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Urbanità diffusa

Le considerazioni di Stefano Fera riscoprono il fascino e l’attualità delle città storiche d’Italia

di Carlo Ezechieli

Meglio evitare ormai il termine virale, anche se qualche eccezione va fatta, come per il contributo di Stefano Fera, sviluppato in ambito teatrale e rilanciato online (bit. ly/2WLqyZV) affermandosi come un positivo contagio culturale. Nel suo racconto Fera solleva importanti interrogativi sul modo in cui oggi pensiamo e sviluppiamo le città e mette in luce l’unicità del modello di ‘urbanità diffusa’, alternativo alle grandi concentrazioni metropolitane, che caratterizza profondamente il sistema insediativo italiano. Temi che abbiamo deciso di approfondire con lui in questa intervista.

Cesena, piazza del Popolo

ph Creative Commons licenza 4.0, autore Lorenzo Gaudenzi

I capoluoghi italiani sono stati per secoli centri di cultura e arte. Negli ultimi tempi sembravano aver perso terreno rispetto alle metropoli, questo almeno finché una circostanza come il Covid-19 ha rimescolato le carte. Come vede il futuro prossimo di queste piccole capitali d’Italia?

Lo vedo bene, perché il futuro delle città italiane è legato alle loro caratteristiche storiche, del tutto uniche. Abbiamo città non solo belle, ma anche efficienti, con una qualità della vita eccezionale, che non ha pari in molte altre parti del mondo. Penso ad esempio alle città della Pianura Padana, poste a pochi chilometri l’una dall’altra, lungo la Via Emilia. Ricordo, inoltre, che le più antiche e importanti università italiane sono in città di medie dimensioni, quali Pavia, Bologna, Padova e Pisa, non in grandi città come Milano e Roma. Abbiamo una fortuna incredibile – che in verità non credo sia stata mai compresa fino in fondo – data da quella che chiamo urbanità diffusa, cioè da una qualità della vita urbana distribuita in modo abbastanza omogeneo su tutto il territorio nazionale. Tale urbanità diffusa è stata prodotta, nell’arco di due millenni, dalla rete delle strade consolari romane, ossia il sistema infrastrutturale terrestre più antico del mondo che da sempre facilita il collegamento tra i vari centri urbani. Questo il motivo per cui in Italia non si è mai sentita la necessità di megalopoli come Parigi, Londra o Madrid. È anche vero che Francia, Spagna e Inghilterra, a differenza dell’Italia, hanno avuto per secoli organizzazioni statali fortemente centralizzate. Ma è pure vero che l’accentramento amministrativo, culturale e politico, se da un lato esalta le città capitali, dall’altro impoverisce e rende marginali gli altri centri. Se prendiamo metropoli come Parigi, e ancor più Madrid, vediamo che al loro intorno c’è il vuoto. Da noi, al contrario, anche attorno a una grande città come Milano si ha un reticolo di piccole e antiche capitali tuttora dotate di fortissima identità sociale e culturale. Ricordiamoci che in Italia abbiamo la parola ‘campanilismo’ che è intraducibile in altre lingue, se non ricorrendo a perifrasi. I Francesi hanno inventato, invece, lo ‘sciovinismo’, che è il suo opposto. In Italia, infatti, c’è un deficit di nazionalismo, mentre sentiamo tutti un attaccamento viscerale ai nostri luoghi di origine. Per noi Italiani il rapporto con la città è, nel bene e nel male, identitario. Ciò si deve al fatto che le antichissime città italiane, nonostante le invasioni, le guerre, i terremoti e le tante sciagure, mantengono tutt’oggi un’immagine nitida, distinta, caratterizzata e caratterizzante, prodotta da quell’eccezionale fenomeno tipicamente italiano che è stata la ‘civiltà di corte’; fenomeno che le ha rese tutte piccole patrie. Sebbene fossero costantemente in guerra tra loro, è stata proprio la competizione tra città a farle diventare sempre più belle e uniche, generando una continua migrazione di intellettuali e artisti da una corte all’altra, come nel caso illustre del Bramante che sessantenne, caduto Ludovico il Moro, trasloca e inizia una seconda vita a Roma, alla corte papale.

Bologna, portico di via Saragozza

ph Creative Commons licenza 4.0, autore Loris Quartieri

Nonostante tutto, le metropoli sono diventate sempre più polarizzanti sia a scala globale che nazionale. Milano ad esempio è ormai una sorta di buco nero rispetto ai centri, anche importanti, che le stanno intorno.

Questa trasformazione penso dipenda soprattutto dal passaggio dal capitalismo industriale al capitalismo finanziario. Il che spiega anche la parabola discendente di Genova all’interno del cosiddetto ‘triangolo industriale’. Milano non è mai riuscita a diventare capitale unica dell’industria italiana, mentre oggi al contrario è l’indiscussa capitale finanziaria del Paese. La stessa rilevanza dei progetti architettonici milanesi, da poco realizzati o in fase di realizzazione, dipende dal fatto che qui si concentrano le capitalizzazioni immobiliari dei principali fondi d’investimento internazionali. Ormai questi processi seguono dinamiche singolari, quasi o del tutto inedite, almeno in Italia, fino a pochi anni fa. Oggi non si costruisce più per vendere o affittare, ma per creare asset immobiliari da mettere a libro. I nuovi edifici che vediamo sorgere a Milano hanno una funzione analoga a quella dei lingotti d’oro nei caveau. Importa poco che entrino nel circuito del normale mercato immobiliare basato su domanda e offerta, quel che conta è che tali edifici siano realizzati in aree il cui rating sia certificato secondo standard dettati dalla finanza internazionale. Faccio un esempio che ho seguito dall’inizio del cantiere, essendo un luogo in cui passo abbastanza spesso. A Parigi, lungo la Senna, di fronte all’Île Seguin, su una delle ex aree Renault, tra il 2004 e il 2007 Hines ha realizzato il Meudon Campus, un tipico baraccone da uffici all’americana: 18.000 mq distribuiti in cinque edifici su quattro ettari di landscaped park. Da quando è stato ultimato a oggi non è mai stato affittato e nessuno sembra preoccuparsene. Se una cosa del genere l’avesse fatta un classico investitore immobiliare del passato sarebbe fallito o avrebbe cambiato mestiere, invece Hines e soci continuano imperterriti a fare operazioni analoghe, a Parigi come altrove. Tutto ciò contraddice i criteri in base ai quali, per secoli, si sono costruite le città. Si può perciò parlare di finanziarizzazione selvaggia che, insieme alla turistificazione selvaggia (Airbnb e simili), sta cannibalizzando le principali città europee. Da ciò le bolle immobiliari che si susseguono con sempre più devastante intensità, ma anche i tanti quartieri antichi deserti e i nuovi nati morti che vediamo a Milano, come in tutte le altre città europee prese di mira dai fondi d’investimento internazionali.

Certo che, se costruire senza nessuna necessità abitativa è una prassi che sfiora l’assurdo, anche costruire per vendere, in senso speculativo, ha avuto e ha impatti tremendi sulla qualità abitativa e ambientale. Si tratta di rifondare i presupposti di partenza. Come si dovrebbe sviluppare oggi una città?

La risposta, a mio avviso, è semplice: le città devono essere ripensate senza automobili, punto. È inutile scervellarsi a inventare pannicelli caldi di varia e fantasiosa ispirazione ambientalista/ecologista. Dobbiamo semplicemente smettere di pensare che le automobili siano indispensabili, questo è il grande tema urbanistico di maggiore urgenza e attualità. Tema che a gente di età maggiore o pari alla mia risulta utopico e inconcepibile, mentre per i ventenni è del tutto logico ed evidente. Ed è qui che le nostre antiche città, che fino a ieri consideravamo obsolete e sventravamo per renderle accessibili al traffico, ridiventano moderne e pienamente funzionali. Perché qui sta l’enorme differenza tra la metropoli nordamericana e nordeuropea e l’urbanità diffusa delle nostre città medio-piccole. Mentre in una città americana, senza automobile sei morto, in qualsiasi centro storico italiano se non la possiedi stai benissimo, anzi, meglio. Se poi, come sembrerebbe, il telelavoro riducesse davvero la necessità di continui spostamenti, allora la dipendenza dal mezzo di trasporto privato diventerebbe quasi nulla, o per lo meno gestibile con sistemi di condivisione come il car-sharing o il bike-sharing.

Fabriano, il voltone a sesto acuto sotto il Palazzo del Podestà

ph Creative Commons licenza 2.0, autore Heinz Bunse

Qual è la chiave per far rinascere queste nostre piccole capitali?

Credo che la chiave stia nel non avere chiavi. Voglio dire, gli architetti devono smetterla di sentirsi i demiurghi del futuro e del sociale. Va già bene quando riescono a fare il loro mestiere senza causare troppi danni, figuriamoci risolvere i problemi di società complesse come le nostre. Questa forma di presunzione e d’egolatria culturale nasce nel momento in cui si afferma la figura dell’urbanista come soggetto professionale distinto e alternativo all’architetto. A partire dal ‘68 l’architetto è visto, infatti, come un vecchio aggeggio borghese, buono solo a far case per le signore bene. L’urbanista, al contrario, appare come il nuovo interprete della lotta di classe e l’artefice della società futura: a lui spetta il ruolo di veggente, quindi programmatore, pianificatore e regolatore di qualsiasi forma di sviluppo socioeconomico. Da questo equivoco sono emersi disastri immani. L’Italia è un paese ricco di differenze, da regione a regione: come in ambiente naturale esiste una grande biodiversità, così in ambiente urbano si ha altrettanta ricchezza e differenziazione edilizia, architettonica e urbanistica. Bisogna quindi evitare ricette precostituite, valevoli ovunque e comunque. In ogni caso, bisogna impedire agli urbanisti di predire il futuro. Esiste una letteratura che, se non avesse causato i danni che ha causato, sarebbe anche involontariamente umoristica. Si tratta delle previsioni, sbagliatissime, dei vari Piani Regolatori prodotti in Italia negli ultimi 60 anni. Un esempio per tutti: se Malpensa oggi è l’aeroporto di Novara, invece che di Milano, si deve al fatto che gli urbanisti dell’epoca fossero convinti che nel Duemila i due centri si sarebbero saldati dando vita a un’unica città-regione. Per fortuna ciò non è avvenuto, ma il risultato è che Malpensa oggi è uno degli aeroporti europei più scomodi da raggiungere, con qualsiasi mezzo. Ritengo insomma necessario essere pragmatici, assecondare il nostro passato e soprattutto evitare di farci colonizzare culturalmente proprio nei campi in cui siamo più ricchi: architettura e città. Porto ancora un esempio che conosco bene: i quartieri di edilizia economica popolare realizzati a Genova negli anni ’80, in seguito alla legge Nicolazzi sugli sfratti. La maggior parte dei complessi progettati dagli architetti di partito sull’esempio di new towns e villes nouvelles è oggi fatiscente e da demolire, mentre i due quartieri disegnati da Ignazio Gardella e Gianfranco Caniggia seguendo la logica delle città italiane sono in buono stato e offrono le migliori condizioni abitative. Gardella e Caniggia non hanno fatto nulla di eccezionale, hanno semplicemente disposto gli edifici come si è sempre fatto in Liguria: allineando le case a strade tracciate seguendo le curve di livello e l’orografia del terreno, quindi infischiandosene dell’asse elio-termico e di tutte le altre fesserie moderniste. Purtroppo, tali fesserie si sono spesso tradotte in leggi e norme urbanistiche che oggi ci impediscono di operare nel modo più logico. Per molto tempo non ci siamo resi conto dei tesori che avevamo. Inoltre la città storica era del tutto flessibile: in ogni edificio, finito un utilizzo se ne insediava un altro e non c’era nessuna legge che lo impedisse. Talvolta si procedeva con alterazioni, anche pesanti, che tuttavia consentivano agli edifici di sopravvivere: conventi espropriati diventavano prigioni, laboratori, scuole, ospedali, musei. In questo modo diversi monumenti, sebbene malconci, si sono salvati e sono arrivati fino a noi. Visti nell’insieme, noi Italiani siamo un po’ come certe vecchie famiglie decadute che, affittati malamente i piani nobili del palazzo avito, si riducono a vivere nei locali della servitù lasciando meravigliosi mobili antichi a marcire in cantina, quindi arredandosi le loro quattro stanze con carabattole dell’Ikea. Questo è quanto abbiamo fatto finora, quasi dappertutto, con le nostre città e col nostro immenso patrimonio storico-artistico. Sarebbe ora di smettere e invertire la rotta ■

Stefano Fera

Stefano Fera, architetto, ha collaborato da studente e a inizio carriera con Ignazio Gardella e Aldo Rossi, quindi col padre Cesare Fera. Attivo soprattutto nel campo del restauro architettonico e urbano, è specializzato nello studio dell’architettura premoderna e degli ordini architettonici. Sull’argomento ha curato la riedizione digitale della Regola del Vignola. Ha insegnato in varie università italiane e straniere. Ha collaborato con riviste e quotidiani su temi d’architettura e urbanistica. È stato recentemente invitato da Sergio Maifredi e Corrado d’Elia a contribuire alla rassegna online Racconti in Tempo di Peste col video Il virus, grande urbanista! Ha in corso di pubblicazione il saggio Gusto architettonico per GUP (Genoa University Press).

www.stefanofera.it

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