5 minute read
le storie di lpp PAOLO PORTOGHESI dal Barocco alla Strada Novissima
di Luigi Prestinenza Puglisi illustrazione di Roberto Malfatti
L’unanime e diffuso cordoglio per la morte di Paolo Portoghesi, avvenuta il 30 maggio di quest’anno, ha mostrato quanto l’architetto romano fosse stato importante nella diffusione di una immagine popolare dell’architettura. E quanto i suoi libri – soprattutto sul barocco – decisivi per formare la nostra coscienza storica.
Il tema che invece i commenti hanno affrontato di sfuggita, riguarda le opere architettoniche e se il metodo di progettazione ad esse sotteso possa essere ancora considerato di una qualche utilità. Portoghesi infatti non ha mai abdicato da una posizione secondo la quale la buona architettura non può che essere in continuità con la migliore del passato. E ha evidenziato più volte la tesi che la modernità, se recide le sue radici con la tradizione, è monca e destinata all’insuccesso presso il vasto pubblico, il quale non riesce a capirne l’approccio astratto: troppo geometrico, troppo minimalista, troppo cerebrale.
Portoghesi ha conseguentemente cercato di recuperare segni del passato nella loro corposa abbondanza, non esitando a fare opera di collage, di scomposizione e ricomposizione del patrimonio figurativo, con evidenti riferimenti al Barocco e al Liberty, visti come momenti paradigmatici per la loro maggiore esuberanza formativa e linguistica.
Ma poiché della storia si può salvare tutto tranne che la storia stessa, e cioè non si può impedire il passare del tempo, i risultati di questi ripescaggi appaiono irreali, recuperi fiabeschi e incantati nonché spesso, per la diversità delle tecniche edilizie e per la povertà dei budget, di cartapesta. Per dirla con una battuta, Portoghesi ci ha donato un sogno insieme erudito e zuccheroso, con opere che ricordano Disneyland. Del resto a risultati non diversi sono giunti architetti che hanno tentato strade simili: per esempio Charles Jencks o Leon Krier.
Fu forse proprio per questa mitologica idea della storia che Manfredo Tafuri riservò a Portoghesi parole di fuoco. Nella sua Storia dell’architettura italiana, per esempio, lo bolla per il ‘gusto per l’eccesso privo di tensioni’. Eppure gli anni in cui Tafuri scriveva sono stati per l’opera di Paolo Portoghesi i migliori. Collaborava con lui Vittorio Gigliotti, un ingegnere salernitano di talento, cresciuto alla scuola di Zevi, che riusciva a contemperare il kitsch stilistico con la dialettica del cosiddetto neo liberty, giocando tra spazialità contemporanea e riferimenti barocchi.
Se il rapporto con Tafuri non fu felice, quello con Zevi fu disastroso. Erano legati da un intenso legame da allievo a maestro e si era instaurata una comunanza spirituale tanto forte da spingere Bruno Zevi, accentratore e individualista, a condividere la realizzazione di un’opera alla quale doveva tenere particolarmente, il volume dedicato a Michelangelo architetto. Dopo Michelangelo i due avrebbero affrontato l’altro sommo eroe della mitologia zeviana: Francesco Borromini. Il testo, pare già pronto per la stampa, non fu mai pubblicato. Così come non fu mai ripubblicato il Michelangelo architetto. Non sapremo mai perché. Se per uno scontro tra personalità, aggravato dal fatto che Zevi, che non era certo facile, vedeva l’allievo trasformarsi in antagonista; se per incompatibilità di tesi, e Zevi era khomeinista nella sua religione della libertà; se per ragioni estranee al libro. Fatto sta che Zevi divenne il peggior nemico di Portoghesi e non perse occasione per criticarlo con insulti che solo un incassatore eccezionale ha potuto subire senza reagire con una querela per diffamazione. Portoghesi, dal canto suo, sembrava fare di tutto per meritare le critiche. Flirtava con il potere, diventando in poco tempo l’architetto ufficiale del Psi di Bettino Craxi. Progettava opere piacione e kitsch. Acquisiva, uno dopo l’altro, gli incarichi più importanti.
Lo studioso tuttavia riuscì a non farsi seppellire dalla politica e dalla professione, conservando un ruolo di primo piano nella costruzione della cultura architettonica italiana. Non mi riferisco solo ai suoi testi fondamentali sul Barocco, ma al suo incessante ruolo di animatore di imprese culturali. Basta ricordare il Dizionario di Architettura e Urbanistica a cui collaborarono numerosi giovani promettenti, tra i quali Renato Nicolini, insieme a studiosi quali Giulio Carlo Argan, Manfredo Tafuri, Christian NorbergSchulz, Umberto Eco.
E aggiungerei la rivista Controspazio, di cui è stato nel 1966 fondatore e sino al 1983 direttore. Controspazio, nonostante le pesanti derive reazionarie, ha avuto il merito di rivedere, attraverso numeri monografici, intere pagine di una storia ridicolmente semplificata dell’avanguardia e del Movimento Moderno in Italia, arruolando come redattori o collaboratori alcune delle più brillanti intelligenze critiche. Portoghesi, diversamente da altri maestri, che hanno creato il vuoto intorno a se stessi, è stato uno dei rari che ha incessabilmente cercato di costruire una rete.
L’operazione più importante è stata la Biennale di Architettura di Venezia del 1980, quando, in sintonia con Charles Jencks, ha cercato di mettere sotto la stessa bandiera le incompatibili linee di ricerca che costituivano la galassia postmoderna. E così si trovarono in mostra architetti tanto diversi quanto Frank O. Gehry, Hans Hollein, Aldo Rossi, Michael Graves, Oswald Mathias Ungers, Ricardo Bofill e un giovane Rem Koolhaas.
L’operazione era destinata a fallire lasciando però un’opera, la Strada Novissima, della quale si sarebbe discusso per decenni. Ma senza impedire che ognuno, compreso Portoghesi, proseguisse per la propria direzione. Infine, è venuta la passione per l’ecologia e Portoghesi ha inventato la geoarchitettura, ma non credo che lo ricorderemo mai per questa, sia pur apprezzabile, idea ■
Nell’illustrazioe di Roberto Malfatti, la Grande Moschea di Roma (1974-1995), una delle opere più note di Paolo Portoghesi.
SIMONSWERK / si – mons – werk /:
1. I nostri prodotti permettono alle porte di aprirsi dal 1889 2. La nostra sfida, rendere il buono sempre migliore
3. Innovazione ed elevati standard qualitativi sono i pilastri del nostro successo 4. La nostra forza sta’ nella cura per i dettagli 5. La parola “Cerniera” è troppo semplice per descrivere i nostri sistemi. 6. In un mondo in costante trasformazione siamo precursori nel cambiamento
7. Semplicemente, SIMONSWERK
La Tane Garden House e, accanto, Tsuyoshi Tane con il presidente emerito di Vitra Rolf Fehlbaum (ph. ©Julien Lanoo e Dejan Jovanovic). Sotto, uno dei numerosi modelli di studio realizzati dall’architetto giapponese.
La Casa Del Giardiniere
INAUGURATA NEI GIORNI DI ART BASEL, LA PICCOLA
ARCHITETTURA DI TSUYOSHI TANE SORGE ACCANTO
AL GIARDINO DI PIET OUDOLF NEL CAMPUS VITRA
Misura solo 15 mq e, sebbene sia dotata anche di un angolo caffè, la sua funzione è quella di deposito degli attrezzi per i giardinieri dell’Oudolf Garten e per i dipendenti Vitra che curano le api e l’orto in fase di realizzazione. Dopo il primo incontro, tre anni fa, con il presidente emerito di Vitra Rolf Fehlbaum, il 43enne architetto giapponese, di base a Parigi, Tsuyoshi Tane ha dedicato molto tempo al progetto, realizzando tanti piccoli modelli (in autunno ci sarà una mostra) quante erano le possibilità che i racconti prima, il luogo e il desiderio di utilizzare solo materiali locali poi aprivano alla sua creatività.
Dopo l’Umbrella House di Kazuo Shinohara, il Conference Pavilion di Tadao Ando e il Factory Building di Sanaa, la Tane Garden House è la quarta architettura di un progettista giappo- nese che si aggiunge alle opere, quasi una rassegna di premi Pritzker, del Campus Vitra, ma al contrario delle altre è interamente costruita da artigiani del posto e con pietra, legno e paglia di provenienza locale.
È quasi un segnale che svela la futura evoluzione, nelle intenzioni di Fehlbaum e di sua figlia Nora, oggi alla guida dell’azienda, del Campus Vitra: trasformarlo in un parco. Prati fioriti hanno già preso il posto dei tappeti erbosi all’inglese da cui emergevano le architetture di Zaha Hadid, Frank Gehry, Buckminster Fuller, Jean Prouvè, Renzo Piano, Herzog e De Meuron e gli stabilimenti industriali di Nicholas Grimshaw e Álvaro Siza.
In futuro, insieme alla demineralizzazione di molte superfici asfaltate, vedremo forse crescere un bosco di essenze autoctone ■