I distretti e la gestione dei rifiuti: la simbiosi industriale per chiudere il ciclo

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I DISTRETTI E LA GESTIONE DEI RIFIUTI: LA SIMBIOSI INDUSTRIALE PER CHIUDERE IL CICLO Laboratorio SPL Collana Ambiente

Abstract Dove la produzione industriale si articola lungo direttrici distrettuali, anche la gestione dei rifiuti deve seguire la stessa logica. I distretti rappresentano l'ecosistema ideale per politiche di prevenzione, razionalizzazione e recupero dei rifiuti. La circolarità dell’economia passa dalla capacità di incanalare gli scarti in circuiti di valorizzazione e di gestione controllata. La simbiosi industriale è allora la risposta. Where industrial production is structured along district lines, waste management must also follow the same logic. Districts represent the ideal ecosystem for waste prevention, rationalization and recovery policies. Circular economy passes from the ability to channel waste into circuits of enhancement and controlled management. Industrial symbiosis is then the answer.

Il presente studio raccoglie gli esiti di un lavoro realizzato da REF Ricerche in collaborazione con Utilitatis di cui alcuni risultati preliminari sono stati anticipati nel corso della Fiera internazionale di Ecomondo 2019. Gruppo di lavoro: Donato Berardi, Antonio Pergolizzi

REF Ricerche srl, Via Aurelio Saffi, 12, 20123 - Milano (www.refricerche.it) Il Laboratorio è un'iniziativa sostenuta da (in ordine di adesione): ACEA, Utilitalia-Utilitatis, SMAT, IREN, Siram, Acquedotto Pugliese, HERA, Metropolitana Milanese, CSEA, Cassa Depositi e Prestiti, Viveracqua, Romagna Acque, Water Alliance, CIIP, Abbanoa, CAFC, GAIA, FCC Aqualia Italia, GORI, Veritas, A2A Ambiente, Confservizi Lombardia, FISE Assoambiente, A2A Ciclo Idrico, AIMAG, DECO


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Gli ultimi contributi n. 146 - Acqua - L'Unione Europea all'alba del nuovo decennio: il Green Deal per il Servizio Idrico Integrato, marzo 2020 n. 145 - Istituzioni - Costruire Prossimità: il ruolo delle istituzioni locali nella prevenzione dei NIMBY, marzo 2020 n. 144 - Acqua - Sviluppo del Sud: partiamo dall'acqua, febbraio 2020 n. 143 - Rifiuti - Gestione dei rifiuti: per le imprese costi in aumento, febbraio 2020 n. 142 - Rifiuti - Rifiuti e responsabilità estesa del produttore: imparando dall'Europa, febbraio 2020 n. 141 - Rifiuti - Green Deal. Cose da fare nell'acqua e nei rifiuti, gennaio 2020 n. 140 - Rifiuti - La responsabilità delle scelte: i fabbisogni impiantistici e il ruolo delle regioni, gennaio 2020 n. 139 - Acqua - Concorrenza per il mercato nel servizio idrico: a Rimini la prima vera gara dall'avvento di ARERA, gennaio 2020 n. 138 - Rifiuti - Metodo Tariffario Rifiuti: un "salto di qualità" per il futuro settore, dicembre 2019 n. 137 - Rifiuti - La responsabilità estesa del produttore (EPR): una riforma per favorire prevenzione e riciclo, dicembre 2019

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La missione Il Laboratorio Servizi Pubblici Locali è una iniziativa di analisi e discussione che intende riunire selezionati rappresentanti del mondo dell´impresa, delle istituzioni e della finanza al fine di rilanciare il dibattito sul futuro dei Servizi Pubblici Locali. Molteplici tensioni sono presenti nel panorama economico italiano, quali la crisi delle finanze pubbliche nazionali e locali, la spinta comunitaria verso la concorrenza, la riduzione del potere d’acquisto delle famiglie, il rapporto tra amministratori e cittadini, la tutela dell’ambiente. Per esperienza, indipendenza e qualità nella ricerca economica REF Ricerche è il “luogo ideale” sia per condurre il dibattito sui Servizi Pubblici Locali su binari di “razionalità economica”, sia per porlo in relazione con il più ampio quadro delle compatibilità e delle tendenze macroeconomiche del Paese.

ISSN 2531-3215 Donato Berardi Direttore dberardi@refricerche.it

Editore: REF Ricerche srl Via Saffi 12 - 20123 Milano tel. 0287078150 www.refricerche.it

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PREMESSA Due precedenti Contributi di questa collana hanno analizzato i fabbisogni impiantistici di smaltimento e avvio a recupero energetico delle regioni1 , considerando per la prima volta rifiuti urbani e speciali contestualmente, e hanno fornito una stima dell’incremento dei costi di gestione dei rifiuti a carico del settore manifatturiero, particolarmente colpito dei rincari occorsi fra il 2017 e il 2019Per un approfondimento si rimanda al Contributo n. 143 del Laboratorio REF Ricerche: “Gestione dei rifiuti: per le imprese costi in aumento”, febbraio 2020.. Rincari che, come si desume dall’analisi, trovano una spiegazione in una congiuntura avversa al settore ma, soprattutto, nelle carenze impiantistiche che caratterizzano molte aree dell’Italia. Senza impianti, infatti, non è nemmeno ipotizzabile un percorso verso la decarbonizzazione della nostra economia sulla strada tracciata dall’Ue e dal nostro paese con il suo Green Deal. Allo stesso tempo è fondamentale immaginare e costruire sinergie e forme di simbiosi industriale, strutturate concretamente su scala localistica (per rispondere alle esigenze e alle particolarità dei singoli contesti) ma con obiettivi generali di sistema. La molteplicità dei punti di generazione dei rifiuti, soprattutto speciali, deve trovare necessariamente forme di raccordo in grado di generare efficienza di processo e di output, all’interno di una visione manifatturiera di lungo periodo di cui l’Italia è maestra nel mondo. Il presente lavoro si propone di inquadrare le istanze dei distretti industriali più colpiti, raccolte attraverso interviste realizzate presso le associazioni imprenditoriali. Tale esercizio, seppure di carattere qualitativo, consente di fornire un’ulteriore dimensione dei rincari, specificatamente collegata a singoli territori, e di toccare “con mano” le difficoltà e le conseguenti perdite di competitività riscontrate dalle imprese. L’acclamato Green Deal, che il nostro Paese ambisce ad intraprendere, deve passare, prima di tutto, dalla misurazione puntuale dei fabbisogni, sia a livello di Sistema-Paese sia nei singoli territori; misurazione propedeutica alla chiusura del ciclo dei rifiuti, anche, e soprattutto, in un’ottica di valorizzazione. Il rischio, concreto, è quello, da un lato, di aggravare la perdita di competitività del settore manifatturiero italiano, dall’altro, di accentuare ancora di più la dipendenza dall’estero per la gestione dei rifiuti.

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Per un approfondimento si rimanda al Contributo n. 141 del Laboratorio REF Ricerche: “La responsabilità delle scelte: i fabbisogni impiantistici e il ruolo delle regioni”, gennaio 2020.

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LA “VOCE” DELLE IMPRESE: LE DIFFICOLTÀ DEI DISTRETTI INDUSTRIALI NELLO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI Il deficit impiantistico che penalizza le aziende del Made in Italy Le carenze impiantistiche stanno arrecando danni alle imprese

La mancanza di una adeguata infrastrutturazione impiantistica per la gestione e soprattutto per la valorizzazione dei rifiuti, a supporto dell’economia circolare, sta arrecando danni al sistema delle imprese, oltre che al Paese in generale. Soffrono le imprese, così come i cittadini e le comunità afflitte da periodiche emergenze ambientali. Un ciclo integrato e industriale dei rifiuti è l’unica opzione in campo, se si vogliono perseguire gli ambiziosi obiettivi delle nuove Direttive UE e salvaguardare l’ambiente e la salute dei cittadini. Purtroppo, il deficit di offerta di trattamento dei rifiuti sta pregiudicando principalmente le imprese produttrici. Tra il settore manifatturiero e quello delle costruzioni si produce più del 61% del totale dei rifiuti speciali, mentre un’altra quota rilevante, pari al 27%, deriva dal trattamento dei rifiuti (una piccola parte comprende anche le attività di risanamento), circa 39 milioni di tonnellate, classificate con codice EER 19, che possono trovare un destino finale praticamente solo in discarica o a incenerimento.

Per le frazioni non riciclabili ci sono poche alternative alla discarica

Nell’attesa che le innovazioni di processo e altre buone (e auspicabili) pratiche all’insegna della prevenzione vedano la luce, il sistema produttivo continua a produrre scarti che vanno necessariamente immessi all’interno di circuiti industriali. Principalmente per le frazioni non riciclabili, l’alternativa è, nel migliore dei casi, la discarica, nel peggiore il caos e il via libera all’ecomafia, come sta accadendo con i capannoni stipati di scarti dati alle fiamme. Anche senza il coinvolgimento diretto del malaffare, è sempre più frequente l’intervento delle forze di polizia o del personale delle Arpa regionali2 per sanzionare depositi temporanei che oltrepassano sia i tempi sia i quantitativi autorizzati, evidentemente a causa della sofferenza verso sbocchi impiantistici. E il grido d’allarme arriva dagli operatori di quasi tutte le filiere. L’esiguità di impianti e il gap tecnologico, soprattutto, degli impianti di termovalorizzazione – il cui atteggiamento ostile della pubblica opinione, accettato dalla classe politica quasi all’unisono, non ha incentivato investimenti in innovazione e sviluppo –, sono aspetti emblematici delle difficoltà dell’intero settore. I 39 impianti di termovalorizzazione operativi impiegano in linea di massima la tecnologia a griglia, che impedisce che si possano conferire anche rifiuti speciali pericolosi. Questi ultimi, prodotti prevalentemente dalle grandi aziende, si trovano a dover fronteggiare il costo principale per il deficit impiantistico.

Le linee che possono trattare i rifiuti pericolosi sono solo cinque

Attualmente in Italia operano solo 5 linee operative su 3 impianti che impiegano una tecnologia a tamburo rotante, tecnologia capace di accogliere anche i pericolosi. Ciò significa che siamo in grado di processare al massimo 300 mila tonnellate/anno di rifiuti pericolosi, il resto deve andare necessariamente all’estero (Francia, Germania, Paesi Bassi, Spagna).

I costi di gestione dei rifiuti pericolosi è triplicato

In altre parole, nei pochi impianti funzionanti, soprattutto con tecnologia a griglia, finiscono per intasarsi i flussi di rifiuti provenienti sia dai circuiti urbani che da quelli speciali. Inevitabile che questo deficit impiantistico si tramuti in un aumento considerevole dei costi di gestione, che nel caso dei pericolosi, secondo molti operatori ascoltati, si è addirittura triplicato. Nel caso dei fanghi 2

L’ultimo caso, in ordine di tempo, risale al 23 ottobre è ha visto gli operatori del dipartimento Lodi-Pavia di Arpa Lombardia porre sotto sequestro, all’interno di un’azienda di Marudo (LO) specializzata nel trattamento dei rifiuti, un quantitativo di rifiuti superiore sino a quattro volte quello autorizzato.

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prodotti dai vari processi di trattamento (in crescita visto il progressivo e positivo, anche se non ancora sufficiente, livello di depurazione, sia per reflui civili sia industriali), per esempio, da un costo di 80 euro a tonnellata si è arrivati a superare i 200 euro; mentre per i rifiuti speciali assimilati agli urbani, quindi coperti dalla TARI, l’aumento è più modesto e quantificabile tra il 5 e il 10%. Complessivamente, per i grossi player l’aumento dei costi può essere quantificato in almeno il 50% rispetto al passato3 . Se, infatti, la distinzione tra rifiuti urbani, gestiti sotto il regime di privativa, e i rifiuti speciali, affidati al mercato, è a monte e riguarda il momento della produzione, a valle gli impianti sono in molti casi i medesimi. E i flussi sono aumentati con il graduale superamento della recente crisi economica, quindi con il miglioramento delle performance produttive, e con il contestuale aumento delle raccolte differenziate dei Comuni. L’aumento delle raccolte e dei sovvalli ha contribuito a saturare gli impianti

In sostanza, il combinato disposto tra la corsa al raggiungimento dei target di raccolta differenziata degli urbani, con il carico dei sovvalli che devono comunque andare a smaltimento, e l’utilizzo degli impianti di trattamento meccanico-biologico (TMB) – che li trasformano in speciali, quindi senza più vincolo di prossimità – ha portato a una saturazione della già esigua offerta impiantistica. Situazione che a fronte di una domanda costante (cioè dal lato della produzione dei rifiuti) e un’offerta insufficiente (cioè dal lato della gestione dei rifiuti) porta all’inevitabile aumento dei prezzi, quindi dei costi a carico sia dei produttori che in genere dei cittadini (almeno per la parte dei costi variabili che ricadono nella TARI/TARIP). È chiaro che in questa dinamica le imprese e le utenze domestiche che si trovano in contesti di forte carenza impiantistica si devono accollare anche gli alti costi di trasporto, con tutte le conseguenze ambientali del caso.

È necessario integrare le filiere dei rifiuti urbani e dei rifiuti speciali

È quindi evidente la necessità di integrare, sia da un punto di vista industriale che di governance, le filiere, dei rifiuti urbani con gli speciali, non fosse altro perché finiscono per gravare sui medesimi impianti. Senza integrazione, prima di tutto sul fronte della pianificazione, si produce una grave strozzatura di sistema, quindi diseconomie, inefficienze, fuga di investimenti e impatti ambientali. C’è di più: se, da un lato, la presenza di impianti di gestione/trattamento è indice di un tessuto produttivo più radicato, è vero pure il contrario, cioè che la possibilità di gestione efficiente degli scarti produce esternalità positive che sono da incentivo all’insediamento di nuove aziende, quindi di investimenti. Al Sud, la totale mancanza di risposte in tal senso concorre a produrre la fuga degli investimenti e la conclamata desertificazione produttiva. La mappa dell’Istat sugli insediamenti produttivi coincide alla perfezione con la mappa dell’Ispra sull’impiantistica a servizio dei rifiuti. Probabilmente un fattore condiziona l’altro in un rapporto di mutua reciprocità, che dovrebbe comunque essere maggiormente investigata dagli economisti, seppure con i rischi di endogeneità in cui si incorre in situazioni di questo tipo.

Il deficit impiantistico non riguarda solo lo smaltimento finale dei rifiuti

Il deficit impiantistico riguarda in generale sia la fase del recupero sia quella dello smaltimento finale. E, come già accennato, se è evidente che il recupero di materia è sempre da privilegiare, è allo stesso tempo vero che per le frazioni residuali (non altrimenti recuperabili) il recupero energetico è preferibile alla discarica, in linea con la gerarchia dei rifiuti dell’UE. La chiusura delle frontiere di Cina e altri paesi asiatici alle nostre esportazioni ci obbliga, oltre che a migliorare la qualità delle raccolte a monte, a pensare soluzioni nazionali per garantire l’autosufficienza di lungo periodo. La tecnologia non manca, così come l’esperienza. Ciò che manca è l’assunzione di re3

Per un approfondimento si rimanda al Contributo n.143 del Laboratorio REF Ricerche: “Gestione dei rifiuti: per le imprese costi in aumento”, febbraio 2020.

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sponsabilità politica, un dibattito franco e scientifico e una corretta informazione diretta all’opinione pubblica. Purtroppo, non c’è tempo da perdere. Come denunciato da Confindustria, nelle sue varie articolazioni territoriali, il sistema di gestione dei rifiuti industriali è già prossimo al collasso un po’ ovunque. Tra mancanza di impianti, confusione normativa - soprattutto sui processi di end of waste e in genere autorizzatori - e le già accennate dinamiche internazionali, la situazione sta favorendo solo il trasporto e i fornitori di carburanti fossili, i broker e in ultima analisi il malaffare. Nei distretti produttivi l’aumento dei costi di gestione si traduce in perdita di competitività

La temperatura è particolarmente alta soprattutto nei distretti produttivi, dove la lievitazione dei costi sta facendo perdere competitività al Made in Italy, e principalmente di quello vocato ai mercati internazionali. Come raccontano molti operatori ascoltati per questo lavoro, i minori costi di gestione dei rifiuti dei competitor stranieri – anche grazie all’alto ricorso all’incenerimento e a normative meno farraginose e meno stringenti - sta facendo la differenza. La competitività delle nostre aziende, insomma, si misura anche dall’efficienza nella gestione del ciclo dei rifiuti. Problematica che dovrebbe essere una delle principali (pre)occupazioni della classe dirigente nazionale, che però continua a sottovalutare questo aspetto.

L’End of Waste e la crisi del mercato del ricicloa L’End of Waste è il processo di recupero attraverso il quale un materiale perde la qualifica di rifiuto e acquisisce quella di prodotto. Affinché ciò accada devono ricorrere alcune condizionib : 1. è destinato a essere utilizzato per scopi specifici; 2. deve esistere un mercato o una domanda per tale prodotto; 3. devono essere soddisfatti i requisiti tecnici, le normative e gli standard applicabili ai prodotti;

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4. l’utilizzo non deve comportare impatti negativi sull’ambiente o sulla salute umana. La definizione dei criteri che determinano la cessazione della qualifica di rifiuto spettano innanzitutto all’UE con apposito Regolamentoc , e in alternativa ai singoli stati membri “attraverso uno o più decreti del Ministero dell’Ambiente”d . Nell’attesa che tali decreti venissero promulgatie , l’attribuzione delle autorizzazioni concernenti la valutazione “caso per caso”, ovvero la valutazione dei criteri di cessazione della qualifica di rifiuto per il singolo impianto, è stata svolta per prassi dalle Regioni, nel rispetto delle condizioni stabilite dalla direttiva quadro sui rifiuti e recepite dal TUA nell’ordinamento italiano. La sentenza n. 1229 del 28 febbraio 2018 del Consiglio di Stato ha interpretato diversamente quanto stabilito nell’art. 6 della direttiva, secondo cui “gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile”, attribuendo in modo restrittivo allo Stato, e non alle Regioni, la possibilità di determinare i criteri del “caso per caso” non vagliati da Regolamenti europei. Le conseguenze dispiegate da tale sentenza hanno cagionato un fermo della filiera del riciclo, proprio quando il nostro Paese si trova a dover recepire nell’ordinamento italiano il Pacchetto Economia Circolare e i relativi obiettivi di riciclaggio stabiliti in sede comunitaria. Il blocco del mercato del riciclo è una delle cause dell’aumento dei rifiuti stoccati presso gli impianti in attesa di essere avviati al recupero. Tali rifiuti, laddove non recuperati, si traducono in un aumento del fabbisogno di smaltimento, e dunque in ultima analisi degli aumenti dei costi di gestione dei rifiuti a carico delle imprese. Si tratta di un danno economico ed ambientale di proporzioni enormi, figlia di un approccio “prevenuto” nei confronti dell’industria del riciclo e che blocca ogni possibilità di sviluppo dell’economia circolare. A seguito delle rimostranze delle imprese del riciclo, il Governo ha tentato in due occasioni di porre rimedio all’impasse: prima con la legge di conversione del decreto “Sblocca Cantieri”f che aveva identificato nel DM 5 febbraio 1998 il riferimento per l’applicazione dei criteri dell’End of Waste, con le problematiche che comportava in termini di attività di recupero e di rifiuti/prodotti il fare riferimento ad un dispositivo di legge di oltre venti anni fa g . In seconda battuta, attraverso un emendamento al decreto “Salva-imprese”h , che prevede la reintroduzione del “caso per caso”, pur accompagnato da un complesso iter autorizzativo e di monitoraggio che coinvolge Ispra, Arpa e lo stesso Ministero dell’Ambiente, il Governo sembra essere riuscito almeno a ripristinare la situazione pre-sentenza del Consiglio di Stato. Come detto, l’art. 14 della Legge n.128/2019 prevede un iter macchinoso che, qualora venisse attivato dalle autorità competenti il meccanismo di “controllo a campione della conformità delle modalità operative e gestionali degli impianti” previsto dalla normativa, potrebbe travalicare i due mesi dal rilascio dell’autorizzazione. Come sottolineato da alcuni esperti del settore, si tratta di procedure che non trovano un riscontro nei processi autorizzativi di impianti meno preferibili da un punto di della gerarchia UE, come i termovalorizzatori o le discarichei . a b

Per un approfondimento si rimanda al Contributo n. 118 del Laboratorio REF Ricerche: “End of Waste primo tassello di una politica industriale”, maggio 2019. D.lgs. 152/2006, art. 184-ter.

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c d e f g h i

Vedi il Regolamento 333/2011 sui rottami di ferro, acciaio e alluminio, il Regolamento 1179/2012 sui rottami di vetro e il Regolamento 715/2013 sui rottami di rame. D.lgs. 152/2006, art. 184, comma 2. Finora sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale i decreti relativi al Combustibile Solido Secondario (CSS), al conglomerato bituminoso, ai prodotti assorbenti per la persona (Pap). Legge 14 giugno 2019, n. 55. Per un approfondimento si rimanda a “End of waste: lo Sblocca cantieri blocca lo sviluppo del riciclo dei rifiuti”, Tuttoambiente.it, giugno 2019. DL n. 101/2019, convertito nella Legge n.128/2019. “Come agire sul recycling habitat. L’analisi di Medugno”, formiche.net, febbraio 2020.

La ripresa dell’attività manifatturiera nel biennio 2016-2017 In Veneto il 60% delle aziende ha riscontrato difficoltà nella gestione dei rifiuti

Una recente indagine di Confindustria Veneto realizzata da Fondazione Nord Est ha registrato che quasi il 60% delle 500 aziende intervistate ha riscontrato difficoltà nel ritiro e nello smaltimento dei suoi rifiuti industriali. E ancora, l’80% delle aziende dichiara di aver registrato un aumento dei costi; il 26% denuncia un aumento medio superiore al 25%. Le filiere maggiormente in difficoltà sono la meccanica-metallurgica, la chimica/farmaceutica, la gomma-plastica, il vetro-ceramica, il legno-arredo, il tessile-calzature, il cartario. Tutti comparti strategici per il sistema produttivo veneto. Un grosso contributo al deficit impiantistico arriva dalle mille forme di NIMBY che ostacolano qualsiasi iniziativa. La campagna mediatica, e spesso anche il mero passa parola, contro il recupero energetico, per esempio, impedisce un confronto sul destino di frazioni non recuperabili, che non possono avere nessun’altra destinazione, eccetto la discarica. Queste istanze di cui sono promotori comitati e associazioni, rivelano la difficoltà delle istituzioni a riannodare un rapporto fiduciario con i territori offrendo soluzioni, facendosi carico della responsabilità collettiva di operare scelte coerenti con la chiusura del ciclo dei rifiuti. Assai di sovente, infatti, le amministrazioni regionali, in luogo di affrontare le questioni riportandole sul piano della razionalità e sostenendo le iniziative impiantistiche, finiscono per accomodare queste istanze, erigendo regolamentazioni ancora più restrittive, spesso meramente strumentali, con il solo obiettivo di bloccarle. Una spirale perversa che impedisce un vero ciclo integrato dei rifiuti, davvero industrializzato, in contrasto con gli indirizzi dell’UE e con la stessa gerarchia dei rifiuti.

In Emilia-Romagna si registrano intensi aumenti dei costi di gestione

Esiti non dissimili in Emilia-Romagna, dove le rappresentanze locali delle imprese hanno più volte sottolineato che il non perfetto allineamento tra le prospettive di crescita della produzione e la pianificazione impiantistica sta fermando il ritiro di alcune tipologie di rifiuti speciali, in particolare per gli imballaggi misti, in plastica, in vetro, inerti e in generale per i rifiuti non biodegradabili, da parte dei gestori del servizio pubblico e di soggetti terzi autorizzati. Il problema è che le proiezioni di crescita della produzione di rifiuto sono state basate su livelli eccessivamente bassi, ereditati dalla precedente crisi economica e proiettate in avanti con trend poco realistici. Quindi, da una parte la ripresa economica, dall’altra il blocco delle autorizzazioni per i nuovi impianti e di quelli in scadenza per i cicli di end of waste e lo stop ai flussi diretti principalmente in Asia hanno fatto scatenare una “tempesta perfetta”. Gli aumenti dei costi oscillano per gli speciali non pericolosi dai 150 euro/ton del 2017 ai 200-220 del 2019; per i pericolosi, invece, si è trattato della triplicazione dei costi, raggiungendo vette di oltre 600 euro/ton.

I distretti del tessile e del biomedicale hanno sofferto più degli altri l’aumento dei costi di gestione

Gli operatori emiliano-romagnoli sottolineano che inizialmente le aziende hanno fatto ricorso al deposito temporaneo, con i relativi rischi di incappare in sanzioni amministrative e penali (come già detto), ma questo a un certo punto non è stato più sufficiente. La regione è intervenuta a

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fine 2018 autorizzando un’estesione del 3% per gli stoccaggi degli operatori. Un modo per prendere tempo. Il territorio che ha sofferto di più è quello di Reggio Emilia e del basso modenese, cioè il distretto del tessile di Carpi e quello biomedicale di Mirandola. Tra le iniziative positive si segnala un percorso condiviso tra Regione e operatori economici4 per snellire gli iter rispetto alla disciplina dei sottoprodotti e garantire certezze agli investimenti; in totale, finora, sono state disciplinate 8 lavorazioni (noccioli di albicocca e di pesca, sale derivante dalla salatura delle carni, liquore nero, residui verdi del mais dolce e sottoprodotti dell’industria ceramica), anche se il dialogo si è interrotto, nonostante la disponibilità al confronto e al dialogo delle imprese. Rimane sul tavolo anche l’annoso tema della gestione dei fanghi di depurazione e del loro spandimento in agricoltura per quelli di provenienza civile (previo opportuno trattamento e secondo le norme di settore). Sia in questo settore che, più in generale, in Emilia-Romagna, gli operatori chiedono di valorizzare le esperienze coerenti con l’economia circolare (a partire dallo snellimento delle pratiche di end of waste) e di sbloccare le autorizzazioni per gli impianti di recupero di materia e di energia, che sono l’unica vera alternativa valida alla discarica. La Toscana è in difficoltà nella gestione degli scarti

Rischio collasso, a breve termine, anche in Toscana, che secondo i vertici delle principali società di gestione dei rifiuti sarà costretta ad ampliare le discariche già esistenti se non vuole portare fuori dai confini regionali gli scarti e rinunciare alla sua (quasi) autosufficienza. Sul fronte dei rifiuti urbani la Toscana si trova attualmente dinnanzi a un bivio: o decide di costruire, rapidamente, le nuove infrastrutture, tra cui quelle per il recupero dei rifiuti organici - i cosiddetti biodigestori - e nuovi impianti di trattamento del rifiuto indifferenziato, oppure dovrà necessariamente aumentare lo spazio delle discariche in attività, contravvenendo quindi ai propositi di sostenibilità, troppo ottimistici, che la Regione aveva ipotizzato appena qualche anno fa, immaginando un futuro virtuoso con il solo 10% dei rifiuti in discarica, il 70% di raccolta differenziata (mentre nella realtà non si va sopra il 50%) e il 20% di termovalorizzazione.

I distretti del cartario e del tessile sono stati particolarmente colpiti dai rincari

Per quanto riguarda invece i rifiuti speciali, il pacchetto base medio di smaltimento è passato da 70 a 120 euro a tonnellata, in aumento di oltre il 70%. Secondo la rappresentanza delle imprese locale sono particolarmente a rischio importanti distretti dell’area Lucca-Pistoia-Prato, come il cartario ed il tessile: complessivamente si producono circa 330.000 tonnellate l’anno di rifiuti speciali, tra scarti di produzione e fanghi di depurazione, questi ultimi prodotti perlopiù dei depuratori consortili al servizio delle aziende dei due distretti. Le stime sugli aumenti di costi per i conferimenti agli impianti delle singole filiere sono notevoli: per esempio, risultano triplicati negli ultimi due anni i costi per le cartiere, con il pulper che viene smaltito a circa 200 euro a tonnellata (peraltro, molte delle discariche toscane tendono a non ritirarlo – nonostante sia un tipo di rifiuto che deve trovare una veloce allocazione - per dare la priorità ai rifiuti provenienti dal circuito dell’urbano); il tessile deve sostenere costi che superano i 260 euro/ton.

Gli aumenti dei costi di gestione dei rifiuti a carico del conciario sono rilevanti

Nel distretto conciario ad oggi vanno in discarica 50 mila tonnellate di scarti di lavorazione (prodotti da conciatori e pellettieri) alle quali si aggiungono altre 20-30 mila tonnellate di scarti di pelli prodotte altrove nel territorio regionale e 20 mila tonnellate di carniccio e rasature ad oggi usate per produrre concimi. A questi rifiuti si aggiungono 70 mila tonnellate di fanghi; l’eccesso di domanda sull’offerta sta inevitabilmente incidendo sui costi di gestione, con punte parossistiche, come per le

4

Si tratta di un Coordinamento permanente sottoprodotti (a cui partecipano oltre a Regione Emilia-Romagna il Tavolo regionale dell’imprenditoria, ARPAE Emilia-Romagna (DT-SAC), Confindustria Emilia-Romagna, Coldiretti Emilia-Romagna), che ha istituito l’ «Elenco regionale sottoprodotti» (DGR 2260/2016).

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scarpe invendute, i cui costi sono schizzati da 250 a 950 euro/ton. Anche se, come si dirà dopo, una risposta collegiale valida in tal senso è stata trovata. Vanno poi considerati nella regione 1 milione di tonnellate di scarti di lavorazione derivanti dall’edilizia, che non trovano al momento una collocazione impiantistica. Con impianti di termovalorizzazione in chiusura o con l’iter autorizzatorio bloccato e progetti di ampliamento di discariche anch’esse bloccati, il futuro per i distretti economici toscani appare poco roseo. Alla fine dei conti rimangono per terra centinaia di migliaia di tonnellate di frazioni indifferenziate che devono andare fuori regione o addirittura varcare i confini nazionali, mancando impianti di valorizzazione energetica e persino discariche a disposizione. Come emerge dai calcoli degli operatori economici ascoltati, complessivamente esiste un fabbisogno non soddisfatto di almeno: tessile 75mila ton, cartiere 250mila ton, conciaria 100mila ton, oltre a rifiuti misti vari. In Sicilia le carenze impiantistiche sono strutturali

Per non parlare di regioni come la Sicilia, il cui futuro dipende da poche discariche; un filo teso pronto a spezzarsi in qualsiasi momento, sia per gli urbani che per gli speciali. Rischio tutt’altro che remoto, visto che la discarica più importante, quella di Bellolampo (in provincia di Palermo), è a rischio chiusura e dove pende persino una inchiesta della procura palermitana per inquinamento ambientale. La chiusura dell’invaso sarebbe fortemente critica per il già fragile sistema di gestione dei rifiuti in Sicilia.

Il comparto industriale siciliano sconta la necessità di esportare i rifiuti prodotti

Situazione disastrosa anche per il comparto industriale, laddove le aziende del settore intervistate lamentano, al pari degli omologhi del resto l’Italia, mancanza di impianti di trattamento e una grave impennata dei costi, che in genere è raddoppiata per gli speciali non pericolosi e addirittura duplicato, se non triplicato, per i pericolosi. Dove non sono mancati nemmeno contratti rescissi per l’impossibilità delle aziende di trattamento di raccogliere a causa della saturazione dei pochi impianti disponibili. Saturazione che ha generato un aumento dei costi a cascata. Per esempio, gli accresciuti costi per lo smaltimento delle ceneri prodotti dagli impianti (pochi) di incenerimento isolani si sono scaricati sui prezzi proposti alle ditte produttrici di rifiuti. Saturazione dovuta, ovviamente, a un parco impianti pesantemente sottostimato rispetto alle esigenze, costringendo molte imprese di trattamento a ritirare diverse tipologie di rifiuti pericolosi come mero stoccaggio provvisorio, quindi con destinazione D15, per poi inviarli soprattutto al Nord o in Germania.

Le raffinerie siciliane riscontrano ingenti difficoltà nella gestione dei rifiuti

Per i gestori delle raffinerie siciliane gli ultimi due anni sono da dimenticare. Trovare sbocco per i rifiuti prodotti è diventato dal mese di marzo del 2019 un percorso a ostacoli. Senza concorrenza, dal lato dell’offerta, e una domanda stabile se non in crescita, i costi sono schizzati. Costretti dalla situazione di ritrovarsi con quantitativi importanti di rifiuti in giacenza – considerato che tale periodo non può superare i 90 giorni – si sono dovuti stipulare contratti ad hoc per specifici codici EER, molto onerosi, anche con i vecchi fornitori/intermediari, con prezzi genericamente gonfiati, da un minimo del 10 a un massimo del 40%. Per esempio, il costo per lo smaltimento di rifiuti costituiti da lana di roccia o minerale, materiale che serve per le coibentazioni delle tubature e che una volta eliminato va smaltito, è passato dai 450 euro/ton (fino al 2017) agli attuali 650 euro, con un incremento più o meno del 40%. Risulta in forte stress lo smaltimento di altre due tipologie di rifiuti: i fanghi e i fondami dei serbatoi e la vasta gamma di rifiuti contenenti frazioni di zolfo contaminato. Nel primo caso, fanghi e fondami, meglio noti come morchie oleose, l’eccesso di domanda sull’offerta ha fatto schizzare il costo da 400 a 650 euro/ton per quelli destinati a incenerimento (che richiede maggiori oneri di gestione rispetto al mero smaltimento), mentre è più contenuto l’aumento per quelli destinati a inertizzazione e conferimento in discarica. Nel secondo caso, rifiuti contenenti zolfo, i costi sono arrivati a 700 euro/ton con specifici carichi smaltiti addirittura sopra i mille euro.

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Il motivo? Di solito gli impianti non vogliono rifiuti contenenti zolfo perché classificato come materiale infiammabile, almeno teoricamente, quindi i pochi impianti di incenerimento, dotati di una tecnologia a griglia, rischierebbero di superare i limiti delle emissioni e in genere ritengono di non avere la tecnologia adeguata per questo specifico rifiuto. L’export extra-regione e fuori dall’Italia rappresenta l’unica soluzione

L’unica risposta, quindi, è stata finora affidarsi alle ditte di trasporti e spedire i rifiuti oltre lo Stretto, principalmente in Calabria e Puglia, se non quando verso l’estero, con aggravi di costi significativi: se un carico alla volta della Calabria costa circa 2mila euro, spingendosi verso nord ci vogliono circa 3.550 euro, che possono diventare 4mila se si arriva fino in Germania. Significa che possono servire più di 2mila chilometri per smaltire rifiuti prodotti in Sicilia. E se non bastasse, gravano sulle aziende siciliane, e non solo, altri due problemi. Il primo riguarda l’allungamento dei tempi di ritiro, che, anche a seguito delle continue analisi richieste e alla normativa, sempre più farraginosa, induce le operazioni a chiudersi sempre con grande affanno entro i limiti imposti dalla normativa (90 giorni). Il secondo problema, già accennato, riguarda i costi per le continue analisi di laboratorio richieste dagli impianti di destino, sempre più sospettosi ed esigenti. È evidente che quest’ultimo aspetto può rappresentare un ostacolo concreto per le piccole e medie imprese, costrette a fare i conti pure con questa ulteriore voce di costo.

L’Italia dei distretti: dalla produzione alla gestione e recupero dei rifiuti Made in Italy L’export Il nostro di Paese rifiuti si caratterizza verso l’estero persila è natura distrettuale ridotto delle attività economiche

Un Come appare evidente da quanto appena detto, l’architrave del nostro sistema produttivo è particolarmente connotato dalla sua struttura distrettuale, dove si generano esternalità positive, economie di scala, cultura d’impresa e radicamento territoriale. Le imprese del distretto producono beni materiali e immateriali, coltivando la cura del territorio e dell’ambiente, che ne diventano simbolo e vanto con i propri interlocutori, anche su scala internazionale. L’Italia è, infatti, il paese della piccola e media impresa (PMI). Utilizzando quale parametro europeo un numero non superiore a 250 addetti e un fatturato non superiore a 40 milioni di euro, più o meno il 90% delle industrie italiane sono di questa taglia, producendo circa il 64% del fatturato ed impiegando il 72% dell’occupazione del settore (è il 47% in Francia, il 44% nel Regno Unito ed il 37% in Germania)5 .

La gestione dei rifiuti ha un’importanza strategica per l’economia italiana

La gestione corretta dei rifiuti significa gestione corretta delle risorse e innovazione dei processi produttivi, prima ancora che dei modelli di consumo, anch’essi di importanza strategica. È fuor di dubbio che lo stato di salute dell’economia italiana passa dalla piccola e media impresa e dal funzionamento dei modelli distrettuali. Non a caso, secondo le stime della Fondazione per lo sviluppo sostenibile circa l’80% dell’impatto ambientale del settore industriale in Italia sarebbe da ascrivere alle attività delle PMI. Ciò significa che dare risposte alla gestione per così dire molecolare degli scarti da queste attività prodotti è una priorità strategica. Creare sinergie distrettuali, anche in tema di rifiuti, è dunque una necessità, visto che persistono nel nostro paese 141 distretti produttivi (ISTAT, 2015), seppure in calo di 40 unità rispetto al 2001. I distretti industriali costituiscono circa un quarto del sistema produttivo del Paese. Il maggior numero 5

“Lo sviluppo sostenibile dei Distretti delle Piccole e Medie Imprese (PMI)”, a cura della Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

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di distretti (45) è localizzato al Nord-est, tradizionalmente l’area territoriale di riferimento del modello distrettuale italiano. All’interno dei distretti industriali risiede circa il 22% della popolazione italiana.

I distretti italiani sono delle aree con alta concentrazione di PMI industriali con un elevato livello di specializzazione produttiva, spesso con un marcato livello d’interdipendenza dei cicli produttivi e forte integrazione con l’ambiente socioeconomico locale dove si collocano (Ricciardi, 2008). Altro aspetto caratteristico che si riscontra è una combinazione tra competizione e collaborazione tra i soggetti facenti parte del distretto (Schilirò, 2010). I distretti del cosiddetto Made in Italy sono 130 (ISTAT, 2015), ben il 92,2% dei distretti industriali del Paese; sono maggiormente presenti nei settori della meccanica (il 27%), tessile-abbigliamento (22,7%), beni per la casa (17%) e pelli, cuoio e calzature (12,1%). È necessario offrire ai distretti risposte infrastrutturali e impiantistiche

Dare risposte infrastrutturali e impiantistiche in tema di rifiuti a queste realtà è una delle sfide dei prossimi anni, sia per dare una boccata d’ossigeno alle imprese, che per dare un contributo, concreto, alla lotta ai cambiamenti climatici.

I distretti rappresentano l’unità di misura ideale per pianificare politiche di razionalizzazione

Se la produzione si articola lungo direttrici distrettuali e di sinergie locali anche la gestione dei rifiuti deve seguire la stessa logica, altrimenti si rischia di non chiudere il cerchio e di lasciare pericolosi margini di indeterminatezza e inefficienza. Non c’è dubbio che la simbiosi industriale per l’ottimizzazione dei processi produttivi e la riduzione e la più efficace gestione dei rifiuti debbano procedere di pari passo. In questo percorso, non c’è dubbio che i distretti rappresentano l’unità di misura ideale per pianificare politiche di razionalizzazione e di messa a sistema di capacità e possibilità, anche nella catena del recupero.

La simbiosi industriale è uno strumento di condivisione utile anche nella gestione dei rifiuti

Come ricorda un documento di posizionamento politico del Ministero dell’Ambiente e dello Svi-

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luppo Economico6 , la simbiosi industriale (o metabolismo industriale) coinvolge industrie tradizionalmente separate con un approccio integrato finalizzato a promuovere vantaggi competitivi attraverso lo scambio di materia, energia, acqua e/o sottoprodotti (M.R. Chertow, “Industrial Symbiosis: Literature and Taxonomy”, Annual Review of Energy and Environment 2000). La simbiosi si pone come strumento di eco-innovazione di sistema per l’uso efficiente delle risorse e coinvolge aziende dissimili attraverso la creazione di reti di condivisione di risorse, anche grazie ad opportune piattaforme di incontro domanda/offerta. I benefici sono economici, ambientali e sociali per tutto il territorio coinvolto. La simbiosi deve quindi riguardare anche risparmio di energia, di materie prime, riduzione di scarti e rifiuti, oltre che di inquinamento.

L’importanza di questo approccio è evidenziata anche in una Indagine Conoscitiva dell’Ispra7 , laddove si precisa che il ruolo dei distretti industriali non può essere concepito soltanto in termini di contributo alla crescita economica nazionale ma deve integrare anche aspetti della sostenibilità, quali: protezione del territorio, tutela delle risorse, salute, sicurezza, erogazione di servizi e miglioramento della qualità della vita. La promozione di eco-innovazioni di prodotto e l’introduzione delle BAT (Best Available Technologies) nei processi produttivi ha contribuito alla diffusione di un approccio finalizzato alla protezione dell’ambiente attraverso la riduzione degli impatti sulle matrici ambientali con riduzione dei costi. Peraltro, anche il TUA, art. 199, comma 3, lettera h, in qualche modo, incentiva le Regioni a prevedere piani di gestione dei rifiuti che superano la dimensione amministrativa per privilegiare piuttosto ambiti territoriali ottimali, che spesso si sovrappongono ai distretti produttivi, contemplando anche strumenti di incentivazione a favore degli gli ambiti più meritevoli; a tal fine le regioni possono costituire nei propri bilanci un apposito fondo. Alcuni esempi concreti aiutano a comprendere meglio il valore delle sinergie costruite all’interno dei distretti sulla gestione dei rifiuti. Si tratta di tessere fondamentali nel mosaico dell’economia circo6 7

Verso un modello di economia circolare per l’Italia. Documento di inquadramento e di posizionamento strategico, luglio 2017. “Indagine conoscitiva sull’attuazione di EMAS nei distretti italiani”, a cura di Ispra e Università Roma Tre - Dipartimento di Studi Aziendali

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lare, che oltre a favorire la tutela ambientale migliorano le performance economiche delle aziende rilanciandone la competitività sullo scacchiere internazionale. Il distretto di Brescia valorizza gli oli usati di origine minerale

Il distretto di Brescia, grazie al lavoro svolto dalla Confindustria locale in collaborazione con il consorzio di filiera Conou, si è occupato a perfezionare la rete di raccolta e valorizzazione degli oli usati di origine minerale, classificato dal TUA come pericoloso. Nel distretto, la produzione di olio usato delle industrie è concentrata per l’82% in 49 aziende, pari a circa l’8% di oli prodotti sull’intero territorio nazionale. Nel 2018 sono state raccolte oltre 5.000 tonnellate di olio usato industriale, avviate al riciclo tramite rigenerazione, grazie all’efficienza della filiera del recupero. Se le aziende produttrici di tale rifiuto si trovano a beneficiare di uno snello e conveniente meccanismo di conferimento, le aziende di trattamento riescono a mettere a punto economie di densità tali da abbattere significativamente i costi di trasporto e stoccaggio. I risultati, sia dal punto di vista economico che ambientale sono stati importanti, con un buon contributo sul risparmio sulle importazioni di petrolio del Paese e sulle emissioni di CO2. Al fine di rendere sempre più efficiente questa sistema di raccolta selettiva e di re-impiego, il Conou ha dato vita a una campagna itinerante di informazione che sta attraversando l’Italia per incontrare le imprese e i cittadini sull’uso corretto del sistema di raccolta selettiva dell’olio esausto. In Toscana il primo patto sull’economia circolare è nato a supporto del distretto del cuoio. Il distretto conciario di Santa Croce sull’Arno (che comprende i Comuni di Castelfranco di Sotto, Montopoli in Val d’Arno, Santa Croce sull’Arno, Santa Maria a Monte e San Miniato, nella provincia di Pisa, e Fucecchio, nella provincia di Firenze) si caratterizza per la produzione di pelle e cuoio da suola per calzature (60% della produzione), pelletteria (30%), abbigliamento, arredamento e altre (10%); ciò significa il 35% della produzione nazionale di pelli ed il 98% della produzione nazionale di cuoio da suola. In questo distretto operano circa 500 aziende della filiera conciaria, con oltre 6.000 addetti ed una dimensione media di circa 12 addetti, per un fatturato pari a 2 miliardi e 400 milioni, con le esportazioni che rappresentano circa il 70% del fatturato. La peculiarità, per le aziende del distretto, di potersi avvalere di un unico impianto di depurazione centralizzato – che rappresenta la voce più importante in termini di costi – ha ridotto in parte gli aumenti dei costi e i disservizi, a differenza di quanto è invece accaduto altrove.

Un accordo siglato in Toscana garantirà gli impianti necessari al distretto del cuoio

Non a caso, la Regione Toscana, l’Associazione Conciatori e REA Impianti, proprio per sostenere in questa congiuntura sfavorevole l’intero distretto, hanno siglato nel marzo del 2019 un accordo che attrezzerà il distretto di tutti gli impianti necessari al recupero sicuro dei rifiuti, ovvero l’ammodernamento del depuratore, un impianto di trattamento fanghi e uno di trattamento dei sottoprodotti. Per un totale di investimenti pari a circa 80 milioni di euro, di cui beneficeranno sia le imprese che lo stesso settore pubblico, in termini di minori costi per i conferimenti in discarica e incenerimento. Il patto ha l’obiettivo di ridurre, fino ad eliminare, lo smaltimento in discarica di fanghi di depurazione e di scarti della lavorazione conciaria per ricavare concime organico di alta qualità e conglomerati bituminosi e cementizi. In tandem con le risorse e alle energie imprenditoriali del privato, la Regione Toscana si assume l’impegno di assicurare una rapida conclusione - qualunque ne sia l’esito - dei procedimenti amministrativi necessari per la realizzazione degli impianti, nel rispetto della normativa vigente, valutando pure la possibilità di forme di cofinanziamento, mano a mano che queste si renderanno disponibili.

Il distretto del tessile è frenato dalla normativa nell’impiego dei sottoprodotti

Per una buona notizia, una meno buona, che arriva dal distretto del tessile di Prato, oggi all’avanguardia nel recupero di materia (di ottima qualità) dagli indumenti usati e in genere dagli stracci, capace di sottrarre rifiuti dai circuiti dello smaltimento per generare nuovo valore. Un’esperienza

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concreta di simbiosi industriale green, nata dal basso, che oggi tratta circa 180 mila tonnellate all’anno di rifiuti tessili (anche se sarebbe in grado di trattarne di più), e che per colpa degli aggravi normativi si trova comunque a dover smaltire (con difficoltà) circa 50 mila tonnellate di cascami e avanzi di lavorazione – pre-consumo – classificati dalla normativa come rifiuti. Seppure si tratti a tutti gli effetti di sottoprodotti, provenendo direttamente dai processi produttivi e non comportando alcun rischio per l’ambiente e la salute (stiamo parlando di fibre tessili, peraltro già separate sulla base del colore), una evidente discrasia legislativa ne pregiudica il loro automatico impiego nei telai. Ciò significa gravare di un ulteriore e inutile costo le imprese, ingolfando anche per questa via il ciclo dei rifiuti toscano, con evidenti costi ambientali e sociali. Detta in altro modo, l’incoerenza normativa, oltre a incidere sui costi e sui gravami burocratici, innalza oltre ogni limite i rischi per gli operatori del settore di incappare in sanzioni, anche penali, disincentivando una delle migliori best practice in tema di circular economy. Qui, a differenza che altrove, l’economia circolare è già in campo da secoli (almeno dal Medioevo) ed è capace di rigenerare nuova materia con le stesse performance qualitative dei processi tradizionali (da materie vergini). Quindi, non servono nuovi impianti e nemmeno nuove forze, servirebbe solo che il legislatore facesse, fino in fondo, la sua parte in modo coerente, equo e sostenibile, nell’interesse di tutti. Un’altra barriera non tecnologica da abbattere, dunque.

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CONCLUSIONI Imperativo: close the loop. La chiusura del cerchio proposto dalla Commissione UE, cioè la strategia verso una società del riciclo8 , passa inevitabilmente da un adeguato numero di impianti destinati al trattamento/valorizzazione dei rifiuti, ben distribuito su tutto il territorio nazionale, e da rinnovate sinergie industriali e buone policy. Chiudere il cerchio significa pianificare e costruire, dopo una attenta lettura delle esigenze di ciascun territorio (di per sé unico), un ciclo integrato e ben governato dei rifiuti. Un ciclo che deve rispettare la gerarchia proposta dall’UE ed essere necessariamente industriale, capace di trovare spazi di agibilità all’interno delle dinamiche di mercato, trovando l’equilibrio tra domanda (di conferimento) e offerta (impiantistica). La società del riciclaggio, come auspica la citata Comunicazione della Commissione, passa dagli investimenti nell’impiantistica e dalle buone governance. Il recupero ecoefficiente (Bianchi, 2013), sia di materia che di energia, deve essere il valore aggiunto dell’impresa di oggi e diventare fattore strategico per rilanciare la competitività del nostro tessuto produttivo, sbarrando la strada al trasporto transfrontaliero di rifiuti (sia all’interno dell’Unione sia verso i paesi terzi), che drena risorse sia alla manifattura che alle aziende di trattamento degli scarti. L’Italia non parte da zero ma ha una consolidata tradizione nel riciclo, dovuta alla necessità di reperire materie prime – di cui siamo carenti, almeno rispetto ai livelli di produzione artigianale e propriamente industriale – per la trasformazione, tanto da essere tra i migliori nel recupero di materia in Europa, come dimostrano le statistiche annuali dell’Ispra e come ci riconosce la stessa Commissione UE. La gestione dei rifiuti deve rivestire dunque un ruolo preminente nell’economia circolare. In base al modo in cui raccogliamo e gestiamo i rifiuti impattiamo sui tassi di riciclaggio e reimmettiamo nell’economia valore, oppure alimentiamo un sistema inefficiente in cui la maggior parte dei rifiuti riciclabili viene conferita nelle discariche o spedita all’estero, con effetti potenzialmente dannosi per l’ambiente e significative perdite economiche. Per conseguire un elevato livello di recupero dei materiali è essenziale inviare segnali di lungo termine alle autorità pubbliche, alle imprese e agli investitori, e creare le giuste condizioni a livello di Paese e di Unione Europea, anche facendo rispettare in modo coerente gli obblighi esistenti. E se è chiaro che quando si parla di rifiuti l’enfasi va posta sul recupero di materia, è altrettanto vero che esiste il tema della decarbonizzazione dell’economia e della sostituzione delle fonti fossili, questione altrettanto strategica. Ciò che è mancato fino a oggi è costruire una vera circolarità all’interno del ciclo dei rifiuti e della produzione energetica, che passa anche dalla digestione (possibilmente anaerobica) e non solo dalla combustione. Produrre energia dagli scarti è un pezzo dell’economia circolare e della lotta al global warming, come dimostrano gli innumerevoli studi improntati al life cycle assessment, quindi al bilancio netto di materia ed energia. È quindi necessario integrare i due aspetti, rifiuti ed energia, all’interno della stessa Strategia nazionale energetica, incrociando il lavoro del MATTM con quello del Ministero dello Sviluppo Economico. Infine, se la produzione si articola lungo direttrici distrettuali e di sinergie locali, anche la gestione dei rifiuti deve seguire la stessa logica. Non c’è dubbio che la simbiosi industriale per l’ottimizzazione dei processi produttivi, la riduzione e la più efficace gestione dei rifiuti debbano procedere di pari passo. In questo percorso i distretti rappresentano l’unità di misura ideale per pianificare politiche di 8

Closing the loop - An EU action plan for the Circular Economy. Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Brussels, 2.12.2015 COM(2015) 614 final.

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razionalizzazione e di messa a sistema di capacità e possibilità, anche nella catena del recupero. Una vera circolarità dell’economia passa anche dalla capacità di incanalare facilmente gli scarti dentro circuiti di valorizzazione e di gestione controllata. Lo sguardo non si deve fermare alla produzione ma deve abbracciare anche il dietro le quinte. Fino a quando il tema della gestione dei rifiuti sarà confinato, genericamente, tra i bilanci di sostenibilità e tra i temi esclusivamente ambientali, e non come una cruciale questione economica e di competitività, si rimarrà lontani dall’offrire risposte davvero convincenti.

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