forma delle agglomerazioni, di condensare spazi e pratiche attorno ai quali può costruirsi una nuova generazione di luoghi del welfare: spazi della vita in pubblico, attrezzature e servizi che agiscono come condensatori di spazi e pratiche in diverse situazioni insediative. Il ruolo del progetto di riciclo dei drosscape deve essere quello di risemantizzare tali aree seguendo le tracce e i frammenti dei grandi telai territoriali, ma senza indulgere in nostalgiche visioni unitarie, senza servilismi e senza la paura di sovrascrivere per riordinare. Le nuove condizioni di contesto, nelle quali la necessità di risparmiare risorse e crearne di nuove deve coniugarsi con le politiche ambientali ed economiche, ci impongono di farci carico dello sbilanciamento, rinunciando a una isotropia irrisolta, per proporre nuove gerarchie che reinterpretino il legame con il contesto e creino nuovi luoghi. Dobbiamo «riciclare, grattare una volta di più il vecchio testo per deporvene uno nuovo che risponda alle esigenze d’oggi prima di essere abrogato a sua volta».12 Cogliere l’opportunità offerta dai drosscape, rimanda, dunque, a un duplice ordine di questioni e di strategie conseguenti. Un primo ordine attribuisce al progetto dei drosscape un maggiore grado di incertezza e la necessità


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di confrontarsi equilibri precari. Un secondo ordine di questioni riguarda un successivo passaggio concettuale e l’accettazione di una modificazione ciclica e creativa, che non distrugge, ma aggiorna usi e funzioni aumentando la resilienza cioè la capacità di resistere alla crisi, di fermarsi e ripartire. L’immagine finale che ne deriva non si configura più come una scena fissa, ma come un’immagine sfocata, dai contorni incerti e contesa tra ambiti disciplinari. C’è in questo mutamento di rotta un tema di re-invenzione della pratica stessa del riciclo come “spostamento di senso” e “costruzione di differenza”. Il territorio viene messo in prospettiva, ma senza intenti di redenzione (spesso legati a logiche speculative) piuttosto con la volontà di costruire una “identità di ritorno” che non si legittimi esclusivamente rispetto alle tracce e alle potenzialità del passato, ma che riprenda e attualizzi, attraverso il lavoro sulle memorie e sulla costruzione d’identità, una narrazione del territorio interrotta da quasi un secolo.

Note 1. A. Lanzani, I paesaggi italiani, Meltemi, Roma 2003. 2. R. Pavia, Babele, Meltemi, Roma 2002. 3. N. Vazzoler, Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi del pubblico nella città contemporanea in Atti della XIII Conferenza Società Italiana degli Urbanisti. Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza, Roma, 25-27 febbraio 2010, in «Planum – The European Journal of Planning on-line». 4. B. Secchi, Prima lezione di urbanistica, Laterza, Bari 2000. 5. B. Secchi, P. Viganò, La ville poreuse. Un projet pour le Grand Paris et la métropole de l’après-Kyoto, MetisPresses, Genève 2011. 6. I. Calvino, Le città invisibili, Mondadori, Milano 1993.

7. I. De Sola-Morales, Terrain Vague, in Anyplace, MA. MIT Press, Cambridge 1995. 8. R. Koolhaas, La città generica, in Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, Quodlibet, Macerata 2006. 9. A. Berger, Drosscape. Wasting land in urban America, Princeton Architectural Press, New York 2006. 10. Ibid. 11. C. Gasparrini, Nuovi racconti della città contemporanea, in «Urbanistica», n. 140, 2009. 12. A. Corboz, Il territorio come palinsesto, in «Casabella», n. 516, 1985.

Immagine Massimo Lanzi, Living Room, 2014


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BRICOLAGE E PROGETTO DI RICICLO Lina Malfona >UNIROMA1

Se la forma scompare la sua radice è eterna. Mario Merz Se la pratica artistica dell’assemblage preannuncia – attraverso un effetto di shock – un atto rivoluzionario di scardinamento, il riciclo architettonico appare invece come un’operazione programmatica che, senza fare tabula rasa, propone un cambiamento di visione all’interno di un sostanziale progetto di continuazione. Ma dal momento che alcune delle opere che si sono imposte finora come progetti di riciclo sembrerebbero essere piuttosto l’esito di assemblaggi e combinazioni, ci si interroga sul confine sottile tra il riciclo e la pratica artistica del bricolage. Las Meninas di Velázquez ripreso da Picasso, la Testa di toro di Picasso reinterpretata da Duchamp, le tecniche di post-produzione traslate nell’arte da Bacon, Canaletto e Cezanne, l’incorporazione di frammenti di con-


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versazione nella poesia di Apollinaire; la dialettica vita/morte espressa da Du Bellay in quel continuo risorgere di Roma dalle sue ceneri… Tutto ciò è bricolage o riciclo? L’ambiguità risiede nella natura concettuale del riciclo, che discende dalla rivoluzione portata avanti da avanguardie come il surrealismo e il dadaismo e, in particolare, da quella WUDV±JXUD]LRQH dell’immaginario attuata da Duchamp con l’invenzione del ready made. Durante lo scorso incontro di Re-cycle Italy (L’Aquila, ottobre 2013), Franco Farinelli accennava alla differenza tra la pratica del bricolage e il pensiero razionale. Se la prima si fa espressione del pensiero proto-moderno, che ricombina attraverso operazioni tassonomiche o di assemblaggio, il secondo è quello che passa attraverso la mediazione cartografica, il disegno e dunque il progetto. Claude Levi-Strauss, che col suo libro Il pensiero selvaggio (1962) aveva già misurato la differenza tra il bricoleur e lo scienziato, spiegava che il primo si adatta a un equipaggiamento ±QLWR di arnesi, cioè a uno stock, e così ottiene un risultato contingente, dettato da occasioni. Anche lo scienziato lavora su delle conoscenze e dei mezzi limitati, tuttavia egli tende sempre ad «aprirsi un varco e situarsi al di là»1, operando mediante concetti anziché attraverso segni pre-trasmessi, che sono quelli di cui il bricoleur fa collezione. Se il bricolage è legato, dunque, a operazioni di catalogazione ed elenco, il riciclo potrebbe configurarsi come un’azione critica, condizionata da un programma (dunque da un progetto), che si colloca – in quanto operazione artistica – tra l’attività del bricoleur e quella dello scienziato2. Ri-fondazione Eppure quando si guarda alla grande mole dei progetti di riciclo sembra quasi che abbia vinto il bricolage… Si assiste sempre più spesso, infatti, alla creazione di surrogati, di forme artistiche prive di identità, che esprimono o rispecchiano sempre il tempo presente, che si nutrono delle identità degli altri, che si appropriano di pezzi e parti sottoponendo il corpo vivo dell’architettura a tagli, dissezioni, lacerazioni, e poi sostituzioni brutali. Come se fosse possibile travestire l’architettura o cambiarne i connotati senza alterarla irrimediabilmente, come se si trattasse di un’opera d’arte nei confronti della quale azioni simili potrebbero essere ritenute geniali, rivoluzionarie ma in fondo innocue. L’architettura è infatti un’arte ma è anche la forma più alta del vivere sociale.


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I processi di riciclo generano architetture che mutano al mutare dei diversi autori-interpreti; ciò comporta la fine della rivendicazione autoriale dell’opera che, staccandosi dalla mano del progettista appunto, va acquisendo autonomia figurativa. Ma il continuo rimaneggiamento dell’opera rischia di spostare l’essenza dell’architettura al di fuori della sfera del linguaggio. Il riciclo è infatti un’operazione iper-realista che, rinunciando definitivamente a sperare3 e immaginare infiniti universi paralleli4, afferma che tutto è già stato fatto e che si può solo lavorare sull’esistente, allungare il ciclo di vita degli edifici, dotarli di una maschera, come nei film Abre los ojos di Amenábar e La piel que habito di Almodóvar. Tuttavia ciò rischia di annichilire l’architettura o di farle perdere identità, fino a sfinirla, tradirla o falsarla. Bisognerebbe dunque ricondurre il riciclo tra le pratiche di scrittura architettonica, rinunciando alla creazione di surrogati ed HGL±FL PXWDQWL, senza smettere mai di considerare il progetto come miglioramento dell’abitare, come ricerca di una bellezza intesa come luce del vero, come garanzia di libertà. Un’ulteriore considerazione riguarda la possibilità di attenuare la natura eccessivamente inclusiva del riciclo, attraverso una più puntuale definizione dei concetti di Riuso, Recupero, Restyling, Ri-funzionalizzazione, Re-cycle, se non si vuole che quest’ultimo passi come semplice operazione di trasformazione architettonica, dotata più della forza dello slogan pubblicitario che dell’ambizione a migliorare l’abitare. In secondo luogo,


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volendo portare avanti una teoria (pur sempre tentativa) del riciclo come operazione di scrittura, bisognerebbe operare delle selezioni. Il rischio infatti è che nella rete dei progetti di riciclo finiscano quei casi di manipolazione – a volte invasiva, poco sensibile e spesso anche superflua – di organismi architettonici, come il centro Le Fresnoy di Tschumi ad esempio, già pesantemente logorati. Azione principalmente linguistico-concettuale, il riciclo non è una mera operazione di restauro, che verte solo sulla consistenza fisica, sulla materia dell’opera d’arte, secondo i precetti di Brandi5. Esso si esprime sia attraverso VRYUDVFULWWXUH ±VLFKH – si pensi al complesso del Palazzo Senatorio/Tabularium al Campidoglio, costruzione bifronte; la Basilica Palladiana di Vicenza, riprogettazione dell’antico Palazzo della Ragione; il Central Park di New York, bonifica di un territorio popolato da cave e paludi; il Monte Stella di Piero Bottoni, che ha sostituito il lago previsto per il QT8 a Milano; la sopraelevazione del Villino Alatri in Via Paisiello a Roma di Ridolfi, Fiorentino e Frankl – che concettuali, come le trasformazioni paesaggistiche attuate da Lancelot Brown, che creò il giardino inglese riciclando quello francese ritratto da Lorraine e Poussin. Cinque questioni Il raffronto tra riciclo e bricolage fa emergere alcune questioni su cui è necessario soffermarsi, poiché qualificano tale pratica come una specifica


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e circostanziata procedura, un vero e proprio progetto. Durata. Più che una cesura, il riciclo propone una particolare forma di continuità con la storia, configurandosi come un sostanziale progetto di continuazione. Ed estendendo il ciclo di vita di un manufatto, il riciclo prefigura addirittura un ampliamento del concetto di durata in una sorta di iper-durata. Tale garanzia di eternità però potrebbe rivelarsi un limite, rendendo il riciclo un’operazione forzata che cerca di dare un nuovo volto alle cose o di tenere in vita organismi urbani ormai moribondi. Tuttavia il riciclo non è di certo una pratica nuova, visto che la tabula rasa non è mai esistita e che costruire, in fondo, significa sempre ricostruire, in una sorta di riciclo ciclico. Trasformabilità. Nel succitato convegno dell’Aquila, Franco Farinelli ha specificato anche che il riciclo non è un’operazione resiliente ma una trasformazione creativa che considera il potenziale energetico, metastatico dell’opera. Il riciclo, infatti, riflette per la prima volta compiutamente sulla trasformabilità dell’architettura, che non apparirebbe più, dunque, come un antemurale allo scorrere del tempo ma diventerebbe porosa, lasciandosi attraversare e modificare rispetto al progetto originario. Non sarebbe più possibile, dunque, progettare pensando al disfacimento della propria opera, come John Soane che – attraverso la mano di Joseph Michael Gandy – vedeva le sue architetture già come rovine. A questo punto, si potrebbe progettare prevedendo già una possibile riconversione dell’opera, ammesso che la trasformabilità possa essere considerata un valore. Luogo. Sembrerebbe che il riciclo stia virando verso un nuovo legame col luogo, di cui interroga di volta in volta i caratteri, le persistenze e le trasformazioni, tentando di riciclarne anche la memoria. Esso va dunque configurandosi come traccia e allo stesso tempo come limite: pur essendo sovrascrittura e progetto di continuazione, infatti, mantiene una necessaria alterità rispetto al luogo, stando sempre sul filo, tra l’appartenenza e il necessario distacco. Nuovo paradigma tecnologico. Nessun modello teorico-sperimentale può aver luogo in assenza di un nuovo paradigma tecnologico, che comporti innovazione su materiali, tecniche costruttive, metodi di lavorazione senza però assumere un carattere totalizzante. Certi progetti – e non ci si riferisce solo all’architettura dei containers, che è rimasta ancora legata a un modello di edilizia economica per l’emergenza – appaiono già dotati di tale plusvalore. Alcuni di essi, ad esempio, sembrano già indirizzare verso un


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nuovo modello di architettura in serie. «Mentre nel tempo l’architettura del passato si offre come rudere, l’architettura del presente ci dona rottami: ad essa resta in fondo il dialogo disincantato con questa sua precarietà definita da un linguaggio che si fa sempre più tecnico, imitando forme più proprie del paesaggio industriale che non di quello urbano: tettoie, torri, cisterne, tralicci, capanni [...] In una completa sfiducia nella possibilità dell’architettura di rifondarsi come linguaggio, pensando al passato come potenzialità per riprogettazioni filologiche o all’architettura moderna come qualcosa che ha concluso definitivamente il suo ciclo, una strada a mio avviso realista è quella di recuperare la tecnica delle costruzioni, la qualità dei materiali, l’estetica delle tecnologie.»6 'H VLJQL±FD]LRQH. Certi progetti di riciclo fanno luce su questioni di linguaggio, mostrando con evidenza, ad esempio, il passaggio dagli eccessi intellettualistici che caratterizzavano il Postmoderno a modalità espressive più leggere, quasi parlate e costruite per slogan, spesso frutto di occasioni. In questo cambiamento di rotta ciò che persiste sono le procedure del bricolage, mutuate dalle pratiche artistiche dell’accumulo, dell’accatastamento, della stratificazione. Si pensi alle composizioni seriali o compilative di Wallace Berman, Louise Nevelson, Joseph Cornell, Arman, Michael Mapes, Tony Cragg. O alle architetture costruite e immaginate sulla tematica dell’elenco, come il dipinto The Professor’s Dream di Charles Robert Cockerell (1848), manifesto dell’Eclettismo; il Palais Idéal di Joseph Ferdinand Cheval (Hauterives, 1879-1912), capolavoro di mostruosità; le Watts Towers di Simon Rodia (Los Angeles 1921-1954), supermarket del riciclo; il Castellaccio di Armando Brasini (Roma, 1925-1933) e la Scarzuola di Tomaso Buzzi (Montegabbione, 1958-1978). Ma se del bricolage si può tenere la componente creativa, ci si dovrebbe liberare al più presto di quegli eccessi mediatici che hanno caratterizzato alcune installazioni – come The Big Crunch (Raumlabor, Darmstadt 2011) – apparse come manifesto del riciclo. Se tali provocazioni potevano risultare utili in una prima fase, per saggiare la temperie culturale, adesso è arrivato il tempo di operare selezioni. Se progettare significa scegliere e dunque escludere, il progetto di riciclo dovrebbe puntare a una rimozione programmatica degli eccessi segnici, per mirare alla GH VLJQL±FD]LRQH, a una nuova oggettività, che potrebbe essere una risposta al susseguirsi di diversi autori-attori nella costruzione dell’opera. I progetti contemporanei


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di riciclo, infatti, hanno prodotto finora opere iperrealiste, ipervisibili, abilitando la progettazione senza architetti, l’assenza di forma, il mostruoso e l’aberrante. Quando invece grandi sperimentatori come Sverre Fehn, Paolo Soleri, Hassan Fathy, Balkrishna V. Doshi e Buckminster Fuller hanno consegnato alla storia sia opere di qualità che grandi idee. Quest’ultimo, in particolare, creava cellule abitative “indipendenti e anonime” e parlava di nuovo, non di innovativo. Il nuovo infatti è ciò che si relaziona con l’originalità, in quanto creatività, ma anche con l’origine, cioè la connessione con la storia come essenza del fare futuro. Come sosteneva Theodor Adorno, il geniale in arte è fare in modo che il nuovo appaia come se ci fosse sempre stato7.

Note 1. E continua: «mentre il bricoleur, per amore o per forza, resta “al di qua”, il che equivale a dire in altri termini, che il primo opera mediante concetti, il secondo mediante segni». C. Levi-Strauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 2010 (I ed. 1962), p. 32. 2. «Si potrebbe indicare come l’arte, sotto questo profilo, si inserisca a metà strada tra la conoscenza scientifica e il pensiero mitico o magico; è noto infatti che l’artista ha contemporaneamente qualcosa dello scienziato e del bricoleur: con mezzi artigianali egli compone un oggetto materiale che è in pari tempo oggetto di conoscenza». Ibid., p. 35. 3. Si fa riferimento allo scritto di Edoardo Persico, che si conclude con la convinzione che l’architettura sia «sostanza di cose sperate». Cfr. E. Persico, Profezia dell’Architettura, 1934, in G. Veronesi (a cura di), Edoardo Persico. Scritti d’architettura (1927-1935), Vallecchi, Firenze 1968.

4. Cfr. B. Greene, La realtà nascosta, Einaudi, Torino 2012. 5. «La consistenza fisica dell’opera deve necessariamente avere la precedenza, perché rappresenta il luogo stesso della manifestazione dell’immagine, assicura la trasmissione dell’immagine al futuro, ne garantisce quindi la recezione nella coscienza umana». C. Brandi, Teoria del Restauro, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1963, p. 34. 6. B. Minardi, Case d’acqua, introduzione di V. Savi, Cluva, Venezia 1990, p. 16. 7. Cfr. V. Gregotti, Il sublime al tempo del contemporaneo, Einaudi, Torino 2013, p. 11. Immagine Composizione di opere di Michael Mapes


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PERI_ KYKLOS.

UN MANIFESTO PER IL RICICLO IN CINQUE TESI Nicola Marzot >IUAV [UNIFE]

Lo stato di crisi richiede una nuova interrogazione sugli oggetti. Per produrre categorie inedite e un nuovo catalogo; per promuovere pratiche sperimentali ed espressioni innovative. Sul termine Prima Tesi. Se il ciclo comunica il senso di un compimento avvenuto e di una finitudine sopraggiunta – il fine corsa – esprimendo per antonomasia l’idea di “termine”, il Ri_ciclo, in quanto circolarità senza sosta attorno al termine stesso, ovvero il Peri_kyklos, ne evoca la preoccupante destabilizzazione, la minaccia di una possibile incrinatura, la prossima dissoluzione. Se ogni manifestazione di pericolo, che da quella circostanza deriva, in una prospettiva di razionalità pura, deve essere prevenuta, il mantenere una posizione tangenziale rispetto al ciclo offre l’opportunità, più unica che rara, di trarne tutte le potenzialità latenti, di evocarne il non detto, di


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aprirsi a quel nuovo che è solo nell’attualità, né prima né dopo. Argomento. Ogni riflessione attorno al tema del riciclo si espone ad un duplice “pericolo”. Il primo, implicito nella interpretazione storicista o idealista del fenomeno indagato, comporta una visione generale nel segno della continuità di ciò che segue rispetto a ciò che precede, a garanzia della quale si pone l’idea stessa di perenne trasformabilità delle “cose”. Quest’ultime, private della loro originaria intenzionalità, nel rendersi apparentemente disponibili a forme di significazione differenti, aspirano ad accogliere il nuovo, riverberandolo attraverso un perenne “divenire”. Tale atteggiamento comporta il rischio di assimilare inavvertitamente – o peggio, intenzionalmente – i fenomeni sociali a quelli naturali, generando pericolose contaminazioni tra ecologismo, positivismo e processi di civilizzazione; confondendo la Filosofia della Storia, per definizione ciclo-frenica, con il suo oggetto, inevitabilmente schizo-frenico. Il secondo, a cui si riferisce esplicitamente ogni sguardo improntato al realismo del disincanto, promuove una intenzionale discontinuità rispetto alle “idee ricevute” e al loro fondamento, rivendicando la necessità di un cambiamento che non può essere perseguito all’interno del quadro di regole esistenti e ricerca le proprie condizioni di sussistenza, e presa di coscienza, attraverso un percorso di costruzione di nuovi valori, nel cui auspicato orizzonte di senso collocare “oggetti” inediti, stabilendo tra loro relazioni impreviste. Questo approccio espone alla facile critica di porsi in una condizione anti-sistema e di rifiuto rispetto a ciò che esiste, considerato fattore di resistenza “necessario” da cui non si può prescindere se si intende concretamente avviare un processo di emancipazione. Da queste premesse si evince chiaramente come il tema non possa essere ridotto al semplice momento disciplinare, ma investa la società nel suo complesso. In tal senso si comprende anche come la questione del riciclo, se correttamente posta, sia in grado di promuovere una radicale riflessione sul mondo che viviamo. La stessa vulgata economica ricorda come la crisi subentrata alla vicenda dei prestiti subprime, convenzionalmente assunta quale origine della condizione attuale, abbia concluso un ciclo di crescita senza precedenti, a cui è subentrata una fase di pari intensità e segno opposto, facendo presagire la ripresa, per quanto a data da destinarsi. Ciò che tale giudizio sottace è che la crisi ha di fatto già liberato nuove energie – a livello sociale, economico, politico e culturale – che,


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per quanto non ancora in grado di rivendicare compiutamente un ruolo alternativo a quelle esistenti, seppur esangui, attraverso un’adeguata articolazione dello spazio, agiscono pervasivamente e capillarmente come fattori esogeni di ulteriore destabilizzazione di quegli equilibri già irreversibilmente compromessi da cause endogene allo stesso modo ereditato. Tale fenomeno merita un’attenzione particolare. Sull’apparizione Seconda tesi. La scena dell’origine che accoglie il Ri_ciclo non è un romantico paesaggio di rovine o un metafisico accumulo di oggetti sospinti alla deriva dal tempo, ma una condizione di persistente spaesamento e disorientamento, di assenza di gravità e di vertigine che invoca una scelta. Ogni cosa che ci appare sembra aver perduto il proprio senso, perché il senso delle cose non appartiene alle cose stesse ma viene istituito convenzionalmente in esse e da esse performato. Giunte a compimento del proprio ciclo istituente, le cose tornano ad essere oggetti, riprogrammate a una condizione virginale. Privati di ogni valore, per la crisi di quell’orizzonte di senso che ha esaurito la propria spinta nel “fine corsa”, gli oggetti appaiono sub specie di fenomeno primigenio. Argomento. La città contemporanea è caratterizza da una eccedenza di spazi e di oggetti che si offrono all’esperienza individuale come presenze del tutto estranee tanto alle condizioni che le hanno generate quanto a quelle in fase di configurazione. Delle prime non sono più in grado di performare i valori, in quanto i rapporti di potere sottesi sono in avanzato stato di polverizzazione; delle seconde non possono nemmeno costituire una “promessa”, in quanto il carattere delle forze agenti è ancora lontano da una identificazione possibile, risultando espressione di uno stadio puramente “molecolare”. Sospese tra un “non più” e un “non ancora”, risultano testimonianze embrionali di una riprogrammazione urbana senza protagonisti, che le restituisce come surreali “personaggi in cerca di autore”. Lo stesso Piano Urbanistico, nelle sue molteplici declinazioni e derive, con evidente imbarazzo delle Istituzioni a cui è delegata la relativa gestione e promozione, si mostra del tutto incapace di creare le condizioni per un rilancio dei territori, avendo perduto i propri referenti civili, di cui è per antonomasia lo strumento di legittimazione operante, pur nelle sue distorsioni strutturali. La tendenziale vacancy della città contemporanea offre tuttavia un’occa-


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sione più unica che rara di sperimentazione, a condizione che si mettano al centro gli individui, ancorché associati, e le relative pratiche d’uso, lasciando loro un adeguato campo di sperimentazione nelle more e nelle pieghe della legislazione vigente. Non nascondendosi i rischi impliciti in tale prospettiva, l’avviamento di un processo per prove ed errori, che assuma l’ipotesi del fallimento come premessa ineludibile e fattore di innovazione, consentirebbe alla cultura del riciclo di crescere e costruire i propri saperi attraverso un farsi tentativo che, nel suo imprevedibile dispiegarsi, sia in grado di emanciparci da una semplice condizione di necessità – imposta dall’urgenza e indifferibilità della crisi – per aspirare ad una presa di coscienza della propria “regolamentatività”. In tale prospettiva, l’uso temporaneo di immobili inutilizzati e di aree abbandonate, non verrebbe semplicemente a identificale la fase di avviamento di un auspicato quanto imprevedibile processo di valorizzazione dell’abbondanza, tutt’altro che “frugale”, a cui si alludeva in apertura, ma verrebbe a costituire uno strumento di sperimentazione e monitoraggio dei fenomeni contemporanei, capace di creare condizioni di occupazione che l’assenza di normalità del tempo presente di fatto ostacola e preclude. Sul linguaggio Terza Tesi. Non c’è linguaggio che possa dire il fenomeno originario, l’oggetto nel suo primitivo apparire, restituito alla sua condizione di seconda natura, privo oramai di ogni significato. Questo è l’enigma che si presenta al Ri_ciclo e che il Ri_ciclo è chiamato a risolvere. Il Ri_ciclo è quindi invitato a forgiare i propri strumenti attraverso un procedere incerto, perché non ne dispone di adeguati alle nuove sfide che deve intraprendere; deve darsi nuovi orizzonti, perché non ha più memoria di quelli precedenti; è alla ricerca di un fondamento, perché ha perduto il senso passato. Il Ri_ciclo deve pertanto trovare un linguaggio adeguato alle circostanze, imprevedibili, che incontra. Argomento. Il nostro modo di interpretare i fenomeni, sia naturali che sociali, è profondamente condizionato da un pregiudizio “strutturale”, che non è semplicemente ereditato dal passato recente e dal suo retaggio ideologico, ma risulta implicito nel nostro stesso modo di categorizzare la realtà. Se tale attitudine appare del tutto legittima, se non addirittura necessaria, in condizioni di relativa stabilità civile, ovvero all’interno di un mondo regolato e fondato su ruoli chiari e responsabilità definite, la sua


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attualità appare del tutto delegittimata dalla crisi che, non a caso, nessuno osa più definire congiunturale. Ne consegue tanto la difficoltà a comprendere i processi in divenire quanto l’impossibilità di descriverne il carattere in termini “relazionali”. È la razionalità del linguaggio, in primis quello architettonico, a risultare spiazzata dalla nuova condizione e inadeguata a descriverne e/o promuoverne la supposta identità. Lo stesso ruolo dell’architetto deve pertanto mutare. Le sue responsabilità civili richiedono una preziosa funzione di “attivazione” e “facilitazione” dei processi di crescita di una possibile coscienza condivisa che, solo raggiunto un adeguato livello di maturazione, richiederà opportune modalità di riconoscimento collettivo attraverso l’organizzazione di uno spazio e di un tempo adeguati. Tale ruolo appare ancor più prezioso nell’attuale congiuntura in cui, attraverso la pratica del riciclo, il carattere sperimentale e tentativo di ogni processo di riappropriazione dell’esistente richiede una mediazione trasversale rispetto ai diversi saperi di cui soltanto la prassi dell’architettura ha dimostrato, nel tempo, di potersi fare interprete efficiente. Sul progetto Quarta Tesi. Il Ri_ciclo procede pertanto attraverso un farsi tentativo, per prove ed errori, che definisce le proprie regole nel corso del suo stesso svolgimento. È il metodo così seguito a produrre nuovi saperi, mediante una messa a dimora delle pratiche sugli e negli oggetti esistenti, una volta riconsegnati ad una sperimentazione radicale. Tali saperi si tradurranno in un sistema solo nel momento in cui otterranno un consenso, una qualche forma di condivisione. Il progetto risulta pertanto essere il percorso attraverso il quale si delinea un possibile obiettivo di comunità da cui ripartire e da realizzarsi. Argomento. Se la praxis, nell’attuale congiuntura, precede ogni forma di theorein, la creazione di nuove opportunità non può che attivarsi attraverso la sperimentazione sul patrimonio inutilizzato secondo pratiche innovative. Ciò richiede tuttavia una moratoria del Piano urbanistico, poiché quest’ultimo, istituendo tanto negli usi ammissibili quanto nelle modalità di intervento, gradi di vincolo che sono espressione inattuale di forze che hanno oramai esaurito la propria spinta propulsiva, in quanto delegittimate dalla crisi stessa, non si trova nelle condizioni di consentire quei gradi di libertà che la sperimentazione esige.


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Il riciclo può pertanto compensare – nella “vacanza istituzionale” che ogni processo di radicale destabilizzazione del quadro civile genera, tanto della polis quanto nella chora, e all’interno delle corrispondenti declinazioni attuali – la mancanza di riferimenti stabili, sostituendo ad essi quel fare tentativo ed autocorregentesi che solo l’adesione esistenziale al phenomenon, inteso nella sua dimensione “evenemenziale”, può consentire e promuovere. Tale condizione induce tuttavia una riflessione sull’attualità della Bigness, nell’accezione koolhaasiana del termine, come strategia retroattiva e impersonale adeguata ad affrontare le sfide poste dal tempo presente. Se quella identificava, nel racconto dell’architetto olandese, l’insorgere di processi spontanei di congestione che portavano parti della città esistente ad “eccedere” il proprio ruolo, entrando in competizione diretta con quello urbano, in ragione della dilatazione delle relazioni internazionali e della relativa capacità di selezionare in maniera escludente e reticolare le opportunità offerte, nell’attuale implosione urbana, di pari intensità ma segno opposto, la Bigness si ripresenta nelle forme di una ritirata strategica rispetto all’eccedenze prodotte dal mercato globale. Queste ultime, ridotte ad oggetti fuori scala e fuori luogo, agiscono loro malgrado come “paesaggi interiorizzati” nel corpo esangue della città, in antagonismo involontario con i territori su cui le città stesse avrebbero dovuto riverberare il proprio effetto rigenerante; strutture ospiti disponibili a processi di colonizzazione virale che liberano un nuovo senso dei termini “lobotomizzazione” e “scisma”. Il primo viene così a identificare un’artificiale seconda natura, l’apparire di una dimensione tecnica virginale, sostrato disponibile ad ogni esercizio creativo e immaginativo; la seconda dichiara l’avvenuta dissoluzione di ogni armonica corrispondenza tra spazi disponibili e relativo uso parziale e intermittente. Sulla costruzione Quinta tesi. È la promessa di una nuova comunità l’obiettivo che permette al Ri_ciclo di passare dalla fase intransitiva a quella transitiva. Lungo il nuovo tracciato da colmare, il Ri_ciclo incontrerà nuovamente gli oggetti che stimolarono all’origine il processo di rigenerazione. Attribuirà loro nuove forme di senso, conferirà loro nuove aggettivazioni, li investirà di nuovi ruoli. Un destino segnato, ormai, porterà il riciclo a farsi operante e a intraprendere, così, nuove avventure di significazione. Ma cammin


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facendo scoprirà di essersi fatto ciclo esso stesso e di aver superato il proprio oriente. Ma questo, forse, è già noto. Argomento. Per quanto il farsi tentativo della pratica del riciclo debba assumere il fallimento come destino possibile, a condizione che vengano garantiti i gradi di libertà necessari ad una sperimentazione consapevole, l’insorgere di comunità di mestieri può emanciparsi dalla originaria circostanza di pura necessità – dettata dall’urgenza e indifferibilità della occupazione individuale, rispetto al cui tema si sprecano i proclami ma si mortificano le azioni – tendendo progressivamente ad una consapevole dimensione collettiva. Se così fosse, nel mutato scenario, quegli stessi oggetti e spazi, già incontrati dall’erranza della sperimentazione nella loro dimensione surrealisticamente straniata, verrebbero inseriti in un nuovo orizzonte di significazione, in grado di conferire loro quella identità per troppo tempo sospesa dagli effetti della crisi, e riempiti di senso. Alla pratica informale, oltre ogni antagonismo di maniera, potrebbe subentrare un processo di costruzione consapevole, un nuovo senso del tempo, un nuovo compimento del ciclo. Oltre ogni opposizione tra processo e progetto, oggetto e cosa, spazio e luogo. Il riciclo pertanto come azione di ricucitura che fa dei propri saperi lo strumento di costruzione di una nuova promessa di civiltà. A mio padre


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NOTO/ INNOVATIVO Dina Nencini >UNIROMA1

Questa mia riflessione intende affrontare la questione dialogica posta dal binomio noto/innovativo all’interno della complessa rete di significati che richiama il termine Recycle. I due termini sono affrontati a partire dalle domande: «Cosa è noto? Cosa è innovativo?». L’ambito fisico che permette di ancorare il ragionamento è definito da ciò che è stato definito drosscape, i territori dello scarto e dell’abbandono. Ma se Recycle è una cornice all’interno della quale ciò “che è conosciuto” e ciò “che si attende” può trovare una ri-definizione, di certo essa è sfumata e molteplice. Per non rischiare di smarrirsi nel bosco dei “sentieri interrotti” è importante individuare una ragione di necessità di questa riflessione ed è particolarmente facile cercarla nel rapporto tra pensiero e azione in architettura. Tuttavia è altrettanto evidente che proprio nella contemporaneità tale legame è sempre più labile, instabile e interrotto. Infatti se le culture architettoniche più recenti si divaricano tra due estremi – già individuati nelle tendenze


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dell’arte da Filiberto Menna – quello della vaporizzazione, ossia dell’apertura dell’architettura al “politico”, e quello della concentrazione, ossia del ripiegamento dell’architetto nel “poetico”, attualmente stiamo assistendo alla graduale e inarrestabile espulsione della riflessione teorica dall’architettura, ritenuta inutile e problematica e le cui istanze di fertile incertezza poco hanno a che vedere con gli obbiettivi di efficienza dei sistemi finanziari globali. La sempre più difficile possibilità di “realizzazione” del pensiero architettonico nell’opera, ci spinge a intraprendere vie alternative per risarcire la mancanza della positiva dialettica tra pensiero e azione, non senza correre il rischio dello smarrimento dei fini e dei significati propri dell’architettura. Ciò che definiamo drosscape è tutto ciò che rimane escluso per differenti ragioni, dalla norma. Essi sono nella loro condizione essenziale a-normali, e ci pongono prima di tutto un problema conoscitivo: essi non sono codificabili, non appartenendo a codici convenzionali che orientano il nostro operare attraverso azioni rispondenti a leggi, programmi, normative. Abbiamo dunque come prima esigenza di riportarli all’interno di ciò che intendiamo sia noto, conosciuto, implicitamente o esplicitamente normato e lo possiamo fare attraverso alcune semplici azioni come la nominazione. Sebbene questa considerazione appaia relativamente ovvia, in essa si determina il primo paradosso conoscitivo e operativo che offre il binomio noto/innovativo. Infatti questa azione di riappropriazione di ciò che ancora non è normato, regolato, codificato presuppone un principio di ordine che ci permette di categorizzare, e dunque di conoscere ciò che ci circonda. Denìs Diderot ci dice che il primo atto creativo è ordinare ciò che è conosciuto, che è noto. Possiamo dire che l’invenzione – che non coincide esattamente con l’innovazione, la prima derivante da invenio, la seconda da novus –, ha gradi diversi di manifestazione e che mettere in ordine è il più elementare. Negli anni Ottanta si afferma la linea culturale dei “post-”, l’identificazione di una “condizione manierista” all’interno della quale le possibilità per l’innovazione, del nuovo si determina attraverso la “dislocazione e risignificazione di forme” in contesti alternativi. Gli esiti di questa pratica di ri-scrittura attraverso la trascrizione – tuttora oggetto di riflessione critica – riguardano direttamente il senso, il ruolo, il fine della tradizione. La tradizione è tutto ciò in cui ci possiamo riconoscere e che si esprime attraverso sistemi espressivi e di comunicazione noti in quanto già codi-


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ficati e soprattutto implicitamente e esplicitamente condivisi. In questo modo ciò che noi facciamo rispetto alla tradizione riguarda il nostro modo di comprendere ciò che già c’è, ciò che è già fatto e di mantenerlo “in vita” attraverso la consuetudine e il riconoscimento. Attraverso questo riconoscimento la collettività, la società, un gruppo, una classe definisce ciò che è convenzionale e condiviso per via di concordanze che rendono accettabile un avvenimento, un edificio, una situazione. Per fare un esempio possiamo pensare al recente e alterno destino dell’architettura detta di epoca fascista e alla relazione instaurata con essa dalla cultura architettonica post-bellica fino a oggi. Intendo dire che ciò che è noto, non è semplicemente ciò che si conosce ma è soprattutto tutto quello che una società o semplicemente un gruppo sociale accoglie ritenendolo necessario e mantenendolo in essere attraverso un procedimento di continua rivitalizzazione e rinnovamento di senso e di significato. Ma ciò che è noto è stato precedentemente innovativo? Ovvero ciò che è noto e ciò che è innovativo stanno tra loro in una relazione di reciproca circolarità? In un suo recente scritto Maurizio Ferraris si chiedeva in che modo si può essere innovativi? Ma soprattutto in quale luogo si può manifestare l’innovazione? Egli individua nella relazione tra pensiero e linguaggio l’ambito determinante di queste questioni. Ai filosofi Ferraris suggerisce di delimitare il linguaggio, contro il rischio di un “olismo linguistico” che porterebbe a affermare che tutto è linguaggio. Allo stesso modo dovremmo tutelarci dal rischio di un “olismo architettonico”. Proprio l’individuazione dei limiti del linguaggio (architettonico) configura l’eventualità del nuovo, inteso come esito del superamento dei limiti stessi. E proprio nella definizione di tali limiti e nell’eventualità del loro superamento si può esercitare il pensiero. L’esito materiale nel quale si realizza il linguaggio e la sua codificazione è la scrittura (architettonica). All’interno della scrittura si determinano le possibilità, e dunque i limiti, del linguaggio, la sua trasformazione, infrazione, distruzione, ricostruzione… Se affrontiamo la questione dal punto di vista dell’arte possiamo individuare nella codificazione storica in epoche differenti e separate tra loro una intenzionalità precisa relativa al rapporto tra cultura e ideologia della cultura, per la quale non è tanto importante il procedimento di costruzione artistica nella sua dimensione costitutiva, ma piuttosto ciò che ne sottende l’attualità o l’inattualità – anche se ciò a poco a che vedere con il giudizio di valore. Per la cultura contemporanea porsi la questione del linguaggio


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significa interrogarsi contemporaneamente sulla dimensione costitutiva del pensiero (architettonico) e sulla sua manifestazione concreta, consapevoli della profonda – sempre più schizofrenica – differenza tra operare all’interno di esso e interpretarne gli esiti materiali nella “società”. Porsi la questione del nuovo riguarda il linguaggio nella essenza strutturale e dunque il problema della creatività come espressione poetica, come ci dice Giorgio Agamben la manifestazione del nuovo è qualcosa da ricercare rischiando di perdersi nell’ignoto buio del cielo, piuttosto che aggrappandosi alla luce di costellazioni note. Innovativo è un “nuovo che agisce” nel senso che direttamente o indirettamente introduce la problematica del ruolo sociale del nuovo. Dunque il problema del nuovo riguarda l’intenzionalità del nuovo. Da un lato c’è la dimensione concettuale del linguaggio per cui esso è determinato, delimitato, e astratto; dall’altra la sua condizione di entità PHWDPRU±FD, capace di ri-definirsi e di ri-configurarsi nelle manifestazioni concrete in cui si esplicita la propria capacità di produrre innovazione. L’innovazione riguarda dunque la strumentalità del linguaggio, la capacità di formulare strumenti nuovi, più che concepire il nuovo in sé. La nominazione dei drosscape diventa solo il momento di innesco del problema, anche se è implicito il riferimento al landscape che li riconduce all’interno di una visione specifica con conseguenti ipotesi strategiche, all’interno di un ambito noto di ricerca. In tal modo i drosscape sono nominati per poter essere re-immessi nella struttura urbana, in una condizione di notorietà-normatività necessaria al loro recupero dalla marginalità e dall’esclusione in cui versano. Questa nuova centralità relativa che essi assumono negli studi urbani – sebbene non assoluta – impone uno sforzo concettuale prima che materiale non semplicemente ri-conoscitivo. Infatti, procedere al loro riconoscimento significa limitarsi a operare in quel primo ordine conoscitivo di cui ci ha parlato Diderot, determinando una narrazione dell’abbandono, che prelude alla possibilità di trasformazione di questi territori ma che non entra direttamente nel merito delle azioni e dei significati che tali trasformazioni potrebbero produrre. In tal senso l’iconografia dei territori marginali, in abbandono, di scarto contribuisce a focalizzare la nostra attenzione e quella della collettività su di essi producendo “un’estetica dell’abbandono” che paradossalmente si pone come ostacolo alla loro rigenerazione. La più contemporanea accezione di notorietà riguarda la dimensione spettacolare. Ciò che è noto deriva sempre da un principio convenzionale


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e di condivisione ma è orientato da un ordine finanziario che gli si sovrappone, e sempre più spesso si sostituisce a quello culturale. L’auspicio di Gilles Deleuze al riconoscimento delle differenze nella ripetizione e della ripetizione nella differenza che secondo il filosofo avrebbe portato a una condizione umana di più profonda coscienza e per questo a una vita sociale più democraticamente autentica, trova nella contemporaneità la caduta nella reiterazione, quella coazione a ripetere che è la banalizzazione dello spettacolo. La società dello spettacolo continua a perdurare dai tempi della sua prima identificazione e codificazione da parte di McLuhan, e a essa tentano di contrapporsi sub-società identificabili in altrettante subideologie. Le più resistenti sono quelle fondate sull’opposizione ai sistemi finanziari globali: la società della decrescita, la classe creativa… Noto e consumato tendono a dissolversi l’uno nell’altro. Che ciò che è noto diventi solo ciò che è consumato porta alla perdita delle condizioni e delle possibilità di manifestazione di ciò che può essere innovativo. Ciò che è noto esprime ciò che si conosce e contiene quella “regolarità” che come scrive Emilio Garroni è il più importante presupposto per l’invenzione e per l’innovazione. Serve che ciò che è noto sia soprattutto tutto quello che è determinato, soggetto a norme che ne rendono possibile la condivisione, la condizione di convenzionalità. Se ciò che è noto è semplicemente consumato, le convenzioni, la condivisione e il riconoscimento – i cardini in cui si riconosce la collettività – sono indifferenti. La normatività include la norma e la sua eventuale infrazione: è il riconoscimento dell’esistenza del landscape che ci permette di definire i drosscape. Anche non potendo più realizzarsi negli stessi termini della sua istituzione il concetto di landscape rimane come entità nota a permetterci di immaginare qualcosa di diverso ma riconducibile ad esso, al codice implicito nella sua definizione. Landscape è il “prima”. Anche se questo “prima” non si è pienamente compiuto, realizzato, affermato. Il “prima” è ciò che è noto, ma non è semplicemente conosciuto, è soprattutto riconosciuto nei caratteri che lo identificano, gli stessi caratteri per i quali nel procedimento progettuale entra come nuova condizione di inizio. Noto e innovativo dunque stanno tra loro in una relazione di circolarità necessaria. Nella identificazione di questo “prima” l’architetto, l’architettura, definiscono l’iniziale ragione inventiva. Senza certezza che questo presupposto possa effettivamente determinare il nuovo. Senza certezza che il nuovo una volta realizzato in opere nuove, esse siano effettivamente accolte come innovative.


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RE-CYCLE È: NOTO/ INNOVATIVO Andrea Oldani >POLIMI

La riflessione sui principi teorici che sottendono al tema del recycle, include una operazione di indagine attorno al senso che questa pratica assume e una ricerca finalizzata ad individuare le caratteristiche che possono concretizzare il termine, trasformandolo in uno strumento operativo applicabile alla modificazione del paesaggio costruito. Discutere del tema partendo dalla coppia noto/innovativo consente una escursione nella storia e la individuazione di alcune questioni portanti che oggi devono essere rimesse in campo. La prima domanda che si formula è quindi relativa alla effettiva novità del recycle. Ci si chiede se il termine esprima un concetto appartenente alla grammatica del presente o se si tratti di un vocabolo aggiornato, che può anche essere utilizzato per descrivere alcune prassi diffuse nel passato ed oggi abbandonate. Una disamina parziale degli episodi edilizi più antichi che contraddistinguono molte realtà urbane italiane ed europee mostra come il progetto di architet-


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tura, ma soprattutto la pratica di cantiere del passato, anche più recente, si è sempre basata sulla selezione e il recupero delle componenti, degli elementi o delle parti che ragionevolmente avrebbero potuto concorrere alla costruzione di una nuova fabbrica, conferendole valore. Il procedimento veniva attuato in forme diverse che coinvolgevano l’architettura a scale differenziate, dalla singola parte all’oggetto nella sua totalità, sino ad intere porzioni urbane. Si possono ascrivere a forme primitive del recycle gli episodi di smontaggio o rimontaggio di intere fabbriche o di porzioni di esse messe in campo in seguito ad ampliamenti, rimaneggiamenti o, più di frequente, in seguito a demolizioni e ricostruzioni. In moltissime città sopravvivono, incluse nella struttura di edifici recenti, parti consistenti di edifici del passato, spesso decontestualizzate, che miracolosamente sopravvivono nella loro interezza, producendo uno strano legame con il nuovo. Similmente è riconducibile al recycle la prassi di reperire e riutilizzare nelle nuove costruzioni elementi edilizi di recupero o di rifiuto. Rispetto a questa strategia è individuabile un’ampia serie di esempi che restituiscono l’idea di un atteggiamento capillarmente diffuso e praticato. Una terza modalità può essere identificata nella operazione di stratificazione a cui venivano sottoposti edifici o intere porzioni urbane. Si trattava di forme di riutilizzo di resti in rovina o di tracce lasciate da strutture preesistenti che venivano integrate e trasformate al fine di ottenere una costruzione del tutto o in parte dissimile dalla precedente. Una quarta modalità diffusa di recycle consisteva invece nella trasformazione e nel riuso di edifici che venivano adattati a nuove funzioni tramite modifiche minori, adattandoli a nuovi usi senza mutarne in modo sostanziale l’aspetto. Il rimando ad edifici storici e notevoli che scaturisce dalla riflessione su quanto enunciato non deve però trarre in inganno rispetto alla reale diffusione di queste pratiche che godevano di una straordinaria popolarità, in quanto corrispondevano ad una precisa volontà operativa e facevano parte della normale routine di progetto e di cantiere. I procedimenti del recycle nel passato venivano messi in campo per ragioni tecniche, esecutive, di profitto o, più raramente, simboliche od estetiche. Tra queste concorreva sicuramente in maniera prioritaria quella legata al valore economico dei manufatti e dei materiali. Il recupero di parti permetteva notevole risparmio di risorse ed era favorito più da questa ragione che da motivi legati alla memoria o al prestigio di alcune realizzazioni. Riutilizzare strutture preesistenti o reimpiegare materiali provenienti dalla dismissione di edifici caduti in rovina, significava ridurre tempi e costi delle operazioni, disporre di materiali già


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lavorati o semilavorati facilmente reperibili in loco, trasportabili e adattabili. Servirsi di materiali di recupero consentiva una verifica empirica della bontà degli stessi che era provata da anni di esposizione agli agenti atmosferici e a varie forme d’uso. Tale pratica in vari periodi della storia era anche giustificata da una perdita di perizia nella realizzazione di alcune lavorazioni che si potevano evitare attraverso l’impiego di materiali disponibili, già pronti. Le forme di riuso dipendevano inoltre dalle variazioni demografiche che si sono succedute nel corso della storia e hanno provocato episodi anche sostanziali di abbandono e dismissione. L’ipotesi del recycle non rappresenta quindi una novità ma la riscoperta e rivalutazione di un modo di operare che è appartenuto alla storia ed è stato progressivamente superato dalla logica dello sviluppo. Non stupisce che un noto manuale formativo per capomastri, pubblicato a partire dai primi decenni del Novecento e riedito varie volte sino alla diciassettesima edizione di una ventina di anni fa, riporti con estrema chiarezza la sintesi di questo processo. Nella descrizione della pratica di cantiere si parla infatti di “ricupero e rigenerazione di materiali” spiegando che «il materiale di demolizione rappresenta un capitale non trascurabile ed al presente veramente prezioso, per cui nulla dovrà essere trascurato perché ogni parte di esso abbia a ricuperarsi nelle migliori condizioni di realizzazione» specificando come «nulla deve andare perduto e ogni cosa per il suo valore può essere e deve essere ricuperata» (G. Astrua, Manuale del capomastro assistente edile, Hoepli, Milano 1995). Si tratta di una testimonianza importante perché rappresentativa di una prassi consolidata che rientrava negli insegnamenti normalmente trasmessi agli operatori del settore edilizio, attraverso la manualistica divulgativa. Si può quindi ragionevolmente sostenere che le strategie di recupero e riutilizzo descritte in precedenza siano state praticate massicciamente sino alla prima metà del secolo scorso, in base a modalità consolidate secondo cui si risolveva il problema del riutilizzo dello scarto trasformandolo in risorsa. La riflessione attorno alla coppia noto/innovativo si spinge quindi verso il tentativo di comprendere perchè questa prassi ha smesso di essere comune e quando il tema è tornato ad essere attuale. Si può sostenere che la progressiva diminuzione di attenzione verso i temi del recupero e del riuso si sia imposta nell’ultima metà del secolo scorso, quando si è iniziata a diffondere un’etica improntata al consumo e a verificare un abbandono delle prassi costruttive tradizionali che ha prodotto uno spostamento di valore a cui si è associata la loro scomparsa. A partire dalla fine della Prima Guerra


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Mondiale e ancora massicciamente dopo la Seconda, si è infatti assistito ad una dirompente rivoluzione tecnica e culturale che, nel campo dell’edilizia, ha coinciso con la diffusione di nuovi materiali in sostituzione di quelli tradizionali. La nascita di nuove tecnologie e sistemi costruttivi ha favorito la velocizzazione del cantiere e ha prodotto una notevole semplificazione esecutiva. Ciò ha richiesto un maggior livello di specializzazione del cantiere ed ha portato alla scomparsa della figura tradizionale del mastro muratore, favorendo la comparsa di una nuova categoria di impiegati del settore edilizio, caratterizzata da competenze e mansioni specifiche però incapace di gestire l’intero processo edilizio. Ciò ha coinciso anche con l’inversione del tradizionale rapporto tra il costo del materiale e del lavoro. Tutto ciò ha comportato un importante processo di cambiamento che ha progressivamente portato alla scomparsa della sensibilità su cui si fondavano le pratiche di riuso. La specializzazione del lavoro e l’impiego di sistemi costruttivi standardizzati hanno dato seguito ad un sensibile calo della perizia esecutiva e della flessibilità nell’uso dei materiali. In breve tempo l’impiego dei processi costruttivi tradizionali è divenuto sempre più rischioso ed è stato limitato alle situazioni di assoluta necessità. Si è così avviata una fase in cui le strategie di recycle che il passato aveva adottato massicciamente, vennero rapidamente dimenticate, in favore di un consumo sfrenato delle risorse che è continuato sino al manifestarsi dell’impossibilità di tale atteggiamento. Solo una condizione di crisi gravissima di cui la connotazione economica è sicuramente meno influente rispetto alla portata sul piano ecologico, politico, sociale ed etico ha evidentemente generato una azione rilevante finalizzata alla revisione dei modelli prodotti durante la stagione del consumo. Ciò ha prodotto una riflessione profonda che ha riguardato in modo particolare i prodotti della modernità e l’incredibile quantità di scarti generati dalla nostra società. Si tratta di un processo complesso, di analisi, valutazione, rimozione e rifondazione di modelli che coinvolge una pluralità di questioni e che, anche se affrontato da un punto di vista singolare, come quello della disciplina architettonica, implica il coinvolgimento di altri saperi concomitanti ad un vero e proprio processo di rifondazione culturale. Applicare il termine recycle all’architettura significa dotarsi di un nuovo strumento di pensiero che diventa operativo nel momento in cui realmente applicabile ai processi modificativi. Proprio per questo la riflessione che si sta conducendo tenta di rintracciare nella storia i geni del processo, per risalire all’essenza di un atteggiamento del passato oggi scomparso che, riletto e reinterpretato,


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potrebbe risultare di qualche utilità per reimpostare le azioni del presente. Occorre quindi procedere alla identificazione delle ragioni che in passato rendevano il recycle una prassi condivisa e praticata, identificare i motivi che impediscono che esso si imponga come strumento operativo preferenziale nel presente ed inquadrare i nodi problematici la cui risoluzione potrebbe sancirne in futuro la concreta affermazione. L’esame dell’antitesi che si pone tra notorietà e novità del recycle, in confronto ai ragionamenti prima esposti e rispetto alla finalità di valutare le mutazioni intercorse tra il senso che questa pratica assumeva nel passato e quello che assume oggi, chiama in causa altri termini il cui senso è profondamente mutato e ha comportato una profonda variazione del senso di operare secondo questa logica. Il confronto tra le condizioni entro cui si attuava il recycle nel passato e quelle che contraddistinguono la realtà contemporanea permette la definizione di alcuni temi attorno a cui lavorare per far si che un concetto ancora impreciso si trasformi in futuro in una chiara strategia operativa. Chiamando in causa gli altri termini oppositivi messi in campo dalla ricerca è possibile sostenere che le forme affini al recycle del passato fossero note, perché diffuse e capillarmente praticate nelle attività di cantiere, pretese da progettisti, imprenditori, committenti e praticanti; oltre che insegnate a livello pratico ed attraverso la manualistica divulgativa. Etiche, perché espressive di una attenzione collettiva finalizzata a ridurre gli sprechi, attraverso un attento e mirato recupero e riutilizzo di quanto fosse dotato di valore. Economiche, perché favorite dai meccanismi monetari del passato in cui il valore della manodopera era inferiore al costo del materiale. Politiche perché riconosciute come pratiche comuni ed implicitamente favorite dalle istituzioni. La situazione presente vede invece l’emergere di una rinnovata attenzione al tema del riuso che si sta concretizzando nel tentativo di formulare una teoria da porre alla base del recycle. Tale pratica è però costituita da una serie di esperimenti isolati che non permettono ancora il riconoscimento di una precisa strategia codificata ed orientata ad aprire una nuova fase sensibile di cambiamento. Questo, riferendosi ai temi precedentemente introdotti, chiama in causa gli altri termini delle coppie. Si può quindi sostenere che oggi il recycle risulti innovativo, in quanto il processo che sta alla base della sua essenza non è più rappresentativo di una prassi nota e praticata, ma dimenticata e in fase di riscoperta, rivalutazione ed aggiornamento. Estetico, perché assunto, al pari di qualsiasi fenomeno di moda, come espediente posto


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a fondamento di un gusto temporaneo ed improbabile perché, come tutto ciò che è legato al costume risulta impopolare. Ecologico, perché considerato come un mezzo per garantire un uso più corretto delle risorse al di fuori però di una visione etica più ampia. Autoriale perché affidato ad iniziative individuali, isolate, pioneristiche e condotte senza alcun sostegno istituzionale. Alla luce di questa situazione la rilettura dei temi che in passato hanno costituito i fondamenti di una prassi vicina al recycle non deve apparire come una inutile operazione anacronistica, ma deve stimolare a ritrovare il modo di risalire ai fattori che permettevano a queste pratiche di essere diffuse e praticate. Questa operazione corrisponde alla volontà di porre il recycle alla base di una strategia concreta di ridisegno del paesaggio contemporaneo in risposta ad una crisi profonda e strutturale che potrà essere risolta solo a partire dalla sostanziale messa in discussione dei modelli che l’hanno prodotta. Si auspica che in futuro il recycle si sostanzi in una serie di provvedimenti reali, in modo che esso possa tornare ad essere noto e quindi praticato, preteso ed insegnato. Etico, perché fondato su un intento ispirato al bene comune. Economico, perché reso possibile da una revisione dei modelli speculativi che si frappongono tra la formulazione teorica e la attuazione oggettiva. Politico, perché adeguatamente supportato da un preciso intento e sostegno giuridico/economico. Discutere il tema del recycle rispetto alla coppia noto/innovativo non permette di escludere un termine a favore dell’altro in quanto la dimensione nota della pratica deve favorire la enunciazione dei termini per il suo rinnovamento. La convinzione che il recycle possa imporsi come fondamento etico e strumento disciplinare per il ripensamento dei materiali paesaggistici e dei modelli lasciatici in eredità dal consumismo non può escludere questo dualismo. Pensare il recycle avvalendosi del sostegno della storia impone il confronto con una dimensione pragmatica che impone di trovare delle risposte concrete ai bisogni del presente. Gli strumenti forniti dalla disciplina architettonica saranno sufficienti a fornire molte delle risposte necessarie a sostenere le strategie del recycle che si concretizzeranno, la loro attuazione però dipenderà dal coinvolgimento e dal contributo di altre discipline. In questo senso gli spunti offerti da questo saggio rappresentano uno sfondo problematico a partire da cui è possibile sviluppare un dibattito aperto ad un contributo interdisciplinare più esteso.


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DA “IDENTITÀ” A “IDENTITÀ”: NUOVI LINGUAGGI Rita Simone >UNIRC

L’antinomia noto/innovativo proposta dagli organizzatori del convegno Re-cycle Op_position induce a riflettere sulla natura stessa del termine riciclo che si presta, specialmente oggi, a varie e diversificate interpretazioni e conseguenti azioni. In un’epoca, infatti, dove il riciclare, il riusare o il rigenerare assume quasi il carattere di un obbligo dettato dalle congiunture economiche e sociali fino a intercettare trasversalmente arti e costume, è necessario ridefinire la natura dei termini e, con essa, la specificità dei processi che da questi prendono avvio. Tale necessarietà si rende ancor più evidente nell’ambito della ricerca che dovrebbe tendere a definire i limiti all’interno dei quali si muovono le tesi espresse operando selezioni e restringendo i campi di analisi. È tutto, per noi, riciclo? È tale qualsiasi atto che genera dal vecchio, dall’usato e dal logoro una nuova vita? È coincidente con il riuso e, quindi, con l’as-


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sunzione di nuove funzioni? È uno strumento progettuale che traduce forme e linguaggi? È, al contrario, un restyling di forme e linguaggi obsoleti ai quali dare una parvenza di contemporaneità? La riflessione sull’opposizione noto/innovativo, potrebbe, in tal senso, rappresentare una chiave di lettura per dirimere alcune ambiguità o indicarci una possibile riduzione di campo fino a giungere, forse, alla definizione di un principio. In prima battuta, e alla base della tesi che si vuole esporre, è da chiedersi se i termini noto e innovativo debbano necessariamente leggersi come coppia antinomia oppure se, invece, si possa individuare un percorso che attui il passaggio dal conosciuto noto all’incognito innovativo. Tale percor-


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so ha origine dal parallelismo che si riconosce tra i termini/azione riciclo e contaminazione (contaminatîo-õnis) nel significato che quest’ultima assume in letteratura e in linguistica1. In entrambe, infatti, tale termine denota l’azione atta alla determinazione di una nuova entità attraverso l’uso di elementi noti. Sia essa l’artificio praticato dai commediografi latini inserendo nella traduzione di una commedia greca brani assunti da altri testi generando nuove opere2 o sia la determinazione di una nuova forma o costrutto derivata dall’incrocio di precedenti3, la tecnica del contaminare ha uno stretto legame con quella del riciclo e si traduce sempre in atto creativo. Se a partire da Nevio, Plauto e Terenzio4 attraverso la contaminatîo si sancì il passaggio dalla Commedia Nuova Greca alla commediografia latina, un analogo transito da noto a innovativo si intercetta all’interno dell’intera storia dell’architettura e di altre discipline artistiche. Strategie di riciclo e contaminazione, appaiono in tal senso – e solo per citarne alcune – quelle operate da Alberti, Michelangelo, Palladio, Venturi o Picasso. La trasmigrazione di forme e linguaggi civili, religiosi e classici all’interno di nuovi contesti formali e spaziali è infatti evidente in opere quali il Tempio Malatestiano (1453), il Sant’Andrea (1472), la Cappella Medicea (1520), Villa Capra (1566) o nella New Country House (1978). Se, infatti, l’arco trionfale romano5 o la facciata del tempio6 si rigenerano nel passaggio dal codice dell’architettura civile a quello religioso e viceversa reinventandosi come campate spaziali, allo stesso modo gli elementi del linguaggio classico “sgrammaticati” da Michelangelo7 segnarono un prima e un dopo rispetto al modo di concepire l’architettura. Il passaggio dal noto all’innovativo ottenuto attraverso la fine di uno status e la rigenerazione e significazione dell’elemento originario all’interno di un nuovo ambito contestuale, raggiunge nell’opera di Venturi, Rauch e Scott Brown8 o di Picasso il compimento dell’atto creativo sorto dalle ceneri di un precedente vissuto. I primi sanciscono definitivamente la morte della grammatica classica non solo sovvertendo il “tempo”9 della classicità ma anche collocandola all’interno dello stesso statuto ironico che aveva decretato la morte della tragedia a mano della commedia10. Il secondo, invece, nella Testa di Toro11 trasla i significanti della quotidianità per farli divenire facies corporea. Nonostante la differenza data da un artificio che si attua all’interno dell’identico contesto – nei casi della letteratura e dell’architettura – o


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che opera uno slittamento dalla materialità del quotidiano all’ambito artistico l’azione del contaminare operata dagli autori citati non va confusa né con il semplice atto del combinare, mettere insieme, unire12, né con quello del deteriorare mescolando, corrompere, inquinare13. Se, infatti, con tali termini si è cercato più volte di connotare le caratteristiche della tecnica inventiva, le stesse non assorbono l’intero atto creativo che presuppone la nascita di una nuova ed inedita forma alla cui determinazione concorrono esistenze precedenti. Partendo dal presupposto che «le forme sono in sé relativamente prive di significato» 14 ma tendono ad attrarre a sé determinate associazioni di significati e che «qualsiasi “memoria” è in primo luogo la facoltà di conservare le tracce di ciò che appartiene a un’epoca passata» 15, affinché possa attuarsi il passaggio dal noto all’innovativo attraverso la particolare accezione del riciclo come processo di contaminazione, l’annullamento dei significati e della memoria del noto costituisce un passaggio obbligato. La consapevolezza necessaria all’attuazione di tale passaggio ci è data dall’applicazione dei principi della Linguistica16 e della Semiologia17 attraverso i quali appare chiaro il rapporto tra VLJQL±FDQWL, VLJQL±FDWL, codici di appartenenza e segno. Se, infatti, il segno e la sua capacità comunicativa derivano strettamente dal rapporto tra il piano dell’espressione dato dai significanti e il piano del contenuto proprio dei significati che si traduce in una VLJQL±FD]LRQH possibile solo all’interno di un codice univoco18, lo slittamento del significante all’interno di un nuovo codice annulla il significato precedente e con esso la sua memoria per dare vita ad un nuovo ed inedito sistema comunicativo. Nel nostro specifico ciò coincide con quell’atto creativo evidente negli esempi citati in cui il trasferimento di uno o più elementi di natura linguistico/formale ha generato la creazione di un nuovo ambito contestuale. Il passaggio da nota a inedita identità è avvenuto attraverso operazioni di cancellazione di significati e memorie originarie e solo a seguito della rigerenazione di nuovi sistemi grammaticali e linguaggi. È sufficiente, dunque, in ambito creativo considerare la tecnica del riciclo come l’atto del «recuperare e riutilizzare materiali di scarto e di rifiuto» o «rimettere in uso qualcosa di vecchio, reimpiegare, riproporre» oppure, ancora «riutilizzare materie, prodotti e sim., per ridurre gli sprechi e l’inquinamento ambientale» 19? Probabilmente... no!


95 Note 1. Cfr. G. Devoto, C. G. Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze 1971. 2. Cfr. W. Beare, I romani a teatro, Laterza, Roma-Bari 2008; L. Modin, Contaminare nel lessico intellettuale latino, in Polymnia. Studi di Filologia classica, n. 4, 2006, pp. 184-207. 3. Cfr. G. L. Beccaria, (a cura di), Dizionario GL OLQJXLVWLFD H GL ¹ORORJLD PHWULFD UHWRULFD, Torino 2004. 4. Cfr. Gneo Nevio, 275 a.C., Tarentilla (La ragazza di Taranto), Apella (La donna di Puglia) e Corollaria (La Fioraia); Tito Maccio Plauto, 255/250 a.C., De comoediis Plautinis; Publio Terenzio Afro, 166 a.C. in prologo dell’Andria (vv. 8-21). 5. Cfr. J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura, Einaudi, Torino 1975, pp. 33-34.

nei classici, Le Monnier, Firenze 1972, pp. 28-30. 13. Cfr. L. Mondin, Contaminare nel lessico intellettuale latino, in AA.VV., Incontri triestini GL ÂąORORJLD FODVVLFD, EUT Edizioni, Trieste 2003, pp. 189-206. 14. E. Gombrich, in A. Colquhoun, Architettura moderna e storia, Laterza, Roma-Bari 1989, p. 35. 15. K. Pomian, voce Memoria, in Enciclopedia Einaudi, XV, Torino 1977, p. 388. 16. Cfr. F. de Saussure, Corso di linguistica generale, tr. it. T. De Mauro, (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1967. 17. Cfr. R. Barthes, Elementi di semiologia, Einuaudi, Torino 1981; U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1987. 18. Cfr. L. T. Hjelmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino 1968.

6. Cfr. R. Wittkower, Principi architettonici nell’eta dell’Umanesimo, Einaudi, Torino 1964, pp. 75-77.

19. V. Riciclare, in Vocabolario della lingua italiana Treccani, Roma 1997.

7. Cfr. J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura, cit., p. 48.

Immagine

8. Cfr. Controspazio, anno XII, n. 1-6, 1980, La Presenza del Passato, pp. 150-152. 9. Cfr. J. Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura ,cit., p. 35. 10. Cfr. S. Kierkegaard, Sul concetto di ironia, Guerini, Milano 1989; R. Venturi, D. Scott Brown and Associates, Allen Memorial Art Museum, Oberlin 1977. 11. Cfr. D. Dupis LabbÊ, Picasso. La scultura, Giunti, Firenze 1999. 12. Cfr. A. Ronconi, Interpretazioni letterarie

Pablo Picasso, Testa di Toro, 1943


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Il riciclo è un processo basato sullo scarto, sia nel senso di giudizio, selezione, rifiuto che in quello di deviazione dello sguardo, repentino spostamento di prospettiva.

MACCHINE PER DIMENTICARE


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Giovanni Corbellini >UNICAM [UNITS]


98 Nell’ambito del Re-cycle la tecnologia in sé non è sufficiente oggi a far attendere significativi risultati, in termini di impatto sulla realtà, in tempi brevi e adeguati alla situazione attuale. Necessario è quindi uscire ancora una volta dalla logica dei “materiali”, dei componenti e delle opere, per entrare in quella dei “sistemi” che quei materiali utilizzano e che a quelle opere portano. Alcuni ragionamenti orientativi possono partire dalla semantica, riflettendo sulle accezioni del termine “riciclo”: accezione letterale/originaria: recupero di materiali o esiti di cicli produttivi (in senso stretto: produrre prodotto fresco dello stesso materiale – tipici esempi: carta-carta, polistirene-polistirene). / Accezione figurata: riferita ad entità astratte (aspetto poco significativo nella ricerca... se non in politica). / Per estensione del termine (quando riciclare è troppo costoso o inquinante): in questo caso ottenimento di sottoprodotti o prodotti ibridi di minore qualità o valore (tipici esempi: carta-cartone semplice, corrugato, plastiche in plastiche di grado inferiore, ecc.). / Per limitazione del termine: salvataggio, con recupero da prodotti complessi di componenti di valore intrinseco (tipico esempio: piombo da batterie, oro da componenti elettronici, ecc.) o di specifica riconosciuta pericolosità (tipico esempio: mercurio dai termometri). / Per derivazione del termine, a scala diversa: estensione delle varie accezioni di cui sopra a oggetti complessi (opere a punto e a rete) valgono in effetti tutte le accezioni. Si possono dunque codificare, in un concreto settoriale, quattro sottocategorie di riciclaggio/riutilizzo: 1. UP-CYCLE: quando il materiale recuperato verrà re-introdotto in un ciclo produttivo che lo porterà a formare un prodotto più complesso o qualitativamente più alto. Esempio di settore: materiali da scavo o terre di risulta che vengono utilizzate per formare l’impasto del calcestruzzo. 2. DOWN-CYCLE: quando il materiale recuperato verrà utilizzato in cicli produttivi che lo porterà a formare un prodotto più semplice o elementare. Esempio di settore: il recupero delle guarnizioni dai serramenti, che dopo una nuova fusione andranno a formare i pannelli di tartan grezzo ritrovabili nei parchi giochi per bambini. 3. RE-CYCLE: quando il materiale verrà semplicemente e direttamente re-inserito nello stesso ciclo produttivo o potrà essere facilmente smaltito, senza lavorazioni intermedie.Esempio di settore: si possono citare vari materiali tra cui l’acciaio, il vetro e il legno. 4. IPER-CYCLE: quando, con macchinari e tecniche costruite ad hoc, verrà recuperato un singolo materiale separandolo da altri che invece sono considerati scarti inutilizzabili. Esempio di settore: recupero dei fili di rame da impianti obsoleti.

NULLA DI NUOVO SOTTO IL SOLE


99 Controversie. Si riscontrano, in letteratura scientifica e ancora più in pubblicistica, controversie, numerose e di lungo periodo, circa l’applicabilità di queste strategie: sostenitori: riduzione smaltimento, riduzione inquinamento, rispetto della natura. Detrattori: troppa energia, spostamento di posti di lavoro, inquinamento. Si è giocato e si sta giocando non poco sulla parola Re-cycle, oggi vista come un sinonimo di ambiente/sostenibilità per coloro che vi si approcciano all’inizio e magari non nel modo più corretto, oppure come un termine vuoto e facilmente strumentalizzabile. Le stesse controversie potrebbero spostarsi dal livello “oggetto” al livello “opera”. Oggettivamente, si è di fronte ad un problema aperto, la cui soluzione non può che passare attraverso tentativi di riconduzione a costi globali di processo (ove l’aleatorietà è costituita dal tempo di ritorno dell’investimento – esempio: costi e redditività dei Castelli di Ludwig...). Tuttavia i benefici di un riciclaggio di “opere” appaiono intuitivamente molto più apprezzabili quando si ragioni di materiali: quindi da un lato vale la pena di procedere nella ricerca senza porsi per ora problemi di efficacia ed efficienza, dall’altro a conclusione si raccomanderà caso per caso, in applicazione, di condurre adeguate analisi costi/benefici tenendo conto degli intangibili che sono legati ad interventi di recupero a scala macro.

Immagine Andrea Revolti, Trento 2014 [Quando, in nome dell’immagine, PIÙ vuol dire MENO – L’errata declinazione di Innovazione in «Greenwashing»]

Maurizio Costantini, Andrea Revolti >UNITN


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L’occhio strategico Successive interpretazioni del territorio si sono stratificate nel corso della storia attraverso continui scarti nel modo di guardare la realtà circostante, attraverso la capacità di dare nuovo significato e nuovo ordine a elementi apparentemente ordinari del paesaggio.

AU RECYCLE COMME À LA GUERRE


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Immagine Letture del paesaggio veneto tra vedutismo di fine ‘800 (G. Ciardi, E. Tito, A. Morbelli) e utilizzo bellico durante la Grande Guerra (fotografie dal fronte sul Piave)

Fernanda De Maio, Alberto Ferlenga, Andrea Iorio >IUAV


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I tarocchi sono una macchina narrativa combinatoria, apparato di un laboratorio imperfetto che opera come editore contemporaneo di forme, idee e immagini, con cui tracciare scenari tematici di frammenti noti ma ricomponibili e riconfigurabili in un ordine sempre nuovo. Il significato di ogni singola carta dipende dalla posizione che essa ha nella successione di carte che la precedono e la seguono, provocando perciò squilibri nelle suggestioni narrative e influenzando eventi collettivi e particolari. Si tratta di una modalità di intervento sull’esistente dall’equilibrio debole, basata sulla raccolta temporanea e nomadica di materiali precari che definiscono come permanente il soggetto, ma in continua evoluzione la lettura del suo contenuto. Questa innovazione progettuale retroattiva compie operazioni di campionatura e manipolazione del mondo, tali da ricomporne la narrativa con logiche altre fino al punto di reinterpretare anche quelle che l’hanno preceduta. In questo contesto operativo e metodologico, un qualsiasi manufatto non viene più considerato punto terminale del processo creativo, ma un sito di navigazione e negoziazione permanente, una postproduzione di forme fisiche e mentali esistenti. Le categorie di passato-presente-futuro ne vengono indebolite così come il loro legame di linearità e necessità, mettendo in discussione l’idea stessa di futuro come progresso inevitabile o necessario e mandando in frantumi la coppia oppositiva noto/innovativo tradizionalmente ad esso connessa. Il ricorso ai tarocchi diventa l’unica ipotesi sostenibile in grado di generare una siffatta idea di futuro, essi scorrono in modo imprevedibile tra le dimensioni temporali, attingendo il loro significato da una dimensione atemporale, ambiguamente contestuale e responsive, e proiettando innumerevoli futuri deboli senza generare significati autonomi.

FUTURO PREGRESSO


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Enrico Forestieri, Ludovica Niero, Gennaro Postiglione >POLIMI


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QUALE CANTIERE?


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Paola Galante, Roberto Serino >UNINA


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Il territorio italiano è sempre più ingombro di edifici, infrastrutture, sistemazioni del suolo sottoutilizzati e abbandonati. Si tratta di manufatti che appartengono a due famiglie: a) depositi abbandonati di una secolare antropizzazione del nostro territorio fatta di borghi e case rurali, sentieri, mulattiere e tratturi, muretti a secco, reti di canali, ferrovie e strade, opifici della prima stagione d’industrializzazione, caserme, ecc.; b) depositi della più recente fase di urbanizzazione, risalenti alla seconda metà del Novecento: edifici residenziali intensivi, collocati in aree periferiche o su strade trafficate, case di famiglia disperse in aree deboli, capannoni polverizzati nelle campagne o raccolti in placche produttive, seconde case posizionate in località marittime e montane sempre più declassate, servizi precocemente invecchiati, infrastrutture incompiute, ecc. Nel primo caso si tratta di oggetti fatti per durare, nel secondo caso si tratta spesso di oggetti concepiti per un più breve ciclo di vita. I primi, apparentemente, ci riporterebbero ai temi noti del riuso, i secondi ci condurrebbero a quelli innovativi del riciclo. Ma non è così. Nel primo caso, per ripensare quei manufatti e quei territori, per trasformali in “prese” per un diverso percorso di sviluppo, dobbiamo andare oltre le importanti acquisizioni della riflessione degli anni Settanta, pensando con più radicalità a nuovi modelli di sviluppo. Ad esempio, come fanno i “montanari per scelta” di Giuseppe Dematteis, affiancando operazioni di “restauro”

LA QUESTIONE È COME CONVIVERE CON MANUFATTI ABBANDONATI – ANTICHI O RECENTI CHE SIANO – IN UN TERRITORIO SATURO


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a fini testimoniali con interventi innovativi che trasformino questi manufatti in appigli per nuovi modi di abitare e fare economia (rimanendo sulle Alpi, il bosco diventa fonte di biomassa nel Trentino, i villaggi diventano punto di partenza per nuovi lavori terziari e agricoli in Piemonte). Più che altro dobbiamo recuperare saperi, pratiche costruttive (di vita e di lavoro) e materiali urbano-paesistici già noti, in una prospettiva tuttavia radicalmente innovativa. Nel secondo caso, a fianco di processi più inusuali di decostruzione e di ecogenesi (che fanno proprie le riflessioni più generali di Giorgio Nebbia, o quelle più specifiche di Gilles Clément) e a processi di demolizione – ricostruzione in un altrove con trasferimenti volumetrici, possiamo anche lavorare con usi temporanei e con le più consuete azioni di riuso (sulle quali già insisteva Kevin Lynch) o di “messa in sicurezza” e di convivenza con le macerie e i rottami (i due termini fanno riferimento rispettivamente alle riflessioni di Marc Augé e Antoine Picon), che benché non destinati a farsi rovina (nel senso di Georg Simmel e Walter Benjamin), diventeranno elementi con cui saremo obbligati a convivere. In ogni caso la questione – in Italia e in Europa – è solo parzialmente «come costruire o urbanizzare pensando non tanto alla durata-eternità del costruire, ma al riciclo nel medio breve periodo di ciò che costruiamo», ma piuttosto come confrontarsi con territori ormai ingombri di manufatti tra loro assai differenti per età e tecnica costruttiva, ma comunque abbandonati.

Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Cristiana Mattioli, Federico Zanfi >POLIMI


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Da sempre città nota (o vecchia, stratificata, consolidata) e città nuova (o pensata, progettata, in costruzione) si confrontano e si scontrano nella definizione dei sistemi urbano-territoriali attraverso un processo in continuo divenire in cui nuovo inesorabilmente si trova destinato a perdere la propria originaria valenza diventando noto. Per lungo tempo questo fenomeno ha determinato una costante crescita delle città e più in generale dei territori urbanizzati poiché l’adeguamento necessario a rispondere alle sempre nuove e diverse istanze generava una continua addizione di nuove spazialità e sistemi con la conseguente proliferazione di “scarti”, ambiti la cui incapacità di rispondere ai cambiamenti di vita determinati da spinte sociali, politiche ed economiche innestava necessariamente un progressivo degrado ed abbandono. Oggi la crisi economica, l’evidente saturazione spaziale raggiunta e la crescente presa di consapevolezza ecologica non ammettono sprechi e la necessità di fronteggiare trasformazioni sempre più rapide impone di non intervenire più su nuovi territori ma di riciclare (da qui appunto Recycle come nuovo paradigma della pianificazione) quelli già urbanizzati. Assistiamo ad un continuo proliferare di immagini e visioni futuristiche e futuribili, i Townscape1 sono diventati di fatto generatori di continua proposizione e riproposizione urbana e territoriale alla continua ricerca del giusto intreccio tra ciò che possiamo definire i tre “spiriti” dell’odierna pianificazione: intelligent city, green city e convivial city. In questo scenario il paradigma del riciclo è assunto a guida, come logica di approccio omnicomprensiva e plurivalente, capace, da un lato, di integrare istanze di innovazione spazio-sistemica-funzionale ed invenzione creativa e, dall’altro, necessità di recupero, riscoperta e riutilizzo dell’esistente. Le nuove logiche e modelli di vita spingono, infatti, alla definizione delle città e dei territori in dimensioni sempre meno fisiche e sempre più relazionali in cui è il singolo utente secondo la propria soggettiva sensibilità e i propri specifici interessi a definire mappe, connessioni e scenari arrivando sostanzialmente a svuotare, non solo a livello concettuale, ma anche e

RINATURACTIVAZIONE RESILIENTE


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soprattutto funzionale e fruizionale, gran parte dei territori urbani consolidati. Questo insieme di spazi “in cerca di autore”, spesso ipercostruiti e degradati, divenuto, così, di fatto il nuovo orizzonte di intervento e progetto della pianificazione da luogo al declinarsi della nozione di Recycle in azioni volte, a un duplice ed al contempo antitetico senso: - azioni di ri-nuovo inteso quale cambio totale di funzioni, ruoli e significati attraverso la rimozione e sostituzione totale dell’immagine precedente e la ridefinizione complessiva di spazialità e volumetrie secondo logiche di occupazione più flessibili, sia in termini temporali di presenza e uso che di commistione, integrazione e ibridazione funzionale. - Azioni di ri-noto inteso quale riscoperta e recupero di storiche valenze e potenzialità abbandonate in virtù di un progresso tecnologico i cui termini e scelte sono oggi da rivalutare, spesso sostanzialmente, rispetto al nuovo imperativo della sostenibilità ecologica. Accorciando e/o dilatando connessioni, tempi e distanze, definendo nuove riconoscibilità e moltiplicando valenze attraverso l’indirizzo ad un uso sempre più spontaneo e libero dello spazio, il paradigma Recycle si definisce così come manifesto concettuale e strategico di un processo che possiamo chiamare rinaturactivazione resiliente dei paesaggi urbano-territoriali. Cioè: Re(cycle)-attivazione / Re(cycle)-naturalizzazione. / Re(cycle)silienza. In questa triplice dimensione logica il termine Re-cycle (letteralmente “Ri-circolare”) esprime a pieno proprio la costante e continua ridefinizione e rideterminazione degli scenari così che rispetto al passato il “cerchio” si chiude e come la città nuova diventa nota oggi questa si riscopre nuova proprio in virtù del suo passato.

Nota 1. Riferimento allo studio di G. Cullen, Townscape, London 1961, in cui si sottolinea come la “percezione” dell’immagine urbana oggi venga assunta sempre più a strumento di interpretazione, programmazione e progetto dello spazio, della città e del territorio.

Emanuela Nan >UNIGE


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Il copione non esiste, ma la trama è stata scritta e dibattuta molte volte, al punto che, se non iniziano l’azione, perde di incisività, per risultare un’opportunità rimasta solo su canovaccio. È la città che chiede di far girare il motore della ripresa, la domanda implicita di azione è stata rimarcata da avvenimenti organizzati spontaneamente dal basso, basti pensare ad esempio all’occupazione diffusa di Macao nella città di Milano della Torre Galfa, di Palazzo Citterio e dell’Ex Borsa del Macello o alla Tour 13 a Parigi, divenuta sede temporanea di artisti internazionali che ne hanno fatto una meta turistica, prima di essere definitivamente abbattuta. Questi modelli radicali di cittadinanza attiva devono essere fiancheggiati dai registi delle città, urbanisti, amministratori, geografi, sociologi, designer che prendono la guida dei processi di riciclo delle città, mettendo in scena ciò di cui si è discusso in molteplici forme e aspetti. Il noto e discusso riciclo infatti ha un’azione ancora ignota, o meglio la stanno mettendo in scena in maniera sporadica e autonoma singoli gruppi, ma per essere incisivo non basta. Non vi è un copione scritto, il paesaggio è troppo eterogeneo per avere battute e comportamenti prestabiliti a priori, ma i principi, le tattiche, le

MOTORE... AZIONE! È INNOVATIVO METTERE IN SCENA IL NOTO


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strategie e i possibili scenari possono invece essere governati e divenire una trama che ridisegna e dà vita ai brandelli di senso del territorio. Le storie non scritte tendono a subire modificazioni e false interpretazioni, per essere poi alcune volte dimenticate o nostalgicamente ricordate, se il noto tema del riciclo riesce ad imprimere una narrazione concreta e nota nei diversi contesti, non incorrerà in questo rischio. È doveroso partecipare alla trasformazione della società in maniera attiva, è quindi necessario sciogliere i nodi burocratici e legislativi che spesso rallentano le nostre azioni, per definire una palette di strumenti da utilizzare. È entusiasmante cogliere la sfida di declinare il noto, in un’innovativa e analoga chiara idea di messa in pratica del tema, porta a scomporre la realtà in elementi semplici e distinti, che sono quelli che accomunano paesaggi in apparenza distanti ed eterogenei, per delineare strategie che sono nello stesso tempo specifiche e universali. Il tempo scandisce le riprese, e definisce le scene, ci possono essere azioni d’intervento estemporanee che precedono quelle definitive a lungo termine, altre volte è possibile sovrapporre fasi determinate a fasi indeterminate come parti di una stessa strategia, altre volte è più interessante intraprendere soluzioni definitive, l’importante è non lasciare che il tempo scorra producendo macerie e trascinando con sé abbandono e degrado.

Chiara Olivastri >UNIGE


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The very idea of manipulating garbage – and moreover using ingenuity to turn it into something productive and beautiful – is extremely innovative and virtually contravenes social convention. A. Bahamon, M. C. Sanjines, Rematerial: from Waste to Architecture By questioning downcycling processes the position calls for a participatory approach to municipal waste management which is integrated into urban regeneration and grounded on community action, youth involvement and transport infrastructures utilisation. The aim is to promote social responsibility in the optimisation of waste streams by fostering grassroots awareness of the need to stop the “black bin bag” mentality, and to give a new identity to a wasteland in Nottingham City Centre by turning a derelict warehouse into an architecture that plays with waste. Acting concurrently at the urban, building and detail scale through a mix of technology, arts, education and community engagement the Reuse Factory gives shape to the social change required to reduce our dependency on landfill. It showcases an innovative approach to re-cycling which promotes out of the box thinking whereby problems are turned inside out into economic and social opportunities.

Immagine Simon Petty, The Reuse Factory: Tackling Our Throwaway Culture, 2013

(RE)CREATE (RE)PLACE. FROM WASTELAND TO WASTECTURE


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Giamila Quattrone, Simon Petty >UNIRC


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Intervenire sul metabolismo urbano modificando l’accessibilità delle aree da sottoporre alle procedure di riciclo. Nuovi cicli di vita innescati da mutate opportunità di relazioni stimolate o inibite da possibilità di accesso potenziate o negate. (TERAPIA ANGIOGENICA*) angiogenesi: processo di formazione dei vasi sanguigni / anti-angiogenesi (bevacizumab): curare le neoplasie impedendo la formazione di vasi sanguigni. DECLINAZIONI DELLE MODALITÀ DI RICICLO procedure urbane shift-cycle procedura strategica di delocalizzazione in nuovi nodi della rete urbana shut-cycle procedura temporanea di riciclaggio a circolo chiuso, riduce al minimo le interazioni negative con l’intorno FRQQHVVLRQL ±OWUDWH end-cycle procedura di abbandono strategico, obsolescenza programmata e riciclabilità migliorata connessioni recise pause-cycle ciclo di sospensione che non compromette usi futuri possibili in attesa di nuove condizioni al contorno connessioni sospese up-cycle procedura di rigenerazione senza distruzione nuovi cicli stimolati da nuove connessioni sub-cycle procedura di attivazione di cicli connessi a nuove reti di relazioni connessioni diverse e minori hyper-cycle nuovi livelli di organizzazione e collegamento tra unità di replicazione di più cicli connessioni multiple

URBAN WEB CYCLE


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Gianbattista Reale >UNIROMA1


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Nel 1976, il numero 13 della rivista «Lotus International» pubblicava un articolo di André Corboz dal titolo 9HFFKL HGL±FL SHU QXRYH IXQ]LRQL Il testo sviluppava il tema del riciclaggio con la seguente premessa: «Il “riciclaggio” degli antichi edifici sta per diventare il pane quotidiano degli architetti. Negli USA più dell'80% di essi ha dedicato una parte del proprio tempo a questo problema dal 1972 al 1974, per l'Europa mancano le statistiche, ma si può supporre una tendenza analoga. [...] Col termine di riciclaggio gli americani intendono qualsiasi intervento su un edificio che non faccia ricorso al bulldozer. È una nozione buona a tutti gli usi, che significa recupero, modernizzazione, conversione, restauro. Inoltre essa si applica ad ogni tipo di costruzione, dalla stazione di pompaggio paleo-industriale allo slum costruito nel 1950. Così inteso, il riciclaggio da un lato non si preoccupa di alcuna precauzione metodologica e dall'altro non si applica in modo specifico agli edifici contemplati dalle misure di protezione del patrimonio architettonico. Ora, dato che il fenomeno di riciclaggio si verifica soprattutto all'interno dei quartieri protetti, è il caso – ed è abbastanza urgente – di definire il concetto tentando un approccio più sistematico a questo tipo di operazione di quanto non sia stato fatto fino ad ora [...]». Cosa può ritenersi “innovativo” nel “re-cycle”, se non il tentativo di modificare lo stesso processo progettuale che coinvolge quanto è compreso da sempre nelle azioni di trasformazione e riuso dell’esistente? Al contrario di ciò che accade nel riciclo di rifiuti e materiali di scarto, ai quali si toglie la riconoscibilità formale per ridurli a sola materia reimpiegabile; nel progetto di architettura, urbano e di paesaggio, è da sempre attivo il "riciclaggio" che include e preserva la forma, a seconda dei casi residuale o integrale, impressa nella materia come sua parte indivisibile, inevitabilmente trasmessa o riflessa nel “nuovo”.

DALLA MATERIA FORMATA. RICICLAGGIO E PROGETTO DI ARCHITETTURA


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In questo ambito il confronto tra noto/innovativo va riportato alle tensioni opposte di riuso/rinnovo, che riguardano la componente formale nel suo essere inscindibile dalla materia. Se pensiamo a quanti frammenti, di forma e origine riconoscibile, sono stati reimpiegati nel corso del tempo per costruire nuove architetture e per riportare in esse anche il valore delle parti o dei resti inclusi, è evidente che il riciclo ha ben poco d’innovativo, ma è azione nota e sostanziale del fare architettura sia per la riqualificazione dei territori sia per un riuso sostenibile delle diverse risorse. Il riciclo dei materiali da costruzione, come di frammenti o parti di edifici e intere strutture, trova i suoi presupposti nelle potenzialità che la loro forma ha di acquisire nuovi usi. È allo stesso modo di fondamentale importanza per il progetto poter includere nell’azione di riciclo la riconoscibilità e il valore della materia formata, sia in rapporto alla sua storia, al luogo e al paesaggio, sia per la specifica qualità, in essere e potenziale, degli elementi reimpiegati. Se la Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto, esprime la forza della ricomposizione fondata sull’opposizione tra la bellezza classica della Venere e la montagna di stracci, che acquista valore e senso per la posizione stessa della statua oltre che per la sua presenza, in architettura può raggiungere risultati paradigmatici anche la duplicazione formale esaltata dal contrasto dei materiali e dell’articolazione spaziale. Ciò appare chiaro nel centro polivalente FRAC (Fond Régional d'Art Contemporain) del porto di Dunkirks, a Nord-Pas de Calais in Francia, opera degli architetti Lacaton & Vassal, dove il nuovo si configura con la riproduzione di un volume esistente, assunto come matrice formale, che recupera una qualità architettonica grazie al suo recente ruolo nell’insieme, dichiarato dal vuoto interno che ne preserva l’unità spaziale e dall’affiancarsi del nuovo volume. La forma trovata è reinterpretata e reimpiegata, ma costruita con altri materiali e funzioni, per un’architettura capace di stabilire nuove relazioni con il luogo e il paesaggio.

Margherita Vanore >IUAV


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AUTOR / POL


RIALE

LITICO

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AUTORI, INTERPRETI, REGISTI. IL DIFFICILE EQUILIBRIO TRA INTENZIONE PROGETTUALE E CONTRATTAZIONE POLITICA Mauro Berta >POLITO

I don’t intend to build in order to have clients; I intend to have clients in order to build. Howard Roark in Ayn Rand, The Fountainhead Howard Roark, l’antieroe concepito da Ayn Rand, ispirato molto liberamente alla figura di Frank Lloyd Wright e interpretato magistralmente da Gary Cooper nell’omonimo film del 1949, rappresenta ancora oggi una delle metafore forse più significative della figura dell’autore e delle relative problematiche nell’architettura contemporanea. Idealista radicale e individualista fino alle estreme conseguenze, l’architetto protagonista di The Fountainhead non solo è disposto a rinunciare alla propria professione pur di non insozzarla con le pretese di volgari richiami storicistici, cui la società, il mondo della committenza e la stessa accademia paiono volerlo indurre, ma arriva fino all’atto estremo di distruggere con l’esplosivo un proprio


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edificio, il cui progetto è stato “tradito” in fase costruttiva; gesto nichilista e catartico, che se da un lato materializza icasticamente il totale e violento rifiuto di qualsivoglia compromesso, dall’altro diviene premessa per un finale sorprendentemente positivo, in cui l’architetto – vittorioso – dominerà romanticamente la scena osservando la città dall’alto del Wynand Building, finalmente ultimato seguendo fedelmente il proprio progetto. L’architettura si è sempre inevitabilmente dovuta confrontare con la figura dell’autore, non soltanto in epoca moderna, laddove – come già rilevava Zevi – il ruolo delle personalità ha acquisito una funzione preminente nella critica e nella storiografia dei movimenti artistici1, ma anche più in generale in epoche più remote, al punto che in numerosi casi si è parlato di una “storia degli architetti”, parallela e nettamente separata dalla “storia dell’architettura”2. La figura dell’architetto/autore, pur con modalità differenti nelle diverse epoche, ha costantemente alimentato la propria riconoscibilità e la propria legittimazione, coltivando addirittura in alcuni casi una privilegiata autonomia, in qualche modo sopravvissuta – e anzi rafforzatasi – nei giorni nostri, con l’emersione, negli ultimi decenni, di una dimensione fortemente mediatica dell’architettura. Il fenomeno di progressiva affermazione individuale di coloro che sono stati sbrigativamente definiti “archistar” dalla vulgata mediatica, con gli inevitabili effetti di omologazione che esso ha indotto a livello globale sugli immaginari, sulle pratiche professionali e sulle prassi concorsuali, ha di fatto ampiamente alimentato il radicamento di una certa idea di architettura come disciplina essenzialmente legata alle intuizioni formali di figure uniche, sempre più spesso rappresentate come confinate nel campo della pura espressività artistica, identificate con linguaggi fortemente iconici e globalizzati e quasi vincolate alla reiterazione pedissequa dei propri stilemi3. È una forma di rappresentazione dell’architettura, e soprattutto di celebrazione dei suoi protagonisti, che ha indubbiamente un notevole successo, che ne svincola spesso quasi del tutto gli esiti dal campo dell’oggettività e della falsificabilità e ne riconduce gli sviluppi ad una forte riaffermazione di autonomia tutta interna alla disciplina, la quale diviene in tal modo – con riferimento esplicito alle intuizioni di Maturana e Varela – sostanzialmente autopoietica4, in grado cioè di riprodursi ed evolvere unicamente all’interno del proprio dominio specifico; ma è soprattutto un’interpretazione disimpegnata della pratica architettonica, vista come semplice conseguenza e non come strumento di costruzione del dibattito politico, con il quale il confronto


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aperto è di fatto programmaticamente rifiutato e le cui forme espressive sono ritenute sostanzialmente incompatibili rispetto a quelle dell’architettura stessa, la quale può semmai semplicemente aspirare a plasmarne in termini fisici gli esiti finali5. Ciò che colpisce però è che questa decisa riaffermazione della figura autoriale in architettura, a cui si è assistito a partire dall’ultimo scorcio del secolo scorso, nasca proprio in concomitanza con l’emergere di mutamenti di segno diametralmente opposto, quali i sempre maggiori impulsi alla frammentazione del processo progettuale o la più generale crisi dell’architettura come professione liberale6. Già all’inizio degli anni Novanta infatti Dana Cuff, nella sua minuziosa ricostruzione delle dinamiche professionali, aveva messo in luce quanto la celebrazione della figura unica, quasi demiurgica, dell’architetto – ancora ampiamente consolidata e praticata nell’accademia e nelle organizzazioni professionali – fosse ormai del tutto illusoria e parecchio lontana dalla realtà della professione7. Quanto è ancora attuale – potremmo allora oggi chiederci – l’idea che il progetto di architettura sia un processo pienamente controllabile, nei suoi esiti formali, dal proprio “autore” attraverso l’autorevolezza della propria competenza tecnica? La moltiplicazione degli attori legati alle trasformazioni territoriali, la circolarità e la burocratizzazione dei processi decisionali, la crisi della rappresentanza politica e l’emersione di nuove forme di partecipazione civile descrivono oggi uno scenario applicativo in cui il sapere disciplinare dell’architettura si trova sempre più spesso ad intervenire in modo parziale, reindirizzando e correggendo, piuttosto che guidando saldamente i processi attuativi; in particolare nel momento in cui le tematiche emergenti dello sviluppo sostenibile, dell’ecologia, del riciclo ecc. si sovrappongono stabilmente alle istanze più tradizionali con nuove forme di razionalità e nuove retoriche di legittimazione, non di rado acriticamente accettate alla stregua di imprescindibili imperativi morali. La facile tentazione della deriva tecnocratica È significativo il fatto che sempre più spesso – nella letteratura scientifica e in quella divulgativa, nei bandi di concorso e nelle relazioni di progetto – le trattazioni relative alla trasformazioni della città o del territorio sentano l’esigenza di esporre l’elencazione di un certo numero di indicatori ambientali: tassi di consumo e di impermeabilizzazione del suolo, percentuale di popolazione urbana, ecc., l’elenco potrebbe essere


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lunghissimo e arrivare a parametri estremamente sofisticati, che nel loro complesso costituiscono una base di conoscenza straordinaria e oggi ormai indispensabile per chiunque operi o assuma decisioni sul territorio; ma accanto all’uso effettivamente scientifico di tali indicatori vi è spesso la sensazione che la continua tensione verso il dato quantitativo svolga oggi in qualche modo anche un ruolo più rassicurante di oggettivazione delle proprie argomentazioni e, forse, di parziale deresponsabilizzazione delle proprie scelte. Un nuovo paradigma di sviluppo di portata epocale sta effettivamente investendo le società, le città, il territorio, i cicli produttivi, gli stessi stili di vita come mai prima d’ora era accaduto, e i concetti con cui esso viene veicolato (re-cycle, resilienza, smart city, ecc.) rappresentano l’esito dello sforzo di traduzione in termini misurabili e comunicabili dei limiti entro i quali possiamo ancora concepire i nostri modelli di sviluppo. Le grandi linee strategiche della politica ambientale, così come gli accordi internazionali che da esse derivano, definiscono e ridefiniscono nel tempo obiettivi concreti da raggiungere e superare, parametri di soglia e indicatori fisici cui è delegato di fatto il ruolo di ipostatizzare e rendere in qualche modo misurabile e verificabile il progressivo avvicinamento collettivo a un “dover essere” via via più virtuoso; parametri, questi, che assumono al tempo stesso, nel concreto, caratteri sempre più prossimi a veri e propri indici di premialità, su cui innescare processi di competitività locale e su cui ridistribuire – in ultima analisi – future risorse e opportunità di sviluppo. I processi produttivi, i sistemi infrastrutturali, il governo del territorio, i sistemi dei servizi, pressoché ogni sfera della società è oggi investita da un processo profondo e ineludibile di revisione del bilancio tra risorse impiegate, beni prodotti (materiali o immateriali) e scarti accumulati; una strada questa – in verità ancora in gran parte da compiere – che appare oggi più che mai necessaria. Ma questa generale trasformazione, che interessa anche gli stessi statuti disciplinari, sta portando parallelamente, come effetto collaterale, ad una revisione dello stesso ruolo dei progettisti. Il ricorso costante alla quantificazione e alla parametrizzazione, il ruolo preminente della sostenibilità come paradigma oggettivante, le possibilità pressoché illimitate di incrocio e sovrapposizione delle banche dati informatizzate stanno gradualmente spostando il baricentro della qualità architettonica, dal controllo degli esiti


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fisici delle trasformazioni all’efficacia del governo dei relativi processi decisionali8. Fenomeno questo che assume una rilevanza particolare proprio con riferimento ai temi del riciclo, nel momento in cui – estendendone i confini dalla dimensione più ovvia dei beni mobili e delle relative filiere produttive a quella, propriamente architettonica, della città e del territorio – paiono emergere alcune significative problematiche, legate, in sintesi: – alla qualità spaziale degli insediamenti: laddove si registra un progressivo allontanamento dalla dimensione morfologica dei fenomeni insediativi, a fronte di un’interpretazione sempre più astratta e quantitativa dei parametri e degli indicatori di qualità dell’insediamento; – ai tessuti attivi della città e del territorio: laddove i temi del riciclo risultano nella maggior parte dei casi ancora declinati sulla tematica del semplice riuso e della patrimonializzazione e quasi mai su reali processi di rigenerazione profonda dei tessuti insediativi a partire dal capitale fisso territoriale; – alla forme stesse della rappresentazione: laddove il ricorso ad altri linguaggi (della matematica, dell’informatica, ecc.) tendenzialmente molto più astratti – pratica frequente nella nostra disciplina, che spesso assume e metabolizza saperi e forme espressive altrui – pare non corrispondere in questo caso ad una vera ricerca linguistica, ed è forse in buona parte responsabile di una progressiva perdita di centralità delle questioni morfologiche all’interno della cultura progettuale legata a questi temi. Quale figura di autore emerge dunque da questo quadro? Ovvero, in quali termini può essere oggi ridefinito disciplinarmente il rapporto tra una legittima aspirazione al carattere autoriale del progetto (tra la sua possibilità cioè di aderire ad un preciso disegno preordinato e riconducibile a soggetti definiti e delegati ad assumere decisioni) e la sua dimensione politica (la sua capacità cioè di diventare tavolo comune tra una moltitudine di attori e portatori di interessi, luogo della contrattazione ed esito di una stratificazione di posizioni più o meno formalizzate, ma il cui esito difficilmente è definibile a priori)? Alcune questioni aperte intorno ad un ruolo ambiguo Il quesito posto pare ruotare intorno a tre possibili condizioni che il progettista può assumere – autore, interprete o regista – ed ai relativi intrecci tra essi, i quali individuano nel loro complesso alcune problematiche aperte.


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1. Autori o interpreti? L’autore non è esterno all’opera, ma vi svolge un ruolo al pari degli altri personaggi In una famosa conferenza del 1968, destinata a destare parecchio scalpore, Roland Barthes profetizzava la “morte dell’autore”9; una posizione radicale che nasceva principalmente da un impianto ideologico (l’autore come espressione della cultura borghese occidentale, nata con il Razionalismo e l’Empirismo). Nell’invito a sostituire la figura dell’autore (écrivain) con quella del copista (scripteur)10 Barthes rivendicava una necessaria “liberazione” del testo dalla presenza autoriale e dai limiti interpretativi che essa impone, ma soprattutto si inseriva nel filone di una ricerca più ampia, volta da più parti a svincolare la consistenza dell’opera dalle intenzioni stesse del suo ideatore (pensiamo ad esempio al Livre di Mallarmé) e di “aprirne” indefinitamente il campo delle possibili interpretazioni (è di soli pochi anni precedenti il saggio di Umberto Eco sull’opera aperta). Ma la posizione forse più interessante in questo senso è quella, apparentemente analoga ma in realtà distante negli esiti, che solo l’anno successivo Michel Foucault espone nella conferenza Qu’est-ce qu’un auteur?11, nella quale propone di sostituire alla figura dell’autore, ambigua perché esterna all’opera, quella della “funzione-autore”12, emergente “archeologicamente” dalle formazioni discorsive e in grado di restituire un complesso più articolato di fenomeni, ideologicamente non neutrali, che sono responsabili del prodotto testuale. La figura autoriale che ne discende – deceduta e sostituita da un semplice scrivano, oppure oggettivata nella funzione-autore – non è più esterna e precedente, ma interna e immanente all’opera e vi prende parte come un qualsiasi personaggio («che importa chi parla?» è la citazione di Beckett che apre il testo di Foucault); è in un certo senso, tornando al nostro campo, una forma di autorialità contrattata, che utilizza i propri strumenti per orientare dall’interno il percorso, ma accetta di venire a patti con scostamenti imprevisti dalla direzione iniziale, e che – soprattutto – si pone come strumento di mediazione culturale. È ancora il noto passaggio da “legislatori” a “interpreti”, di cui ha parlato ampiamente in seguito Bauman13, ma a differenza di quanto da lui proposto non si tratta necessariamente di una “decadenza”; gli intellettuali mettono la propria competenza al servizio della comunicazione tra soggetti sovrani ed accettano che l’esito del progetto possa essere non necessariamente un “oggetto” fisico o uno spazio interamente rispondente all’immagine iniziale, ma piuttosto un processo


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aperto negli esiti, di cui occorre imparare a riconoscere e indirizzare le forme e i rituali collettivi14. 2. Autori e registi. Il progetto di Re-cycle si svolge in una dimensione prevalentemente narrativa Una seconda questione, strettamente connessa alla figura dell’autore, riguarda le forme espressive proprie del linguaggio del Re-cycle. Il processo di riciclo, nel recuperare scarti e lacerti di altri cicli di vita, comporta inevitabilmente una ricodifica semantica degli elementi riciclati. Lo stesso oggetto, nel passare da un ciclo di vita all’altro, muta di significato e si ripropone con una veste inedita il cui significato discende, più che dalle caratteristiche stesse del singolo elemento, dalle modalità di ricombinazione con le restanti parti del progetto. È ciò che conosciamo sin dall’antichità, con il reimpiego sistematico degli elementi architettonici di spoglio, e che l’Arte Povera ha poi trasformato in istanza poetica. Esiste cioè una intrinseca dimensione narrativa del progetto di riciclo ove centrale diviene l’operazione di montaggio, nel senso cinematografico del termine, ovvero il récit come è stato definito da Yves Lavandier15: in opposizione alla storia, che è cronologica e oggettiva (o almeno tende ad esserlo), il racconto è arbitrario e dichiaratamente soggettivo; molteplici racconti possono essere originati da una medesima storia e se lo storytelling diviene in questo senso una reale operazione progettuale, capace di attivare processi di trasformazione attraverso la risignificazione di luoghi e oggetti, il progettista si identifica in un certo senso con la figura di un narratore/regista, in grado di imbastire trame mutevoli a partire da un “canovaccio” dato. 3. La perdita dell’“aura”. Il progetto non è una reliquia, l’architetto non è un liturgista Se il riciclo significa prioritariamente rimettere in gioco e risignificare l’esistente allora chi è effettivamente l’autore ed entro quali limiti si concretizza il suo ruolo? Il processo di continuo recupero dell’esistente, oltre che alla dimensione narrativa, è legato ai concetti di autenticità e di proprietà intellettuale. Da questo punto di vista il Re-cycle diviene per certi versi simile ad un processo open-source, in cui il libero accesso alle sorgenti e la possibilità di manipolarle a piacimento relativizza di fatto la figura dell’autore, ricollocandolo all’interno di una comunità autoriale. La produzione di contenuti diviene allora simile in certi casi ad un esercizio di


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scrittura collettiva – come avveniva nelle round robin stories di fine ‘800 o negli esperimenti letterari futuristi – in altri ad un’operazione di interpolazione, come è accaduto innumerevoli volte in campo musicale. L’autenticità, posto che abbia ancora senso definirla come tale, non riveste più alcun valore, come già proclamavano le opere polemiche di Piero Manzoni; si ridimensiona parallelamente il rischio di estetizzazione e sacralizzazione dell’oggetto e di celebrazione della rovina in quanto tale. Illuminante diviene allora in proposito ciò che Walter Benjamin definì come la «perdita dell’aura»: è nel momento in cui viene meno il valore dell’autenticità che l’arte ritrova il proprio fondamento politico16. I temi qui rapidamente evocati individuano in maniera molto parziale solo alcune delle principali problematiche connesse al rapporto tra autorialità e politica, e intendono soprattutto fornire argomenti per una discussione più ampia. A provvisoria conclusione di queste brevi note possiamo solo aggiungere che l’architettura è – per propria natura – intrinsecamente legata alla figura dell’autore, nel senso che non può prescindere (né dovrebbe farlo, probabilmente) da una legittima ambizione ad una precisa volontà di forma, che trova nell’intenzionalità autoriale il proprio naturale riferimento. La condizione contemporanea della pratica architettonica però, soprattutto con riferimento ai temi emergenti del riciclo, della sostenibilità e delle relative retoriche, impone una rinegoziazione dei termini in cui opera la figura dell’architetto. Il progetto, pensato idealisticamente nei termini di una profezia che si autoavvera, non risulta probabilmente più attuale e occorre ridefinire i termini di un’autorialità di forma differente, in grado di esercitarsi non solo sulle forme degli oggetti e degli spazi fisici, ma anche sulle forme dei dialoghi e dei processi decisionali, che su tali oggetti e spazi hanno un’influenza centrale.


129 Note 1. Cfr. B. Zevi, Architectura in nuce, Istituto per collaborazione culturale, Venezia-Roma 1960, p. 108.

11. M. Foucault, Qu’est-ce qu’un auteur? in Dits et écrits, Vol. I, Gallimard, Paris 1984. 12. Ibid., p. 798.

2. Cfr. Ibid. e A. Mangiarotti et al., In nome dell’architettura, Jaka Book, Milano 1987, p. 21.

13. Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a intepreti, Bollati Boringhieri, Torino 2007 (ed. or. Cornell University Press, New York 1987).

3. D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, Allemandi, Torino-LondraVenezia-New York 2011, pp. 17 e 20-21.

14. Cfr. R. Sennett, The Craftsman, Yale University Press, New Haven & London 2008, p. 12.

4. P. Schumacher, The Autopoiesis of Architecture, Vol. I. A New Framework for Architecture, Vol. II A New Agenda for Architecture, John Wiley and Sons, Chichester, 2012. È da notare che lo stesso Schumacher è partner dello studio Zaha Hadid Architects, di una cioè tra le maggiori figure protagoniste dei recenti fenomeni di globalizzazione e spettacolarizzazione dell’architettura. Sul concetto di autopoiesi si veda: H. R. Maturana, F. J. Varela, Autopoiesis and Cognition. The Realization of the Living, Kluver-Reidel, Dordrecht 1980, (ed. or., Editorial Universitaria, Santiago 1972). 5. Ibid., Vol. II, p. 448 e sg. 6. Cfr. C. Olmo, Architettura e Novecento, Donzelli, Roma 2010, pp. 84-85. 7. D. Cuff, Architecture. The story of practice, MIT Press, Cambridge (MA) 1991, p. 77. 8. Cfr. D. Ponzini, M. Nastasi, Starchitecture. Scene, attori e spettacoli nelle città contemporanee, cit., pp. 16-17. 9. R. Barthes, La mort de l’auteur, in Le bruissement de la langue, Seuil, Paris 1984. 10. Ibid., p. 66.

15. Y. Lavandier, La Dramaturgie: les mécanismes du récit, Le Clown et l’Enfant, Cergy 1994. 16. Cfr. W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, Einaudi, Torino 1998, p. 14 (ed. or. Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955 ).


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LO SPETTRO DEL POLITICO. RI-CICLI, OPPOSIZIONI E IMMAGINAZIONE SOCIOLOGICA Federico Boni >UNIMI

Uno spettro si aggira per le nostre città: lo spettro, appunto. I fantasmi sono tra noi, negli spazi e nei luoghi delle vie e delle piazze, e delle nostre case. Cicli e ricicli di edifici, oggetti e persone. A volte ritornano: come rimosso, come memoria, come traccia. Il ri-ciclo nella progettazione architettonica e urbanistica ha a che fare prima di ogni altra cosa con questi ritorni, con queste ri-apparizioni, che hanno molto da dire anche sulle dicotomie oppositive sulle quali si voglia declinare il tema del riciclo. E che hanno anche molto da dire su come la sociologia – o meglio ancora l’immaginazione sociologica – possa dare un contributo per suggerire un ‘certo sguardo’ nei confronti della questione del riciclo di edifici e spazi urbani. Vediamo come. La prima cosa da fare è spendere due parole su quella che viene definita la ‘svolta spettrale’ (spectral turn), una svolta che, a partire dai primi anni Novanta, ha preso sempre più campo in numerosi ambiti delle scienze


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umane e sociali soprattutto nel panorama accademico anglo-americano. Lo ‘spectral turn’ consiste nel considerare le figure del fantasma e della possessione (haunting) come strumenti analitici e metodologici che permettano di superare le più radicate distinzioni binarie, le certezze ontologiche e gli ordini esistenti relativi a consolidati sistemi di sapere/potere. A partire dalla pubblicazione di Spettri di Marx di Jacques Derrida1, la hantologie si è imposta come una contro-ontologia, un modo per dare voce ai ‘fantasmi del passato’ (nel nostro caso, edifici, persone e cose che ci ricordano la loro presenza passata) o agli ‘spettri del presente’ (edifici, persone e cose a cui non viene riconosciuta una vera identità, gli spazi e le popolazioni marginali, i luoghi e i gruppi sociali ‘invisibili’) – in generale, a ciò che le nostre società reprimono o rimuovono, e che torna a rivendicare la propria presenza. Affrontare una analisi della società e dei suoi spazi a partire da una prospettiva ‘spettrale’ non significa credere ai fantasmi, ma aprirsi alla metafora di spazi e individui (del presente o del passato) che sono stati fantasmatizzati, e quindi annichiliti; non significa dunque elaborare il lutto del ‘morto che ritorna’ (contribuendo, con ciò, a ‘normalizzarlo’ e a ridurlo al silenzio) ma aprirsi al suo ascolto, alle sue ragioni – nel caso degli spazi, significa soprattutto farli tornare in vita, conferendo loro nuovi significati anche sulla scorta di ciò che sono stati e di chi li ha vissuti. Ricordando che un aspetto centrale di questa particolare forma di “ri-ciclo” ha molto a che fare col concetto di perturbante (unheimlich – uncanny in inglese), quel senso di ‘familiarità non familiare’, qualcosa che in qualche modo doveva rimanere nascosto, segreto, rimosso e che invece torna a presentarsi. Ma c’è di più. Il perturbante è una crisi di ciò che è proprio: proprio nel senso di ciò che ci appartiene (il nostro stesso nome, la nostra identità, i nostri possessi, i nostri spazi), e nel senso della stessa realtà così ‘come dovrebbe essere’, ‘appropriata’ – in una parola, ‘normale’. È l’irruzione dello straordinario nell’ordinario, una crisi di ciò che è (che dovrebbe, che vorremmo che fosse) ‘naturale’, ‘dato’. È fin troppo facile individuare qui nel concetto dell’unheimlich quello stesso ‘straniamento’ che, a partire dal formalismo russo, passando per autori come Heidegger e Wittgenstein (o Brecht), arriva dritto a certe prospettive delle scienze sociali come l’etnometolodologia (ma non è l’unica), dove la deformazione della realtà e il capovolgimento dell’ordinario in straordinario (e viceversa) divengono i prerequisiti per l’analisi del sociale.


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Del resto, la sociologia è infestata dai fantasmi già a partire dai suoi ‘padri fondatori’, sia nei termini di una metodologia aperta allo ‘strano’ e al ‘perturbante’, sia a partire da quel ‘certo sguardo’2 che indaga tracce passate, spesso rimosse o represse, in una pratica non dissimile da quella dell’archeologo. E dunque Georg Simmel, in primo luogo; ma poi anche Siegfried Kracauer e infine Walter Benjamin, la cui eredità di ‘archeologi’ (o scavenger) della modernità è raccolta in maniera esplicita da Marshall Berman3, che, come Derrida, muove da Marx per mostrare il carattere spettrale dell’esperienza moderna: «tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria» (il titolo del libro di Berman) è la citazione di una frase visionaria di Marx che conferisce agli spazi e ai luoghi delle nostre città un carattere gassoso, fantasmatico; una ‘sublimazione’ che ricorda la rimozione e la repressione da cui nasce il senso del perturbante, uno stato che sembra quasi costituire la versione unheimlich e spettrale della ‘modernità liquida’ di Bauman4. Ma poi la sociologia ha fatto di più, e si è aperta alla ‘svolta spettrale’ propriamente detta, almeno a partire dallo studio di Avery Gordon, Ghostly Matters5 (2008), che si propone di far dialogare la hauntology con l’‘immaginazione sociologica’. Ciò significa, almeno per quanto concerne la questione del riciclo e del riuso degli spazi abbandonati, che il fantasma delle persone e dei loro luoghi è una ‘figura sociale’, e investigare le ragioni e le condizioni della sua presenza può portare in quello spazio «dove storia e soggettività costituiscono la vita sociale»6. Quella proposta da Gordon è dunque un’immaginazione sociologica che dichiara esplicitamente il legame sociale tra il biografico e lo storico, tra l’individuale e il culturale, insomma – in altri termini – tra l’autoriale e il politico (la ‘possessione’ [haunting] è una mediazione, un processo «che unisce un’istituzione e un individuo, una struttura sociale e un soggetto, la storia e una biografia»7), proprio come nella definizione che ne ha proposto Wright C. Mills8: una «qualità della mente» che «permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici nei suoi riflessi sulla vita interiore e sul comportamento esteriore di tutta una serie di categorie umane». E però, l’immaginazione sociologica proposta da Gordon è qualcosa di più: proprio perché prende le mosse dall’hantologie di Derrida, con il suo carattere ‘liminale’, sospeso tra ciò che è vivo e morto, fuori e dentro, reale e immaginario, passato e presente, visibile e nascosto, questa versione fantasmatica dell’immaginazione sociologica si pone come una critica a


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un sistema di pensiero binario e dicotomico, superando quelle stesse ‘op/ posizioni’ su cui si fonda il tema del convegno. Tale immaginazione ci aiuta a comprendere che l’autoriale è (già) politico, e che il politico è (già) autoriale, in linea peraltro con quanto di meglio la sociologia dei processi culturali e comunicativi ha da dirci in proposito. Vediamo. La sociologia della comunicazione ha elaborato da decenni un modello dove a una codifica (la produzione di un qualunque contenuto comunicativo, o di un qualunque oggetto culturale) corrisponde una decodifica, ovvero l’interpretazione o l’uso. L’uso di un oggetto comunicativo o culturale è spesso un ri-uso, un’operazione di ri-significazione, dove all’autorialità del ‘produttore di primo livello’ si affianca quello degli ‘autori’ dei livelli successivi, in un circuito che prevede ‘cicli’ e ‘ri-cicli’ di investimenti di significato e di utilizzi. Un esempio ormai classico è quello di alcune modalità comunicative tipiche di certe sottoculture giovanili, come la sottocultura punk. Una strategia comunicativa per cui sono divenuti famosi i punk è stata quella di prendere un oggetto fortemente connotato come tradizionale e ‘borghese’ e usarlo in maniera innovativa, irriverente e iconoclasta. L’esempio che più spesso si cita per illustrare questa pratica è quello della spilla da balia, usata dai punk come piercing piuttosto che per l’uso per cui era stata originariamente concepita. In altre parole: la spilla da balia era originariamente codificata (e quindi prodotta) secondo determinati codici (relativi alla funzione, al design, ecc.), per essere usata in ambiente domestico (per unire i lembi di un pannolino o quelli di una gonna); un gruppo di persone, riconoscendo in quei codici l’espressione simbolica di uno stile di vita giudicato negativamente (lo stile di vita ‘borghese’), decodifica quell’oggetto in modo totalmente oppositivo, utilizzandolo in un modo inedito e – possibilmente – iconoclasta. In questo senso, il ‘ri-ciclo’ e il ‘ri-uso’ della spilla da balia è decisamente politico; e qualcosa di molto simile avviene in altri ambiti della società, ad esempio nel mondo dell’arte, soprattutto nelle pratiche comunicative delle avanguardie artistiche. Si pensi all’orinatoio di Duchamp, trasformato da umile oggetto del retroscena della vita quotidiana in opera d’arte. In questo caso peraltro abbiamo anche un’autorialità (quell’oggetto è ‘firmato’ da Duchamp, e la sua aura artistica è fuori discussione), ma sempre unita a una dimensione eminentemente politica, di provocazione e di risemantizzazione. E tutto questo vale anche per l’architettura. Allo stesso modo dei modelli


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comunicativi che valgono per i processi culturali e artistici, anche l’architettura costituisce un fondamentale processo comunicativo all’interno della nostra società – una comunicazione a più voci, anche se spesso sembriamo dimenticarcene. Perché bisogna sottolineare (e questo è uno degli intenti del presente intervento) che l’architettura è fatta non solo delle attività degli architetti (quella che qui potremmo chiamare la dimensione dell’‘autoriale’), ma anche delle azioni dei fruitori degli edifici (la dimensione del ‘politico’). L’architettura è prodotta sia dagli architetti che dagli abitanti: dai primi tramite il design, dai secondi tramite l’uso. E nulla vieta che, così come l’architetto può anche essere fruitore, allo stesso modo il fruitore possa divenire in qualche modo architetto. Ad esempio, disponendo dello spazio architettonico in modi diversi da quelli pensati da chi tale spazio ha concepito. Al centro di tale attività degli abitanti degli spazi costruiti sta tutta la dimensione del ‘ri-ciclo’ e del ‘ri-uso’: spazi e luoghi della città possono essere (e, di fatto, sono) reinventati, ri-letti, reinterpretati, ri-usati in modalità magari non previste, spesso non regolate, talvolta ‘resistenti’. Insomma: il politico ritorna, comunque, anche se rimosso o allontanato. E come ritorna nelle pratiche di sottoculture ‘resistenti’ o di artisti dell’avanguardia, torna anche nei luoghi e negli spazi della città e dei suoi dintorni, in un’operazione di destabilizzazione del ‘senso del luogo’. E proprio il ‘senso del luogo’, in questa accezione straniante, è al centro degli studi geografici informati esplicitamente alla ‘svolta spettrale’, che si stanno diffondendo con sempre maggior rapidità. In particolare, è interessante in questa sede sottolineare come le ‘spettro-geografie’ (spectrogeographies9), ispirate direttamente a Derrida, contribuiscano a fare luce sulle dimensioni spaziali e sui processi attraverso cui poter sviluppare, appunto, una vera e propria ‘spettro-politica'10. Il senso di esitazione e di indeterminatezza che si prova di fronte al fantasma diviene uno strumento per esercitare quel ‘certo sguardo’ di cui abbiamo già parlato, e che rende la ‘svolta spettrale’ della geografia umana così vicina a certe prospettive degli studi sociali informate all’‘incanto’, che legge l’ordinario come straordinario – e, di converso, lo straordinario come ordinario. Questa disposizione all’esitazione, all’indeterminatezza e all’ineffabilità non rimane in uno stato di meraviglia affascinata e incantata, ma si traduce in un programma di ricerca empirica, in una vera e propria etnografia sociale, che tanto può contribuire a una seria collaborazione con architetti


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e urbanisti. Come quella portata avanti da Julian Armstrong (2010), che propone addirittura una vera e propria ‘etnografia spettrale’, una sorta di etnografia dell’assenza, un’etnografia delle persone, dei luoghi e degli oggetti che sono stati rimossi, cancellati e abbandonati ai flussi del tempo e dello spazio. Si tratta di ricostruire storie di vita e narrazioni a partire dagli oggetti materiali che sopravvivono alle persone che sono state fantasmizzate, nei luoghi (negli spazi) abbandonati della città. In una tale assenza, l’‘etnografia spettrale’ sceglie come proprio oggetto di indagine la cultura visuale e materiale che rimane libera da tutte le stratificazioni di immagini, artefatti e interpretazioni che caratterizzano gli spazi popolati e dove la circolazione e la fruizione sono ‘normate’. Si tratta di ‘testi fantasma’ (ghost texts), a cui Armstrong propone di applicare una archeology of hauntedness, che all’archeologia foucaultiana affianchi gli strumenti dell’archeologia materiale, per recuperare le pratiche sociali e culturali che caratterizzavano la vita di questi fantasmi dimenticati. Su questo impianto metodologico informato all’etnografia si situa la ricerca di Tim Edensor11, il quale, muovendo da una prospettiva che alla ‘svolta spettrale’ affianca la ‘svolta materiale’, va alla ricerca delle rovine urbane di vecchi edifici dismessi, tra archeologia urbana e archeologia industriale, restituendo allo spazio infestato dai fantasmi di chi lo ha vissuto nel passato la propria mondanità, e individuando le tracce e i segni di ‘assenze presenti’. Le rovine urbane rappresentano l’unheimlich della città, il ritorno del rimosso e del represso urbano che costituisce una serie di memorie ‘alternative’ rispetto alle memorie normalizzate, anestetizzate e commercializzate esibite negli spazi commemorativi ‘ufficiali’. L’etnografia sociale di Edensor è forse quella da cui si possa maggiormente ricavare una suggestione e un suggerimento per avviare un dialogo tra le scienze sociali e gli architetti e gli urbanisti impegnati nel ‘ri-ciclo’ di aree abbandonate, in particolare – in questo caso – delle ex-aree industriali. Edensor è esplicito nel mettere in relazione la ricchezza delle possibili interpretazioni e dei possibili usi delle aree industriali dismesse con l’‘immaginazione sociologica’: lo ‘scarto interpretativo’ tra tali spazi ‘di scarto’ e i loro usi è proprio ciò che permette di aprire spazi a questo tipo di immaginazione. Perché le aree industriali dismesse non sono abitate solo dai fantasmi del passato, ma anche da quelli del presente, in attività ‘alternative’ (resistenti?) che sono quelle dell’avventura (le attività ‘liminali’ dell’illecito e del ‘carnevalesco’, o le attività corporee come lo


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skating e il climbing), della quotidianità (anche solo portando a spasso il cane), dell’arte (lo abbiamo visto nell’esempio di Corpi Urbani a Genova – vedi Favargiotti nel precedente fascicolo –, ma si pensi a tutti i casi di graffitismo e di writing). Tutte queste pratiche costituiscono una risposta ai tentativi di ‘ordinare’ gli spazi urbani, una risposta che mette in gioco un rapporto sensuale e festivo con gli spazi ‘di risulta’. Questi spazi diventano il luogo di una produzione di balletti rituali dove i corpi degli abitanti diventano protagonisti di un uso non previsto e non disciplinato della città, dove anche gli oggetti scartati acquistano una loro agency e vengono rimessi in circolazione – ‘ri-ciclati’, appunto. Se le aree urbane dismesse ci danno la cifra della ciclicità degli edifici, e del loro carattere transeunte, ebbene proprio questa ciclicità può venire studiata nelle pratiche e nella vitalità di tali pratiche a cui essa dà vita. Del resto, il più celebrato studioso di queste pratiche informate alle ‘tattiche’ della vita quotidiana, De Certeau, sa benissimo come la dimensione di questi ‘usi resistenti’ siano legati a doppio filo alla dimensione fantasmatica del ricordo e della memoria: è lo stesso De Certeau12 a sottolineare che «non v’è luogo che non sia ossessionato da molteplici fantasmi, avvolti nel silenzio e che si possono ‘evocare’ o meno. Si abitano solo luoghi popolati da spettri». Di più: «i fantasmi sono gran parte di ciò che fa di uno spazio un luogo»13. I fantasmi sono «fenomeni sociali», e le loro rivendicazioni riguardano «i territori della vita sociale»14. Ne consegue che «i fantasmi sono politici»15. Nel chiedersi «di che cosa è fatto uno spettro?», Giorgio Agamben16 risponde: «di segni, anzi, più precisamente, di segnature, cioè di quei segni, cifre o monogrammi che il tempo scalfisce sulle cose». Ricordandoci che non è solo il tempo a scalfire le tracce sugli edifici, ma anche – soprattutto – le persone. Nell’elencare gli ‘indizi ambientali’ che ci permettono di osservare il rapporto tra lo spazio potenziale (quello definito dalle intenzioni del progetto) e lo spazio effettivo (quello realizzato di fatto dalle intenzioni degli abitanti), Leonardo Chiesi (2010) include tra questi i segni (mediante i quali le persone affermano i propri diritti e rivendicano la loro identità su una porzione di spazio) e soprattutto le tracce, che sono proprio i ‘sottoprodotti’ (gli ‘scarti’) delle attività che vengono svolte all’interno di determinati spazi. Come a dire: non si può dare un programma di indagine sociologica applicata all’utilizzo dello spazio senza fare i conti con la fantasmagoria di tracce e segni che ci ‘parlano’ della vita di chi tale spazio lo ha vissuto e lo vive.


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Dopotutto, nell’andare alla ricerca di tali segni – anzi, segnature –, di quelle tracce (come già del resto facevano i ‘pionieri’ della sociologia), forse potremmo anche scoprire che quelle tracce spettrali parlano di noi. Questo intervento propone di cercare tali tracce sui muri e all’interno degli edifici individuati per un loro ‘ri-uso’, e quindi, in definitiva, nelle rovine e nelle ‘macerie’ della città. Ebbene, la sociologia (o, almeno, quella migliore) ci insegna che è proprio nelle crepe degli edifici in rovina che va ricercata la nostra identità: come ci ricorda Erving Goffman17, «il nostro status è reso più resistente dai solidi edifici del mondo, ma il nostro senso di identità personale, spesso risiede nelle loro incrinature».

Note 1. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993), trad. it. Cortina, Milano 1994.

9. J. F. Maddern e P. Adey, Editorial: spectro-geographies, in «Cultural Geographies», n. 15, 3/2008. 10. Ibid., p. 291.

2. A. Dal Lago e R. De Biasi (a cura di), Un FHUWR VJXDUGR ,QWURGX]LRQH DOOªHWQRJUD±D sociale, Laterza, Roma-Bari 2002.

11. T. Edensor, Industrial Ruins. Spaces, Aesthetics and materiality, Berg, Oxford e New York 2005.

3. M. Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità (1982), tr. it. Il Mulino, Bologna 2012.

12. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano (1984), tr. it. Edizioni Lavoro, Roma 2001, p. 165.

4. Z. Bauman, Modernità liquida (2000), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2002.

13. M. M. Bell, The Ghosts of Place, in «Theory and Society», n. 26, 6/1997.

5. A. Gordon, Ghostly Matters. Haunting and the Sociological Imagination, University of Minnesota Press, Minneapolis e London 2008.

14. Ibid., p. 831-832. 15. Ibid., p. 832, corsivo mio.

7. Ibid., p. 19.

16. G. Agamben, Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, in G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009, p. 61.

8. C. Mills Wright, L’immaginazione sociologica (1959), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1995, pp. 15-17.

17. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), tr. it. Edizioni di Comunità, Torino 2001.

6. Ibid., p. 8.


138 Bibliografia G. Agamben, Dell’utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri, in G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009. J. Armstrong, On the Possibility of Spectral Ethnography, in «Cultural Studies Critical Methodologies», n. 10, 3/2010. Z. Bauman, Modernità liquida (2000), trad. it. Laterza, Roma-Bari 2002. M. M. Bell, The Ghosts of Place, in «Theory and Society», n. 26, 6/1997. M. Berman, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria. L’esperienza della modernità (1982), tr. it. Il Mulino, Bologna 2012. L. Chiesi, Il doppio spazio dell’architettura. Ricerca sociologica e progettazione, Liguori, Napoli 2010. A. Dal Lago e R. De Biasi (a cura di), Un FHUWR VJXDUGR ,QWURGX]LRQH DOOªHWQRJUD±D sociale, Laterza, Roma-Bari 2002. M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano (1984), tr. it. Edizioni Lavoro, Roma 2001. J. Derrida, Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale (1993), trad. it. Cortina, Milano 1994. T. Edensor, Industrial Ruins. Spaces, Aesthetics and materiality, Berg, Oxford e New York 2005. T. Edensor, Mundane hauntings: commutating through the phantasmagoric working-class spaces of Manchester, England, in «Cultural Geographies», n. 15, 3/2008. E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza (1961), tr. it. Edizioni di Comunità, Torino 2001. A. Gordon, Ghostly Matters. Haunting and the Sociological Imagination, University of Minnesota Press, Minneapolis e London 2008. J. F. Maddern e P. Adey, Editorial: spectrogeographies, in «Cultural Geographies», n. 15, 3/2008. C. Mills Wright, L’immaginazione sociologica (1959), tr. it. Il Saggiatore, Milano 1995.


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MAPPE E NUOVI CICLI DI VITA. RAPPRESENTANZA (POLITICA) E RAPPRESENTAZIONE (AUTORIALE) DEI TERRITORI DELL’ABBANDONO Carmen Andriani, Emilia Corradi, Raffaella Massacesi >UNICH

Nuove mappe Il testo che segue avvia un ragionamento sui processi di rappresentanza e di rappresentazione dei territori abbandonati, sottoutilizzati o dismessi. Si riferisce ad ambiti non rappresentati (in quanto a dati, strumenti o prospettive di sviluppo), rimasti fuori dal monitoraggio dei territori attivi, sfuggiti alla mappatura ufficiale, relegati in una condizione di sostanziale dimenticanza. I territori dell’abbandono non hanno rappresentanza politica, dispongono di una rappresentanza sociale debole, non sono intercettati dalle economie dei territori produttivi. La triplice condizione di fragilità si riverbera nell’indebolimento del dato demografico (spopolamento), nell’impoverimento del dato economico (scarsa produttività, decrescita), nella debolezza del dato infrastrutturale (accessibilità insufficiente, inesistente o inadeguata). Questo determina quella JHRJUD±D GHOOD LQHJXDJOLDQ]D1 che proietta sul


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territorio con effetti palesi, il suo uso non democratico. Uno dei primi indicatori, se non il più importante, di questa ‘diseguaglianza spaziale’ è dato da un’accessibilità carente. La condizione di lateralità e scarsa accessibilità (ai programmi economici, politici, sociali), determinano lo stato perdurante di fragilità. La rappresentanza di tali territori attiene ad una responsabilità politica, ovvero alla capacità di stabilire una piattaforma di ascolto che generi forme di cambiamento e nuovi cicli di vita. Riguarda la capacità di stabilire un luogo ed un modo ove possa avere voce la volontà ed il progetto di una comunità, per quanto esigua. Capire come può essere rappresentata e da chi, oltre che da se stessa. Significa mettere a lavoro un progetto che faccia leva su categorie fino ad ora rimaste assenti e poterlo rappresentare in modo adeguato. La rappresentazione attiene alle modalità innovative del ‘mappare’ tale cambiamento, individuando modi, forme e strumenti nuovi di rappresentazione. Una mappa che sia flessibile nel tempo, adattabile alla mutevolezza del cambiamento, ipertestuale al tempo stesso, pone la questione dell’autorialità e ne cambia il senso. Quale è il ruolo dell’autore in questo processo di rappresentazione? Come si rappresenta il ‘cambio di vita’ di una stessa sostanza, materiale ed immateriale, e come può attribuirsi ad un unico soggetto, per giunta esterno ad essa, l’intera responsabilità della rappresentazione? Possiamo ipotizzare una cancellazione del concetto tradizionale di autore o piuttosto una diversa interpretazione del ruolo? Possiamo parlare di più autori? Possiamo identificare gli autori con i soggetti stessi di tale cambiamento? La dimensione della rappresentanza è a-scalare, trasversale per dimensioni e per contenuti, per cultura e per storia. Può condividere gradi di prossimità con strategie politiche e azioni autoriali, ma raramente si confronta con queste. La divaricazione fra l’efficacia degli strumenti disciplinari ed il governo effettivo del cambiamento, vede oggi indebolita l’azione di progetto, rallenta gli effetti delle competenze. È un problema di autorevolezza perduta della disciplina o piuttosto di inadeguatezza di strumenti che faticano ad adattarsi alle nuove condizioni? Se la competenza riguarda un sapere tecnico comunque necessario («come quando chiediamo il parere a qualcuno che sappia veramente di cosa si sta parlando»2) non v’è dubbio che questa competenza necessaria non è mai neutra ma agisce criticamente nei processi di modificazione dei contesti fisici,


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come nei nostri casi di studio. Si tratta di restituire una grande quantità di dati e di rappresentarli criticamente, di rappresentarne la variazione costante e la indeterminatezza degli esiti. La comparazione con altri casi studio confrontabili a scala nazionale, contribuisce a costruire un quadro critico complessivo, a formare sistemi di comparazione coerenti, a disegnare mappe che non siano solo la registrazione cartografica del dato fisico-geografico, ma che contribuiscano ad istruire metodologicamente l’esperienza dell’accesso ad un territorio. Questo uno degli obiettivi della ricerca. Sono mappe che accettano di essere mutevoli, per la complessità dei luoghi indagati, per i cambiamenti nel tempo, per la prospettiva che una pianificazione pubblica e pertanto politica deve accogliere. Allo stesso modo, le indicazioni di progetto che ne conseguono evitano di proporre funzioni indeterminate, raccolgono e rilanciano le spinte innovative che gli abitanti, attori/autori del territorio, esprimono. La mappa così intesa è già una prima azione di progetto. Implica una assunzione di responsabilità. Può diventare uno dei luoghi e dei modi dove prende voce la istanza di una comunità – e di un territorio – fragile. Può diventare uno strumento efficace di comunicazione e di rappresentanza oltre che di rappresentazione. Questa aspettativa orienta la manipolazione del dato, il suo posizionamento, la sua storicizzazione. Obbliga alla scelta di un interlocutore attento ed efficace (nella filiera della rappresentanza politica ad esempio). Influenza le tecniche di rappresentazione. Racconta asincronie di dati e di azioni, descrive perimetri spesso non fisicamente identificabili. L’assunzione di responsabilità comporta infine la identificazione dell’Autore, anche se non convenzionalmente inteso. Nei territori fragili o dell’abbandono, come quelli dell’entroterra sopra menzionati, le modificazioni hanno avuto metamorfosi lente, insieme ai loro indicatori. Lo spopolamento progressivo, la rinuncia a relazioni consolidate, la condizione di sopravvivenza economica, si sono resi responsabili di scelte obbligate dall’emergenza. La dilatazione temporale entro cui è avvenuta questa lenta ma progressiva trasformazione, ha dovuto convivere d’altra parte con la velocità dei cambiamenti economici, reggerne l’urto, in taluni casi soccombere, a dispetto delle grandi potenzialità di cui alcuni di essi dispongono. Nel caso della rete ferroviaria minore, ad esempio, chi scrive ha rilevato che molti rami ferroviari sono obsoleti o sottoutilizzati. Collegano centri minori con


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piccole stazioni isolate, attraversano paesaggi coltivati o in abbandono, trascinano piccoli manufatti e aree limitrofe in attesa di una nuova destinazione. Su di esse possono impiantarsi forme diverse di appropriazione spontanea, possono attecchire usi e consuetudini portati fuori dalla sfera privata e messi a comune in uno spazio condiviso. Se ciò avviene, questa è già una azione di progetto degna di essere rilevata. Le infrastrutture minori possono essere abitate, aggregare altre funzioni compatibili, divenire infrastrutture ambientali. Possono stabilire reti di prossimità, mettere in relazione le risorse di ciascuno. Un valore che si aggiunge a quello acquisito con il tracciamento delle infrastrutture veloci. L’integrazione dei due sistemi infrastrutturali, l’alternanza delle due velocità, delle reti lunghe e di quelle di prossimità, segnano il primo passo per una redistribuzione più equilibrata dei territori. Si delinea un quadro di azioni non supportato da una normativa adeguata poiché si trova ad agire su condizioni di cambiamento inedite. È su questo piano che si misura l’efficacia della ‘mappa’ e del suo ‘autore’, la capacità di rilevarne i lenti dinamismi e rappresentarli, di tramutarli in azioni di progetto che prima di tutto agiscano su processi consolidati seppure inadeguati. Non è solo una questione legata al superamento tra globale e locale. Le nuove mappe dovranno registrare realtà a velocità diverse, ricomporle in un quadro equilibrato e complementare, metterle a lavoro in una prospettiva di progetto che sani definitivamente lo strabismo cui va soggetto gran parte del nostro territorio e quella diseguaglianza geografica di cui si accennava all’inizio di questo ragionamento. Oltre gli atlanti Elaborare una mappa è atto descrittivo critico, già sbilanciato verso un obiettivo di progetto. È strumento scientifico ma anche interpretativo delle innumerevoli variabili in gioco. Per questo una mappa è anche narrazione. Narrativa è stata anche l’esperienza degli Atlanti Eclettici che a partire dagli anni Novanta hanno coniugato strumentazione ortodossa e descrizione dinamica delle trasformazioni del territorio. Attraverso la ripresa fotografica e filmica, abbiamo ampliato la capacità di comprensione delle nuove modalità di abitare e di una realtà insediativa in forte cambiamento, di cui ci sfuggivano dinamiche e criteri di modificazione. Non è facile a tutt’oggi quantificare l’importanza, seppur rilevante, di questo contributo. Quanto effettivamente abbiano influito nei processi di decisione anche parziali,


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quanto abbiano inciso nell’acquisizione di consapevolezza, quanto siano diventati una opportunità reale di azione. Di fatto oggi la città, e i nostri contesti più in generale, si trovano a vivere una condizione strutturalmente diversa rispetto a quella di venti anni fa, per certi versi «sembra di vivere una regressione».3 Un aspetto importante del ragionamento sulle nuove mappe qui condotto, obbliga ad un ripensamento in chiave critica di quella stagione, e spinge a domandarci se possiamo considerarci in continuità o in discontinuità con quel modo di rappresentare la realtà e di descriverla, se stiamo nelle condizioni di un aggiornamento o se viceversa ci troviamo nuovamente ad affrontare un cambio strutturale dei paradigmi interpretativi e progettuali. Dalla mappa al progetto Introdurre nel territorio nuovi cicli di vita è un processo oneroso. Recuperare un tracciato ferroviario dismesso, rifunzionalizzare edifici industriali, rigenerare territori a rischio (economico, geologico, ambientale), restituire all’uso i frammenti di territorio fortemente degradati o abbandonati o depauperati e resi inaccessibili, richiede investimenti impegnativi e le risorse economiche non sempre sono disponibili o accessibili. Una possibile strategia operativa potrebbe suggerire la progettazione di programmi capaci di “viaggiare” a velocità diverse. Costruire una visione di insieme che riguardi più territori fra di loro omogenei, deve garantire un orizzonte di riferimento alla lunga distanza, sia spaziale che temporale. È all’interno di questa visione che possono attuarsi progetti puntuali e a breve termine. È in questo quadro di insieme che possono attivarsi azioni locali a ‘doppio gettito’, immediato e puntuale negli esiti rigenerativi, ma al tempo stesso organico ad un progetto di più vasto respiro sia spaziale che economico. Da questo punto di vista il progetto del nuovo ciclo di vita di questi territori è azione autoriale, nella misura in cui questo significa una assunzione di responsabilità nel processo di trasformazione, e la consapevolezza del ruolo critico, oltre che conoscitivo, del progetto. Non tanto nella costruzione della forma quanto nella formalizzazione degli scenari possibili. Non tanto nel progetto come esito quanto nel progetto come processo, e come individuazione strategica dei temi decisivi. Compito dell’autore è fornire la chiave d’accesso alla complessità dei temi che si rilevano sul territorio e alla conoscenza stessa di quegli ambiti che


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nascosti, privi di visibilità e sottoposti a degrado, non entrano a far parte dei processi di trasformazione. Richard Saul Wurman nel suo lavoro per “l’architettura dell’informazione” (termine da lui coniato nel 1975) si concentra su come il tema dell’accesso (a un territorio, ad una informazione) diventi coincidente con quello della comprensione. Le guide delle città da lui disegnate si occupano in primo luogo di individuare una chiave di comprensione universale attraverso la quale rendere accessibile la città stessa. In questo modo, ad esempio, l’access alla città di Tokyo non si basa sul dettaglio delle mappe ma sul fornire a chi le osserva una chiave di lettura. Riuscire a comprendere, in ogni momento, la propria posizione rispetto ad un punto noto, significa nella elaborazione di Wurman, rendere possibile la scelta autonoma del percorso, dunque l’accessibilità. Il processo di attuazione della trasformazione dovrebbe compiere un percorso analogo, a partire dalla elaborazione della mappa. Costruire una piattaforma d’ascolto, contribuire alla conoscenza ed alla condivisione degli obiettivi, operare una scelta delle modalità di intervento, configurarsi come costruzione di una pubblica consapevolezza segnano la differenza sostanziale fra la mappa-catalogo e la mappa-progetto.


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Se l’azione di censimento di materiali e di luoghi, è comunque un passaggio importante della ricerca Re-cycle Italy (come se il puzzle dei tanti luoghi sui quali è necessario intervenire, nella sua complessità, componga una enorme “garbage ball” dalla quale estrarre “pezzi” di cose da nominare), pur tuttavia non è un’azione sufficiente. Le nostre mappe, che visualizzano l’estensione e l’entità dei fenomeni che stiamo osservando e che sembrano darci la certezza e la sicurezza del dato quantitativo e localizzativo, sono prive di risposte. Fino a quando, almeno, non sono collegate alle necessità peculiari trasmesse dagli abitanti, dalla conoscenza profonda e dalla consapevolezza che questa genera. La produzione di mappe risponde alla necessità di mettere in evidenza l’entità e il peso dei temi indagati, raccontare il confronto tra le strategie operative, mettere a sistema informazioni e dati, restituire la complessità dei territori, elaborare le proposte progettuali. Si tratta di un campo di indagine trasversale, rispetto agli ambiti specifici della ricerca Re-cycle Italy. A nuove modalità di osservazione dei luoghi, a nuove modalità di prospettarne una possibile organizzazione futura, corrispondono diverse necessità nell’elaborare la relativa rappresentazione, che diventa parte del processo di comprensione e di risposte progettuali. In questo senso sembra utile cercare di sperimentare mappe che riescano a collegare il dato cartografico a quello quantitativo, il dato grafico a quello spaziale, l’informazione per la comunicazione a quella per la comprensione e che consentano “l’accesso” al territorio e ai temi di indagine. Dando spazio alla sperimentazione di tecniche di rappresentazione e utilizzando anche, e non solo, gli strumenti tipici dell’architettura dell’informazione. Da un lato abbiamo la necessità di osservare il territorio, la città, i singoli manufatti, da punti di vista inediti per rappresentare ciò che attualmente è nascosto, non cartografato, non rilevato. Realtà di cui il pubblico non si interessa o che il pubblico non gestisce. Dall’altro abbiamo la possibilità di attraversare i territori e comprenderne peculiarità e domande, di suggerire possibili azioni come frutto della selezione di temi e progetti. Una mappa così intesa deve poter rendere evidente qualcosa che attualmente non ha né voce né rappresentanza e possibilmente, tentare di dare delle risposte.


146 Note 1. B. Secchi, Disuguaglianza ed ingiustizia spaziale, note al testo di A. Pizzorno, in A. Pizzorno, P. L. Crosta, B. Secchi. Competenza e Rappresentanza, a cura di C. Bianchetti e A. Balducci, Donzelli, Roma 2013. 2. Ibid. 3. C. Bianchetti, Un diverso campo concettuale, in C. Bianchetti e A. Balducci (a cura di), Competenza e rappresentanza, cit. Immagine Raffaella Massacesi, Recycle, 2014


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AUTORIALITÀ/POLITICA: IL PROGETTO DEGLI EFFETTI Alessandro Armando Michele Bonino, Francesca Frassoldati, Mattia Giusiano >POLITO

La forma apodittica del presente scritto riflette la struttura della presentazione orale richiesta al convegno di Venezia del 04 Aprile 2014. La sequenza di enunciati si propone dunque di definire una posizione con la massima chiarezza e la minima argomentazione – almeno in questa sede. 1. Il progetto architettonico è un sistema di documenti_ Si consideri questa definizione riduzionista: il progetto di architettura è composto da un insieme di oggetti, che sono al contempo materiali e sociali, ovvero dei documenti. Potremmo considerare tra i prodotti documentali che compongono il progetto: disegni descrittivi (schizzi, vision, fotomontaggi, rendering) e prescrittivi (disegni oggetto di approvazione e che costituiscono vincolo contrattuale), contratti, elenchi, testi, firme, timbri… 2. Il progetto-documento è un ATTO ISCRITTO che produce effetti a catena_ I progetti-documenti funzionano come oggetti sociali e come atti iscritti: sono tracce concatenate che producono effetti per via contrattuale.


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Gli effetti di un progetto sono costruzioni, prescrizioni e altre cose non YHUL±FDELOLB L’effetto finale di un sistema documentale di progetto è, a volte, una trasformazione fisica di un luogo (ovvero la sua costruzione). Altre volte è la definizione di una regola cogente (ovvero una prescrizione). Altre volte ancora ha a che fare con effetti latenti e non verificabili, come i cosiddetti “immaginari”. Il processo può essere descritto attraverso la catena degli effetti documentali, dalle decisioni alle costruzioni_ L’insieme di tutte le catene di effetti veicolate da documenti può essere definito come processo (verificabile) di trasformazione fisica di un luogo. L’insieme dei documenti prodotti costituisce l’impianto rintracciabile e agibile di tutte le fasi del processo, dalle decisioni alle verifiche e approvazioni, alle traduzioni attuative, fino ai bandi, ai contratti d’appalto, ai documenti di cantiere e al collaudo. I processi non sono mai lineari, perché sono politici e non solo tecnici_ I processi non seguono mai la sequenza lineare DECISIONE-ATTUAZIONE-PROGETTO-ESECUZIONE perché gli effetti documentali orientati a una azione finale sono continuamente e imprevedibilmente deviati da altri ordini di effetti interferenti. Nessun sistema di norme e procedure è in grado di determinare dall’inizio quale sarà l’effetto fisico di una trasformazione urbana. I progetti-documenti si costituiscono attraverso sequenze di deviazione_ La deviazione di un progetto può avvenire a tutti i livelli: le controversie interrompono la proiezione lineare incarnata nella “vision”, modificando le decisioni, ma più spesso ancora spostando le procedure attuative. I progetti pertanto vengono scritti e riscritti fino all’ultima deviazione che conduce all’effetto finale. Una catena di deviazioni: il parco del Sangone a Torino, 1955-2015_ Ecco un esempio di mappatura della catena degli effetti, applicata a un processo di trasformazione di lungo periodo: sulle ordinate il tempo, sulle ascisse quattro ordini di effetti o azioni tracciabili attraverso prodotti documentali. La classi di effetti sono state ricondotte per semplicità a quattro categorie: decisioni, negoziazioni, documenti (progettuali e autorizzativi), effetti materiali. I pallini sono effetti (documentabili) e le frecce sono relazioni di (causa)effetto_ Lo schema è una semplificazione utilizzata per la mostra Watersheds alla Biennale di Shenzhen lo scorso gennaio, patrocinata da


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questo stesso PRIN Re-cycle Italy: i pallini indicano gli eventi-effettuali e le frecce indicano vari rapporti di causa-effetto (diretti, indiretti, collaterali…). [Effetti/documenti/deviazioni] VS [cause/soggetti/coerenze]_ La descrizione che ne risulta suggerisce tre considerazioni: – Gli effetti sono più importanti delle intenzioni e delle cause. – Gli oggetti (in quanto progetti-documenti) sono più importanti dei soggetti (in quanto attori, progettisti). – Il processo non può essere immune da deviazioni impreviste e non progettate. Dall’autenticità all’effettualità_ Noi arriviamo da modelli epistemologici del lavoro progettuale che si fondano sull’autenticità e la coerenza del soggetto-autore, anche se lungo percorsi di problematizzazione crescente di questo soggetto. Per una fenomenologia dell’impegno: la legittimazione di un ruolo per via soggettiva_ Le declinazioni autoriali dei progettisti-architetti disegnano una parabola di allontanamento dai modelli dell’artista di corte prima, del demiurgo poi, per spostarsi verso figure più “evolute”, come l’architetto-autore nelle sue varianti di promotore del dissenso (Engagé) e del consenso (Archistar), o come l’architetto partecipazionista, che include, interpreta e traduce senza protagonismi… Progettazione cartesiana_ …in tutti i casi l’invarianza è data dal modello cartesiano del progetto, e del progettista, in cui il soggetto è garante del risultato, mediante l’intenzione (individuale o collettiva) tradotta nell’opera. [Procedure/prove /archivi] VS [Intenzioni/valori/immaginari]_ Lo spostamento verso una descrizione di effetti documentali mette in secondo piano le categorie degli attori, degli autori e delle opere, e costringe a misurare le produzioni di progetti con le condizioni vincolanti e oggettivabili che ogni circostanza impone in modo specifico. L’apparente duello con la burocrazia_ Il lavoro del progettista architetto è parte integrante delle procedure, di cui è uno dei produttori e non l’antagonista. Il modello operativo di critica delle istituzioni ispirato alle avanguardie artistiche è pertanto inapplicabile. Il dirottamento della linea intenzionale_ Il lavoro del progettista-architetto non si svolge traguardando il risultato finale come effetto di un’intenzione, ma come il risultato di una catena di deviazioni inscritte


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nelle connessioni documentali (proceduralità, norme, economie, giurisprudenze…). Allargamento del collettivo_ Che cosa vuol dire includere le deviazioni a (t1, t2, t3… tn) nel progetto? Significa allargare fin dall’inizio le implicazioni di una trasformazione a tutte le controversie all’orizzonte, portandole dentro il progetto invece che opponendovisi o forzandole in nome di un’istanza pedagogica o persino etica. Saper raccontare delle buone favole_ Che cosa resta dell’autorialità? Resta la competenza nel raccontare delle buone favole, ben intrecciate con le probabili deviazioni, e tracciando in anticipo le catene di effetti, dentro il progetto. Gli ordini di fattibilità vanno disegnati e non delegati alle econometrie. Diacronie_ Una tecnica utile agli autori di buone favole è il progetto diacronico. Disegnare che cosa viene prima e cosa dopo significa includere nel progetto molti ordini di agenti devianti, che resterebbero invisibili se si guardasse solo allo stato iniziale e a quello finale. Panopticon come affabulazione_ Come ogni produzione cartografica, le mappe (al futuro) dei progetti traducono nello stesso codice referenze di natura diversa e che altrimenti non potrebbero incontrarsi. La riduzione degli effetti alla carta attraverso la traccia del progetto ripresenta le implicazioni in un racconto disegnato. Autorialità architettonica: integrazione, favole, razionalità limitata come stile_ In conclusione e in sintesi, l’architetto autore deve rispondere ad alcune condizioni: – non è mai nella posizione di criticare le istituzioni, di cui è parte integrante. – Può raccontare buone favole (tracciabili). – Esprime un’identità nei suoi limiti di competenza, performance e razionalità: per lui lo stile è quel che riesce a fare e non quel che vuole fare.


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ERMENEUTICA DEL RICICLO. O, PER DIRLO ALTRIMENTI, A MO’ DI PERIFRASI E FUOR DI PLEONASMO, CIÒ CHE SI DEVE RICICLARE È GIÀ IN PARTE RICICLATO Alberto Bertagna >UNIGE

«FFFFOUND! is a web service that not only allows the users to post and share their favorite images found on the web, but also dynamically recommends each user’s tastes and interests for an inspirational imagebookmarking experience!!»: questo il secco ‘about’ del sito ffffound.com. Ad un inconsapevole navigatore del web cui capiti di approdarci quasi per sbaglio – è successo a chi scrive –, il sito appare uno dei tanti contenitori capaci di lasciare sfogo agli immaginari della comunità globale. Così però non è, o almeno non semplicemente: «è sufficiente» – infatti – «fare un breve giro su Google per rendersi conto che è molto di più. Tutti ne parlano e tutti cercano il modo di entrare a farne parte. Richieste disperate di invites, risposte rassegnate di chi ne cerca uno da anni e ancora non l’ha trovato, proposte di baratto con altri inviti e così via. ‘Avresti più chance di uscire a cena con quel tipo di Twilight’, scrive qualcuno, o ‘sono arrivato al punto che pagherei una discreta somma di denaro per un invito’, o addi-


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rittura secondo psicologia inversa ‘Per favore, NON mandate un invito al mio indirizzo’».1 Ecco dunque un primo tratto caratteristico che distingue questo sito, nello sconfinato universo del virtuale, lo spazio dove tutto è accessibile, e solo sacche di censura molto spesso aggirabili isolano ciò che è ammesso: l’esclusività. Statutariamente, chiunque è libero di fruire di FFFFOUND!, ma non lo è altrettanto di contribuirvi. Ad una occhiata più attenta però, forse il sito non è così inflessibile, in questo senso. Ovvero forse è possibile anche partecipare alla definizione della teoria che contiene. E qui certo iniziamo a spiegare anche perché ci interessa così tanto portare questo caso; insomma perché per parlare di teoria del riciclo possa essere interessante menzionare quelle pagine virtuali: FFFFOUND! è – crediamo – un inesauribile produttore di teoria; o, ancor meglio, è la definizione più corretta, rintracciabile oggi su piazza, benché virtuale, di Re-cycle. Ma procediamo per ordine e vediamo di capire a fondo quello che è, questo ‘web service’. Così uno degli ammessi al ‘circolo’: «Graphic design might not work in the white cube, but it flourishes on a white background. A new mutated strain of design blog has evolved: The Randomly Curated Other People’s Images White Background Site, or RCOPIWS. Sites like Manystuff, Monoscope, Your Daily Awesome, and VVORK (among countless others) offer designers and design aficionados a constant flood of typographic morsels, interesting photos, arresting new art, and the like. One such site sets itself apart, notably, from the other RCOPIWSes: the collaborative image-bookmarking site ffffound.com – allegedly, but unconfirmed, initiated by online fiend Yugo Nakamura. I started using ffffound last week, and it’s quite a fascinating place, really. The idea is that you bookmark images. Yup, that’s pretty much it. Like flickr, your account on ffffound consists primarily of a series of images, presented in chronological order with regards to their post date. Unlike flickr, which is geared towards sharing personal photographs, ffffound users share images they find anywhere on the web».2 On-line dal 18 maggio 2007, il sito è dunque – materialmente – nient’altro di quel che, come detto poco sopra, appare al primo sguardo: un contenitore di immagini, seppur selezionate e di alta qualità. Tecnicamente, almeno per i fortunati iscritti, funziona così: «The layout ffffound employs looks simple, but the bookmarking technique is eyebrow-raisingly sophisticated: the site furnishes you with a bookmarklet which will highlight all of the images on a page with a blue border. You click the one you want,


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and it is then replaced by an amusing graphic that says ‘FFFFOUND!’ in amphetaminic chalkboardesqe handwriting. Ffffounds’ bookmarklet only highlights images that are within a predetermined range of scales; this prevents you from accedentally posting 5-pixel-square site navigation images. The whole bookmarking process is remarkably unobtrusive, because you aren’t whisked back to ffffound, and you can keep using the site you are on. All of the stuff you post ends up on your page. Each image has three other images associated with it, randomly, chosen from the images you (and anyone else who has posted that image, as identified by a hash of the URL) has already posted. This results in a constant churn of new visual shit, both for users of the site and for casual browsers».3 Siamo insomma di fronte, quando apriamo il web e ci sintonizziamo su ffffound.com, ad un vero e proprio circolo ermeneutico, per dirla prima con Dilthey e poi con Gadamer (sicché, il nostro, almeno speriamo, apparirà finalmente appieno un testo scientifico).4 Se accettiamo che, in quanto fenomeno, il riciclo sia passibile di teoria – o meglio di teorie, dal momento che nel caso del ‘fisico’ di cui trattiamo (sia esso oggetto, edificio, paesaggio, ecc.), siamo sì in grado di validare predizioni astratte attraverso sperimentazioni concrete (attraverso progetti), ma non siamo quasi mai in grado di provare né una contemporaneità né tantomeno una successione di verifiche, così da escludere che ne esistano altre, di teorie, che almeno sulla carta restano così equipossibili anche se magari opposte nelle ipotesi o nelle congetture iniziali – dobbiamo accettare anche l’eventualità che le nostre teorie, quasi come le ali dell’Angelus Novus di Benjamin, mentre provano a costruire modelli della ‘realtà del riciclo’, siano continuamente spinte da un vento capace di trascinarle anche verso una pratica futura diversa da quella predetta.5 E questo ci porta a ciò che qui si vuole sostenere, e cioè che il riciclo abbia in sé, come fenomeno, un qualcosa che, ontologicamente, rende di fatto impossibile una teoria. Un qualcosa che ci costringe di fatto a rapportarci ad esso con cronache, più che con teorie, perché più consone ad un vento che soffia continuamente novità sul reale; e dunque ad esserne semplici testimoni, o al limite proporci come capaci narratori delle sue storie, o acuti giornalisti. Frustrante, per dei progettisti, certo. Epperò forse proprio FFFFOUND! (da cui abbiamo mosso e che – né sembri ora questa un’incoerenza interna al nostro ragionamento – come detto costituisce una perfetta teoria del riciclo) ci permette di capire perché, in fondo, pur


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essendo giornalisti si può essere anche progettisti. Alla Koolhaas, magari, per intendersi. FFFFOUND!, dicevamo, è un perfetto circolo ermeneutico. È un portale, aperto ai «browsers» anche se in qualche modo a loro anche chiuso, perché riservato su invito ai veri «users», in cui vengono quotidianamente depositate immagini (almeno nelle intenzioni del fondatore del sito) di alta qualità, non tanto o non solo in quanto di buona o pregevole fattura tecnica ma proprio perché selezionate da una – chiamiamola così – élite. Come semplici fruitori, noi comuni utenti possiamo scaricare le singole immagini, o scorrere più o meno attentamente le sequenze montate da altri, altri di cui non sappiamo né nome, né sesso, né età, né provenienza, né professionalità, né interessi. Le nostre possibilità di interfacciarci con tale sistema ‘chiuso’ anche se dinamico non sono molto altro che questo. Non possiamo godere né di commenti né di spiegazioni per le varie sequenze ‘ordinate’ semplicemente – dietro lo pseudonimo, o nickname, che ha scelto di appuntarle, immaginiamo, prima di tutto per se stesso – in una paradossale cronologia atemporale, priva di date. Anche l’entrata o l’uscita da ogni singola sequenza ci è in qualche modo costretta: possiamo selezionare, tra gli ‘abbinamenti’ proposti per ogni immagine, un nuovo rivolo, e risalire nuove correnti. Cos’altro? Chiaramente possiamo immaginare le passioni o gli interessi che hanno guidato le singole scelte. Possiamo cioè anche noi, nel nostro piccolo, interpretare la fenomenologia che ci scorre sotto gli occhi, una fenomenologia in continua, costante, acceleratissima evoluzione. Possiamo, per tornare a Gadamer, accedere all’interpretato grazie alle nostre «pre-comprensioni», ai nostri «pre-giudizi», intendendo per questi – come è di G. – nulla di negativo. La nostra mente di interpreti – abitata da un insieme di schemi di senso, ovvero da una molteplicità di «linee orientative provvisorie» che costituiscono, nel loro insieme, delle preliminari ipotesi di decodificazione dell’interpretato stesso – di fronte a quelle sequenze può comporre, saltando qua e là in un mondo serrato ma dinamico, altre sequenze, tutte personali, inseguendo una propria logica, e costruendo una propria teoria. Ma questo è ciò che fa, tutto sommato, anche la mente dello stesso superuser di FFFFOUND!, ovvero i nostri anonimi, super-eroi, super-teorici del riciclo. Sì, perché su ffffound.com – ancora non lo abbiamo ben rimarcato – non è affatto possibile l’upload. Nessuno carica alcunché. Né commenti, né sensi, né interpretazioni, né, infine, immagini. Nessuno – né i primi


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selezionati da Yugo Nakamura né i tre selezionati da ciascuno di quei fortunati, in una catena potenzialmente infinita – immette qualcosa di nuovo nel web. FFFFOUND è un semplice e continuo rilancio e riaggiornamento, un riciclo, di ciò che esiste già, di ciò che viene, come dice il nome stesso del sito, ‘trovato sul web’; è un semplice «gioco» che, come l’opera d’arte in G., continua a vivere nelle sue infinite realizzazioni e interpretazioni e che, come ogni gioco, ha un primato rispetto ai singoli giocatori, in quanto gode di un’autonoma realtà e consistenza, la quale trascende la soggettività dei singoli giocatori (autori e fruitori). Niente è nuovo, o tutto lo è, potenzialmente o esperienzialmente e dunque nei fatti: in ffffound.com non ci sono né prima né dopo. Ogni sequenza nasce e si nutre con quel che trova anche nel sito stesso, ed esiste già seppur in altra forma, in uno spazio che tende all’infinito (solo su Instagram sono caricate milioni di immagini al giorno). FFFFOND! – magnifico circolo vizioso, per dirla in altro modo con Pierre Klossowski – è allora davvero un perfetto circolo ermeneutico, perché in quel contenitore ciò che si deve comprendere è già in parte compreso. Così, ognuno, semplice o super-utente del circolo, presa coscienza del meccanismo (del sito o del riciclo), disposto a rinnovare le proprie presupposizioni, può partecipare al processo, facendosi interpretans tramite un confronto con l’interpretandum. Ognuno può di fatto costruire – almeno ‘virtualmente al quadrato’, potremmo dire – una propria sequenza. Perché, come ogni circolo ermeneutico, FFFFOUND! non comporta una chiusura dell’interpretante in se stesso, ma una sua programmatica apertura all’alterità: è possibile lasciarsi dire qualcosa dal testo scritto e assieme dirne qualcosa. Perché tutti contribuiscono a FFFFOUND!: quanti caricano immagini nel web; quanti costruiscono le proprie sequenze in diversi gradi di virtualità, viaggiando liberamente attraverso il trovato; quanti introducono un qualsiasi oggetto nello spazio non virtuale, contribuendo potenzialmente al suo riciclo. Noto e/o innovativo; autoriale e/o politico; etico e/o estetico; economico e/o ecologico: le infinite sequenze degli oggetti sul piano reale, e le loro infinite interpretabilità in costante e repentino movimento, così come le immagini sul piano virtuale, possono essere classificate in ogni modo. Classificazioni probabilmente esatte. Forse, da bravi giornalisti, si può però inseguire la quinta domanda inevasa della famosa regola delle 5W: se ‘il chi’ può essere chiunque, ‘il quando’ è in ogni momento, ‘il perché’ in infinite ragioni, e ‘il cosa’ in fondo è il riciclo


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stesso, ‘il dove’ resta ancora in sospeso. Ecco allora l’utilità del nostro sito: in FFFFOUND! tutto è riciclato, e ‘il dove’ che ci si presenta, lo spazio dove il riciclo è possibile, è l’ovunque.

Note 1. M. Impedovo, FFFFOUND! Il sito che ha fatto impazzire il web, arricchire i furbi e spuntare scarse imitazioni, in «Faber», 6 marzo 2013 (www.fabergiornale.it). 2. A. Bohn, Ffffantastic Bookmarking, in «Speak Up», 17 ottobre 2007 (www. underconsideration.com). 3. Ibid. 4. Facciamo riferimento a Wilhelm Dilthey, Origine dell’ermeneutica (1900) e ad Hans Georg Gadamer, Verità e metodo (1960). 5. Un po’ di cultura in pillole può aiutare. Così la Wikipedia italiana alla voce ‘teoria’: «Secondo Stephen Hawking, nel

suo libro Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, ‘una teoria è una buona teoria se soddisfa due condizioni: deve descrivere accuratamente un’estesa serie di osservazioni sulla base di un modello che contiene solo pochi elementi arbitrari, e deve fare predizioni precise riguardo ai risultati di osservazioni future’. Egli prosegue dicendo ‘tutte le teorie fisiche sono provvisorie, nel senso che sono solo ipotesi: non possono essere mai completamente provate. Non importa quante volte i risultati di un esperimento sono in accordo con una teoria, non si può mai essere completamente sicuri che la prossima volta i risultati non saranno in contraddizione con la teoria. D’altra parte, si può smentire una teoria con una sola osservazione che sia in contrasto con le predizioni della teoria’».


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RE-CYCLING CRITICAL AGENCY Ilaria Di Carlo >UNITN

Re-cycle non può essere visto solo come una prassi ecologica e ambientale, è anche e soprattutto un’attitudine politico-estetica potenzialmente creatrice di nuovi paradigmi. Spinge a riflettere sui concetti di soggettività, collettività e quello che in inglese viene definito con un termine difficilmente traducibile, critical agency, cioè la capacità fondamentale-cruciale di agire e scegliere in modo indipendente e libero, secondo la propria unica soggettività vivente in una collettività. Il successo o meno di strategie urbane basate sul riciclo è vincolato a mio parere alla condizione di far diventare il riciclo un tema corale capace di ristrutturare, e se vogliamo tautologicamente, riciclare, il concetto di critical agency: da singola autorialità con le sue proprietà intellettuali e il suo linguaggio estetico, a una forma di partecipazione, interazione e collaborazione di massa con una nuova estetica, l’estetica della scelta o


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della decisione1 di integrare un’emergente visione collettiva del territorio, del paesaggio e della città. È un concetto che si ricollega al pensiero evoluzionistico popolazionista e ci ricorda che non il singolo individuo ma la popolazione, il gruppo, la società sono il mezzo per la produzione di forme. Questa posizione, peraltro, nella storia dell’arte non è né nuova né rivoluzionaria basti pensare che nel XV secolo Leon Battista Alberti, ‘capomastro del rinascimento italiano’2 impegnato a raggiungere un riconoscimento personale attraverso l’affermazione del proprio ruolo come unico e al di sopra degli altri nella costruzione di un edificio, credeva che la creatività fosse un processo sociale e non individuale. 3 Si tratterebbe di considerare il Re-cycle in luce di una nuova struttura ontologica, all’interno della quale il pensiero tipologico, in cui si inseriscono ancora molte delle strategie contemporanee di sviluppo del territorio, venga sostituito appunto da quello popolazionista secondo quelli che Deleuze e Guattari definivano i due contributi fondamentali del Darwinismo in direzione della scienza delle ‘molteplicità’: «la sostituzione della popolazione al posto dei tipi e la sostituzione dei tassi o relazioni differenziali al posto dei gradi.»4 Tale posizione presenta forti legami con le origini del pensiero dinamico sistemico e in particolare con il lavoro di Johann von Goethe, autore de La Metamorfosi delle Piante. Citando Ernst Cassirer, «Goethe ha compiuto la transizione dal pensiero generico, dall’abitudine di pensare alla forma all’interno delle tabelle di genere e di specie decisamente rigide e lineari, all’abitudine mentale della genetica che vede la forma come un processo attivo di generazione, improvvisazione, espressione»5 e riciclo, diremmo noi. Il Riciclo non è e non può di fatto presentarsi come un sistema lineare, tipologico e autoriale, poiché la sua forza risiede proprio nella sua molteplicità e nelle variazioni e differenziazioni che un processo di creazione a sua volta multipla e sociale comporta. Re-cycle è piuttosto un processo di sfruttamento dell’energia accumulata all’interno di sistemi creativi attraverso l’effetto cumulativo di conoscenze e materialità. Una forma di design post-praxis6 e una forma di conoscenza. È importante sottolineare che si è usato il termine variazioni e non varianti, accezione più appropriata al pensiero tipologico, poichè le variazioni implicano una sostituzione di un’identicità visiva con una similarità, infatti, mentre le varianti rappresentano modificazioni di un archetipo/modello


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originale, le variazioni non sottintendono l’esistenza di una primitiva, di una matrice o di un archetipo, indicano piuttosto le differenze distintive di un individuo da un altro della stessa specie. Sopratutto, ritornando all’architettura dalla biologia, incarnano il passaggio dalla tipicalità alla serialità nonstandard7, cioè da una forma di pensiero e di azione chiusa, lineare e autoriale, ad una forma di pensiero che implica una sequenzialità stratificata, collettiva e quindi aperta a possibili infiniti contributi. Questo è forse il fulcro estetico-politico del Re-cycle: una presa di distanza da un’attitudine tipicale/autoriale che viene sostituita da un’attitudine seriale/poliarchica. Si potrebbe far riferimento a quella che Guattari chiama la «decentralizzazione estetica dei punti di vista», una decostruzione delle strutture e dei codici in uso propria di ogni riduzione polifonica delle componenti espressive la cui ricomposizione implica «ri-creazione, arricchimento del mondo e una proliferazione non solo di forme ma di modi di essere»8. Secondo il paradigma ecosofico di Guattari questi assemblaggi organizze-


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rebbero una reinvenzione delle pratiche sociali che restituirebbe all’umanità un senso di responsabilità non solo verso quella componente materiale della vita stessa (il pianeta e i suoi esseri viventi) ma anche verso quella componente immateriale (‘speci incorporee’)9 che costituisce coscienza e conoscenza, rieccheggiando il dantesco verso di Ulisse: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza...».10 La riappropriazione del territorio deve poter passare attraverso un processo di smembramento e ricombinazione a carico della società per poter assumere carattere politico e questo processo è intrinseco nel concetto del Re-cycle. Re-cycle dunque come assemblaggio ecosofico poliarchico e corale per la riappropriazione del territorio e delle sue ‘speci incorporee’. Il mutamento di prospettiva in termini di critical agency porterebbe con sè inevitabilmente un cambiamento in quello che Jacques Rancière definisce «la distribuzione del sensibile»11, cioè nuove forme d’inclusione ed esclusione della collettività nel processo di appropriazione politico-estetica del reale, poichè l’accesso alle differenti distribuzioni del sensibile è lo strumento politico per eccellenza contro il monopolio. A questo si aggiunge che, essendo il Re-cycle una locuzione letteraria ed inevitabilmente anche un’affermazione politica, secondo il pensiero rancieriano sarebbe in grado di per sè non solo di «definire modelli di intervento o di azione ma anche regimi di intensità del sensibile [...], modificando le velocità, le traiettorie e i modi in cui gruppi di persone aderiscono a una condizione, reagiscono a situazioni, riconoscono le loro immagini. Esse [le locuzioni letterarie e le affermazioni politiche] riconfigurano la mappa del sensibile, interferendo con la funzionalità dei gesti e dei ritmi adattati ai cicli naturali di produzione, riproduzione e presentazione».12 Tuttavia proprio questa promettente potenzialità del tema Re-cycle rappresenta anche la sua stessa grande sfida politico-estetica. Affinchè l’auspicata distribuzione del sensibile si sviluppi secondo un nuovo modello di critical agency, il riciclo dovrà riuscire a catalizzare una reinterpretazione ontologico simbolica della presente mappa del sensibile che vede il concetto di ecologia coincidere con l’idea di una natura buona, primigenia, pura e indisturbata, distrutta dalla hybris umana. In quest’ottica ecologica, dove l’ecologia è «il nuovo oppio delle masse»13, il Re-cycle si esaurisce riduttivamente in Re-use, Re-duse, poichè di fatto la cosiddetta


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regola ecologica delle 3R sminuisce il potenziale innovativo e virtualmente sovversivo del concetto di riciclo in favore di una visione più timida e accomodante. La parola Re-cycle invece, di per sé più dinamica e germinale delle altre due locuzioni, può e deve svilupparsi di forza propria. Essa rappresenta l’alternativa auspicata da Žižek: «contemplare la possibilità di un’artificialità ancora più spinta, un materialismo astratto, che crei una dimensione poetico/estetico/politica partendo dal rifiuto stesso e non dal suo, erroneamente considerato, antagonista, la Natura»14: questo sarebbe il vero amore per il mondo. Si tratta di una lettura se vogliamo eterodossa, quasi blasfema che implica un’enorme rivoluzione culturale per una società che considera il ‘ritorno alla natura’ come un aspetto fondamentale del discorso ecologico e sostenibile. Il Re-cycle deve creare un nuovo modello di riconoscimento di immagini in grado di attuare una ridistribuzione del sensibile a livello delle masse. Il Re-cycle, introiettando questo ruolo, diventerebbe quindi il linguaggio di una forma di dissenso estetico capace di approntare nuove politiche e nuove prassi. L’opposizione autorevole vs politico non avrebbe quindi più motivo di sussistere perché, nell’accezione aristotelica di politico, cioè, sociale, il politico ovvero la società diventerebbe autorevole.

Note 1. S. Shaviro, Against self-organization, in «The Pinocchio theory», http://www.shaviro. com/Blog/?p=756. 2. A. Grafton, Leon Battista Alberti. Master Builder of the Italian Renaissance, Hill and Wang, New York 2000. 3. M. Carpo, The Alphabet and the algorithm. Writing architecture series, The MIT Press, Cambridge-Massachusetts 2011, nota 47, p. 140.

4. G. Deleuze e F. Guattari, A thousand plateaus: Capitalism & Schizophrenia, The Athlone Press, London 1999. 5. S. Kwinter, http://vimeo.com/28810672, Proto_E_cologics Symposium, 2011. 6. L. Kallipoliti, Dross City, in «AD-Eco Redux», n. 208, Novembre/Dicembre 2010, Wiley, London 2010. 7. M. Carpo, The Alphabet and the algorithm, Writing architecture series, cit. 8. F. Guattari, Chaosmosis: an ethico-


165 aesthetic paradigm, Athlone Press, London 1995, p. 90. 9. Ibid., pp. 119-120. 10. D. Alighieri, La Divina Commedia. Inferno, Canto XVI, vv. 116-120, Mondadori, Milano 2005. 11. J. Rancière, The Politics of Aesthetics, Continuum, MPG Books, Cornwall, 2004. 12. Ibid., p. 39. 13. S. Žižek, On Ecology, https://www. youtube.com/watch?v=iGCfiv1xtoU. 14. Ibid.

Immagine Un esempio di critical agency autorevole e politico: Ai Weiwei, Farytale, Documenta 12, Kassel 2007. Fairytale è uno dei due contributi di Weiwei per la mostra Documenta 12 del 2007. Per questo progetto l’artista portò 1001 persone (incluso sé stesso) provenienti da tutta la Cina nella città di Kassel, in Germania, persone che erano state scelte attraverso un processo di invito aperto pubblicato sul suo blog. Weiwei disegnò per loro vestiti, bagagli e i dormitori ospitati in una vecchia fabbrica della città e lasciò i partecipanti liberi di girovagare per Kassel per tutta la durata della mostra (tre mesi). Secondo Philip Tinari, curatore del museo Ullens di arte contemporanea di Beijing, il vero e primario obbiettivo in termini di progetto artistico non sono stati tanto i vestiti, le valigie o gli ambienti disegnati da Weiwei, quanto piuttosto l’esperienza dei partecipanti. L’opera di Weiwei ha reso possibile il loro coinvolgimento estetico/politico nel manifestare dissenso nei confronti di un regime come quello cinese, attivando ciò che si è dimostrato a tutti gli effetti essere una ‘distribuzione del sensibile’ come strumento politico contro un monopolio di stato


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SHARING LANDSCAPE: RETI COLLABORATIVE PER I PAESAGGI DEL RIFIUTO Antonia Di Lauro >UNIRC

L’op-posizione autoriale/politico invita a riflettere su un aspetto essenziale del concetto di re-cycle inteso nella sua accezione “politica” di amministrazione e governo dei paesaggi del rifiuto come strategia collaborativa capace di restituire valore (economico, culturale, sociale) ad aree e manufatti la cui condizione di degrado e abbandono compromette la possibilità di avviare logiche territoriali sostenibili. La visione del paesaggio come organismo vivente1, della città come “corpo urbano”2, si pone in analogia con l’idea di nuovi cicli di vita per gli spazi “morti” delle città contemporanee. Hubs di paesaggio, in cui convergono e da cui si generano networks, materiali e immateriali, le città, sature di vuoti, residui, scarti, esito di progressive trasformazioni, diventano un tema principe del progetto di riciclo. La visione biologica insita nel paesaggio conduce a guardare le città come “sistemi complessi”3, la cui qualità è frutto, al pari degli organismi viventi, non tanto dei singoli elementi quanto delle «relazioni


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e interconnessioni dinamiche che intercorrono tra le componenti interne e tra queste e l’ambiente esterno»4. Persone e luoghi generano città “vive”5 attraverso reciproca influenza e scambio di informazioni che permettono, con processi di feedback e auto-organizzazione, il raggiungimento di uno stato momentaneo di equilibrio e dunque l’assestamento delle dinamiche interne al sistema per garantirne l’evoluzione e la crescita in reazione alle trasformazioni dell’ambiente esterno. In quest’ottica, i paesaggi del rifiuto costituiscono la macro-area di intervento dove le relazioni naturali e antropiche risultano interrotte: «le reti oggi sono un intreccio senza ordine, senza connessioni, senza continuità. In natura le reti sono interconnesse, la vita vi fluisce, attraverso di esse la materia e l’energia si trasformano»6. Lo scenario frammentato che percepiamo quotidianamente richiede azioni di rete per il recupero di una dimensione narrativa dei luoghi, in cui riemergano valori identitari, sociali, culturali dissolti dalla modernità, che conducano al riconoscimento da parte degli abitanti dei propri luoghi di vita e alla definizione di scenari futuri sostenibili in cui comunità e ambiente, oggi parti sconnesse, ritornino ad essere un unicum. Il ripristino delle relazioni paesaggistiche nella città costituisce pertanto lo scopo del progetto di riciclo volto a “rivitalizzare” i paesaggi del rifiuto. In tal senso non si può prescindere dal coinvolgimento attivo degli abitanti come componente centrale dell’ecosistema urbano, attraverso cui si attuano interconnessioni e scambio di valori e risorse. Il paesaggio, opera collettiva7, impone di guardare alla comunità che lo crea, lo vive, lo cura. Strategie di rete, incentrate sugli abitanti, sono oggi, implementate dalle Tecnologie di Informazione e Comunicazione (ICT) che ridefiniscono i rapporti tra luoghi, persone e attività: «le reti costituiscono la nuova morfologia sociale delle nostre società e la diffusione della logica di rete modifica in modo sostanziale l’operare e i risultati dei processi si produzione, esperienza, potere e cultura. Sebbene la forma di organizzazione sociale a rete sia esistita in altri tempi e in altri spazi, il nuovo paradigma della tecnologia dell’informazione fornisce la base materiale per la sua espansione pervasiva attraverso l’intera infrastruttura sociale»8. Internet consente un potenziamento delle reti sociali e facilita lo scambio di informazioni favorendo nuove forme di comunità capaci di risolvere problemi e reagire positivamente alle criticità avvalendosi di cooperazione e autorganizzazione. Crowdsourcing, open source, peer to peer utilizzati dalle comunità del free software9 diventano le “armi di collaborazione di massa”10 che, tra virtuale


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e reale, riorganizzano società e luoghi dell’era informatica. Le comunità on line aprono la strada a nuove forme di partecipazione la cui validità è riconosciuta dal mondo delle imprese al design che ne ripropongono i principi. Se come afferma McLuhan «il medium è il messaggio» quello che avviene oggi è l’affermarsi del nuovo paradigma dell’informatica che determina un cambio di mentalità nel modo di rapportarsi al mondo. Dalla co-creazione di progetti sul web il modello “molti a molti” invade lo spazio fisico attraverso la cooperazione di comunità locali e globali che si aggregano spontaneamente per esprimere bisogni e sviluppare soluzioni. Per anni spettatori passivi di trasformazioni imposte, gruppi di persone diventano attori del cambiamento, trovando in azioni di rete, la possibilità, la consapevolezza, l’efficacia del fare. La nuova cittadinanza attiva11 diviene prosumer12 dei luoghi di vita, produttore e consumatore di spazi e servizi. Lì dove amministrazioni ed enti tardano ad arrivare, le risposte pervengono dal basso, affermandosi grazie al nuovo paradigma della condivisione fondato sul consumo collaborativo e riuso sostenibile delle risorse13. Spazi anonimi, infrastrutture e manufatti dismessi non passano inosservati agli abitanti che li subiscono: ignorati dalle politiche top down, restano parte della quotidianità della gente che li attraversa, li osserva, li abita. Azioni di riciclo, re-azioni all’inerzia di sistemi burocratici, si fanno strada a scala planetaria, attraverso pratiche bottom up in cui comunità e individui si riappropriano degli spazi risignificandoli con relazioni funzionali, culturali e identitarie spesso assenti. Di fronte alle macerie contemporanee si ridesta l’ingegno degli abitanti grazie al diffondersi di tecnologie che consentono una comunicazione aperta e paritaria, empowerment di comunità e coesione sociale diventando lo strumento abilitante per rafforzare relazioni, facilitare la nascita di idee e la diffusione di iniziative. Aree marginali, degradate, abbandonate, riconosciute da singoli e collettività diventano beni comuni, punti di incontro sociali, culturali e produttivi; luoghi condivisi sulla rete, attraverso foto, pensieri, emozioni. Itinerari di immagini, suoni, eventi, attività realizzati sui luoghi o associati ad essi riconnettono frammenti urbani sparsi nel mondo e all’interno delle città, attribuendo nuove identità e immaginari ai territori compromessi. Gruppi di individui suggeriscono interventi semplici ed economici per il riciclo creativo degli spazi con azioni improvvisate di auto-costruzione e soluzioni “ad hoc”: occupazioni temporanee ed autogestite, pratiche do it yourself, processi di crowdmapping e crowdfunding generano paesaggi inediti che nar-


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rano luoghi e risorse latenti percepite dagli abitanti. Innovazioni sociali ad opera di “comunità creative”14 illustrano come il riciclo diventa prassi diffusa, cultura di massa che ricompone e assembla in nuove combinazioni gli scarti obsoleti della modernità. Il fermento che emerge dal basso esprime la volontà condivisa di riattivare la materia inerte che ci circonda attribuendole funzioni e valori idonei ai mutati bisogni della società. Aree ed edifici recuperati evidenziano una crescente attenzione verso comportamenti ecologici, attenti e rispettosi dei luoghi, in cui il riciclo è riconosciuto da minoranze comunitarie come risposta alla crisi contemporanea. Nel micro spazio pubblico le comunità creative attuano processi di ricostruzione del «più piccolo modulo della struttura urbana»15. Modelli organizzativi a rete che fanno della diversità un valore, privi di strutture gerarchiche, flessibili e reattivi, basati sul problem solving, consentono alle comunità di riappropriarsi degli spazi marginali e ripristinare reti antropiche e naturali. «L’interazione persona-persona e quella persona-oggetto costituiscono l’elemento principale, tra l’altro spesso dimenticato, per la realizzazione di città o di edifici»16 e dunque la base per il recupero del rapporto equilibrato tra uomo-ambiente, primo passo per nuovi cicli di vita dei luoghi rifiutati. Ciò fa riflettere sull’importanza di queste energie creative provenienti dalla folla che, in linea con la visione biologica della città, assecondano processi di autorganizzazione e forniscono l’input per un paesaggio ecologico e resiliente. Le esperienze bottom up illustrano la strada per attuare cambiamenti efficaci perché condivisi e basati su logiche endogene sostenibili, la cui validità è riconosciuta anche da politiche top down: modelli open governance e usercentered17 trasformano le città in laboratori viventi che sperimentano la gestione condivisa dei processi urbani e considerano i city users come “intelligenza collettiva”18 necessaria per ottimizzare le dinamiche di trasformazione territoriali, sempre più complesse. Obiettivi di vivibilità, qualità ambientale, inclusione sociale conducono ad una visione del corpo urbano che lavora sull’efficienza del proprio “ciclo metabolico”19 riducendo al minimo lo spreco e assumendo il riciclo a norma e consuetudine per l’individuo e la collettività. La città si ricicla equilibrando energia e materia in entrata ed uscita grazie ad una cittadinanza che collabora, erogando e acquisendo informazioni al governo del proprio ambiente di vita. Riportare al centro la comunità come componente “viva” del sistema urbano che favorisce la circolazione di risorse, alla base di continue ricombinazioni e assestamenti di ogni sistema complesso, diventa la strategia del progetto


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di riciclo: fulcro di azioni volte al superamento delle problematiche contemporanee, la comunità è infrastruttura centrale del paesaggio, indispensabile risorsa dei territori compromessi. Valide azioni progettuali non possono prescindere dal coinvolgimento degli abitanti: se in alcuni casi si tratterà di sostenere l’energia creativa e innovativa delle comunità, in altri sarà necessario avviare politiche di sensibilizzazione e partecipazione per favorire senso di comunità e appartenenza ai luoghi, fare emergere bisogni, idee, desideri da cui ripartire. I luoghi del rifiuto, che compromettono “complessità e coerenza urbana”, possono essere rivitalizzati attraverso processi di co-design che riportino gli abitanti al centro di una rete sinergica e collaborativa, in cui servizi, risorse e luoghi sono pensati per soddisfare le esigenze strettamente locali ma allo stesso tempo reinseriti in ambiti di più vasta scala che conducano al rispristino della “struttura” urbana, nella sua unità, favorendo multifunzionalità e interrelazioni. Una rimodellazione plastica dei luoghi, adattabili alle condizioni dell’ambiente esterno, capaci di reagire al contesto globale, in continuo movimento, a partire dalla più piccola componente: gli abitanti. Il progetto di riciclo è processo di amministrazione e governo condiviso dei paesaggi del rifiuto in cui ogni individuo assume il proprio ruolo collaborando al corretto funzionamento dell’organismo urbano. Pratiche ed iniziative attuate da cittadini, di carattere immediato, e programmi più strutturati di coordinamento trovano un punto di incontro nella comunità: principale destinatario e artefice del cambiamento. Strategie di riciclo top down devono supportare e fondersi con azioni bottom up per consentire lo sviluppo di una comunità resiliente capace di assorbire e reagire alle crisi, attivando e condividendo le proprie potenzialità creative, auto-organizzandosi in relazione all’ambiente di vita. In tal senso il progetto non offrirà soluzioni concluse ma predisporrà patterns20, moduli e interfacce che favoriscono l’interazione e la crescita delle attività umane. L’architetto diviene solver provider21 che supporta e indirizza gli abitanti per trasformare potenziali visioni in soluzioni reali. Nuovi cicli di vita dei paesaggi del rifiuto devono considerarsi come processi che consentano l’evoluzione continua e il miglioramento adattivo e flessibile dei luoghi in funzione di usi, bisogni e visioni della popolazione, che conducano a lungo termine all’assestamento e il consolidarsi di spazi anonimi e degradati in luoghi identitari, riconosciuti come beni comuni da una comunità resiliente e creativa, fondamento per processi virtuosi che riciclino l’intera città.


171 Note 1. Il paesaggio come risultato di relazioni antropiche e naturali è stato spesso associato all’organismo vivente, sistema di relazioni in costante movimento. Tra gli altri il Giardino Planetario di Gilles Clemant (2008) e la teoria francese della Mouvance (B. Lassus, A. Berque, A. Roger, M. Conan, P. Donadieu, 1999). 2. R. Sennett, Paura del contatto, in Corpo umano, corpo urbano, in «Lettera Internazionale», n. 118, IV Trimestre 2013. 3. N. Salingaros, Complessità e coerenza urbana, in Antonio Caperna (a cura di), www.tipus.uniroma3.it, 2007.

12. Il termine è coniato da Alvin Toffler in The third wave (1980). 13. Fondamento della sharing economy. 14. Dalla definizione del matematico francese Henri Poincarè «creatività significa unire elementi preesistenti in nuove combinazioni utili». E. Manzini, A laboratory of ideas. Diffuse creativity and new ways of doing, in A. Meroni (a cura di), Creative communities. People inventing sustainable ways of living, Poli.Design, Milano 2006. 15. N. Salingaros, Complessità e coerenza urbana, cit.

4. A. Caperna, A. Giangrande, P. Mirabelli, E. Mortola, Partecipazione e ICT. Per una città vivibile, Gangemi, Roma 2003.

16. Negli scritti di Janes Jacobs è ricorrente l’idea che interconnessioni e attività umane rendano la città “viva”. J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, cit.

5. J. Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Piccola Biblioteca Einaudi, Bologna 2009.

17. Approcci incentrati sui cittadini favoriti dall’uso delle ICT si possono ritrovare nelle politiche Smart Cities Europee.

6. R. Pavia, Eco-logiche, in «PPC Piano Progetto Città», vol. 25-26, 2012, Eco-Logics. Design ed ecologia.

18. P. Levy, Intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Universale economica Feltrinelli, Milano 2002.

7. M. Venturi Ferriolo, Percepire paesaggi. La potenza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

19. Tra gli altri Project Atelier Rotterdam, IABR e James Corner Field Operations, http://iabr.nl/en.

8. M. Castells, La Città delle reti, Marsilio, Venezia 2004.

20. C. Alexander, A Patterns Language, Oxford University Press, 1977.

9. E. S. Raymond, The cathedral and the bazaar. Musings on Linux and Open Source by an Accidental Revolutionary, Snowball, 1997.

21. «Contributing their specificities, such as their capacity to produce visions of what is possible and set in motion strategies to help them materialise (i.e. concrete steps to transform potential visions into real solutions)», in E. Manzini, A laboratory of ideas. Diffuse creativity and new ways of doing, cit.

10. D. Tapscott, A. D. Williams, Wikinomics 2.0. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, BUR, Milano 2010. 11. Secondo la definizione di Henri Lefebvre.


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PER UN'ARCHITETTURA ANONIMA Francesca Pignatelli >UNICH

Posizione Nel catalogo di una retrospettiva al Moderna Museet di Stoccolma nel 1968, Andy Warhol scrive la celebre e profetica frase «Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo, per 15 minuti». L’attivista e street artist inglese Banksy, che ha scelto di non rivelare la sua vera identità al pubblico, l’ha recentemente trasformata in «Nel futuro ognuno sarà anonimo al mondo, per 15 minuti». Nel campo dell’arte questo slittamento tra i due termini “famoso” e “anonimo” riguarda la questione del significato politico dell’opera, del potere della comunicazione mediatica, il tema dell’icona. In Re-cycle si può notare uno slittamento analogo che investe l’autorialità del progetto declinandola in anonimato, e allo stesso tempo ne riconosce e ne riafferma l’ineludibilità, dando luogo a una contraddizione da risolvere. La tesi qui esposta sostiene infatti che attraverso il progetto di Re-cycle


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si pratichi l’anonimato in una duplice accezione: come espressione di un processo collettivo, e come scelta autoriale. Una ipotesi assume, come dato di partenza, che Re-cycle sia a tutti gli effetti una pratica “responsabile” in senso ecologico e sociale, identificando il termine “responsabilità” con “azione”. In quanto pratica progettuale, Re-cycle è qui definito come un’azione puntuale che riguarda il minore, l’ordinario, l’anonimo. Anonimato come espressione di un processo collettivo / anonimato come scelta autoriale A Documenta 7, nel 1982, Joseph Beuys e un gruppo di artisti-attivisti, decidono di intraprendere l’azione 7000 Eichen, ossia 7000 querce. L’azione consiste nell’avviare una grande opera di rinaturalizzazione del territorio della città di Kassel, piantando appunto 7000 alberi di quercia. L’aspetto interessante di questa operazione che vuole applicare su scala territoriale il concetto poietico di “cura”, è ciò che il filosofo Nicola Emery ha definito come la tensione ad uno “spostamento” o “svolta proporzionale” che riguarda non solo il rapporto tra artificiale e naturale in ambito urbano ma anche quello tra un fare autoreferenziale e una concezione altra dello spazio pubblico. Accanto ad ogni quercia viene eretta una stele di basalto dell’altezza di circa 1.20 m, sottratta da una cava di pietre fuori Kassel ed in un primo momento depositata su di un grande prato di fronte al Fridericianum, un edificio neoclassico. Il termine dell’operazione avrebbe così coinciso con lo smaltimento dell’enorme deposito di stele di pietra: alla sottrazione e riduzione delle pietre depositate corrisponde infatti un proporzionale numero di alberi piantati.1 Beuys utilizza il termine Stadtverwaldung, ovvero “rimboschimento urbano”, per definire questa azione, con esplicito riferimento al consueto Stadtverwaltung il cui significato è “l’amministrazione pubblica della città”. L’azione assume una connotazione politica ed è realizzabile solo attraverso un processo collettivo; l’opera non produce di per sé una icona riconducibile ad un autore. Deriva da una scelta diversa Nagelhaus, il progetto di riqualificazione di Escher-Wyss-Platz, un’area urbana attraversata da un viadotto autostradale e situata al centro di Zurigo, oggetto di un concorso di arte e architettura, frutto della collaborazione tra un artista, Thomas Demand, e un architetto, Adam Caruso (Caruso St John Architects). L’accostamento con l’Aktionen di Beuys apre a considerazioni inedite che scaturiscono dal


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confronto reciproco tra i due atteggiamenti e di ognuno di essi con l’arte. Caruso e Demand traggono spunto da una vicenda realmente accaduta, ovvero l’opposizione di Madame Wu e di suo marito alla demolizione della propria casa in Cina, finchè essa non rimane in bilico su una zolla di terra prima di essere distrutta. È uno dei tanti casi di nail house (le cosiddette “case-chiodo”) che sono divenute un simbolo di un problema sociale e politico in Cina: la questione della proprietà privata. La proposta prevede di ricostruire questa casa nel centro di Zurigo per ospitare un ristorante cinese e riorganizzare, attraverso di essa, lo spazio pubblico sottostante il viadotto che invade l’area oggetto del concorso. Nella scelta del progetto si rileva la rinuncia non solo ad un proprio linguaggio espressivo ma anche al «repertorio dei paesaggisti, dell’arredo urbano, delle trame pavimentate, dell’arte pubblica»2. Si tratta di un’operazione di riciclo del senso, più che della materia di cui si compone l’oggetto architettonico, in cui l’anonimato che ne risulta è una precisa scelta autoriale.


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Misurare le distanze: la poetica dell’ordinario La casa di Madame Wu appartiene al mondo dell’ordinario, del minore. Il tema dell’ordinario non è nuovo, come si può affermare che nulla sia nuovo in Re-cycle per sua stessa definizione. Re-cycle rappresenta oggi una forma di post-produzione della teoria (architettonica) e trova nell’As Found, ovvero nella poetica dell’ordinario di Alison e Peter Smithson, un suo antecedente teorico. Cosa è stato As Found? «Una estetica, un modo di guardare le cose per scoprire la bellezza in ciò che è ordinario, quotidiano. Per circoscrivere all’architettura: una capacità di lavorare sull’appropriatezza della costruzione e sulla sua immagine».3 As Found è un’attitudine, è «la tendenza a fare con quello che c’è, a riconoscere l’esistente, a seguire le sue tracce con interesse».4 As Found è l’espressione di un clima culturale che si è instaurato negli anni Cinquanta in Inghilterra tra alcune figure: i già citati architetti e coniugi Alison e Peter Smithson, l’artista Eduardo Paolozzi, il fotografo Nigel Henderson, il critico Reyner Banham. As Found come lettura e interpretazione della realtà, emerge soprattutto attraverso le due mostre londinesi Parallel of Life and Art e This is Tomorrow. Per gli Smithson la dimensione ideologica del fare architettura è stata una componente fondamentale del proprio lavoro che è in effetti sbilanciato sulla produzione teorica, più che sulle opere realizzate, relativamente poche ma significative. Ciò è dimostrato dall’appartenenza e dalla partecipazione attiva a gruppi quali il CIAM, il Team 10 e The Independent Group. È interessante notare quanto i caratteri di semplicità e onestà della costruzione appartenenti al primo Movimento Moderno siano stati una loro una fonte di ispirazione che ha trovato la sua espressione nella poetica dell’ordinario e nel New Brutalism. Quest’ultimo termine è stato coniato dallo stesso Reyner Banham il quale ne ha esplorato la natura complessa, tra etica ed estetica5. Re-cycle come attitudine progettuale e post-produzione della teoria, rivela diversi punti di contatto con queste posizioni del passato ed è in qualche modo chiamato a misurare le distanze da esse, in particolare rispetto a due questioni: lo stato di necessità da cui muove Re-cycle e lo stato di necessità che esprimono le opere di Alison e Peter Smithson giustificando sé stesse oltre le ragioni dell’affermazione di un “autore”; la forte componente ideologica di entrambi.


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Una nuova estetica del reale Re-cycle definisce dunque un campo di azioni che si muovono tra due estremi A e B: A. dissolvere l’oggetto architettonico in un nuovo ciclo di vita progettandone la rinaturalizzazione; B. duplicare l’oggetto architettonico e riciclarlo attraverso il suo alter ego. Le azioni tendenti al caso A si possono ricondurre all’Aktionen di Joseph Beuys e trovano oggi nella particolare condizione della contrazione urbana, un laboratorio privilegiato per la loro applicazione. Le azioni tendenti al caso B fanno riferimento all’idea che il riciclo sia in primo luogo una questione di progettazione. È la tesi espressa da William McDonough e Michael Braungart, autori di testi fondamentali in materia di riciclo nell’accezione ampia che appartiene a questa ricerca.6 Nel passaggio da un’idea di riciclo come subcycle a un’altra più evoluta, come upcycle, anteporre il requisito della riciclabilità in fase di progettazione porta ad un aumento della produzione del nuovo, per avvicinarsi ad


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un modello più simile possibile a quello della natura e basato sull’abbondanza. Questa evoluzione investe la tecnica del costruire ed ha ripercussioni sul piano estetico in quanto Re-cycle non può non confrontarsi con il dibattito in corso circa la dimensione estetica della sostenibilità. Il caso limite delle azioni tendenti a B si può identificare nella figura del “clone” del corpo architettonico da riciclare, come avviene nel museo FRAC Nord-Pas de Calais a Dunkerque di Lacaton & Vassal. Un edificio assolutamente ordinario è introdotto ad un nuovo ciclo di vita attraverso la sua duplicazione; il museo vero e proprio è contenuto nel suo clone perfettamente speculare e il linguaggio architettonico è addomesticato dalla presenza dell’originale. Il ragionamento compiuto fin qui sottende una domanda: il clone sarà in effetti l’alter ego dell’originale? Sarà stato progettato per essere riciclato? Questo caso limite porta inoltre ad un ragionamento legato all’immagine. Si può dire infatti che Re-cycle, nel suo rapporto specifico con il dato contestuale, contribuisca al manifestarsi di una nuova estetica del reale, laddove per estetica si intende senso di appropriatezza. Lo stesso senso di appropriatezza che è riscontrabile nel lavoro di Alison e Peter Smithson e che trova nella Sudgen house la dimostrazione di ciò che Lefebvre definirebbe straordinarietà dell’ordinario. Note 1. N. Emery, /ªDUFKLWHWWXUD GLI±FLOH )LORVR±D GHO costruire, Marinotti, Milano 2007, pp. 210-214. 2. Cfr. F. Garofalo, Processi creativi, in «Domusweb», novembre 2013. 3. F. Garofalo, As Found, in M. Lupano, L. Emanueli, M. Navarra, Lo-Fi. Architecture as curatorial Practice, Marsilio, Venezia 2010, p. 128. 4. C. Lichtenstein, T. Schregenberger, As Found. The discovery of the ordinary, Lars Müller, 2006, p. 8. 5. Cfr. R. Banham, The new brutalism. Ethic or Aesthetic?, Reinhold Publishing Corp., London 1966.

6. Cfr. M. Braungart, W. McDonough, Dalla culla alla culla. Come conciliare tutela dell’ambiente, equità sociale e sviluppo, Blu Edizioni, Torino 2003; M. Braungart, W. McDonough, The Upcycle. Beyond Sustainability – Designing for Abundance, North Point Press 2013.

Immagini 1. Francesca Pignatelli, Rosciano (PE) 2014 2. Joseph Beuys, 7000 Querce, Kassel 1982 3. Adam Caruso e Thomas Demand, Nagelhaus, Zurich 2007-2010 4. Nail house, Chongqing, China 5.-6. Lacaton & Vassal, FRAC Nord-Pas de Calais, Dunkerque 2013 7. Alison e Peter Smithson, Sugden house, Watford 1955–56


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RICICLO. UN ATTO POLITICO DI RE-INVENZIONE DEL MONDO Anna Terracciano >UNINA

Oggi dobbiamo fare i conti direttamente con il globo, senza nessuna delle tradizionali mediazioni. E poichĂŠ tutti i nostri modelli sono stati, GLUHWWDPHQWH R LQGLUHWWDPHQWH GL QDWXUD FDUWRJUDÂąFD FLz YXRO GLUH FKH dobbiamo urgentemente procedere alla reinvenzione della Terra. Franco Farinelli, L'invenzione della terra La mappa e il mondo sono stati i due modelli alternativi e irriducibili, espressione dei luoghi e del desiderio della loro conoscenza, che dentro la storia del loro eterno dualismo hanno costruito la storia stessa dell’intera cultura occidentale mettendo a punto modelli di coesistenza tra il sapere, la tecnica e il funzionamento del mondo. C’è poi una storia recente in cui, una modernitĂ animata dall’ansia del dare i nomi alle cose al fine di conoscere per possedere, è stata costruita dentro una rappresentazione cartografica che ha ridotto il mondo ad una mappa esatta1. Utilizzando un


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linguaggio astratto e codificato ha prodotto quel mito dell’esattezza della mappa stessa, che si è tradotto nella corrispondenza perfetta tra norma e segno grafico. Una semplificazione del linguaggio che è coincisa poi, negli ultimi decenni di questa storia recente, con un progressivo impoverimento del progetto della città e dei suoi spazi. Un mito questo oggi in crisi, perché un metabolismo urbano sempre meno afferrabile, rimescola continuamente materiali e rapporti dentro strutture porose e instabili. L’incapacità di governare tali trasformazioni e di comprendere questioni complesse prive di una spazialità definita, le rendono sfuggevoli e difficilmente affrontabili con i meccanismi della rappresentazione tradizionale. Inoltre, l’incapacità di dare risposte alle dimensioni e al disorientamento prodotto dalla nebulosa urbana, di coniugare uno sguardo unitario ed uno per parti e di comprendere la specificità dei contesti, rendono impossibile immaginare il futuro in maniera definitiva e dimostrativa come invece si faceva nel passato. Occorre un ritorno ad una dimensione narrativa aperta, in cui siano chiari i temi rilevanti e capaci di divenire strutturanti, per cui il progetto del futuro tenda verso quel processo incrementale che, negli ultimi anni, ha stimolato una ricca sperimentazione di nuove forme di rappresentazione non prescrittiva2. Anche la falsa illusione di uno strapotere zenitale e di una straordinaria oggettività della rappresentazione, alimentato da una strumentazione rivoluzionaria (GPS, satelliti, nuove tecniche di fotografia digitale che permettono di vedere sempre più dettagli di un luogo) ha permesso una nitidezza estrema della visione, a cui non è però corrisposta una maggiore comprensione del territorio. Parallelamente, la disponibilità di una enorme quantità di dati per effetto di una diffusione senza precedenti delle reti digitali, ha innescato una molteplicità di linee di ricerca dedicate alla progettazione di nuovi strumenti in grado di leggere, incrociare e restituire descrizioni di elementi, attori, ruoli, relazioni, flussi, attraverso artefatti comunicativi anche dinamici in cui le immagini delle città raccontano gli spazi anche in relazione al tempo. Oggi abbiamo dunque la possibilità di accedere ad un enorme patrimonio di informazioni con cui restituire cartografie e descrizioni sempre più raffinate, ma che talvolta, proprio per l’eccesso di informazioni, hanno inibito la possibilità di letture ed interpretazioni3 capaci di andare oltre tale oggettività. Ed è per tali ragioni, che noi oggi siamo chiamati a confrontarci direttamente con il mondo. Un mondo che però ci appare profondamente diverso da quello che la mo-


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dernità aveva immaginato, poiché nell’ansia di voler controllare tutto ha finito per controllare poco o nulla, consegnandoci una realtà dominata da una enorme quantità di scarti, prodotti finali della dissipazione o macchine urbane funzionali al metabolismo della città e che la città stessa tende ad espellere assieme al sistema di reti e flussi a cui sono agganciate. Scriveva Lynch4 che «le terre desolate sono luoghi di disperazione, ma esse danno anche protezione ai relitti e alle prime deboli forme del nuovo […] sono luoghi per i sogni, per gli atti antisociali, per l’esplorazione e la crescita» e rappresentano quella cifra tutta contemporanea fatta non solo da manufatti e luoghi, ma anche e soprattutto da comunità e relazioni da cui ripartire nella comprensione del mondo. Una cifra tutta contemporanea resa oggi ancor più evidente da una profonda crisi economica, sociale e valoriale che sta investendo le nostre città. Prive di modelli di riferimento finiscono così per disperdersi in una molteplicità di forme e processi difficilmente comprensibili. Una condizione nuovamente cambiata, rispetto alla quale gli architetti e gli urbanisti sono costretti a prendere posizioni senza preconcetti, come in una sorta di apprendimento dall’esistente, che è ascolto ma già ricerca di cambiamento, e che di per esso, è un modo di essere rivoluzionario.5 Anche se siamo dominati dall’incertezza e dall’imprevedibilità, in realtà, non facciamo altro che pensare al futuro. Provare dunque a costruire una JHRJUD±D6 di questi luoghi riportando dentro la mappa una fenomenologia che non chiede di essere dominata ma, ascoltata e raccontata in chiave propositiva; che non cerca di vedere il mondo da un unico punto di vista ma attraverso molteplici sguardi e «non lo rappresenta mai tutto e mai definitivamente, ma propone invece una rappresentazione che non deve escludere la scoperta».7 Riportare dentro questo disegno anche gli attori, che praticando tali spazi, ne trasformano incessantemente la configurazione e il senso diventandone autori al tempo stesso. E ciò diviene possibile solo dentro mappe, che come accade in quei racconti in cui si rimane sospesi tra smarrimento e riconoscimento, nel descrivere dissipazione e scarti, appropriandosene si deformano, nell’incapacità di rappresentare fenomeni complessi e difficilmente decifrabili. La posizione che questo contributo vuole sostenere è che un racconto della città inversa si possa costruire solo dentro quelle immagini vaghe che prendono forma come tramite, tra territori fisici e quelli concettuali8. L’intento è rintracciare quel disegno latente, apparentemente frammentato, disordinato e privo di qualsiasi potenzialità, di provare a incrociare e


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restituire descrizioni di elementi, attori, ruoli, relazioni, esplorando come queste narrazioni si relazionano, e come le convergenze e le divergenze del loro potenziale possono suggerire un luogo per la progettazione9. Si delinea una nuova struttura fatta di nodi, aree di influenza e reti di relazioni, che è la cifra inversa di questo territorio e non semplicemente il suo negativo. Come fossero dei buchi neri, pezzi di territori bruciati rivelano un’altra dimensione spazio-temporale raccontando quell’universo di scarti, assieme ad un sistema di regole e relazioni, che non è più ridurre il mondo ad una mappa. Comunicare l’intensità di un fenomeno è rinnovata attitudine interpretativa che, a partire dall’esattezza dei dati e dentro il rigore del metodo, traccia una mappa della città inversa che è già racconto, poiché ne contiene il pensiero, il progetto e la sua rappresentazione. Disegni necessariamente selettivi per indicare priorità di progetto; inevitabilmente sintetici per produrre evidenziazioni, e densi, perché già indicano quelle traiettorie possibili dentro una visione critica che è già proposizione, e quindi JHRJUD±D GHO ULFLFOR FIU LPPDJLQH . Ed è per questo un atto politico. Chi rileva la cifra inversa del territorio contemporaneo con una intenzionalità chiara, opera scelte mentre disegna, poiché indica già i luoghi, le comunità e le relazioni da cui ripartire per rifondare la città. Quella che si propone è dunque una riflessione su una idea di riciclo che, dentro una dialettica serrata tra teorie e una nuova generazione di progetti, non ambisce a produrre decisioni ed immagini definitive, ma ad indicare quelle azioni capaci di dispiegarsi nel tempo adattandosi alla risorse disponibili, dentro un processo inteso come percorso né prestabilito e né univoco, ma che si ridefinisce durante il processo stesso, e le soluzioni sono instabili, dinamiche, in formazione continua,10 recuperando quella capacità del sapere urbanistico di ricomporre le scelte in un disegno.11 Disegnare geografie del riciclo è quindi risignificazione semantica che lentamente restituisce gli scarti e i suoi luoghi ad una dimensione pubblica e dell'abitare collettivo. E ciò è possibile solo perseguendo quel bene comune e dentro una scrittura collettiva che è sovvertimento di ogni dimensione autoriale, per cui il riciclo è atto politico di reinvenzione del mondo.


183 Note

Plymouth, 2011.

1. F. Farinelli, L’invenzione della terra, Sellerio, Palermo 2007.

10. G. De Carlo, L’architettura della partecipazione, in P. Blake, G. De Carlo, J. M. Richards, L’architettura degli anni settanta, Saggiatore, Milano 1973.

2. C. Gasparrini, Urbanistica selettiva per città resilienti, Relazione al XXVIII Congresso INU, Salerno 2013. 3. S. Boeri, L’Anticittà, Laterza, Roma-Bari 2011. 4. K. Lynch, 'HSHULUH 5L±XWL H VSUHFR nella vita di uomini e città, a cura di M. Southworth, CUEN, Napoli 1992. 5. R. Venturi, D. Scott Brown, S. Izenour, Imparare da Las Vegas. Il simbolismo dimenticato della forma architettonica, a cura di M. Orazi, trad. it. di M. Sabini, Quodlibet Abitare, Macerata 2010. 6. Nel significato attribuitogli da Farinelli: «E la geografia serviva proprio a trasformare la mappa in un discorso, in una versione alternativa, e perciò potenzialmente critica, rispetto a quella spaziale, e percio apodittica della realtà», cit. in F. Farinelli, Le immagini del web: mappe solo in apparenza, su ilsole24ore.com, 11 agosto 2013, http://www. ilsole24ore.com/art/cultura/2013-08-11/ immagini-mappe-solo-apparenza-083659. shtml?uuid=AbfZNEMI. 7. G. De Matteis, Le metafore della Terra. *HRJUD±D WUD PLWR H VFLHQ]D, Campi del sapere, Feltrinelli, Milano 1994. 8. «E ciò avviene attraverso la ricerca di una struttura apparentemente nascosta, non immediatamente visibile, soprattutto non colta dall’immaginario collettivo, ma presente. Il progetto come descrizione si alimenta di immagini vaghe, che costituiscono il tramite tra i territori fisici e concettuali», cit. in P. Viganò, I territori dell’urbanistica, Officina, Roma 2010. 9. R. Brown, Mapping the Unmappable, Knowing the Unknowable, University of

11. P. Gabellini, Fare Urbanistica. Esperienze, comunicazione, memoria, Carocci, Roma 2010. Immagine Anna Terracciano, *HRJUD±H GHO ULFLFOR, 2014. La mappa proposta nasce dalla sintesi di una molteplicità di altre mappe, intese come tante e possibili sequenze narrative di un unico racconto, prodotte durante l’attività del primo anno del Laboratorio Recycle di Napoli: Libera Amenta, Daniele Cannatella, Danilo Capasso, Susanna Castiello, Emanuela De Marco, Cecilia Di Marco, Davide Di Martino, Enrico Formato, Paola Galante, Ottavia Gambardella, Fabrizia Ippolito (responsabile di sede), Massimo Lanzi, Antonella Senatore, Francesco Stefano Sammarco, Ciro Sepe, Sabrina Sposito, Anna Terracciano (coordinamento operativo), Danilo Vinaccia


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Re-cycle è: – residui (di vecchi giornali) trasformati (in variopinta cartapesta); – residui (di carri carnascialeschi) venduti (per nuove feste). Re-cycle è: – tradizione ereditaria e condivisione dell'esperienza (dei maestri carristi); – rinascita (delle maschere e malconce) in sempre nuove forme. Re-cycle é: – gesto di singoli, che adatta una visione collettiva; – business dello scarto, che valorizza un contesto individuale. Re-cycle é: – il Carnevale degli scarti. Il rifiuto è (solo) maschera. Un-mask the space.

UN-MASK THE SPACE


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Annie Attademo >UNINA


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Recycle è Autoriale Il volo di Icaro, installazione di Antonio Paradiso, realizzata con blocchi di Pietra di Apricena. Materia/paesaggio/materia Le cave pugliesi come drosscapes. Recycle è Politico Il Parco Agricolo Multifunzionale degli Ulivi Monumentali, strategia di valorizzazione di una cava dismessa.

DROSSCAPES


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Vincenzo Bagnato, Francesco Marocco, Sabrina Scaletta >UNINA [POLIBA]


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Entro questa nuova condizione di abbandono e sottoutilizzo diffusi, la nostra riflessione tecnica e culturale non può che avere un valore politico. Dobbiamo evitare scorciatoie banalmente politicizzanti, consapevoli che il ruolo di tale riflessione dovrà essere quella di contribuire alla costruzione di un’ipotesi di governo per questi fenomeni che non si esaurisca in esoteriche, autoreferenziali e in fin dei conti irrilevanti riflessioni disciplinari. Pensare di confrontarsi con questi temi a partire da poche – o molte che siano – opere d’autore è ridicolo e disperante. Ridicolo, da un lato, perché c’è sempre spazio per qualche prova d’autore, dentro o fuori un progetto di governo di queste dinamiche di abbandono e sottoutilizzo. La questione è semmai se l’architettura (e l’urbanistica) possano ancora avere un valore civile, contribuendo al governo di un nuova fase del processo di urbanizzazione europeo che faccia seguito alla lunga stagione di crescita e di espansione dell’urbanizzato. Disperante, da un altro lato, perché il riferimento autoriale spesso fa propria l’idea che la messa in evidenza di qualche buon progetto firmato possa dar seguito a un diffuso fare imitativo. Non sono bastati vent’anni d’inefficace esposizione di buoni progetti internazionali di infrastruttura e di paesaggio sulle riviste italiane per capire che per fare buone infrastrutture e paesaggi nel nostro paese è necessario innanzitutto intervenire sui

AFFRONTARE LE CONDIZIONI EMERGENTI DI SOTTOUTILIZZO E ABBANDONO A PARTIRE DA POCHE – O MOLTE – OPERE D’AUTORE È RIDICOLO E DISPERANTE


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processi che li impediscono? (come in relativa solitudine sottolinea da anni Alberto Magnani). A che serve leggere Gilles Clément o Michel Desvigne, se poi si ricade in una progettazione del paesaggio e del territorio a-processuale, formale, autoriale? Il compito della nostra ricerca dovrebbe essere pertanto quello di capire come rendere ordinarie le pratiche del riuso e del riciclo nelle trasformazioni delle città e dei territori italiani, quali procedure ciò richieda, come debba cambiare il linguaggio tecnico (urbanistico ed architettonico), come tutto ciò comporti momenti di riflessione e di lavoro congiunto con differenti saperi. Capire come operare realmente con le centinaia di capannoni abbandonati in un distretto in crisi, o sulle decine di migliaia di cascine ormai giunte alla soglia del crollo nella vasta pianura padana, e non certo su come sviluppare una prova d’autore su uno solo di essi (cosa che, semmai, tutto richiede tranne che una ricerca universitaria). Ciò che serve è un contributo tecnico-culturale sviluppato con grande autonomia dalla politica, al solo fine di dare un contributo responsabile e forte a un possibile progetto politico di governo del territorio, ben sapendo che questo potrebbe anche seguire linee diverse (perché frutto di sconti e mediazioni tra differenti attori e interessi) e perciò fuori da ogni illusione tecnocratica.

Arturo Lanzani, Chiara Merlini, Cristiana Mattioli, Federico Zanfi >POLIMI


190 Non è raro intercettare nella trama delle nostre metropoli i percorsi di persone che alla guida di artigianali ed ingegnosi carrettini, spesso nati dalla mutazione di un passeggino per bambini in funzionale stand per abiti e accessori, dribblano leste il traffico, cariche di cose recuperate dalla spazzatura. Questi percorsi disegnano geografie nella città, giocano in controtempo sugli orari della raccolta ufficiale dei rifiuti attivandosi nelle pause, tra l’abbandono di un sacchetto fuori orario ed il passaggio serale del camion di raccolta, scelgono i quartieri residenziali migliori per il recupero, le periferie per lo stoccaggio, i luoghi ancora marginali ma localmente strategici per la vendita. I garbage markets sono una presenza ricorrente nelle diverse traiettorie urbane quotidiane, che, pur senza averli come obiettivo esplicito, li intersecano come situazioni che hanno molto da raccontare sulla città, sull'informalità, sui consumi, sulle necessità, sull'esistenza di luoghi intermedi, su una pratica. Sul re-cycle. Evidentemente.

GARBAGE MARKET COME TACTICAL URBANISM. STRATEGIE INDIVIDUALI DI RICICLAGGIO, POETICHE D’AUTORE E TRAIETTORIE POLITICHE DEI PAESAGGI DEGLI SCARTI


191 Poeticamente, come ci ha raccontato John Scalan a proposito delle cose (e delle idee) che scartiamo in On Garbage (2005), nella nostra spazzatura si sedimenta la nostra storia, la nostra memoria, la nostra visione del mondo. Un luogo di discarica, letto nella sezione degli strati accumulati, rivela l’archeologia di una società. Se talvolta l'azione consapevole e programmatica può essere riconoscibile nel fare di gruppi organizzati che riciclano cose e spazi, se spesso è un'azione artistica e performativa a rivelare i significati sottesi degli scarti e le forme costruite per accumulo e consumo, il garbage market mette in gioco un sistema di individualità anonime che fanno la città e che misurano le cifre che producono paesaggi e spazi. Negli spazi ove questi scambi si allestiscono, la città trova occasione per attività parallele e sovrapposte a quelle ufficialmente previste, e che, seppur momentanee, sono così ricorrenti di strutturare un tempo. Del resto, ogni spazio pubblico ha il proprio ritmo d'uso e di regolazione che, a seconda del contesto, rivela diverse possibilità di aggregazioni spazio-temporali. Oltre alla dimensione episodica, i garbage market sono una presenza che si è andata via via più consolidando nel paesaggio urbano, che struttura una pratica d'uso e pone e rinnova alcuni interrogativi aperti sulla città. Non è un caso che nell'esplorare la natura architettonica della Città Generica, Rem Koolhaas introduca la nozione di Junkspace (2006). Spazio sovrabbondante, a-gerarchico, spazio di accumuli, comprensibile attraverso un flusso continuo di descrizioni che quasi sembrano sfuggire ad ogni possibilità di essere organizzate attraverso interpretazioni. Nella ricorrenza dei gesti singoli, le azioni di riciclo, minuto, quotidiano, personale, abitudinario, talvolta atavico, definiscono un modus collettivo. Nella sua ricorrenza esso si rivela quale atto politico, gesto che – seppur nella sua individualità – appartiene a processi di smaltimento globali. Emerge con la materia che si sottrae alle discariche, che conta i numeri di un commercio sommerso, che misura le sopravvivenze urbane ed al contempo attiva lo spazio pubblico. Muove materiali che definiscono processi e progetti e dunque la dimensione politica anche in senso normativo, in senso di regola (e visione) da (poter) condividere. Se si allarga lo sguardo, interpretando le strategie di riciclo in una prospettiva transcalare, queste pratiche da un lato individuano spazi per azioni locali, dall’altro determinano i paesaggi degli scarti, con quei loro connotati complessi che li rendono un tema di riflessione attuale, una questione politica.

Cristina Mattiucci >UNITN


192 Il Recycle come il Remix è un’arte ricombinata derivata da elementi provenienti da diverse fonti che vengono mescolati insieme per creare una nuova composizione. L’idea di “riciclare” investe tutti i campi a partire dalla cultura: tutto il nostro patrimonio culturale, a partire da Eschilo passando per Shakespeare fino a Pasolini, ci dimostra come tutti i creatori poggiano, come disse anche Isaac Newton, «sulle spalle dei giganti». L’estetica del campionamento è un’analisi di Remix di arte, musica e nuovi media finalizzata alla costruzione di una nuova forma di discorso che riguarda la cultura in modi che vanno al di là della semplice ricombinazione di base del materiale. In musica l’operazione di Remix, così come il Recycle in architettura è un tipo di legante, un collante culturale – un virus – che informa e sostiene la cultura contemporanea: il materiale di scarto derivante dalla dismissione, da vecchie foto, dalle antiche audiocassette preservano e riassumono il passato. Ma il passato non può essere totalmente recuperato: i ricordi sono continuamente modificati e corrosi dal tempo. Più cerchiamo di preservare la memoria tanto modifichiamo e frammentiamo i ricordi. Tutte le disfunzioni, le dismissioni, i virus, gli errori di assemblaggio o di compressione, le distorsioni e i rumori sono benvenuti in questo scavare nei meandri della memoria e quindi nell’atto di ricordare. Attraverso azioni del comporre come la selettività di senso, l’ubiquità, il taglio, il copia & incolla, possiamo ricontestualizzare il materiale pre-esistente, più o meno come fanno i DJ e i produttori di campionamento per remixare la cultura musicale dance degli anni Ottanta. Il Remix e il Recycle sono operazioni che partono dalla valutazione del materiale di origine e decidono cosa lasciare e cosa omettere, così come aggiungere, il tutto facendo in modo che l’opera di origine rimanga riconoscibile. Ciò significa che grandi parti del “corpo originario” sono mantenute mentre altri elementi possono essere radicalmente diversi. Questo genera una tensione di paternità che sviluppa chiaramente una creatività molto simile tra il remixer e l’autore originario. Il lavoro di remixsaggio dipende strettamente dal riconoscimento culturale dell’autore originario e del suo lavoro. Così come nello A Zed & Two Noughts di Greenaway (che niente e nessuno scompaia), il Remix e il Recycle selettivo, invece, valutano il materiale di origine proveniente da diversi brani o materiali e li ricompongono in modo nuovo senza che si possa mantenere il senso originario del “corpo” ma consentono soltanto di intuirne frammenti ricomposti in una nuova forma. Questo segna una scissione di paternità che si affranca da quella dell’autore di origine divenendo nuova opera soggettiva strettamente legata al riconoscimento culturale del nuovo autore. Il Recycle selettivo, così come il Remix selettivo si offre nel panorama contemporaneo come l’occasione (fallita dal moderno) di costruire un’unica estetica, un occasione di linguaggio universale verso il riscatto dell’ordinario.

REMIX SELETTIVO


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Bibliografia

Immagine

E. Navas, Remix Theory. The aesthetics of sampling, Walter de Gruyter & Co, Berlin 2012.

Ludovico Romagni, Remix selettivo, 2014

Ludovico Romagni >UNICAM


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2

Re-cycle Op_positions I e II raccolgono gli atti dell’omonimo convegno che si è tenuto il 4 aprile 2014 presso l’Università Iuav di Venezia a cura di Renato Bocchi e del Laboratorio Re-cycle. Oltre agli atti sono presenti alcune riflessioni che hanno preceduto e seguito l'incontro veneziano. I due volumi riguardano rispettivamente il primo le due sessioni etico/estetico, ecologico/economico, il secondo le altre due sessioni noto/innovativo, autoriale/politico. Le coppie oppositive (op_positions) hanno avuto lo scopo di generare un dibattito e una presa di posizione (positions) più chiara e incisiva possibile sui modi di interpretare il tema del riciclo negli ambiti disciplinari dell’architettura, dell’urbanistica e del paesaggio. Alcuni contributi sono in forma di manifesto, altri di saggio: i primi sono il risultato di una call interna alla rete di ricerca, i secondi corrispondono sostanzialmente alle relazioni presentate al convegno. Il filosofo Rocco Ronchi, l’economista Ezio Micelli, il critico d’arte Marco Senaldi e il sociologo Federico Boni sono stati chiamati a partecipare in qualità di testimoni di angolazioni disciplinari differenti rispetto a quelle presenti nel progetto di ricerca Re-cycle Italy.

ISBN

euro 28,00

978-88-548-7240-0


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