di Simone Berti
Da solo non ce la faccio
editoriale
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In questi giorni, dopo dieci anni di vita insieme, mi sono sentito rivolgere da mio figlio una domanda esplicita di aiuto. Non una domanda qualunque, che spesso i figli rivolgono ai padri per affrontare problemi pratici o risolvere aspetti tecnici su compiti specifici e giochi complicati. E neanche la richiesta di un semplice importante consiglio per affrontare una situazione ingarbugliata con amici o con una ragazza. Ma una domanda radicale, ponderata e che chiedeva di non essere minimizzata. Lo ha fatto in modo inaspettato, caricandola di una certa ufficialità che ha spiazzato inizialmente sia me che mia moglie. All’uscita della lezione di ripetizione si è fatto accompagnare da mia moglie nel mio studio. Le ha chiesto di attendere in sala di attesa e mi si è seduto di fronte affrontandomi direttamente: “Papà, tu aiuti molte persone e quindi devi aiutare anche me, perché da solo non ce la faccio”. Poco importa adesso se lo spunto da cui partiva erano le continue note che i professori gli rifilano sul diario o sul libretto rosso e che lui metodicamente cancella o semplicemente sbianchetta nel tentativo di renderle non avvenute, dando vita così a un’inevitabile spirale ripetitiva. Improvvisamente qualcosa che ci aveva visto fino a quel momento su due fronti contrapposti, tesi ma sfiniti entrambi da un senso di impotenza e una sorta di ineluttabilità, diventava spunto di una possibile alleanza tra di noi. Di fatto, mi sono complimentato con lui, perché per chiedere aiuto ci vuole coraggio, ricordandogli però che chi chiede aiuto si impegna a sua volta a metterci del suo. Mi fermo qui nel racconto che naturalmente non ha un seguito così lineare e ha già dato vita a brusche frenate, numerose inversioni di marce e cappottamenti. Il lieto fine come
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immaginerete non sembra affatto scontato. Tuttavia quel “da solo non ce la faccio” ripetuto tante volte ma stavolta così generosamente consegnatomi a domicilio da mio figlio ha lasciato un segno profondo. Certo parla direttamente delle difficoltà, del carico di fatica, di sofferenza e problematicità che grava sull’esperienza dell’adozione e su chi la vive in prima persona. Dice anche che non si deve dimenticare la fatica che ricade inevitabilmente sui nostri figli e alla quale spesso sovrapponiamo la nostra finendo così per occupare gran parte del nostro sguardo. Riconoscere la loro fatica, aiutare loro a dargli voce è spesso un compito che ricade su noi genitori. In nome di questa fatica occorre impegnarci a formulare le domande giuste per far emergere i problemi reali e portarle ai corretti interlocutori senza permettere di lasciarle richiudere su risposte formali. Occorre riflettere con rigore sull’adozione, ce n’è un estremo bisogno. L’adozione è un processo complesso che anima situazioni ed emozioni complesse. Ma la frase di mio figlio apre anche inevitabilmente a “sono qui perché credo che con il tuo aiuto ce la possiamo fare”. Sì insieme ce la possiamo fare. Perché no? E allora mi avverte di non dimenticare che non bisogna mai cessare di alitare fiducia sulle potenzialità di trasformazione nostra e dei nostri figli, sulla capacità di tirar fuori inaspettate risorse che chiedono solo di essere riconosciute, valorizzate, per non smarrirsi. Per questo occorre anche non stancarsi e continuare a portare un pensiero in cui la complessità di un’esperienza, la sua diversità rappresenta anche la possibile fonte di un’inedita ricchezza. Adozione e dintorni vuole essere anche e soprattutto questa voce.