scuola e adozione
Emanuela Tomè
L’insegnante perfetto 10
Da quando sono ricomparsi i voti anche alla scuola primaria, la consegna delle pagelle è diventata per me un rituale imbarazzante e piuttosto deprimente: quest’anno osservo i nuovi genitori della prima spulciare i numeri per accertarsi se il loro bambino si è guadagnato o meno il premio promesso, confronti fra risultati, delusione se il proprio figlio non è tra quelli che hanno conquistato il 10. Mesi di lavoro scolastico in un clima di cooperazione, in cui ciascuno ha dato a suo modo il meglio di sé, in cui abbiamo insieme condiviso la gioia e la fatica di ampliare l’orizzonte, di superare ostacoli, di realizzare assieme cose importanti, di scoperte, si risolvono in considerazioni di tipo mercantile: tu quanti 9? E tu quanti 10? D’istinto mi viene da pren-
dermela con i genitori: perché è mai possibile - mi chiedo - che nonostante che in assemblea di classe abbia messo in chiaro che ritengo il voto opinabilissimo, che siamo obbligati a usarlo ma che è il caso di non darci tutta questa importanza, che quello che conta è il percorso che ogni bambino fa, che ciò che dobbiamo guardare è quello che davvero ha imparato, che la più grande sconfitta sarebbe trasmettere ai bambini il messaggio che si impara solo per avere un bel voto, che un numero non può descrivere la complessità di una persona… è mai possibile che, molti di loro, quello che guardano alla fine è il voto? Però a bocce ferme mi rendo conto che questi genitori sono colpevoli solo in parte. Negli ultimi tempi nella
realtà della scuola sembra sia avvenuta una mutazione che ha investito sia il fare scuola sia l’idea profonda di ciò che è un bambino e la sua educazione. In contraddizione con ciò che dicono i documenti ufficiali come le “Indicazioni nazionali per il curricolo” ispirati a principi pedagogici quali la “centralità della persona” e l’aspirazione a “un nuovo umanesimo”, si è negli anni imposta una prassi intrisa di tecnicismi, si è verificata una rincorsa alla quantificazione, all’uso di griglie, di test, alla traduzione in termini numerici dei cosiddetti “esiti” degli apprendimenti. La scuola ha iniziato a parlare una lingua sempre più “ingegneristica” e a lasciarsi sedurre da quello “scientismo” postmoderno che ha pervaso molti altri ambiti che si occupano delle persone.
Nella mia quotidianità di insegnante di scuola primaria tocco con mano ogni giorno l’importanza dell’atto della valutazione e la necessità che i bambini avvertono di avere un riscontro, rispetto al loro operato, da parte di coloro che considerano i loro riferimenti formativi. Fin da piccoli i bambini intuiscono che “saper valutare” è in fondo l’essenza stessa del diventare competente in qualche ambito. E’ per questo che nella mia classe mi sembrano fondamentali, ad esempio, quei momenti in cui appendiamo tutti i disegni prodotti per illustrare un libro fatto da noi e dedichiamo del tempo a valutarli insieme: quali sono, e perché, le parti meglio riuscite e quali invece i punti deboli, e ascoltiamo chi ha idee e suggerimenti da dare per migliorare questo o quel disegno, e
ciascuno è interessato a far sì che quei lavori siano davvero ben fatti perché il libro è di tutta la classe. “Il cavallo non mi è venuto bene perché io non sono bravo a fare gli animali…”. Una dichiarazione come questa può aprire tutto un discorso su cosa significhi “disegnare bene” e posso intervenire mostrando quanti modi diversi ci siano di rendere graficamente un cavallo, che non è solo il tratto realistico quello più efficace e possiamo finire ad osservare il cavallo di “Guernica”, e molto altro ancora. Questo tipo di valutazione non è mai disgiunta dall’apprendimento, che in fondo non è che un cercare, e un tentare di orientarsi in territori sconosciuti; è quella che il lessico pedagogico chiama “valutazione formativa”. Nella quotidianità scola-
stica ci troviamo, però, ad aver a che fare anche con altri modi di imparare, dove il bambino ha bisogno di esercitare delle abilità per poterle padroneggiare: imparare a decifrare un testo scritto, scrivere in corsivo, memorizzare l’algoritmo per eseguire una divisione… queste sono attività che richiedono una convergenza ad un “saper fare” codificato piuttosto strettamente, e il bambino deve trovare la strada per adeguarvisi. In questo caso la valutazione non può che essere demandata all’insegnante, a colui che “padroneggia il codice”; qui la valutazione numerica può avere anche un suo senso se, in un rapporto di fiducia tra alunno e insegnante, serve a dire molto semplicemente: “Bene, su questa cosa sembra che tu sia a questo punto”; è la registrazione di un fatto
11
12
circoscritto (“oggi hai fatto bene 5 divisioni su 10”) che per assumere un significato deve però essere letto alla luce della storia di quel bambino (e dunque: “Sono contentissima! Pensa, questa volta sei riuscito a farne ben 5 di giuste” oppure “Cosa ti succede oggi, tu che non le sbagli mai?”). E quell’esito è comunque un qualcosa che implica e coinvolge, alla pari, l’insegnante e il bambino. La valutazione è fondamentale, ma penso non possa che essere quell’azione imperfetta, di cui l’adulto assume la responsabilità, all’interno di un rapporto in cui l’insegnante non si nasconda completamente dietro il ruolo, ma si conceda il lusso della propria
umanità. La valutazione credo abbia un senso formativo solo tra imperfetti. Altrimenti diventa “giudizio”, che impietrisce. Quello che accade da un po’ tempo nella scuola è un susseguirsi di ingiunzioni, con diversi gradi di prescrittività, che vanno in tutt’altra direzione. Sembra che ora la scuola stia cercando di dotarsi di strumenti “perfetti” per misurare quanti più aspetti possibili dei propri alunni: verifiche ‘oggettive’, test per valutare il rischio di dislessia, griglie sociometriche, test Invalsi di valutazione nazionale… Strumenti a volte anche interessanti, se però non vanno a sostituire quella necessaria parzialità che è
insita in ogni vera relazione tra esseri umani. Il concetto di “standard” è entrato nel lessico didattico-pedagogico corrente portando con sé l’idea che ciò a cui bisogna tendere è l’adeguamento a una norma. La capacità di uno studente di capire qual è la risposta che aveva in mente chi ha formulato il test, diventa la capacità più premiante. Certamente il sapere scolastico contiene anche aspetti “normativi”, poco negoziabili, ma mi chiedo se la scuola faccia davvero bene il suo lavoro quando trascura di incuriosirsi delle persone che ha il compito di educare, quando non si occupa abbastanza dei loro pensieri, delle riso-
13
nanze emotive, delle loro vere domande, quando non si incuriosisce del percorso che stanno facendo per costruirsi come persone. Mi chiedo anche, con preoccupazione, che “sapere” sia quello che non cambia profondamente una persona, che non la raggiunge oltre la facciata del “bravo scolaro”, che non la mette in movimento su strade nuove. Quando scopro in un mio alunno l’occhio brillare nella speciale maniera di chi ha “capito” veramente qualcosa di nuovo, quando vedo la felicità che dà il senso di una scoperta vera, mi dico che non c’è una griglia in cui registrare quell’evento così fondamentale. Quando vedo
Laura, che durante la ricreazione sceglie di leggere un libro della biblioteca di classe, invece di giocare, perché ha scoperto il piacere della lettura, penso che nessun test registrerà mai questo, che a me pare un vero e preziosissimo miracolo. Quando osservo Davide mentre rallenta la corsa durante il gioco per far sì che Lisa, che ha difficoltà motorie, lo possa acchiappare, so che questa azione, pur di così rara grandezza, non ha un posto nei documenti scolastici. Da mamma di una studentessa liceale, sempre in affanno con le verifiche, mi chiedo perché una scuola umanistica non sappia che farsene del fatto che mia figlia sia una forte ed ap-
passionata lettrice, che attraverso i libri nutre molti dei suoi pensieri: mi chiedo come sia possibile che non ci sia spazio per questi pensieri, ma solo centinaia di domande a cui rispondere nel più breve tempo possibile, cercando di individuare la risposta “giusta”. Credo che nell’esperienza di ciascuno di noi, l’insegnante che ricordiamo come importante per la nostra formazione non sia quello che ci ha misurato con più esattezza, ma quello che ci ha aperto dentro uno spazio nuovo. Ha scritto il filosofo Irwin Thompson: “Ciò che veramente conta non può essere contato”