giorno dopo giorno
Valentina Saccarola
Adottare 18
Il prima A noi genitori adottivi sentire usare il verbo adottare in altri contesti (secondo noi) impropri mette un po’ di disagio. “Adottare un monumento, adottare un bambino a distanza, adottare un cane”… non ci piace per niente. Per noi adottare è una cosa grande, enorme; a noi evoca un complesso e impegnativo progetto che riguarda noi e la nostra famiglia. Sentir banalizzare una esperienza così forte e totalizzante ci fa stare un po’ male. Vado indietro con la memoria, tanto indietro. Mi viene in mente quando ero bambina, il momento in cui un adulto mi ha spiegato cosa volesse dire adottare un bambino. Non ho ricordi precisi ma solo l’immagine di tanti piccoli bimbi con un grembiule
bianco e gli occhi sgranati; ero con mio papà, stavamo aspettando che la mamma facesse la spesa della carne in macelleria; l’avevamo accompagnata in macchina perché la macelleria si trovava in un paese a qualche chilometro da casa. Nei paraggi c’era un orfanatrofio e ci andai con lui; in quell’occasione mi spiegò che erano bambini senza mamma né papà, ma che probabilmente avrebbero trovato una nuova mamma e un nuovo papà che li avrebbero adottati. Il secondo ricordo d’infanzia è invece legato a una frase – non del tutto opportuna – che dissi a una mia zia, che era senza figli. “Ma perché tu e lo zio non ne adottate uno?”. Ho ancora in mente lo sguardo di mia mamma, che con gli occhi voleva dirmi “non sono affari tuoi!”, ma intanto l’avevo detto e la fi-
guraccia l’avevo fatta… Anche da ragazzina è rimasta nella mia memoria una sensazione bella e che mi faceva stare bene ogni volta che mi capitava di vedere in giro “bimbi colorati” con “genitori non colorati” (segno inequivocabile di un’adozione). D’istinto la cosa mi entusiasmava, anche se non sapevo bene spiegarmi perché. Forse c’entravano i miei ideali, i miei valori, l’idea che ho sempre avuto del mondo, dei nazionalismi, dei pregiudizi razziali. Poi la mia memoria passa alla lenta ma costante crescita della voglia di avere figli (maturata con un discreto ritardo rispetto ai “canoni biologici”) e alla delusione e sofferenza legata alla consapevolezza di non “riuscire” a fare dei figli. Fu triste e doloroso. Io, quando sono triste, sto