Adusia, i nòstoi

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Adusìa: i nòstoi “Lì al confine la nebbia s'era fatta fitta e i suoi passi scomparivano davanti a lei, s'era addentrata in un abisso d'immenso nulla perché lei, il confine, non l'aveva mai sopportato. Il confine. La barriera. Il limite massimo. L'estremità del mondo: quella era Thule. Camminava lentamente e a fatica, il respiro misurato come quello di chi si concentra per una grande gara. Camminava, e camminando giunse lì, alle mura di vetro. Dall'altra parte comparve una figura indefinita nella nebbia, lei allungò il braccio e tocco il vetro con la mano, la figura fece lo stesso, lei alzò gli occhi e accennò un sorriso amaro, la figura gli restituì il sorriso. Una lacrima, anche quella la rivide oltre le mura. Perché quel che un tempo le aveva permesso di vedere nuovi mondi e nuove realtà, s'era rivelato uno sterile specchio. E si guardò, e si vide, lei di fronte a sé stessa, per la prima volta. E alzò gli occhi e non vide nulla, un bianco freddo di nebbia e di neon, e si guardò intorno, sapeva che c'erano gli edifici illuminati da qualche parte. Voltò le spalle alle mura e vi appoggiò la schiena, lentamente scivolò fino a sedersi con le braccia che le circondavano le ginocchia e le tenevano ferme contro il petto. Si concentrò su quello che doveva essere il rumore del mare, le mura erano costruite su quella stretta striscia di terra che abbandonava Thule come un ponte verso l'ignoto, ma non riuscì a udire il mare, udiva rombi ed esplosioni in lontananza, il mondo era ancora degli Androidi. Forse non sarebbe mai riuscita a portare a termine la sua missione. Il mondo degli uomini era perduto per sempre. Thule l'aveva tradita. Nessuna seconda possibilità si nascondeva oltre le mura. La sua missione annegava nella nebbia e nella pioggerella leggera, annegava nei flutti intorno al promontorio. Annegava il coraggio nella paura. Un mezzo sospiro le si era bloccato in gola, s'era alzata e aveva ripreso a guardare la parete. Qualcuno le aveva cinto i fianchi, e lei aveva incrociato gli occhi verdazzurri nello specchio, soffocando le lacrime aveva abbassato il capo, ma lui ne aveva indovinato il pianto nel riflesso. Quell'incubo ricorrente la tormentava da giorni, si svegliava nel cuore della notte in lacrime, vedeva svanire le mura, sentiva svanire l'abbraccio di Glauco. Si rivedeva ventenne, di fronte a se stessa, nella terra gelata di Thule. E forse era proprio di sé che aveva sempre avuto paura. Quella missione fallita l'aveva scossa nel profondo, dopo dieci anni quello specchio le tornava alla mente, sapeva che c'era qualcosa a Thule, sapeva che il confine li avrebbe portati Oltre. Solo... solo non sapeva cosa avrebbe trovato. E non sapeva come aprire le porte. Quell'incubo assurdo le faceva rivivere la solitudine e il gelo e la svegliava nell'istante in cui il gelo, nell'abbraccio, svaniva. Si vestì in fretta e si diresse sul ponte, l'equipaggio era già sveglio. Che avessero sentito i suoi singhiozzi? Il mare era blu, d'un blu strano, la nave argentea attraversava i flutti, era ormai giorno e il disco pallido del sole illuminava il cielo. Tutti tacevano, anche se la poesia ci aveva accompagnati nel corso della notte. Glauco stava ai comandi, e la nave pareva essere un galeone fantasma d'un tempo ormai dimenticato. Il mare appariva diverso visto dalla superficie, l'aria pesava come piombo e l'azzurro del cielo appariva grigiastro e anche il mare rifletteva quel grigio. E anche gli occhi di Glauco. “Quanto manca?” domandò Egle lanciando un'occhiata al cielo. “Tre giorni.” rispose Glauco “Oggi ci sarà tempesta.” 2


Il cuore di Egle tremò per un istante. “Tempesta?” Non aveva mai viaggiato per mare prima di allora, nel sottomarino era diverso, le sembrava di essere a casa e al sicuro, ma quella nave... In fondo doveva esserci un motivo se non ne costruivano più. “Hai mai visto una tempesta, Egle?” domandò il ragazzo scrutando l'orizzonte. “No.” “Il cielo diventa grigio fumo, le nuvole incombono sulla nave e sono enormi e sembrano così pesanti, giganteschi batuffoli di ovatta. E poi comincia a tirare il vento, così forte che non puoi stare sul ponte, e l'oceano si gonfia, s'arrabbia, cerca vendetta. E l'acqua ti circonda, ce l'hai sotto i piedi e sopra la testa, e le onde e la pioggia. E c'è il boato dei tuoni, la luce accecante dei fulmini. E senti gli uomini gridare forte, e nemmeno capisci cosa dicano, sai solo che devono stare lontani dalla costa, quando in realtà la terra è l'unica cosa che desideri in quel momento. E ti trovi a guardare il cielo sopra la tua testa e lo vedi ostile, e anche l'acqua intorno a te sembra ritenerti colpevole di un crimine che non hai commesso, perché nell'oceano un bambino in una nave di adulti, durante una tempesta può solo confondere le lacrime con la pioggia.” “Quando è successo?” Glauco trasalì, non si era nemmeno accorto di ciò che stava dicendo. “Pochi giorni prima dell'incendio alla Città Nuova.” “Glauco, avevi undici anni.” “Abbiamo toccato terra che tramontava il sole, mio padre non c'era...” Esitò, ed Egle lo guardò negli occhi che assumevano sempre il colore del mare. “Le macchine avevano preso il porto e una vecchia che stava seduta sul molo mi chiamò in disparte, doveva essere stata molto bella da giovane, aveva la fronte alta e lo sguardo fiero nonostante fosse ormai quasi cieca, occhi verdissimi, d'un verde scuro e intenso, e lunghissime ciglia, le rughe le solcavano un volto elegante e aveva due labbra sottili. Mi chiamò con una voce ormai quasi assente e mi diede questa.” Mostrò ad Egle una conchiglia. “Non farti prendere ragazzino.” disse “Va' verso la città e non ti fermare mai, corri, so che ce la puoi fare. E quando arriverà il momento Lei ti guiderà dove devi. Ricorda queste parole ragazzino: il futuro è là, oltre il confine di Thule.” Egle rimase in silenzio. “Thule...” sussurrò infine tra sé e sé. “Voi cosa ne sapete di Thule?” domandai. “Che è il portale per una seconda possibilità.” disse Glauco. “Pitea parla anche di acque intorno Thule e di quei posti dove la terra, propriamente parlando, non esiste più, e neppure il mare o l'aria, ma un miscuglio di questi elementi, come un "polmone marino", nel quale si dice che la terra e l'acqua e tutte le cose sono in sospensione come se questo qualcosa fosse un collegamento tra tutti questi elementi, sul quale fosse precluso il cammino o la navigazione.” recitò Zara ad alta voce. Tutti si voltarono a guardarla. “Che c'è? Lo dice Strabone... è... era un geografo greco.” “Zara, è preistoria.” Tutti risero, tranne Glauco, lui abbassò gli occhi e lo vidi conservare nuovamente la conchiglia senza parlare. “Sarà una lunga notte.” disse. Là dove arrivava il suo sguardo incombevano nubi nere. Glauco aveva una paura folle del mare e per questo aveva deciso di viverci. Ida aveva paura del fuoco e per questo aveva imparato a dare alle fiamme le basi degli Androidi. Folco temeva il vento e soffriva di vertigini, ma da anni volava su aerei costruiti alla buona dalla Re-esistenza. 3


Zara aveva visto la sua casa crollare durante un terremoto dovuto a un'esplosione vulcanica, ma aveva ricostruito la sua dimora sulle ceneri di quella vecchia. Io avevo paura del silenzio, per questo raccontavo. E poi c'era Egle e nessuno, allora, conosceva qualcosa che la spaventasse. Quella guerra era passata alla storia come l'Incubo. Ora l'Incubo era finito. L'uomo si guardò allo specchio e vide la macchina. L'incubo interiore c'era ancora. Fuori da quella stanza migliaia di Androidi attendevano il loro nuovo sovrano. Aveva fermato quattro dei più pericolosi ribelli, sventato un attacco all'interno del quartier generale, evitato la distruzione di decine di Androidi. Era un eroe. Il vecchio sovrano era stato distrutto dai ribelli, e lui era lì e li aveva uccisi. Tutti. No. Non era stato lui. Ma aveva lasciato che le altre Macchine lo facessero. E forse era una cosa ancora peggiore. Avrebbe sentito il cuore stretto, se solo avesse avuto ancora il suo, di cuore. Aveva il potere di fermarli e non lo aveva fatto. Aveva provato mille sensazioni contrastanti nella sua testa, e nessuna reazione dal proprio corpo non più umano. Poi le porte si erano aperte e li aveva visti, volti così umani che nascondevano circuiti, lo acclamavano come loro sovrano. “Lunga vita ad Alastar.” Applaudivano e gridavano. E fischiavano. Ora come allora le Macchine esultavano fuori dal palazzo di vetro, erano trent'anni del suo governo. Ora come allora nel corpo macchina, nell'animo uomo. Tra la folla vide il Colonnello, colui che aveva tanto odiato e che s'era tenuto accanto forse temendolo un poco, sorrideva e non applaudiva, lo guardava da lontano confondendosi tra la folla dei soldati semplici. “Fa che Ado ritorni presto.” sussurrò Alastar a denti stretti. Io osservavo i miei compagni di viaggio con crescente curiosità, Thule era una leggenda vecchia come il mondo, perché dei membri della Re-esistenza avrebbero dovuto conoscerla? Thule era considerata il confine massimo del mondo, il limite oltre il quale non c'era nulla, la terra finiva lì. Era un luogo leggendario, immaginario, come poteva essere stata Atlantide o Mu. “Non so nulla della Re-esistenza” dissi ad Egle “perchè non me ne parlate?” “Sai quello che tutti gli uomini della superficie sanno di noi, sotto la Città Nuova, vive una città identica, nell'oscurità dei vecchi cunicoli della metro, nella fredda luce artificiale, una città uguale a quella che tutti vedono ogni giorno, con l'unica differenza che la nostra città è dotata di coscienza. Un immenso formicaio si estende per chilometri sotto terra, per restare uomini siamo stati costretti a vivere nell'ombra. La superficie non è più nostra, è degli Androidi, e la Coscienza resta sepolta.” “Il mondo tornerà nostro, abbiamo i semi.” riuscii a dire a mezza voce. “Non sei in grado di vedere la realtà...” rispose Egle “Abbiamo i semi, ma non abbiamo il mondo.” “Ciò vuol dire che abbiamo fallito?” chiese Folco “Vuol dire che il nostro viaggio non è servito a nulla? Egle... abbiamo raggiunto un'isola distrutta seguendo indovinelli e indicazioni di un poema epico, abbiamo affrontato gli Androidi, abbiamo riscoperto i semi, e stiamo tornando da Alastar, il governatore, che adesso sappiamo essere Uomo. Anche lui vuole che la terra ritorni nelle nostre mani.” “Alastar è solo. Un Cyborg in mezzo a troppi Androidi.” “Ma ha il potere.” “Non può ordinare alle Macchine di restituirci la terra.” “Combatteremo al suo fianco, ce la riprenderemo.” “Folco, uomini contro Androidi, è una guerra già persa in partenza.” Folco si fece pensieroso, era solo un ragazzo appena diciottenne, infuocato dalla voglia di rivalsa, per riconquistare un mondo che non aveva neppure conosciuto. Era nato sotto il dominio degli Androidi, il mondo degli uomini era solo un'immagine indefinita e quasi leggendaria, che aveva 4


sentito raccontare tante volte nei cunicoli della Città Nuova da bambino, quando la madre s'era unita alla Re-Esistenza. Infine parlò: “Allora perché stiamo tornando da Alastar?” “Perchè lui ci aiuti nell'ultima impresa, superare i confini di Thule, e oltre quelli costruire una nuova vita.” “Oltre Thule?” “Oltre Thule c'è un mondo uguale al nostro, ma intatto, e lì possiamo ricominciare. Basta solo poter aprire le porte che ci separano da quel mondo parallelo. È per questo che esiste la Re-esistenza Folco, per cercare la chiave di Thule e aprire il portale.” “Ne avevo sentito parlare ma...” “Sei giovane, combatti da appena un anno, i più anziani lo sanno, Zara lo sa, anche tua sorella Ida...” “Perchè non mi è mai stato detto?” “Perchè hai combattuto senza domandare per cosa combattessi.” “Cosa si dice di Thule sotto la Città Nuova?” domandai di scatto. “Ado... di Thule saprai anche tu quando sarà il momento.” tagliò Egle. Ciò che del sole era visibile annegava ormai nel mare, e cominciava a scendere una pioggerella leggera, ma Glauco sapeva che poco più avanti ci attendeva la tempesta. Quando infine il cielo si ruppe e cominciò a soffiare un forte vento, il ragazzo ebbe un sussulto al cuore, era esattamente ciò che era successo quando era bambino, le stesse enormi nubi, le acque che s'ingrossavano, scuotevano la nave, erano le stesse acque che anni prima s'erano portate via suo padre. E seppi che ripensava alla vecchia e alla conchiglia: la giornata volgeva al termine e il sole annegava, proprio come in quel momento, tra le nubi che non accennavano a placarsi, e lui che ancora aveva le lacrime agli occhi e il cuore pieno di paura s'era sentito chiamare, sapevo a cosa pensava, a una frase che veniva dall'abisso di tempi remoti: “Senza il tramonto non può giungere l'alba.” Sapevo che stava ripensando a quelle acque traditrici che gli avevano portato via tutti. E lui, bambino, aveva corso verso la città conoscendo migliaia di altri orrori. Quelle acque da cui era fuggito l'avevano portato alla Quercia mozzata e gli ultimi raggi di luce gli avevano donato Egle. Ripensò a quella bambina vestita di blu che portava il nome delle Esperidi, a quella bimba con un piccolo taglio sulla guancia, la ferita doveva essere fresca, alla bambina dagli occhi scuri, che con sguardo fiero osservava le fiamme lontane della città, e si voltò verso la donna che gli stava accanto, aveva una piccola cicatrice sulla guancia e gli stessi occhi d'allora, lo stesso sguardo lontano e fiero, in un iperuranio delle idee, mentre guardava l'orizzonte. Egle si voltò e lo vide sorridere, sentì un brivido e il suo cuore tremò per un istante, poi rimandò un sorriso timido e abbassò lo sguardo. “Temi la tempesta?” domandò Glauco vedendo un filo di paura attraversare gli occhi di lei. “No, Glauco, non la tempesta.” Lei, Egle, non aveva paura di niente. Alastar aveva sorriso e fatto un cenno di ringraziamento col capo, poi aveva parlato: “Anni fa divenni governatore per vostro volere” E ora ne sono prigioniero. “Anni fa annientammo i ribelli, e fu merito vostro, non mio merito.” Fu per colpa mia. “Il vecchio governatore era distrutto, spento dai ribelli.” Ero uno di loro... 5


“Sono passati trent'anni da quel giorno di sangue” Il mio stesso sangue. “Ed oggi il ferro governa sulla carne!” Ma a che prezzo? “Non auguratemi lunga vita... augurate lunga vita a voi stessi” Il ferro non conosce vita, né morte. “Ed io vi prometto, oggi come allora, che il ferro non verrà più sconfitto.” Ma il mio tradimento, toccherà voi questa volta. Poche parole e s'era lasciato dietro quella massa di metallo, le porte del palazzo s'erano richiuse, e mentre fuori impazzava la festa, un Androide stava in piedi alla porta della sua stanza. “Bel discorso, Governatore.” esordì Carroll “che fine ha fatto il tuo uomo?” “Sta tornando.” “È in viaggio da giorni, se qualcosa fosse andato storto?” “Non camuffare le tue speranze con false preoccupazioni.” Fu allora che Alastar notò sulla divisa del Colonnello uno zaffiro ottagonale, incastonato proprio al centro del petto, uno zaffiro incorniciato da una piccola striscia d'oro, e alla sua mente tornò un ricordo lontano: “Sei matto? Combattere con i ribelli?” nella memoria echeggiò il suono d'una voce rotta dal pianto “Perchè vuoi... perché vuoi farlo? Buttare così la tua vita di uomo...” “Non sono più un uomo, guardami!” le aveva mostrato metà del petto di argenteo metallo “Loro mi hanno fatto questo, non sento niente, se mi sfiori non lo sento. Non sento più il calore di un abbraccio. Sono ancora un uomo? Guardami.” le aveva mostrato i palmi delle mani “Le muovo, queste mani, ma non sento il caldo né il gelo, non posso neppure farti una carezza. Tu sentiresti il gelo del ferro ed io... io nulla. Che senso ha nascondersi, ritirarsi ora dalla guerra, se nel momento in cui mi fermeranno il cuore non proverò nemmeno dolore? Che senso ha rinunciare al viaggio?” “Dove andrai?” “Porterò i semi in un posto sicuro, partiamo in cinque domattina, nemmeno si accorgeranno di noi.” “Porta anche questo alla Ziqqurat, seppelliscilo con i semi, così, quando tornerai là ti ricorderai di me” La donna gli aveva porto un medaglione ottagonale incastonato in una piccola cornice d'oro. “Così ti ricorderai di colei che nonostante il ferro ti ha sempre considerato uomo.” E lui non aveva avuto il coraggio di sfiorarle le labbra. “Tornerò, e apriremo Thule” Una promessa che non aveva mantenuto. E non la vedeva da allora. Chissà dov'era. Di certo uccisa dagli Androidi. Eppure riusciva ancora a percepirne la presenza, e quello zaffiro blu stava lì sul petto del suo Colonnello come un trofeo. Carroll era arrivato alla Ziqqurat, era arrivato alla Terra del Sole, e forse, pensava, aveva fermato il nostro... il suo equipaggio. Anzi, ne era certo. Ho perso. Fu tutto ciò che riuscì a pensare. “Bella spilla.” disse. “È d'un blu profondo come l'Oceano. Non si trovano più zaffiri in questi tempi.” “Sei stato fortunato... chi te l'ha dato?” “I tuoi uomini, Alastar...” Carroll sogghignò “...e adesso tu seguirai i miei Androidi.” Otto Androidi enormi fecero irruzione nella stanza, fuori si sentivano ancora le grida e le risa delle macchine, una folla di rozzi soldati semplici programmati alla buona, progettati all'obbedienza verso chiunque si fosse proclamato loro capo, programmati per credere alle belle parole... e forse gli 6


uomini della superficie non erano migliori. “Che stai facendo, Carroll?” gridò Alastar “Io sono il tuo Governatore!” “Prendo ordini solo dalle Macchine, non da un uomo!” rispose Carroll “Li hai ingannati tutti quegli idioti, ti hanno creduto trent'anni fa, quando ti trovammo a largo dell'Heliouge con quattro altri uomini. Dicesti di essere un robot, un “nostro fratello”. Ho sempre saputo che mentivi. Quegli occhi che hai sono occhi di uomo, quelle lacrime che ogni tanto li inumidiscono per poi scomparire dopo un battito di ciglia non appartengono al ferro, ma alla carne. Eri un mezz'uomo allora e sei un mezz'uomo adesso. Negli anni non ti è rimasto un centimetro cubo di tua pelle, sei ricoperto da pseudo-pelle artificiale come tutti noi, e sei di ferro, tutto di ferro. Ma la tua coscienza è di Uomo, e tu non apparterrai mai a questo mondo. A questo mondo che ormai è nostro, non tuo. I tuoi uomini sono lì, Alastar. Nella tua amata Heliouge, in Sicilia, nella Terra del Sole. Peccato che il sole non lo rivedranno mai più.” “Mi dispiace Carroll...” disse Alastar “...mi dispiace davvero.” Carroll sobbalzò “Diaspiace a te? E cosa?” “Che tu sia Macchina e non Uomo. Se fossi uomo avresti sentito la bestia dell'invidia pervaderti e corroderti da dentro per trent'anni. Se fossi uomo avresti sentito l'odio scorrere nelle tue vene, avresti avuto voglia di gridare, di piangere. Se fossi un uomo adesso sentiresti assieme il dolce della vittoria che così tanto hai inseguito e l'amaro per averla raggiunta con l'inganno, la forza, il tradimento. Se fossi stato uomo adesso rimpiangeresti l'odore della rugiada e ricorderesti con orrore l'odore di terra bruciata alla fine della guerra. Come la chiamano alla Città Nuova, quella guerra?” Carroll stava in silenzio, in piedi di fronte ad Alastar, il Cyborg continuò: “Come la chiamano? Rispondi.” “L'incubo.” rispose il Colonnello freddamente. “L'Incubo. Oh... non sai quanto si sbaglino, quella era solo l'anticamera dell'incubo vero.” riprese Alastar “L'incubo è cominciato quando la Grande Quercia fu mozzata, l'incendio alla città s'è lasciato dietro dolore e morte, la presa del Porto ha colorato il mare di nero catrame, il fumo ha invaso il cielo scolorendo il volto della terra, e adesso calpestiamo il volto pallido di una creatura che soffoca pian piano. L'incubo è cominciato quando quegli uomini della superficie hanno accettato l'idea di una terra non più loro, quando vedendo sbiadire il cielo non hanno reagito, quando vedendo il mare farsi nero si sono semplicemente riabituati al nuovo colore. Quando gli uomini della superficie hanno scelto di non reagire, di non riprendersi ciò che era loro, quando fuggendo dalle fiamme lasciarono gli uomini del sottosuolo a combattere e a morire.” C'erano infatti due tipi di uomini: gli uomini della superficie, vivevano nei grattacieli della città nuova, fuggiti durante l'incendio erano tornati alla fine della battaglia, uomini senza coscienza, uomini ciechi. Poi c'erano gli uomini del sottosuolo, loro erano i ribelli, la Re-esistenza, Alastar era stato uno di loro, uno dei ribelli, il nome Re-esistenza era nato dopo. La vita di quegli uomini nei cunicoli della metro era dettata da qualcosa di diverso... loro erano uomini davvero, quelli della superficie, solo macchine di carne. “Ho odiato me stesso...” continuò il Cyborg “...ho odiato me stesso ogni giorno di più mentre alla mia carne si sostituiva il ferro, odiavo non poter percepire più niente, odiavo che i miei sensi mi venissero strappati via. Non avrei mai più sentito il dolore di una bruciatura, lo squarcio di un pugnale, è vero... ma non avrei neppure più sentito un caldo bacio sulle labbra. È per questo che mi dispiace per te, perché non conosci nulla della vita di uomo, e nonostante tutto, nonostante i dolori e i tormenti, sarebbe stato meglio decadere lentamente nella caducità della carne, che non sentire nulla per tutta la vita.” “Non sei più uomo, nulla in te è umano.” “Sono Uomo come lo erano tutti coloro di cui conservo memoria nelle mie stanze.” “Portatelo via. Nelle sue belle stanze. Portatelo alle icone dei suoi padri.” ordinò Carroll agli Androidi “Da oggi sono io il nuovo Governatore.” Strappò dal petto di Alastar l'icona d'oro e d'argento d'una stella a sette punte “Questo puoi 7


riprendertelo” disse infine togliendosi a sua volta il medaglione di zaffiro “Così che nella tua lunga prigionia tu possa ricordare il fallimento della tua ultima impresa.” Mentre Alastar scompariva in fondo al corridoio, condotto dagli otto Androidi, Carroll lo udì scandire con voce decisa: “Non puoi imprigionare la Coscienza.” ma non riuscì a comprendere se la frase che echeggiava tra le pareti fosse realtà o inganno della mente. Tutto l'equipaggio era sotto coperta, Glauco stava ai comandi eppure tremava, la tempesta era arrivata al tramonto del secondo giorno e aveva impazzato per tutta la notte, era l'alba del terzo giorno, lui non era riuscito a dormire, e non aveva neppure la forza di parlare. La nave era scossa dal vento e dalle onde altissime, la pioggia non lasciava tregua, fulmini abbaglianti squarciavano il cielo. Glauco, col volto stremato, si mise a canticchiare qualcosa a denti stretti, riuscii a captare la melodia di una canzone a me sconosciuta... Vento e tempesta, si gonfia il mare verso il tramonto dovrò navigare Sopra, le stelle non vedo più Ma sulla terra, mi aspetti tu E dico no a quella sirena che mi cantava di stare con lei e la mia anima di speranza piena si chiede se tu ancora ci sei Ben presto come se i miei compagni fossero abituati a quella canzone, cominciarono a intonare un un ritornello: Ma la sirena continuò a cantare mi offrì le labbra mi volle tentare Ma la sirena continuò a cantare mi spinse in basso mi volle affogare E quando ebbero finito il ritornello, Glauco riprese: Cessarono i venti, il mare sereno porto nell'animo nero veleno mi uccise il bacio dell'ingannatrice che mi promise di farmi felice E dissi si a quella sirena che mi convinse di non poter fallire e quando d'acqua ebbi l'anima piena vidi nel buio il cielo svanire L'equipaggio intonò nuovamente il ritornello, ed io riuscii solo ad ascoltare incantato quella canzone che sembrava da marinai, ma aveva qualcosa di più raffinato... qualcosa di poetico... che non aveva nulla da invidiare ai versi che per tanto tempo avevo declamato al palazzo di Alastar. “Chi aspetta l'uomo sulla terra?” domandai a Glauco. 8


“La cantava mio padre...” disse il ragazzo “non so chi lo aspettasse sulla terra, forse mia madre, ma lei è scomparsa nell'incendio alla Città Nuova... questa canzone sembra tanto raccontare il destino che hanno avuto lei e mio padre... ma è una vecchia canzone, la cantavamo sempre sulle navi” “E la sirena?” Glauco mi guardò non comprendendo la domanda, ma a quel punto fu Zara a rispondere: “Da quando sento cantare questa canzone, la sirena mi sembra sempre più la rappresentazione dell'ambizione... non un'ambizione buona, ma una cieca ambizione, un'ambizione che ci convince di non poter fallire, e che al primo fallimento ci porta ad annegare nello sconforto...” “Mio padre non seguì quell'ambizione... lui voleva solo tornare a casa” disse Glauco “La canzone non parla di tuo padre, Glauco. Lui la cantava esattamente per lo stesso motivo per cui la canti tu, perché l'aveva sentita da suo padre.” Gli occhi verdazzurri del ragazzo sembrarono diluirsi in un velo di lacrime trattenute. Vedevamo ormai i contorni della nostra città all'orizzonte, tramontava il sole del terzo giorno di viaggio. Vedevamo i contorni della stessa città che avevamo lasciato per avventurarci alla volta dell'Heliouge, ma qualcosa era cambiato, dal palazzo di Alastar non era visibile nessuna luce. La Città Nuova era chiassosa, invasa da un febbrile e disordinato festeggiamento. Quando giungemmo al porto mi resi conto che non era festa di uomini, ma di Androidi. E mentre la festa impazzava, io, vedendo il Palazzo privo di luce, pensavo in cuor mio “siamo arrivati tardi”. Un Androide stava di guardia al porto: “Chi siete?” domandò. Un attimo di smarrimento pervase l'equipaggio, poi un lampo di luce balenò negli occhi di Zara: “La stella a sette punte brilla di nuova luce” disse in tono solenne “veniamo dalle tenebre per risorgere con essa.” L'Androide la scansionò a fondo. “Stranieri?” fu la sua seconda domanda. “Veniamo dall'Ovest, la notizia è giunta, portiamo in dono questa nave, simbolo della stella a cinque punte, che si spegne per il più luminoso eptagramma” Durante quel viaggio Zara mi aveva stupito più volte, conosceva molte cose, e conosceva i simboli che avevano contraddistinto uomini e macchine durante l'Incubo. La stella a cinque punte era stata presa come simbolo dagli uomini, la stella di Venere a simboleggiare la natura umana. Gli Androidi avevano invece preso come simbolo la stella a sette punte, insegna della totalità. Due punte in più alla loro stella: una per indicare maggiore forza nel corpo, una per indicare un animo incorruttibile, poiché non indebolito da “sciocchi sentimenti”. Solo a sentire nominare l'eptagramma gli occhi dell'Androide si colorarono di una luce azzurra, segno che non ci considerava come nemici. “Carroll ne sarà felice, lasciate pure qui la nave, sbarcate e unitevi agli uomini della città e agli Androidi, la festa impazza dalla mattina, il vecchio governatore ci aveva ingannati tutti. La clemenza di Carroll ha scelto di non ucciderlo, ora egli governa dal palazzo di Ferro, costruito in un giorno e una notte dalla forza delle Macchine.” Tutti volsero verso la città, ma quando fummo lontani dal porto Zara riprese a parlare “andate davvero alla Città Nuova? Andate a mescolarvi a quella folla senz'anima e senza coscienza?” L'equipaggio s'arrestò a quelle parole. “Dobbiamo reclutare la Re-esistenza” disse Egle. “No Egle, non dobbiamo. Tutti gli Androidi sono alla Città, non resterà più un solo ribelle prima che cominci la battaglia.” “Dobbiamo andare da Alastar” affermai accennando con un movimento del capo nella direzione del palazzo di vetro “Alastar ha perso.” mi rispose Egle. 9


“Non è vero, noi siamo Alastar, siamo il suo equipaggio, Egle.” fu tutto ciò che seppi dire. “Egle... accetta un consiglio per una volta...” le sussurrò Glauco con dolcezza. Al palazzo di vetro tutto taceva, solo due soldati di Carroll stavano a guardia della porta principale. Li notammo da lontano, due giganti bianchi dall'apparente volto di uomo, scrutavano l'orizzonte. “Fermi.” sussurrò Ida all'improvviso “Altri due passi e ci vedranno. Non possiamo farcela. Non possiamo affrontarli. Sono quelli programmati per l'esercito.” “Forse...” cominciò Folco “...potremmo...” “Folco, non lo faremo.” lo bloccò Ida “Non sono sicura di riuscirci... e se falliamo siamo morti.” “Siamo morti comunque” sospirò Egle, lanciò intorno un'occhiata nervosa, poi si passò due dita sugli occhi “se Carroll resta al potere non rimarrà nulla di noi non appena ci riconosceranno.” “Non falliremo, Ida” Folco le poggiò una mano sulla spalla “Dovete solo aiutarci.” continuò rivolto a noi “Dovete presentarvi alle porte, io e Ida rimarremo nascosti. I soldati vi riconosceranno come stranieri e attiveranno la modalità di difesa, e a questo punto i nostri dispositivi percepiranno il segnale degli Androidi e si metteranno alla ricerca di una falla del sistema... poi... poi tenteremo di riprogrammarli dall'interno.” Quando fummo davanti alle porte ci presentammo come stranieri: “Il governatore è stato deposto, ha tradito” dissero all'unisono “cosa volete?” Folco dal suo dispositivo cominciò a captare il segnale degli Androidi in funzione, si mise alla ricerca di una falla nel sistema. Gli occhi dei giganti si illuminarono di giallo, segno che percepivano il pericolo, il database dei volti mi aveva riconosciuto. Io, Ado, cantore di corte, fedele servitore di quel Cyborg che aveva tradito. “Ribelli” disse uno di loro vedendo il volto di Egle. Folco era riuscito ad entrare nel sistema di controllo del primo Androide, Ida in quello del secondo. “Ribelli” ripeterono i due guardiani. Folco digitava velocemente interminabili righe di codice, tentando di riprogrammare la macchina, lo stesso faceva Ida. Egle fissava gli Androidi senza mostrare paura “Sono solo io la ribelle qui” disse “loro... loro sono solo fedeli servitori di voi ammassi di ferro.” “Morte.” sentenziarono i due giganti di ferro. Egle tremò leggermente, ma non smise di fissare gli occhi gialli dei guardiani. Folco era in uno stato febbrile di panico e concentrazione. Pochi secondi, pochissimi, e tutto sarebbe stato perduto. E infine, inviò il segnale decisivo, così come Ida, in un fremito di terrore e adrenalina. L'aria si fece pesante per interminabili istanti. Un silenzio greve riempì l'etere. Poi gli occhi delle macchine si fecero bianchi, e invece di uccidere spalancarono le porte del palazzo. “Tu sei pazza” disse Glauco ad Egle. “Non ho paura della morte” rispose lei “Ma hai paura di vivere davvero” sussurrò Glauco a denti stretti, notai una punta d'amaro nell'inclinazione della sua voce. Ida e Folco ci raggiunsero alla porta, avevano gli occhi lucidi e i volti sconvolti. “Avevate 30 secondi di vita...” dissero ancora tremanti. Gli occhi di Glauco si fecero lucidi di gratitudine “Ci avete salvato” li abbracciò forte. “Forse avete salvato l'umanità.” disse Egle, ma mi suonò tanto come la frase di un'eroina che per salvare il mondo, si stava dimenticando di se stessa. I nostri passi rimbombarono in quelle stanze deserte e silenziose, trovammo Alastar nelle stanza dei prismi, in piedi, nel buio, guardava i contorni della città illuminata. “Signore...” lo chiamai. 10


“Alastar, Ado” mi rispose “non chiamarmi Signore” “Cosa è accaduto?” domandai timidamente. Lui... lui ci disse di Carroll e del colpo di stato, della conversazione col Colonnello e della prigionia, ci disse di aver perduto la speranza vedendo lo zaffiro, ci mostrò l'oggetto che Carroll gli aveva restituito con tanto disprezzo. “È quasi identico a quello della donna del molo!” esclamò Glauco. Alastar prese a fissarlo con stupore “Di...di che colore era?” “La donna portava un rubino, ma la forma, la cornice... sono identiche...” “Quando è successo?” “Circa vent'anni fa...” Alastar si inginocchiò e poggiò le mani sulle spalle di Glauco: “Hai parlato con lei?” “Sì” “Cosa ti ha detto?” “Ha detto che... che non può esserci l'alba senza il tramonto...” “Solo questo?” “No, mi ha dato una conchiglia... ha nominato Thule...” “Era lei.” fu tutto ciò che Alastar riuscì a dire, si sciolse in un pianto silenzioso “era lei.” ripetè. Tutti stavamo attorno a quell'uomo, a quel Cyborg, inginocchiato, in un silenzio che celava qualcosa di terribile, che aveva il suono del rimpianto. Il tempo parve fermarsi, non so quanto durò quella veglia ad un fantasma del passato. “Hai ancora la conchiglia?” domandò infine tenendo ancora gli occhi bassi. Glauco annuì. “Possiamo ancora vincere” sussurrò Alastar con voce strozzata, poi aprì un vano nel petto, incastonata lì stava una conchiglia identica a quella di Glauco, la estrasse con cura e la consegnò al ragazzo. “Queste sono le chiavi di Thule” cominciò indicando le due conchiglie. “Dieci anni fa Thule non si è aperta...” disse Egle “mi appare in sogno ogni notte quel fallimento” e raccontò dell'incubo che la tormentava. Aveva la voce strozzata in gola, mi sembrava quasi di vederla, lei di fronte a quelle mura... “mi sveglio ogni volta quando Glauco mi abbraccia e...” “...e quello che potrebbe diventare un sogno, rimane un incubo.” concluse Alastar, lei sobbalzò. Le labbra del Cyborg si piegarono in un sorriso amaro. “Glauco... avvicina le conchiglie” la sua voce tuonò come un ordine. Quando le conchiglie furono una vicina all'altra da esse cominciò a scaturire uno strano bagliore, nella penombra di quella stanza parve comparire l'alba. Era una luce fioca ma purissima, sembrava contenere i raggi del sole delle prime ore del mattino. Tutti i miei compagni sembrarono quasi averne paura. “Non è niente” disse Alastar “non è niente... è solo luce... le due chiavi si sono trovate e Thule le chiama...” Carroll festeggiava nella grande piazza di cemento della Città Nuova, d'un tratto si sentì mancare, come se l'energia che aveva in corpo lo avesse abbandonato di colpo, ma non ci fece troppo caso, era stato un istante, un black out momentaneo, si guardò intorno e sogghignò della festa che si stava tenendo in suo onore. “... la luce si farà più forte una volta giunti a Thule, abbagliante quando inserirete le chiavi. Quando aprirete Thule vi si presenterà davanti un mondo nuovo...” continuò Alastar . “Cosa c'è Oltre il confine di Thule?” domandò Egle timidamente “Intendo... cosa c'è davvero?” Alastar non rispose subito a quella domanda, ma si mise a parlare camminando avanti e indietro, agitando le braccia in ampi movimenti descriveva con parole e immagini una storia taciuta da più di 11


mezzo secolo: “Quando al Laboratorio decisero di costruire i primi Androidi nessuno credeva che ci sarebbero riusciti davvero. Il laboratorio era a Nord, molto a Nord... il laboratorio era a Thule. Sentivo parlare di questi progetti come qualcosa di grandioso e affascinante, Macchine che avrebbero sostituito del tutto gli uomini... in qualsiasi cosa. Alcuni avevano detto che poteva essere pericoloso e... e lo sapevo anch'io. Le Macchine sarebbero state molto più forti di noi, anche se meno numerose. Volevano creare delle Macchine-soldato, ma non ci riuscirono subito, i fallimenti furono davvero infiniti, intanto si presentò un nuovo problema: come tenere attivi i robot per sempre? La soluzione che trovarono fu l'energia geotermica e costruirono un'immensa muraglia che altro non era che un impianto per raccogliere questa energia. Sigillarono le porte e attivarono gli androidi, tenuti in “vita” dallo stesso cuore della Terra. Gli scienziati avevano programmato un gruppo di Androidi per l'esercito, li avevano chiamati “La Legione”, le prime macchine dell'esercito, per qualche strana ragione, somigliavano a legionari romani, creature degne di un film di fantascienza. Mi vergogno di essere stato uno di loro. Uno dei padri di quei robot. Uno di quelli che cercava energia per le Macchine quando non c'era energia per gli uomini, uno di quelli che nutriva il ferro mentre la carne moriva di fame...” s'arrestò e fece un profondo sospiro “... poi tutto precipitò...” riprese “...era l'ennesima guerra e quegli altri uomini... quelli che stanno in alto, ci domandarono di avere La Legione, pagarono moltissimo quei mercenari di ferro... La Legione distruggeva qualsiasi cosa, vinceva le battaglie... ci ordinarono di costruirne ancora... e ancora... finché non li rendemmo in grado di auto-generarsi e auto-programmarsi. Si riproducevano come le teste dell'idra, per ogni Androide che veniva distrutto se ne generavano due nuovi. Ben presto il mondo fu popolato da migliaia... milioni di Macchine. La terra sfioriva, costruivamo nuovi laboratori, nuovi “uteri” in cui generare quei robot, le città si ampliavano, la tecnologia cresceva, le navi scomparivano per i sottomarini. La terra mutava il suo volto... Quando l'Incubo esplose non posso dire che non ebbi paura, le Macchine sembravano dotate di pensiero proprio, e facevano più paura degli uomini: volevano il controllo. E vennero a prenderselo. Invasero Thule. Combattemmo, combattemmo con tutte le nostre forze, ed io persi tutto ciò che avevo di umano. Continuammo a combattere, e combatteva anche Lei. Era una bella donna dagli occhi verdi, determinatissima, brillante. Io... io in quella guerra persi davvero tutto ciò che avevo, anche lei. E no, non era morta, e so che mi avrebbe amato così come l'avrei amata io... ma io avevo scelto di salvare il Mondo e mi ero scordato di salvare me stesso. Quando divenni del tutto un Cyborg, quando più nulla avevo di umano, lei ancora mi amava... ed io prima di dirle addio, non ebbi nemmeno il coraggio di sfiorarle le labbra, temevo che quell'amore mi avrebbe allontanato dalla mia missione.” alzò gli occhi verso Egle e la fissò per interminabili secondi “...credevo che quell'amore mi avrebbe allontanato dalla mia missione” ripetè “e ho sbagliato tutto.” Egle non riuscì più a sostenere il suo sguardo. “L'ho persa...” riprese “e quando il mondo fu degli Androidi io da solo non potevo più fare nulla. Insieme avevamo chiuso Thule un giorno di tanti anni prima e ognuno di noi custodiva una chiave per riaprirla. Le avevo promesso che sarei tornato, che ci saremmo avventurati insieme verso Thule per riprenderci la terra... poi la mia missione nell'Heliouge fu intercettata e fui costretto a fingermi Androide...” “Lei attendeva te, non me, al Porto, quel giorno.” lo interruppe Glauco. “Sì, lei attendeva me.” “Cosa c'è Oltre Thule?” domandò Egle. “Egle... oltre Thule non c'è niente. Le porte si aprono e non c'è nessun portale verso un altro mondo, le porte si aprono e tutto ciò che riesci a vedere è il Nostro Mondo. Le porte si aprono e... e le Macchine si spengono.” “Thule spegne le Macchine?” domandò stupita. 12


“Sì. Thule spegne le Macchine e accende l'Uomo.” “Devo andare... devo andare a Thule... datemi le conchiglie, partiremo stanotte, Glauco...” Egle era presa da un'emozione incontrollata. “No Egle.” la fermò Alastar “Tu e Glauco non andrete a Thule, neppure Ado o Zara....Ida e Folco partiranno, voi andrete dove più vi piace, ma dovrete uscire dal palazzo...” Egle annuì. Uscimmo dal palazzo che era notte, Ida e Folco sfrecciarono verso Thule a bordo di uno dei velivoli della Re-Esistenza. Zara andò da sola alla città, in quella festa che impazzava si diresse verso le gallerie, lei sentiva di dover tornare dagli uomini del sottosuolo. Tutto ciò che dico e che racconto l'ho vissuto, e ciò che non ho vissuto mi è stato raccontato, durante o in seguito, e mi sembra di vederla Zara avventurarsi nel buio dei cunicoli della Metro, mi sembra di vedere Ida e Folco volare verso Thule, mi sembra di vedere Egle e Glauco dirigersi a passi lenti verso la Quercia Mozzata. La notte stava finendo il suo corso quando qualcosa accadde, era ancora buio quando Ida e Folco giunsero di fronte alle porte di Thule. “Funzionerà?” domandò Folco intimorito dal bagliore forte che le due conchiglie cominciavano ad emanare. “Funzionerà.” rispose Ida “Funzionerà fratello mio.” Lì alle porte incastonarono nello specchio le conchiglie, una luce di giorno pervase l'etere, tanto da costringerli a chiudere gli occhi. Nel momento in cui Thule si aprì tutti lo capimmo, anche se non eravamo lì con loro. La Città Nuova tacque all'improvviso e Carroll si guardò intorno sperduto, migliaia di Androidi intorno a lui si piegavano sulle ginocchia abbassando il capo. Zara li vide entrando nella città, gli Androidi si spegnevano inginocchiandosi lentamente, la luce azzurra che illuminava gli occhi di quelle Macchine si faceva fioca per poi scomparire. Per primi si spensero i soldati semplici, e gli altri li seguirono, tutti con quello stesso strano rito: in ginocchio col capo basso perdevano la loro pseudo-vita. “No! No!” gridò Carroll con le ultime forze che aveva in corpo, sentiva che l'energia diminuiva velocemente, sentiva di non poter più controllare i propri movimenti, riusciva solo a parlare: “No!” ripetè ancora “No! Com'è possibile?” Nessuno lo ascoltava, nessuno rispondeva, gli Androidi intorno a lui si inginocchiavano in un silenzio eterno. Gli uomini della superficie tacevano colmi di stupore. Zara era lì, tra le Macchine, nella piazza, vedeva il Colonnello agitarsi in maniera scomposta, gridare, contorcersi come se un male lo stesse corrodendo da dentro. Ma il Colonnello non percepiva niente, solo confusione, un'immensa confusione, e debolezza, troppa debolezza. Gli tornò in mente l'Heliouge, e quegli uomini che erano partiti alla volta della Terra del Sole. Poi si inginocchiò anche lui, per ultimo, in mezzo a quella distesa di corpi silenziosi. “Sarebbe stato meglio decadere lentamente nella caducità della carne, che non sentire nulla per tutta la vita.” sussurrò riportando alla mente le parole di Alastar. Il sole cominciava a salire nel cielo, nubi rade facevano calare una pioggia leggera, completamente diversa da quella tempesta che avevamo affrontato in mare, il sole e la pioggia si contendevano il cielo, ed io, che m'ero allontanato pochi passi dal palazzo, fui pervaso da un'improvvisa angoscia. Corsi verso le porte di quell'immensa struttura di vetro, percorsi i corridoio a grandi passi, fino a giungere nella stanza dei prismi. I primi raggi del sole illuminavano l'ambiente, ricordandomi la prima volta che avevo visto quella stanza, pervasa da una luce di tutti i colori dell'iride, e in piedi, a guardare la Città, stava Alastar. “Thule è stata aperta” disse. 13


“E tu... tu morirai?” domandai timidamente. Quell'Uomo, quel Cyborg si voltò a guardarmi. “Voglio dirti una cosa, Ado. Voglio che tu la custodisca. La Terra, Ado, ha ancora una Coscienza, l'ha sempre avuta, quella coscienza non si è mai persa. La Terra è una creatura coraggiosa, la terra ha vita. Secondo te perché gli antichi ci immaginavano sulla schiena degli Elefanti o sul dorso di una Balena? Perché sapevano che la Terra aveva vita propria, che poteva cacciarci via scrollando le spalle, come noi facciamo con gli insetti quando ci salgono addosso. Ma la Terra è più magnanima degli uomini.” “L'abbiamo resa schiava...” azzardai. “No, Ado. La terra non è mai stata schiava degli uomini, non è mai stata neppure schiava delle Macchine. La terra ha semplicemente atteso....La terra ci ha accolti, ospitati... ma... ma si sarebbe ribellata un giorno. Piano piano o tutto ad un tratto. La vedi la Terra, Ado?” alzò il tono della voce e indicò fuori, verso il mare e verso la terra che ci stava di fronte. Da quella stanza pervasa dai colori dell'iride, vedevo il pallore del Mondo scomparire. Il sole sembrava più caldo che mai, la pioggia più pura, cominciai a percepire l'odore della rugiada. Vidi Alastar sorridere a quella Terra che rinasceva. “La senti la Terra?” Al suono di quelle parole una lieve scossa attraversò il suolo. “Lei non vuole farvi del male” riprese “non a te, non agli uomini del sottosuolo. Lei si ribella contro gli uomini della superficie, ma loro... loro si sono spenti come gli Androidi... anzi... loro non si erano mai accesi. Ado. Ricordi il sapore del vento ad ogni respiro? Del vento antico, intendo. Se lo ricordi, non dimenticarlo, tienilo impresso nella memoria. Ricordi il colore del mare? Il calore di quel disco dorato che si sta facendo strada all'orizzonte? So che lo ricordi, sei figlio dell'età del Consumo, il mondo non aveva ancora del tutto il sapore della cenere. Ado, racconta questa avventura” mi disse poi “raccontala come raccontavi dell'Heliouge alla mia corte, ma raccontala agli uomini del sottosuolo, raccontagliela affinchè si riprendano la superficie. Per riconquistare la terra non basta che si spengano le macchine, bisogna che gli uomini si accendano.” Ebbi l'impressione che Alastar stesse sbiadendo piano piano, e allora quel senso d'angoscia tornò a pervadermi il cuore. “Morirai anche tu? Morirai come gli Androidi?” “Gli Androidi non muoiono, loro non hanno mai vissuto.” Silenzio, interminabile silenzio. “Alastar...morirai?” “Ado.. io non appartengo agli uomini, non appartengo alle macchine, io appartengo alla Terra, al Vento, all'Oceano. Ado, sono stato solo per troppo tempo per dirmi Uomo, ho sofferto troppo per dirmi Macchina. Ado, io sono Memoria, io sono Coscienza del Mondo.” Piansi, per la prima volta durante quell'avventura, piansi. Grosse lacrime cominciarono a rigarmi il volto. “Non piangere Ado... non c'è motivo.” “Stai... stai morendo.” Mentre piangevo, lui mi sorrise. “La Coscienza non muore, Ado.” Allargò le braccia, come ad abbracciare il vento, un vento immaginario, e chiuse gli occhi. Lo vidi svanire, scomparire nello spettro dell'iride. Di lui non rimase nulla. Né ferro, né carne. Io non potevo sapere che lontano, alla Quercia Mozzata, in quell'istante era nato un germoglio. Non potevo sapere che lì erano Egle e Glauco e che lo videro, e in quel momento seppero che Alastar era morto. Ma seppero anche che Ida e Folco erano andati oltre Thule, e allora, nella pioggia, anche Glauco ebbe il coraggio di andare oltre. 14


Un bacio. Un solo bacio. Un istante di coraggio. E anche Egle ritrovò se stessa su quelle labbra. E allora gli uomini del sottosuolo uscirono dai cunicoli bui, corsero sulla terra, uomini, vecchi, bambini. E mi parve di vedere una donna, una vecchia, dagli occhi verdissimi, ferma sul molo. Guardava verso il palazzo di vetro. Poi anche lei allargò le braccia e svanì nel vento. Così s'aprì Thule e scoprimmo ciò che era sempre stato sotto i nostri occhi, che oltre Thule non c'era nient'altro che la nostra terra, che le mura di Thule erano a specchio per una ragione: riflettere il nostro mondo. Così scoprimmo che Oltre le mura non c'era nulla, solo un promontorio che continuava infinito nella nebbia, così scoprimmo che per andare Oltre dovevamo solo tornare indietro. Thule spegneva le macchine per accendere gli uomini. E così la nostra era diventata la storia di un ritorno a casa. E così tornammo dal ferro alla carne, tornammo dalla terra bruciata alle immense distese verdi, abbandonammo la paura per il coraggio. E fu il ritorno alla coscienza, alle stelle e al sole, alla vita. Il ritorno ai sentimenti, fu il ritorno all'amore, come tra tua madre e tuo padre... e fu il ritorno a quella terra di cui tu, Gaia, porti il nome.” Così disse il vecchio cantore a quella ragazza appena quindicenne con gli occhi verdazzurri e lo sguardo fiero che stava ad ascoltarlo. Appoggiati al tronco della Quercia avevano aspettato insieme l'alba. “E questa fu la mia piccola Odissea” La ragazza sorrise “Allora è stata un' Adusìa” Il vecchio cantore le restituì il sorriso “Sì... la mia Adusìa... e il nostro Oltre, Gaia, non fu che un ritorno.”

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