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Aprire allo spazio aperto | ANDREAS KIPAR

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Andreas Kipar Architetto, paesaggista e pianificatore, Andreas Kipar è fondatore e direttore creativo dello studio internazionale Land. Dal 2009 insegna Public Space Design presso il Politecnico di Milano. Il suo modello di urbanistica green Raggi Verdi, ideato per collegare il centro con le periferie di Milano, ha trovato applicazione a Essen e in diversi piani del verde in Italia, tra cui Vercelli e Lecco. Kipar e il suo team hanno seguito il landscaping per l’Expo 2020 Dubai, la greenery strategy per alcuni centri in Medio Oriente e il padiglione tedesco dell’Expo 2019 a Pechino. Attualmente Land lavora anche alla redazione di piani del verde urbano e periurbano in molte città, tra cui Milano, Cagliari, Piacenza, Reggio Emilia, Essen, e per l’elaborazione di piani strategici territoriali nel bacino della Ruhr, nel Carso, nelle Langhe, sul Lago di Garda e in diverse isole italiane.

ANDREAS KIPAR APRIRE ALLO SPAZIO APERTO

di Carlo Ezechieli

Più di trent’anni fa Andreas Kipar, tedesco, naturalizzato milanese, con Giovanni Sala fondò Land, che è ormai diventato uno più importanti studi di progettazione del paesaggio presenti in Italia. Da un certo punto di vista Land è stato un precursore, promotore di una cultura del paesaggio che, con la sola esclusione di magnifici giardini privati, era in Italia quasi del tutto assente. Oggi qualche timido passo avanti è stato fatto, e nel frattempo Land è diventata per questo un punto di riferimento. Nella sede dello studio a Milano, nello spazio della Wunderkammer, inaugurato di recente, Kipar ci ha accolto con una lunga e interessante conversazione sul passato e sul futuro del progetto degli spazi aperti.

Con Land hai avuto una parte importante e anche il modo di osservare cambiamenti importanti nella cultura del verde. Cosa si è sviluppato in questi anni? Credo che negli ultimi anni sia cambiato un po’ il modo di vedere le cose. Il mito dello sviluppo infinito si sta spegnendo, abbiamo consumato tutto il consumabile e la prospettiva, anche dopo la pandemia, è cambiata. Siamo consapevoli di questo fallimento e ci teniamo stretto quello che rimane. È per questo che ci aggrappiamo al concetto di natura come se fosse un talismano. C’è una dinamicità nel cambiamento che si sta sostituendo alla staticità che sta crollando.

Il rapporto con la natura è sempre più centrale in qualsiasi ramo dell’architettura, ma cosa sta cambiando? Nel tempo ci siamo allontanati dalla natura, il comandamento era dominarla, ed è qualcosa che si è accentuato soprattutto negli ultimi 200-300 anni. La natura una volta faceva paura, ma oggi, anche se ci illudiamo di tenerla completamente sotto controllo, fa ancora paura, e questo proprio per cause a noi riconducibili. Basti pensare a eventi meteorologici inauditi come quelli accaduti in Germania nell’estate del 2021. È una situazione dinamica che lascia spazio all’imprevisto. Anche in urbanistica, mentre fino a qualche anno fa si poteva fare qualsiasi cosa pensando poi di compensarlo, oggi si è molto più cauti, perché il principio di procurare un danno per poi mitigarlo non vale più.

E cosa è cambiato in Italia? È interessante che ai miei inizi, nel lontano 1984-1985, il Parco Nord mi diede la possibilità di piantare alberi, cosa di cui all’epoca non interessava a nessuno. Mi fu possibile farlo solo perché era una situazione marginale che però è diventata una sorta di volano nell’intervento sulla Bicocca di Gregotti: un programma, a pensarci, immenso che per anni ha di fatto monopolizzato l’urbanistica a Milano.

Che ruolo ha o ha avuto la cultura, la storia, se non gli stessi percorsi di formazione?

Sotto, i giardini di viale della Liberazione a Milano. A destra, la strategia ambientale di Land per lo sviluppo di Porta Nuova e sotto piazza Gae Aulenti (ph. courtesy Land).

La scuola italiana senza dubbio non è facile. Penso anche all’università. Con i miei studenti del Politecnico, ad esempio, faccio molta fatica a rompere il preconcetto che porta a considerare lo spazio pubblico come una sorta di oggetto, concluso e quasi a sé stante. E nel corso dei sei mesi di un laboratorio di progettazione lo sforzo principale è quello di spiegare che lo spazio pubblico va oltre la codificazione tradizionale. Non è sempre solo un giardinetto, non è sempre un parco o una piazza, mentre, sempre, è un insieme di spazi. Far loro tradurre questo in un progetto è quasi impossibile. Ma finché non si prenderà in considerazione quello spazio grigio tra un elemento e l’altro continueremo sempre a fare pezzi senza seguire un linguaggio comune. Io chiamo tutto questo la “cultura del cordolo” perché il cordolo divide, identifica e dà sicurezza. Herzog e De Meuron in un loro scritto dal titolo Achtung Landschaft del 2015 hanno del resto detto che la città va osservata dal punto di vista degli spazi aperti. E dal mio punto di vista, se l’architettura è il gioiello, il paesaggio è il passe-partout che lo incornicia. E a pensarci bene, oggi, il passepartout è quasi più importante del gioiello: guarda quanti oggetti insignificanti, o gioielli, la cui importanza è stata enormemente ridimensionata rispetto al passato, sono incorniciati da incredibili passe-partout!

Puoi identificare dei passaggi chiave nella storia e nell’evoluzione della considerazione per il pro-

getto del paesaggio? A Milano c’è stata una generazione importante, quella di Vittorio Gregotti e di Gino Valle, che ha indirizzato in modo significativo l’evolversi della città. Credo che il primo che abbia introdotto, sapientemente, degli stranieri e una cultura alternativa sul tema, sia stato Manfredi Catella. È stato il primo a portare una cultura anglosassone e con questa una cultura del progetto dello spazio pubblico. Per noi si è aperto un periodo interessante, perché avendo sempre lavorato su questi temi si apriva il tema della dialettica tra spazi, di dinamicità. Che ruolo poteva assumere il verde all’interno di nuovi spazi urbani? Catella voleva un parco, pensava alle relazioni tra gli spazi.

Ma è anche vero che un po’ di resistenza è rimasta. In effetti, prima citavo il parco, ma l’altra frontiera di resistenza è la piazza. Ma basta pensare alla città come spazio urbano e superi di colpo tutti questi concetti. La città non è più un agglomerato di architetture, un’addizione di cose, è un luogo degli spazi. Parigi è la prima città che l’ha capito, la città è una sequenza di spazi, dove è molto più probabile che uno non si ricordi di particolari edifici, ma i ChampsÉlysées, la Place Des Vosges, Les Tuileries: spazi. E anche gli architetti incominciano a capirlo. A Milano Norman Foster in piazzetta Liberty è un ottimo esempio di messa in pratica di questi principi e crea un nuovo spazio. E questo è interessante ed è qualcosa che ha origine da una cultura anglosassone, più pragmatica, secondo il principio enunciato da Jan Gehl: First People, Then Space, Then Architecture, che è il criterio con cui è stata fatta Copenhagen.

Piazza Liberty è un caso, ma è abbastanza isolato, quali altri esempi potresti citare? Pensando al tema della piazza il progetto Loreto Open Community (Loc), su piazzale Loreto, sempre a Milano, rappresenta l’essenza e la conseguenza di quanto ho detto finora. L’abbiamo sviluppato in piena pandemia e secondo un mantra per me fondamentale: piazzale Loreto non è una piazza. Loc è un tentativo di rompere con quella staticità fasulla che voleva in qualche modo suggerire una piazza. Dovevamo liberare la piazza da sé stessa, e questo voleva dire trovare connessioni altrove e fare entrare i flussi. Facendo entrare gli assi e accettando di rinunciare a qualcosa, abbiamo solo ridotto il traffico per entrare a diversi livelli, ben cinque, come in una torta a strati, al punto che siamo riusciti a piantare degli alberi nel suolo vero e proprio, del quale si era persa quasi completamente la memoria. E lo spazio pubblico deve entrare dentro gli edifici. E credo che tutti i nostri passi ci abbiano portato fin qui.

Pensi che la struttura di non-piazza come quella da voi proposta per piazzale Loreto corrisponda a una nuova configurazione della società? Quello che succede oggi è che a livello sociale, a differenza di un tempo, c’è soprattutto una grandissima diversità. Allora andiamo in un luogo che offre il potenziale delle diversità. Quello che ci interessa è poter costruire con il paesaggio urbano un Potential Raume, come si dice in tedesco, uno spazio del potenziale. In Germania ogni giardino pubblico era sempre impostato in mezzo a quartieri diversi, di diversa estrazione sociale. Perché si organizzavano i tè con danze nei parchi, perché dai parchi hanno avuto origine moltissimi matrimoni, tra gente che proveniva da quartieri molto diversi e un tempo molti divisi. È una specie di principio di biodiversità applicato alla società.

Nel paesaggio secondo te cosa distingue l’Italia rispetto al resto d’Europa? Molti quando vengono in Italia sono colpiti dalla densità, e molti si chiedono come sia possibile convivere civilmente. In realtà lo spazio pubblico in Italia è così piacevole perché viene

usato come palcoscenico, una sorta di teatro di società. Cose che un tedesco, ad esempio, proprio non fa. La gente si veste bene per uscire, e questo non capita frequentemente all’estero.

Cosa ne pensi dei recenti interventi di urbanistica tattica? Io li vedo molto bene perché sono i classici movimenti di transizione. Passando da uno stato all’altro si attraversa sempre una fase di ebollizione. Tutti sanno che la vecchia urbanistica è morta e sepolta, e l’urbanistica tattica rappresenta la ricerca di un nuovo modello che richiede tuttavia molta onestà e attenzione. Le esperienze di successo in questo campo necessitano di curatori e di operatori esperti dato che i cittadini non sono abituati, vanno coinvolti, devono essere messi al corrente ■

In alto a sinistra il progetto di Loc-Loreto Open Community. A destra, concept dei ‘Raggi Verdi’ milanesi. Accanto, il nuovo parco milanese del Portello (img. courtesy Land).

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