Mestieri

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editoriale

di Simone Berti

Mestieri «Tante volte mi era capitato di leggere fatti di cronaca dove, a margine di episodi di vario genere, i soggetti coinvolti venivano appellati come rom, zingaro, albanese, romeno, negro ecc., notizia assolutamente ininfluente rispetto al fatto accaduto. La cosa mi ha sempre dato molto fastidio, ma, come spesso accade, quando i fatti riguardano gli altri, un po’ ti scivolano sopra. Poi un bel giorno capita a tuo figlio, figlio nato in un paese straniero, figlio di genitori italiani e quindi cittadino italiano. Ma questo poco importa ai giornalisti, è molto più interessante sbattere la sua (falsa) cittadinanza o comunque il suo paese di nascita ben chiaro e visibile nel titolo dell’articolo. Del resto si sa, che certi paesi, che certe razze, sono tutti ladri, delinquenti, prostitute ecc., disconoscendo storia, letteratura, geografia, come sino a non molti anni fa, ma forse anche oggi, i meridionali erano sporchi, fannulloni e mafiosi. Scopri così quanto il bel popolo italiano sia razzista e xenofobo e quanto tuo figlio dovrà farci i conti tutta la vita con questi suoi ignoranti connazionali. Un consiglio ai tanti, troppi, giornalisti razzisti e xenofobi: cambiate mestiere!». Riceviamo la lettera di questa madre che ci porta ad affrontare ancora una volta un tema su cui più volte siamo tornati nel nostro giornale, che riguarda il deprecabile uso sensazionalistico della titolazione della nostra stampa e la pessima abitudine di fornire come elemento centrale della notizia la cittadinanza del responsabile, come a fornire la chiave di lettura dell’accaduto. In questo modo la stampa entra in sintonia con un tratto del razzismo diffuso e subdolo che ri-



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sponde a un intimo e inconfessato bisogno del lettore. Scriveva Antonio Fatigati, ex presidente di Genitori si diventa onlus, in un passato editoriale: se chi esce dalle regole, ruba, violenta, uccide, lava i vetri ai semafori viene da fuori e ha una fisionomia e un colore della pelle diverso dal nostro, beh, allora, il reato è più comprensibile, meno allarmante, basterà invocare maggiore rigidità, più espulsioni, più controlli alle frontiere. Otteniamo così il risultato di soddisfare la ricerca di un responsabile che ci sgravi dalle nostre responsabilità, che attribuisca ai cattivi delle caratteristiche che li identifichino come diversi da noi. Così, non sono più uomini o donne che delinquono, ma romeni, albanesi, marocchini, algerini, russi e, infine, italiani. Premesso che sta nel dovere di ogni Stato garantire che chiunque vi soggiorni rispetti le regole vigenti e soprattutto che vi sia il rispetto per le libertà di ognuno, compresa quella di desiderare di attraversare in piena notte un parco poco illuminato senza venire infastiditi, mi pare che questa scelta giornalistica apra la strada a una forma moderna di individuazione dei capri espiatori. Conveniamo con Ben Jelloun che tra le cose che ci sono al mondo il razzismo è la meglio distribuita tanto da divenire, ahimè, banale. Il razzismo è tutt’altro che banale ma poiché, al di là delle sue manifestazioni più eclatanti, agisce in maniera silente, ce lo portiamo dentro e ce lo coltiviamo lasciandolo agire inascoltato. La banalità del razzismo è proprio ciò che ci fa illudere di poterne uscire facilmente indenni. È la forza del senso comune e del buon senso che pervade, senza che se ne sia coscienti, tutto ciò che quotidianamente incontriamo. La famiglia che adotta è necessariamente portatrice di diversità. E se non è mai facile fare i conti con la diversità, quando questa diviene una necessità spesso può trasformarsi in una bandiera da sventolare senza che se ne misuri la forza per sostenerla al vento.


Favorire la cultura dell’accoglienza e non dell’esclusione corre sempre il rischio di volgersi in una posizione moralistica. Il rispetto della diversità non può che partire dall’incontro dello straniero che è in noi e che non deve assumere per forza i contorni dell’estraneo. Per questo riteniamo che la società e la cultura tutta farebbero un balzo in avanti se andassimo verso una dimensione in cui le diversità non fossero riconosciute come minacce o, ancor di più, qualcosa di intrusivo che porta solo disordine e inquietudine, ma venissero infine accolte con la curiosità e l’interesse che possiamo riservare a ciò che è nuovo e non conosciuto. Riconoscersi tutti nella disuguaglianza è la base del riconoscere l’altro come qualcuno con cui si può convivere, senza timore o paura. Per questo colpisce ma non stupisce come la nostra stampa e gran parte dei mezzi di informazione giochino a esaltare gli aspetti che alimentano paura dell’altro in un gioco che invita a mettersi al riparo dalla diversità, perché questa riguarda sempre un altrove e noi potremmo esserne esenti. E anche per questo non possiamo che concordare con quella madre augurandoci che chi lavora nell’informazione sia in grado di aprire uno spazio di riflessione maggiore sulla correttezza e l’etica professionale che si è impegnato a rispettare e che viene costantemente disattesa o in alternativa, se non è in grado di farlo, riesca almeno a capire che per lui è il caso di cambiare semplicemente mestiere.

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