di Anna Guerrieri
Senza aggettivi
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In questi giorni le veloci reti virtuali di genitori adottivi si sono infiammate all’improvviso a causa di un frammento video in cui la frase “vera madre” veniva ripetuta sovente da una conduttrice di programmi TV a proposito di una storia di ricerca delle origini. Le storie di rintracciamento di percorsi di vita perduti sono particolarmente attuali anche alla luce del dibattito legale sul tema. Non è di queste leggi di cui tuttavia voglio ora parlare, leggi che necessitano un confronto preciso di tante parti e soprattutto attengono ai diritti delle persone adottate. Quello su cui desidero fermarmi è qualcosa che ha a che fare con noi genitori. Il concetto di “vera madre” intesa come madre di origine opposta al concetto di madre adottiva intesa come “secondaria” o “finta”, è un concetto su cui all’inizio non mi sono fermata tanto, forse perché è tanto lontano da me da non sentirmi chiamata in causa. Che io sia madre di figli che hanno anche una madre venuta prima di me, fa parte della mia storia e non mi preoccupa particolarmente ormai che qualcuno si riferisca alla madre di origine dei miei figli in un modo piuttosto che in un altro. Magari sbaglio ma è quel che sento. Poi ho visto apparire sulla rete centinaia di foto, foto vere, realistiche bellissime, in una sorta di moto di orgoglio della famiglia che adotta, spontaneo e gioioso. E mi sono trovata a guardarle con tenerezza una dopo l’altra e a goderne io stessa. Non leggevo i commenti, guardavo le immagini, davvero belle, e mi sono chiesta come mai, anche oggi fosse necessario ribadire che le famiglie che adottano sono famiglie per davvero, non prime né seconde, non di lato né di scorta, non a tempo e non in prova, ma famiglie e basta. Non voglio entrare nei motivi per cui tutto questo è nato né nei sentimenti di chi ha sentito la voglia di mettere la propria foto su una pagina facebook. E’ stato sicuramente un “Ci sono anche io, e io e io”. Vedendolo accadere mi sono chiesta una volta di più a che punto siamo nella nostra società sul concetto di famiglia formatasi per adozione ma
soprattutto mi sono chiesta cosa vogliamo e cosa possiamo dare, noi famiglie, in termini culturali, per noi e per i nostri figli e come ci poniamo rispetto alle nostre stesse storie, rispetto alle madri dei nostri figli, rispetto ai nostri contesti sociali. Penso, infatti, che solo da una profonda riflessione personale possa scaturire la forza di cambiare anche il mondo attorno a noi, perché sicuramente è vero che un contributo culturale possiamo darlo, e grande. La prima riflessione che mi è venuta alla mente è di come sia manicheo e moralistico voler sempre categorizzare le donne-madri. Parlando di madri vere, in fondo si giudica la donna che diventando madre si mette in gioco con la vita, al di là talvolta, delle proprie risorse e possibilità, sia che lo faccia partorendo, sia che lo faccia adottando. Nell’adozione, a volte la madre di prima è vista come di qualità “migliore” di quella che viene dopo. Lei ha concepito, ha dato la vita, lei è nel sangue mamma “per davvero”. A volte invece è quella che adotta ad essere definitivamente considerata “migliore” della prima, la prima in fondo ha lasciato, abbandonato, talvolta ha maltrattato o lasciato abusare, quella dopo viene vista come una salvatrice, quella che non fallirà e che riconsegnerà alla vita un bambino o una bambina danneggiati. Si fa quindi quasi una graduatoria di verità, di bontà, di importanza. La voglia di giudicare, di incasellare è così grande che così facendo si incastra, si intrappola la donna che diviene madre. Le madri che partoriscono i propri figli possono anche ucciderli, abbandonarli, lasciarli usare, ma possono anche essere impossibilitate a tenerli, sole, possono essere addirittura costrette a lasciarli. Possono ricercarli i figli tanti anni dopo. E le madri che adottano i figli possono volare oltre le montagne per donare ai figli tutte se stesse, possono davvero restituire alla vita, ma possono anche non sentirli propri mai per davvero e sino in fondo i figli che incontrano. E possono maltrattarli, lasciarli, rifiutarli, anche ucciderli. Perché dentro ognuno di noi alberga il bene e il male. Non
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c’è etichetta che tenga davanti alla verità del nostro essere, soprattutto davanti al grandissimo impegno dell’essere madre, senza aggettivi. Talvolta solo vivendo si scopre il proprio male come anche solo vivendo si scopre il proprio bene. Noi donne-madri abbiamo bisogno soprattutto di una mano nel tirar su i nostri figli, che siano venuti da noi stesse o venuti da lontano. Abbiamo bisogno dei nostri compagni, delle nostre famiglie, di una società strutturata sui bisogni delle nostre famiglie, di tempo, di un lavoro che questo tempo ce lo riconosca, di servizi. E se siamo madri per adozione abbiamo bisogno di una società che prima o poi l’adozione la riconosca per quello che è e la accetti: l’unica maniera perché alcuni bambini e alcune bambine abbiano una famiglia in carne ed ossa, né vera né finta, semplicemente in carne ed ossa. Una società che la smetta di stupirsi, di incuriosirsi in modo pruriginoso, che la smetta con “l’avevo detto io che non era per davvero” e anche con il “ma che cosa fantastica che state facendo”. Serve un “basta” coi commenti, servono più accoglienza e più servizi invece. Non solo per i nostri figli, ma per tutti i bambini e le bambine che hanno alle spalle storie difficili, adottati e non. Solo questo sguardo libero e autentico alle necessità delle persone permetterà di parlare di madri, padri e figli senza bisogno di aggettivarli, ma riconoscendo loro la differenza delle proprie storie di vita. Madri di origine, madri biologiche, madri naturali, madri adottive potranno diventare semplicemente madri, donne con la propria storia e la propria posizione nella vita dei propri figli. Forse sarà proprio una stagione con meno aggettivi che farà sentire meno in discussione i legami che si sono creati attraverso l’adozione, senza più la necessità di dover stabilire se contano di più i “legami si sangue” rispetto ai “legami adottivi”. Potrebbe essere una visione di questo tipo a liberare per davvero l’orizzonte. Essere genitori per adozione significa essere in contatto con i genitori dei nostri figli, non nella realtà (che è spesso poca cosa rispetto a quel che ci vive dentro), ma nella nostra mente e nel nostro cuore, nella funzione che noi esprimiamo. Noi siamo, per i nostri figli, i “genitori”, facciamo parte di quella categoria lì, saremo lì, dentro di loro, con le nostri voci, le nostre immagini, anche quando non ci saremo più. Noi saremo la “parola della madre e del padre” anche dopo la nostra morte. Così come lo sono anche i genitori che sono venuti prima di noi, anche quando la loro “parola” è solo un simbolo di nascita, di storia, di origine. Nell’adozione ci sono quattro genitori in gioco, quattro genitori per i nostri figli. Siamo in quattro, tutti veri, tutti reali ed anche tutti dentro i nostri figli, nel bene e nel male.