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Heidi Barbara Heilegger avvocato e mamma felice di Anand
Bambini adottati a scuola tra novità legislative e aspettative disattese
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Se si vuole interpretare la scuola come fattore di protezione dello sviluppo del minore, particolare attenzione dovrebbe rivolgersi a tutti quei bambini che presentano potenzialmente condizioni di fragilità, tra cui i bambini adottati internazionalmente, ed i bambini adottati in genere, soprattutto se in età scolare. Di fronte ad un minore adottato che fatica ad imparare, che non regge il ritmo di apprendimento della classe è lecito, ed anzi doveroso chiedersi, se ciò dipenda da componenti emotive, psicologiche oppure linguistiche, da un disturbo specifico di apprendimento non ancora individuato o, ancora, da una commistione di tutti questi fattori. D’altra parte, distinguere tra “semplice” difficoltà e disturbi di apprendimento (questi ultimi presenti nei
bambini adottati in una percentuale comunque superiore rispetto a quella mediamente presente tra i coetanei non adottati) non è neppure sempre facile, soprattutto all’inizio del percorso di scolarizzazione. Nelle more sarà certamente possibile ed anzi doveroso attuare da parte della scuola, di concerto con la famiglia, strategie, eventualmente strutturate in un piano didattico personalizzato, volte ad evitare che le difficoltà scolastiche si aggravino o, circostanza ancor più preoccupante, minino l’autostima del bambino con l’inevitabile carico di sofferenza e senso di inadeguatezza che ne conseguirebbe. L’alunno che “avverte” di non riuscire ad apprendere proverà un profondo disagio anche nella comunicazione e nella relazione con gli adulti e
con i coetanei; di più, potrà arrivare a mascherare questo suo disagio con comportamenti provocatori oppure sarà disattento, agitato e disturberà il normale svolgimento delle lezioni. La storia di un minore adottato è stata segnata in primis dall’abbandono e, spesso, da una precoce istituzionalizzazione quando non anche da ulteriori, gravi traumi (si pensi ad esempio ai bambini vittime di violenza o abusi sessuali). Innumerevoli studi mostrano la correlazione tra vissuto abbandonico e mancanza di autostima. Pertanto, appare con immediata evidenza l’effetto potenzialmente devastante che l’insuccesso scolastico potrebbe produrre in un bambino adottato. Ed è questo a dover preoccupare, più dell’insuccesso scolastico in sé.
I genitori vorrebbero – e francamente hanno tutto il diritto di pretendere - che la scuola mantenga nei confronti dei loro bambini aspettative flessibili e ragionevoli. Ma là dove la scuola sia, invece, rigida e poco recettiva, ciò non significa che la famiglia sia disarmata ed impotente. Il legislatore, infatti, soprattutto negli ultimi anni, complice l’acuita sensibilità nei confronti delle difficoltà di apprendimento in genere, ha approntato una serie di strumenti che se pure – con la significativa eccezione della Linee Guida scuola-adozione di cui si dirà nel proseguo – non si rivolgono specificatamente ai minori adottati, nondimeno possono venire in loro soccorso. Di sicuro
rilievo è innanzitutto la direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 relativa agli “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica“. Il presupposto della direttiva c.d. BES (acronimo che sta appunto per bisogni educativi speciali) è riassumibile nella considerazione, contenuta nella direttiva stessa, secondo cui “l’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o distur-
bi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”. L’espressione BES allude, dunque, ad un’area di alunni per i quali il principio della personalizzazione dell’insegnamento, già sancito dalla legge 53/2003, va applicato con particolare accentuazione quanto a peculiarità, intensità e durata delle modificazioni. A parere di chi scrive sarebbe stato forse meglio qualificare i suddetti bisogni come ‘specifici’, termine che riflette meglio l’aspirazione ad una didattica inclusiva e personalizzata piuttosto che ‘speciali’, espressione che richiama, invece, il concetto di strano, bizzarro e comunque eccezionale rispetto alla norma. Può sembrare una questione puramente nominalistica,
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di scarso rilievo pratico, eppure a volte, proprio la scelta dei termini, rivela la cultura di cui una legge è frutto (o la sua assenza). L’area dei bisogni educativi speciali, nell’ottica del legislatore, comprende, come si è visto, tre grandi sottocategorie: quella della disabilità, quella dei disturbi evolutivi specifici (in cui rientrano i disturbi specifici dell’apprendimento) ed infine quella dello svantaggio socio-economico, linguistico, culturale. I minori adottati, che pure, per il loro peculiare e talvolta drammatico vissuto, sono spesso, se non inevitabilmente, portatori di bisogni educativi speciali, non vengono, invece, espressamente menzionati. Se da un lato la citata esemplificazione non ha pretesa di esaustività e, dunque, la direttiva BES può e di fatto tutela anche gli alunni adottati, l’omissione colpisce ancora una volta come indice della
mancanza nel nostro Paese di una cultura dell’adozione. I bisogni educativi speciali possono manifestarsi in via transitoria – si pensi ad esempio all’ipotesi di svantaggio linguistico circoscritto ad una determinato periodo di tempo - oppure continuativa. Nella macro aerea degli alunni BES rientrano, infatti, a pieno titolo anche gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia), i c.d. DSA, nonché gli alunni disabili. Nel primo caso la normativa di riferimento è la legge n. 170/10, nel secondo la legge n. 104/92. In estrema sintesi, la legge n. 170/10 dà diritto a strumenti didattici e tecnologici di tipo compensativo (ad esempio sintesi vocale, registratore, programmi di video-scrittura e con correttore ortografico, calcolatrice) e a misure dispensative,
per sostituire alcuni tipi di prove valutative con altre equipollenti più adatte. Gli strumenti in concreto adottati verranno cristallizzati in un PDP (Piano Didattico Personalizzato). La personalizzazione attiene al percorso didattico per il raggiungimento degli obiettivi che restano però gli stessi del resto della classe. Ciò che cambia è “solo” il modo di insegnare. Il PEI (Piano Educativo Individualizzato) riguarda, invece, la progettazione di una programmazione individualizzata dove gli obiettivi sono diversi da quelli del gruppo classe venendo semplificati e ridotti. Solitamente il PEI si stila per tutti quei soggetti che rientrano nella legge 104/92 e per i quali viene previsto l’insegnante di sostegno. PDP e PEI, dunque, sebbene vengano spesso confusi nel linguaggio comune, non sono sinonimi. La scelta terminologica,
almeno a parere di chi scrive, appare ancora una volta non felicissima perché personalizzare ed individualizzare in italiano sono sinonimi e la vicinanza dei termini rischia di ingenerare confusione. Ad ogni modo, mentre per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento e disabili, il percorso sopra descritto è non solo dovuto, ma anche standardizzato per legge, per gli altri alunni con bisogni educativi speciali resta, invece, nebuloso e, in assenza di chiare indicazioni di legge, parrebbe lasciare in capo alla scuola un certo margine di discrezionalità. Le perplessità circa l’obbligo della redazione di un documento ad hoc per alunni BES scaturiscono dalle in-
dicazioni ministeriali che hanno sollevato dubbi proprio in merito alla suddetta questione, lasciando in una zona d’ombra il principio dell’obbligatorietà. Nella nota ministeriale MIUR del 22/11/2013 n. 2563 si legge infatti: “si ribadisce che, anche in presenza di richieste dei genitori accompagnate da diagnosi che però non hanno diritto alla certificazione di Disabilità o di DSA, il Consiglio di classe è autonomo nel decidere se formulare o non formulare un Piano Didattico Personalizzato, avendo cura di verbalizzare le motivazioni della decisione”. L’interpretazione più accreditata, in linea con la giurisprudenza (in tal senso, ad esempio, si vedano le sentenze del Tar Lazio n. 9261/2014 e n. 7024/2014) oltre che col principio della personalizzazione dell’insegnamento di cui alla legge 53/2003 e, più di recente, con le Linee Guida
scuola-adozione, propende per l’obbligatorietà di predisporre un piano didattico personalizzato qualora il Consiglio di classe sia a conoscenza delle difficoltà di un alunno qualificabile all’interno dei BES. Con la citata nota il Ministero avrebbe dunque solo voluto sottolineare come la qualificazione di alunno BES resti una prerogativa della scuola, non certo sostenere la tesi che in presenza di bisogni educativi speciali quest’ultima possa decidere arbitrariamente di ignorarli. In conclusione, anche un bambino con bisogni educativi speciali avrà diritto ad un percorso didattico diverso da quello dei compagni: si adotterà un apposito documento, un PDP, in cui sarà specificato il percorso didattico che gli insegnanti intendono seguire. È comunque importante sottolineare come la scuola abbia tanti modi, strumenti
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e procedure per adattare la didattica ai bisogni individuali (non limitati dunque alle misure dispensative e compensative pensate per gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento). D’altra parte, già il DPR 275/99 prevedeva che nell’esercizio dell’autonomia didattica le istituzioni scolastiche potessero adottare tutte le forme di flessibilità ritenute opportune. Né, affinché la scuola identifichi il minore come alunno con bisogni educativi speciali occorre una certificazione (come per gli alunni DSA o disabili) che potrà dunque pervenire in seguito, ma anche mancare del tutto. La qualifica di alunno con bisogni educativi speciali, proprio perché non implica necessariamente una diagnosi medica, compete, come si è detto, alla scuola. Il baricentro, in altre parole, si sposta dal versante clinico a quello educativo-didatti-
co, offrendo la possibilità di un’efficace tutela anche a tutti quei bambini che, in assenza di certificazione, ne sarebbero stati privi. Il che è tanto più vero per i bambini adottati che spesso vivono a scuola situazioni di disagio non sempre o comunque non immediatamente riconducibili ad un disturbo specifico dell’apprendimento o a disabilità. Per i genitori sarà comunque utile premunirsi di idonea documentazione - ad esempio la relazione della psicologa o della logopedista - che agevoli le insegnanti nell’identificare l’alunno con bisogni educativi speciali, limitando in tal modo il rischio di sentirsi opporre la semplicistica obiezione che si tratta di normali differenze individuali come tali insufficienti a giustificare interventi ad hoc. Per completare il quadro degli strumenti a tutela degli alunni adottati a scuola
non si può non far menzione delle Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni adottati pubblicate dal MIUR nel dicembre 2014. La portata innovatrice per non dire rivoluzionaria delle Linee Guida consiste nel fatto che si tratta di uno strumento pensato proprio per gli alunni adottati, per favorirne l’inserimento scolastico, nonché per promuovere sul territorio una cultura dell’adozione. I punti di forza delle Linee Guida - in uno sforzo di sintesi che purtroppo non rende loro giustizia – sono i seguenti: n La completezza dell’analisi dei momenti di accoglienza (iscrizione, scelta della classe, tempi di inserimento); n Non focalizzare l’attenzione solo sulle eventuali difficoltà di apprendimento, ma allargando lo sguardo anche ad altre potenziali aree di criticità e comunque mettendo in correlazione le
prime alle difficoltà psicoemotive; n Fornire suggerimenti pratici per affrontare argomenti delicati come la storia personale; n Insistere sulla necessità di formazione del personale scolastico; n Istituzione del docente referente, formato sulle tematiche adottive, per la raccolta delle informazioni, l’accoglienza ed il costante collegamento tra scuola e famiglia e un fattivo contributo nella redazione, ove necessario, del piano didattico personalizzato. Il docente referente dovrebbe essere previsto a prescindere dalla presenza o meno nella scuola di alunni adottati, così come la formazione degli insegnanti non è opzionale o legata ad esigenze contingenti. Purtroppo la formazione è spesso carente se non del
tutto assente, il docente referente non sempre viene istituito, le stesse Linee Guida sono poco conosciute e comunque non ‘interiorizzate’. L’assenza in Italia di un’autentica cultura dell’adozione non consente, insomma, alle Linee Guida di dispiegare tutto il proprio potenziale: ad oggi le suddette sono più un punto di partenza che di arrivo. In chiusura, un cenno merita la nota del MIUR prot. n. 547 del 21 febbraio 2014 contenente chiarimenti rispetto alla possibilità di deroga dell’obbligo scolastico per i minori adottati: in accordo con la famiglia ed in presenza di idonea documentazione di supporto, quale ad esempio la relazione della psicologa o di altro professionista coinvolto (neuropsichiatra infantile, logopedista), il dirigente scolastico, sentito il team dei docenti, “potrà assumere la decisione di far permanere l’alunno nel-
la scuola di infanzia per il tempo strettamente necessario all’acquisizione dei pre-requisiti per la scuola primaria, e comunque non superiore ad un anno scolastico”. Un’analisi anche solo sommaria dell’attuale normativa mostra come gli strumenti per favorire l’inserimento e l’integrazione dei minori adottati non manchino. Si tratta di strumenti perfettibili certo, non privi di lacune, imperfezioni, ma comunque importanti. Col rischio di scrivere una banalità, a preoccupare non è tanto il vuoto legislativo quanto quello culturale, e se è vero che le leggi incidono sulla cultura, la cambiano e rimodellano, ciò avviene solo gradualmente, con tempi che purtroppo non sono quelli che i genitori vorrebbero per i propri figli. La rotta insomma è stata chiaramente tracciata, ma il viaggio è tutt’altro che concluso.
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leggendo Trovare le parole per esprimere se stessi diventa difficile, se non impossibile, quando nella vita si attraversano dolori. Quindi si cercano dei modi per aiutarsi a trovare “quelle” parole per uscire dalle ferite della vita, di quelle che ne cambiano il percorso. Le fiabe, allora, possono donare parole per raccontare. Con una soavità profonda, le due autrici, una pedagogista ed un’operatrice esperta dell’infanzia, donano le parole delle fiabe per aprire gli scrigni segreti dove tanti figli depositano le loro rabbie e la loro paure ma anche le loro gioie. Tante le fiabe, tanti gli spunti di riflessione e tante le parole, i gesti d’amore e cura per accompagnare i propri figli a scoprire e capire se stessi. Un dialogo costruttivo tra due mamme, una adottiva
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e una biologica, dove parole come leggere, accogliere, ascoltare, crescere, raccontare, rallentare, insegnare possono essere percepite per legare le vicende dei protagonisti delle fiabe, scritte per tutti, anche ai vissuti dei figli adottati. «É la passione per i buoni libri che permette un incontro, un confronto sulle esperienze di genitorialità, tutte diverse, tutte importanti». Daniela Pazienza