scuola e adozione
di Monica Nobile pedagogista, counsellor
La raccolta punti 14
I genitori di Stefano mi chiedono di incontrare le sue insegnanti. Stefano è stato adottato tre anni fa in Etiopia. Al suo arrivo ha frequentato per due anni la scuola d’infanzia ed ora, in prima elementare, sembra non essersi adeguato alle regole della scuola. Non riesce a stare fermo, gira spesso per la classe, disturba i compagni. Quando arriva a scuola tergiversa, va su e giù, temporeggia in corridoio, ci mette un bel po’ per raggiungere il suo banco e organizzare il suo materiale per la lezione. Interrompe la maestra, cerca di avere costantemente la sua attenzione, con le buone o con le cattive. All’inizio dell’anno aveva forti difficoltà nell’esecuzione dei compiti, pasticciava il quaderno, faticava a rispettare le linee. Non stava nei
limiti, insomma, né sul quaderno, né in classe. Incontro le maestre. Mi dicono che ora va un po’ meglio, che Stefano è più ordinato, che sì devono continuamente richiamarlo ma accetta un po’ di più di rientrare nei ranghi. Tuttavia, mi spiegano, richiede sempre un impegno superiore alle loro forze. Anche perché, mi dicono praticamente in coro, non hanno solo lui, hanno tutta una classe a cui badare, tanti allievi, ciascuno con i suoi problemi. Le ascolto con attenzione, le osservo, mi appaiono stremate. Provo a spiegare il vulcano interiore che spesso portano dentro i bambini adottati. Parto dall’inizio, l’abbandono, i traumi, la fatica di ambientarsi in un nuovo paese, il percorso di riconoscimento delle nuo-
ve figure genitoriali, la pelle scura in un mondo di bianchi, la paura di lasciare tutto ciò che si ha salendo su un aereo che porta chissà dove. Spiego che tre anni sono pochi, ancora pochi, per poter superare tanti ostacoli, per alleggerire un bagaglio tanto pesante. Azzardo qualche ipotesi; potremmo pensare insieme ad alcune strategie utili per contenere l’irruenza di Stefano. Mi interrompono subito. L’insegnante di italiano mi spiega che hanno già messo in atto la loro strategia. Mi mostrano un tabellone affisso in classe, che riporta i nomi di tutti gli allievi. A fianco del nome ci sono delle puntine colorate. Capisco che si tratta della Token Economy. È un sistema comportamentista di rinforzo che utilizza dei
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gettoni; la teoria vuole che il gettone sia dato al momento del comportamento positivo, per fare subito da rinforzo, al raggiungimento di un numero concordato di gettoni, si riceve un premio. Variazioni di Token Economy si vedono in tutte le scuole: c’è chi utilizza stelline, chi faccine sorridenti, chi puntine colorate…, c’è chi da in premio una medaglia di carta, chi un attestato di lode, ecc. La Token Economy è fina-
lizzata ad aiutare i bambini ad assimilare le regole. Può essere usata anche in area didattica, per premiare l’impegno nel lavoro o nei compiti a casa. Guardo la casella di Stefano desolatamente vuota e chiedo alle maestre se Stefano prenda mai un punto. Sorridono e mi dicono che effettivamente fatica a riceverne. Osservo, allora, che forse questa tecnica rischia di rinforzare ulteriormente i comportamenti fuori dalle righe di
Stefano. A questo punto l’insegnante di italiano si fa rossa in volto. Mi dice che non sopporta più che arrivi l’esperto di turno a criticare, che loro devono badare a una classe difficile, che oltre a Stefano ci sono almeno altri tre bambini incontenibili. Che loro stanno sudando sette camicie e che a quella tecnica hanno dedicato molto impegno, fatica e attenzione e che adesso non posso arrivare io a dire che non funziona…
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Mi fermo un istante. Prendo la mia borsa ed estraggo il mio taccuino. È un piccolo quadernetto a forma di cioccolata morsicata. Lo tiro fuori quando devo ricordarmi che sono capace di mantenere la calma, il senso dell’umorismo e soprattutto la creatività che probabilmente mi ha portata a fare la professione che faccio. Mi funziona da rituale zen. Mi rivolgo all’insegnante infuocata e le dico che mi dispiace, che la vedo esasperata, che non intendevo in alcun modo criticare il suo lavoro, che volevo solo riflettere insieme a lei e alle colleghe come quella strategia, basata per altro su presupposti teorici seri e consolidati, potesse funzionare con Stefano. L’insegnante si rende conto, forse le ha fatto anche simpatia il mio quadernetto, mi chiede scusa. Le propongo di lasciar perdere le scuse e di ricominciare daccapo.
Interviene l’insegnante di matematica e mi spiega che nemmeno loro, quando lo psicologo l’aveva proposta, erano d’accordo con questa tecnica. Mi spiegano che si sono rese conto da subito che poteva diventare un boomerang, che da subito Stefano e non solo lui, aveva avuto degli attacchi d’ira scoprendosi non meritevole di punti. Che avevano quindi optato per dare i punti al miglioramento, in qualche modo alle buone intenzioni, così che anche i più turbolenti potessero conquistare qualche punto. Mi spiegano anche che per valorizzare Stefano talvolta gli assegnano punti anche se non se li merita. Evito di esprimere a voce alta la mia preoccupazione per la confusione che può insorgere in Stefano, che talvolta riceve punti immeritati. Mi chiedo, ma solo tra me e me, quali conseguenze trarrà… Penso che nella teoria la
Token Economy deve essere utilizzata nell’immediato del comportamento positivo e senza dare troppo peso ai comportamenti negativi; è finalizzata infatti a dare rinforzo puntuale di comportamenti positivi, per arrivare ad estinguere quelli negativi. Si tratta di un lavoro lungo e complesso che va fatto in maniera continuativa se si vogliono ottenere risultati. Vista la complessità della tecnica, la Token Economy, se svolta nei confronti di tutta la classe, richiede impegno, un impegno che spesso gli insegnanti in continua emergenza non possono garantire. Penso soprattutto alla bassa autostima dei bambini adottati e ancora mi chiedo se possa essere questa una via giusta. Troppo spesso mi è capitato di ascoltare genitori, preoccupati o arrabbiati, perché il loro figlio adottivo diventava aggressivo, o chiuso, o triste o tutte e tre le cose
insieme, in alcuni casi che non volesse più andare a scuola, per non aver mai preso un premio in classe. Non posso fare a meno di trattare questa questione, preferisco affrontare un altro attacco d’ira ma devo dirlo. Spiego che a causa del loro trascorso e di tutto ciò che avevo descritto prima, i bambini adottati hanno nella grande maggioranza una bassa autostima. Spiego la mia preoccupazione per Stefano. Dico loro che hanno fatto un buon lavoro, che Stefano, nonostante tutto va a scuola volentieri. Che ha bisogno di essere molto valorizzato e rinforzato per potersi consolidare, per poter tenere a bada tutte le emozioni che lo fanno essere tanto indisciplinato a scuola. Dico che per il nostro lavoro, soprattutto in questi tempi difficili, abbiamo bisogno di tutta la nostra creatività. Che le teorie ci possono orientare ma che è nella situazione
concreta e reale di tutti i giorni che non dobbiamo mai smettere di inventare soluzioni e che una volta trovate non lo saranno per sempre poiché per fortuna l’essere umano è unico e irripetibile. Mi sembra che accettino, questa volta. L’insegnante di matematica mi dice che lei ha conquistato la classe proponendo l’aritmetica con i mandala. Continuiamo a lungo, anche l’insegnante di italiano ci sta. Parliamo di libri e di letture. Di albi illustrati che aiutano a trattare in classe il tema delle emozioni. Delle linee guida del MIUR per il diritto allo studio dei minori adottati. Non ne sapevano l’esistenza, prometto di spedirgliele e aggiungo che prevedono l’attivazione di percorsi formativi per insegnanti. Ce l’abbiamo fatta, almeno spero. La raccolta punti resterà al suo posto, ma la maestra di italiano aspetta una mia bibliografia per
proporre letture in classe sulle emozioni e iniziare con i bambini un percorso creativo su questo tema. Mi chiede addirittura se può chiamarmi per confrontarsi sulle idee che ha per questa attività di gruppo. L’insegnante di matematica si offre di parlare con la dirigente per chiedere di promuovere un incontro formativo sull’accompagnamento scolastico dei bambini adottati. Salutandoci ancora l’insegnante mi chiede scusa, mi abbraccia (!) e mi dice che ultimamente fare scuola è davvero dura, che si sente depauperata e sola, che sente messa a dura prova la passione per la sua professione. Fuori diluvia, sotto l’ombrello la mamma di Stefano esclama: “avevano bisogno di sfogarsi…” Non sono sicura sia una sintesi, certamente ho sentito la fatica e la difficoltà. Meno male che avevo il mio quadernetto.
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