Sopra le nuvole

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SOPRA LE NUVOLE Era davvero un bel posto, sembrava di affacciarsi su una distesa interminabile di neve, eppure non era solo neve quella che circondava il regno delle cinque punte. Si chiamava così perché formato da cinque montagne appuntite, interminabili alla vista, e tra gli uomini, si diceva che nessuno potesse raggiungerne le vette. Dunque cinque guglie si stagliavano al di sopra delle nuvole, ed era lì, che mentre il mondo sonnecchiava, lavoravano senza sosta le cicogne. Le più anziane, non più avvezze al volo, ricamavano i fagotti che avrebbero accolto i bambini, scrivendo con fili rosa o blu, una parola diversa per ognuno, mai parole tristi o oscure, erano aggettivi che segnavano il destino, e su una coperta, la cicogna più anziana, ricamò la parola “sognatore”. La coperta fu affidata a Bora, una cicogna giovane e un po’ strana, le altre cicogne della sua età avevano già fatto il primo volo, ma lei ancora non si fidava a scendere al di sotto delle nuvole, diceva che i fumi che coloravano di nero le loro nuvole non erano così invitanti, e s’era sempre rifiutata di fare quelle consegne a domicilio di bambini strillanti per “la gente grigia”, così aveva soprannominato gli uomini. Ma quella era una coperta speciale, per un bimbo speciale, ed era toccato a lei, per quella volta, per la prima volta, scendere di sotto, e non poteva tirarsi indietro. “Io?” aveva chiesto timidamente alla Cicogna Madre “Ma non sono mai stata tra la gente grigia” “Andrai tu, è il primo “sognatore” che abbiano ricamato le nostre visioni, e tu sei l’unica a non aver ancora volato, per un destino nuovo serve il primo volo.” Le venne porto il fagotto, e dentro stava un bambino semi-addormentato dalla pelle rosa, la cicogna gli fece una carezza e la piccola mano strinse la sua ala, la lasciò solo quando si fu addormentato del tutto. “Ma è normale che non pianga?” domandò alla Cicogna Madre, e sul suo becco vide comparire un lieve sorriso. “Non piangono tutti e non piangono sempre” E Bora, quasi fosse venuta a conoscenza di una straordinaria verità, disse quasi per giustificarsi: “Io credevo di sì..”

E così, con il fagotto tra le zampe, planando dolcemente scese fino alla nuvola più bassa. Era una notte senza luna e senza stelle, almeno così parve a Bora una volta raggiunto il mondo di sotto. Non aveva idea che a spegnere le stelle non erano le nuvole ma le vie illuminate da luci gialle e arancioni, e i fari delle “scatole magiche” che sfrecciavano senza sosta sotto di lei; volava sopra l’interminabile autostrada che pareva un grande serpente dalle squame di mille colori, e lo seguì finchè non vide la città a cui era destinato quel piccolo sognatore ancora senza nome.

E il sognatore dormiva ancora quando giunse in via delle Petunie, al numero 27, subito dietro la piazza superato il fioraio storico della città, oltre i lampioni tondi, subito prima del parco.


E dalla finestra vide una donna corpulenta, il viso giovane che portava uno sguardo vecchio: era vestita di rosa, il ventre pronunciato, e stava seduta su una poltroncina. Attorno, a creare un cerchio, c’era quello che doveva essere il marito, era un omone calvo vestito di tutto punto, con un vestito nero gessato in grigio e una cravatta dalla fantasia ridicolmente colorata. E due donne sui quaranta, con leggeri vestiti a fiori. Bora vide la donna in rosa emettere una specie di lamento, e subito esclamare “Credo stia per nascere!” e l’uomo calvo risponderle “Cara, tranquilla, sarà un falso allarme, mancano ancora due settimane” “Ti dico che è così” ribatteva lei, tentando invano di alzarsi dalla poltroncina. “Tranquilla, non preoccuparti, quando stava per nascere mio figlio mi succedevano spesso questo genere di cose, devi solo rilassarti e passeranno, tu credi stia per nascere ma non è così” disse quasi svogliatamente una delle due donne in vestito a fiori.

Nel frattempo, alla TV, trasmettevano uno di quei programmi sui giovani talenti, e l’altra donna stava imbambolata davanti allo schermo quasi estraniata dal mondo. “Come possono eliminare Davide?” sbottò d’un tratto. “Davide? Davvero? E chi fanno passare, quella Cristina?” intervenne prontamente la prima. “Dovresti chiamarlo Marco” riprese l’altra “come quello che ha vinto l’anno scorso!” “Marco, oddio, davvero, te lo ricordi?” Bora, per un momento, pensò che questo fantomatico Marco di cui parlavano fosse amato per la sua splendida abilità nel canto, ma dovette subito ricredersi. “Era davvero figo” una ragazzina sui 14 anni era entrata nella stanza “dai zia! Chiamalo Marco!”

Nel frattempo, alla finestra, il sognatore s’era svegliato e messo a strillare. E Bora si allontanò per cullarlo un poco. Volò svelta sopra un vecchio campanile e prese a cantare a mezza voce una ninna nanna vecchia come il mondo. “Sopra le nuvole, cinque alte vette cullano un bimbo che di pianger non smette, lo culleranno fino al mattino, dormi sereno mio bel bambino, la notte è lunga, se stai ad osservare le tante stelle tu vedrai brillare, e se guardandole ti addormenterai, tanti bei sogni, mio bimbo, farai.” Si addormentò in fretta, ma lei, nella casa dell’uomo calvo, non volle tornare. Era convinta che una famiglia in cui il marito non si cura delle doglie della moglie, e in cui le sorelle di lei, e la nipote di 14 anni vestita da ventenne, vogliono dare al nascituro il nome di una meteora della Televisione, non fosse il posto adatto a un bambino dolce come quello che teneva tra le ali. Così, senza apparente meta, volò verso una casa diversa. Qui un tipo smunto e alto, stava seduto ad una scrivania a far di conto.


Una donna anch’essa magrissima, sulla quale spiccava il ventre rigonfio, parlava giuliva al telefono, forse con un’amica: “Si, abbiamo già preparato tutto. Al battesimo ci saranno 300 persone, vengono anche i miei cugini dall’America, i miei zii di quinto grado dalla Spagna, poi te la ricordi Caroline? Dai, non ricordi? Quella che vendeva i passeggini, dove ho comprato quello blu e giallo per Marika, ecco, l’ho invitata, ora che c’è questo nuovo arrivato, sempre meglio tenersela buona, magari mi fa uno sconto.” Nel frattempo l’uomo smunto continuava a scrivere numeri su numeri. Bora, curiosa, si avvicinò ancor di più alla finestra per poter leggere la lista di numeri su cui l’uomo stava lavorando.

C’erano liste di eventi, a partire dal battesimo, e i compleanni a continuare, accanto vi era la cifra dei soldi da destinare. Bora, per un momento, pensò che quello fosse un padre davvero premuroso, a riservare al bambino tutto quel denaro, ma tutta la buona impressione svanì quando lesse “Scuole superiori: liceo scientifico” “facoltà universitaria: medicina” “Lezioni di pianoforte” “lezioni inglese” “lezioni tedesco” “karate” Quell’uomo stava programmando la vita e gli interessi di un bambino non ancora nato! Che follia! Volò di nuovo lontano, questa volta su un albero del parco, e rimase ad osservare per interminabili minuti la città. Fu attratta dal canto di una donna, si avvicinò ad una grande porta-finestra illuminata, una donna cantava facendo le pulizie. In giro per casa vi erano moltissimi giocattoli ma la casa appariva vuota, fatta eccezione per quella donna in dolce attesa. A Bora piaceva la casa, ma la inquietava l’assenza di bambini e l’eccessiva presenza di giochi e bambole. Ben presto, però, l’arrivo di un bambino sui cinque anni rispose a tutte le domande della giovane cicogna. “Mamma?” La donna aveva smesso di cantare, e s’era rivolta al bambino con aria severa. “Dove sono Doroty e Riccardo?” “A guardare i cartoni, mamma.” “E perché non ci sei anche tu?” “Mi annoio…” “Ti annoi? Ma come? Dai va’ con loro e poi mi racconti cosa hai visto!” Bora vide la donna avvicinarsi a un cellulare che sembrava non squillare: in realtà aveva la vibrazione impostata e lei, da fuori, non poteva sentirlo. Poteva invece sentir parlare la donna: “Lorena, ciao! Si, certo che puoi venire! Stavo pulendo casa. I bambini? No… non preoccuparti dei bambini li ho piazzati davanti alla TV e sono stati buoni per tutto il pomeriggio.” Il piccolo sognatore cominciava ad agitarsi di nuovo, ma ancor più grande era l’agitazione della giovane cicogna: lei non poteva lasciare quel batuffolo rosa di carne e speranze neppure in quella casa.

Volò dolcemente di tetto in tetto, di albero in albero, di lampione in lampione. Ripercorse planando a bassa quota l’infinita autostrada, e corse incontro all’alba.


Quando giunse al regno delle cinque punte il sole era ancora sotto le nuvole e tutte le altre cicogne erano già tornate al nido. “Bora!” si sentì chiamare, era la Cicogna Madre “Perché hai ancora il bambino con te?” Bora arrossì lievemente sotto il candido piumaggio “ Ecco.. io… non me la sono sentita di lasciarlo tra la gente grigia..” “Bora...” continuò quella “…non è il momento di sviluppare istinti materni, lo sai bene che non dobbiamo affezionarci ai bambini.” “Non è per questo, non solo…” ormai le guance ai lati del becco si tingevano di rosso scarlatto “Io… ho visto la sua famiglia… e non mi sembrava adatta a… posso spiegare, posso descrivere quello che ho visto, lo giuro! Ho cercato anche altre famiglie io..” “Oh, taci Bora.” Bora si bloccò all’istante. “Ora abbiamo un piccolo senza ali di troppo. Cosa ne facciamo? Devi consegnarlo Bora.” “NO!” “No?” “No. E non consegnerò nessun altro bambino. Non mi piace il mondo di sotto.” “Bora, dobbiamo risolvere questo problema.” Disse indicando il bambino. “Non è un problema. Io non consegno più nulla. Lo crescerò io.” “Tu? E dove?” “Qui.” A nulla valsero i mille avvertimenti della Cicogna Madre, Bora aveva fatto una scelta. Quello che nessuna cicogna mai, e neppure nessun uomo grigio, avrebbe mai immaginato, era che proprio la scelta di Bora aveva inciso il destino del piccolo sognatore a caratteri d’oro nel suo animo.

Aveva vent’anni, capelli castani e occhi neri neri, li portava né lunghi né corti, e perennemente scompigliati. Non li portava lunghi perché era da rocker, non li portava rasati perché era da soldato (e lui, era risaputo, era un pacifista!), non aveva il ciuffo pieno di gel perché era da fighetto e non portava la barba folta perché era da hipster. Non faceva nulla di tutto questo esattamente per i motivi sopracitati, solo che era l’unico a non saperlo! Ah, quante congetture era in grado di ideare instancabilmente la gente! Per tutti era il tipo strano della porta accanto, anche se una porta non l’aveva nemmeno. “Chissà dove abita!” borbottava qualcuno ad alta voce, vedendolo comparire e scomparire dalla città come se fosse solo un miraggio comune.

Era un giorno come tanti e aveva appena compiuto vent’anni quando, dopo aver baciato affettuosamente Bora su una guancia, aveva fatto una scelta. “Madre… devo farti vedere una cosa…” le aveva detto con tono serio, Bora aveva storto il becco in una smorfia preoccupata. “Cosa?” “Vieni con me…” E così, subito dopo l’Insenatura del Falco, a Bora si mostrò un’immensa mongolfiera dai colori sgargianti, tutta rattoppata di mille stoffe diverse, con un cestello non troppo grande ma confortevole.


“Mamma… ho deciso di scendere di sotto.””

Bora stava lì, di fronte all’enorme pallone colorato, e fissava ora quello ora il piccolo sognatore, che s’era fatto grande, e non aveva idea di cosa fare. Non l’aveva presa male… non l’aveva presa bene… era solo… stupita! E l’unica cosa che seppe dire fu la frase che ogni madre, anche tra la gente grigia, si chiede sempre alla partenza di un figlio: “Tornerai?” Il sognatore sorrise: “Certo che tornerò, mamma! È per questo che ho costruito la mongolfiera. Mi servirà per scendere giù ma anche per tornare qui. Non è mica un addio! Voglio solo incontrare gli altri… quelli… quelli come me.” “Tesoro, nessuno è come te lì sotto, tu sei speciale.” “Lo so” disse lui con fare scherzoso “è per questo che scendo di sotto” e dicendo questo strinse Bora nell’abbraccio più stretto che le avesse mai dato, e lei lo tenne forte tra le ali “torno presto, te lo prometto” e dicendo questo saltò sulla sua mongolfiera e cominciò la sua lenta discesa verso terra. La mongolfiera atterrò in un campo verde, era Dicembre inoltrato e intorno a lui, incredibilmente, la terra sembrava fatta di smeraldi e il cielo di zaffiri. Sapeva molto del mondo di sotto, aveva letto tanto in quegli anni: tutti libri che gli aveva portato Bora. Sapeva la lingua, le usanze, i saluti, le feste, le stagioni… Già: le stagioni. Era Inverno già da un po’… e si chiese guardandosi intorno come mai quel mondo su cui aveva appena messo piede sembrava invece vivere un’eterna primavera, avvolto e protetto da un caldo sole. Ma in quel momento poco gli importava: scorgeva in lontananza tanti piccoli tetti che prima di quel giorno aveva visto soltanto nelle cartoline che Bora rubava per lui dai negozi di Souvenir del centro o che aveva più volte immaginato dai racconti delle altre Cicogne, che ogni giorno sorvolavano la città. Camminò a lungo, ma fece in fretta, abituato alle montagne scoscese ci mise poco a percorrere in una corsa intrisa di curiosità la distanza che lo separava dal Mondo. Era Gennaio, e ormai in città lo conoscevano tutti, nel suo primo giorno nel mondo, nella sua secondo nascita, nessuno aveva scelto per lui, e così, quando una ragazza dai capelli ramati gli aveva chiesto come si chiamasse, lui aveva risposto “sono solo un Sognatore”. E a nessuno, in realtà, importava troppo che avesse o non avesse un nome, era il Sognatore per tutti: sia per chi aveva imparato a volergli bene, sia per tutti quelli che non comprendendolo, lo additavano come folle. Dicevo? Era Gennaio quando percorrendo la città a cavallo della solita bici, tenendo in spalla lo zaino con dentro mille attrezzi da giocoliere, era stato attratto da una piccola folla accalcata di fronte a un negozio di elettronica: su decine di schermi televisivi , e su ogni canale, andava in onda in diretta la “Conferenza straordinaria della filosofia e delle scienze per la guerra al surriscaldamento globale” Così si fermò e per la prima volta li vide: i Grandi. Quelli con la “G” maiuscola. I filosofi e gli scienziati più illustri del Globo, riuniti nella sala conferenze della “Laputa”. La più importante base scientifica mai esistita: chiamata con lo stesso nome dell’Isola Volante di Gulliver, eppure paradossalmente costruita nel sottosuolo. A suo tempo, sulle pagine dei giornali e alla TV , il professor Atlante aveva giustificato quel nome con un’affermazione che sarebbe rimasta per sempre nella storia della Laputa, tanto da essere stata scelta come motto e scritta a caratteri d’oro su una parete della sala conferenze: “La nuova Laputa non può stare


in cielo, siamo dei folli ma con i piedi ben piantati a terra” Il problema che stavano affrontando era quello dei Cambiamenti Climatici, due termini che il professor Atlante: un uomo anziano dai capelli di un rosso stinto, pronunciava con solenne timore. Erano cinque uomini di fede squisitamente illuminista: la forza della ragione era il loro credo. Erano cinque uomini vecchi, che avevano dedicato la loro vita ai numeri, alla scienza o al pensiero, ma discutevano come ragazzini, ma ragazzini stanchi e arresi a un destino avverso. Erano cinque uomini e stavano seduti come i Cavalieri di una moderna tavola rotonda, attorno a quel tavolo di vetro, su quelle sedie di vetro, in quella stanza di ferro nel sottosuolo. Loro, come Titani col peso dell’intero mondo sulle spalle. Il professore Atlante, aveva rivolto lo sguardo a coloro che fino ad allora erano rimasti in silenzio ad ascoltare un infinito discorso sul destino del mondo, poi s’era massaggiato con due dita le palpebre gonfie “Dobbiamo trovare una soluzione…” aveva sentenziato sospirando “…Noi siamo stati scelti per trovare una soluzione, cari colleghi e amici, tutto il mondo ci sta guardando in diretta. Ebbene, io, di fronte al mondo, dichiaro che questa è una guerra: è una guerra al surriscaldamento globale. Sissignori. Siamo in guerra: in guerra con quella stessa madre che ci ha messo al mondo, e non possiamo, non possiamo permetterci di farci travolgere dall’affetto verso la nostra madre Terra. Amici, perché solo amici posso chiamare voi, e non solo voi che sedete qui, ma tutti coloro che in ogni angolo del mondo mi stanno sentendo parlare, amici miei, io sono vecchio e non vivrò fino alla fine di questo secolo, molti di noi non ce la faranno, ma vivranno abbastanza per vedere la terra bruciare e annegare nel sale. Sì, nel sale! Perché alla fine del nostro secolo, se non facciamo qualcosa, la temperatura raggiungerà livelli tra i 2 e i 4 gradi centigradi in più rispetto ad oggi. E si scioglieranno le calotte polari, e si alzerà il livello del mare. E noi annegheremo nel sale. Forse i nostri figli vivranno abbastanza per vedere scomparire Venezia come una nuova Atlantide. E quando io sarò ormai polvere, per chi vivrà, ogni tentativo di ripresa sarà inutile.” E si mise a sedere, quasi abbandonandosi vinto da una stanchezza sovrumana. S’alzò allora un ometto piccolo e magro, dai capelli bianchi: “Io, se mi permette, Professore, sono dell’idea che non possiamo lasciare che la natura faccia tutto quello che vuole, insomma, ci abbiamo messo secoli a conoscere come funziona il clima, io dico che la razza umana è padrona del mondo e per questo dovremmo iniziare a controllare il clima.” A questa affermazione un altro s’era alzato “Sono d’accordo con lei, professore Giapeto, ho compiuto diversi studi sul clima, e posso affermare con sicurezza questo: il mondo esiste per l’uomo, e così il clima è a nostro servizio. Dovremmo cominciare a sperimentare in modo serio metodi di controllo. Deve piovere quando decidiamo che debba piovere, e nevicare quando più ci conviene, e così il sole deve splendere finchè i frutti della primavera non sono maturi. E deve far freddo e caldo a piacimento dell’uomo. Se noi controllassimo il clima tutto sarebbe estremamente semplice, non solo non dovremmo più preoccuparci del surriscaldamento del globo, ma anche il turismo ne gioverebbe! Immaginate se potessimo decidere fino a quando deve far caldo nelle località balneari. Cari colleghi, io dopo anni di studi, affermo che tutto ciò è possibile, noi non fermeremo i cambiamenti climatici: decideremo in che modo il clima debba cambiare!” Il Sognatore era ipnotizzato e turbato da quelle parole: decidere? E cosa? Controllare? Gli uomini padroni del mondo? Un lieve rossore gli colorò le guance, come se fosse stato pervaso da un forte senso di disagio. Per molto tempo aveva creduto che il mondo fosse di tutti, e ora, i più Grandi, ne rivendicavano la proprietà. Che avessero ragione? E allora, il mondo era anche suo…


“Ma…” disse rivolgendosi a un uomo con la giacca in tweed che gli stava seduto accanto “… se il mondo è dell’uomo, non dovrebbe essere ancor di più delle cicogne? Insomma… tutti voi siete qui grazie a loro, no?” L’uomo, che lo stava ascoltando distrattamente ebbe un sussulto di sorpresa e poi scoppiò a ridere “Ragazzo, le ho sentite tutte” sentenziò “Ma un ventenne che crede ancora che lo abbia portato la cicogna, davvero mai.” Il ragazzo era rimasto muto, a guardare la folla diradarsi alla messa in onda della pubblicità, anche l’uomo con la giacca in tweed s’era allontanato, accompagnando i suoi passi con la stessa risata di poco prima. Bora lo aveva visto tornare come ogni sera, dal sentiero che partiva dall’insenatura del Falco, quella sera, però, qualcosa di diverso percorreva il volto del suo piccolo Sognatore. “Qualcosa non va?” aveva chiesto, facendo una mezza smorfia col becco “non ti vedevo così da quando hai scoperto che non ti sarebbero cresciute le ali…” Il sognatore sorrise “Avresti dovuto dirmelo prima che provassi a volare” gli rispose “Ho ancora la cicatrice sul fianco” “Ti ho preso in tempo quella volta, eri ancora così piccolo” disse Bora accogliendolo sotto un’ala “Ma alla fine, con la tua mongolfiera, sei riuscito a volare.” “Già” il Sognatore aveva sorriso di nuovo. “Dai… dimmi cos’hai… è successo qualcosa tra la gente grigia?” “Mamma… dicono che il mondo è loro, che il clima sta cambiando e che devono controllarlo a loro piacimento.” “E tu, cosa pensi di questo?” “Beh, sai che ho sempre avuto due madri… tu e… tu e questa terra che abbiamo sotto le zampe…” “Tesoro, nel mondo di sotto non dire zampe, quelli degli uomini si chiamano piedi.” “Si, ecco, questa Terra che abbiamo sotto i piedi è mia madre tanto quanto lo sei tu: abbiamo giocato insieme, mi ha cresciuto, mi ha insegnato tante cose. E quegli uomini nella scatola… come la chiamano? Ecco…TV! Quegli uomini in TV oggi… sembrava che la loro terra fosse un oggetto, un giocattolo con cui giocare, o anche peggio… e poi…” Bora vide l’ennesimo cambiamento sul volto del Sognatore. “C’è altro… dimmelo, sai che puoi parlare con me” “Lì sotto… un uomo… mi ha detto che a vent’anni non posso credere che “mi abbia portato la cicogna” ed è scoppiato a ridere..” “Nel mondo di sotto siamo solo una favola…” “Ma… com’è possibile?” “Sognatore, c’è una cosa che non ti ho detto quando ti raccontavo la storia della buonanotte…” “Che cosa?” “Che nulla è più vero delle favole.”

Il Sognatore s’era perso l’alba quel giorno d’Inverno, il sole era già alto, più alto delle loro nuvole, e raccogliendo in cuore tutto il suo coraggio andò ancora una volta verso la sua mongolfiera. Quel giorno, su tutti i giornali, echeggiava lo stesso titolo “Primo giorno: La Laputa dice sì al controllo del clima” Così entrò in una cartoleria “Buongiorno!” lo salutò solare un ometto basso e tarchiato che sbucava a mala pena da dietro il bancone. “Buongiorno, Al, hai un giornale di troppo che puoi cedere a me?” “Squattrinato come sempre, eh Sognatore?”


“Per fortuna i sogni non si pagano.” I due risero, e Al, come ogni mattina da ormai due mesi, gli regalò un giornale. Per qualche strano motivo considerava quel gesto apparentemente insignificante una specie di investimento su quel ragazzo strano dai capelli sempre arruffati. Forse, in cuor suo, sperava che leggendo e rileggendo del mondo, potesse imparare a capire come funzionava. “Certo, i sogni sono gratis…” gli aveva detto Al quella mattina “…ma da mangiare, purtroppo, si paga.” “È per questo che li porto con me” disse indicando i suoi attrezzi da giocoliere, e uscì fuori con il giornale sotto braccio e lo zaino di tela che gli pendeva da una spalla. A cavallo della sua bici sfrecciò tra i fumi del traffico, tossendo di tanto in tanto, fermo a un semaforo, immerso in una nebbia grigia di smog, sentì farsi strada, assieme all’ultimo colpo di tosse, anche una stramba idea. E se per cambiare il mondo non servissero i Titani della Laputa? Se bastasse un singolo gesto dei piccoli che li stanno a guardare? Ebbe la stessa sensazione che si ha quando nei sogni si sogna sé stessi: si vide come dall’esterno, sulla sua bici d’un verde sgargiante, una chiazza di colore in un mondo in bianco e nero. Vide sé stesso, libero, su due piccole aste di ferro montate su ruote di gomma, e come se vedesse il mondo dall’alto, notò che l’auto che aveva superato appena un minuto prima, se si voltava indietro, non poteva più essere scorta. Aveva fatto così in fretta! Ma allora… perché tutti continuavano ad imbottigliarsi nel traffico? Ma il semaforo si tinse di verde, e dovette abbandonare i suoi pensieri. Quello fu certo uno dei giorni più strambi per lui. Entrò per la prima volta in un supermercato. Coi pochi spiccioli che aveva in tasca dall’ultima esibizione all’angolo della strada. “Se guadagno abbastanza per una mela è una buona giornata” diceva sempre a coloro che lo incitavano a trovarsi un lavoro vero. Le corsie del supermercato erano coloratissime e affollate, ogni settore era contrassegnato da un numero: c’erano le brioches, le bevande gassate, il banco dei salumi, il banco del macellaio, il pane, la frutta….ogni scaffale era suddiviso in sotto-sezioni: tra le brioches c’erano quelle vuote, quelle alla crema, alla marmellata, al cioccolato… Curiosò con lo stesso interesse che avrebbe usato un archeologo entrando in un’antica tomba egizia. Notò che tutto era imballato: anche la frutta! Ogni cosa protetta da involucri di plastica. Fece un giro su se stesso, gettando gli occhi a destra e a sinistra, in alto e in basso, dietro e avanti a sé. Ad occhio quel supermercato, non era altro che un grande rivenditore di plastica da imballaggio. Notò che dietro a ognuno di quegli scrigni di plastica, era scritta in nero una data. E quello, tra tutti, gli sembrò il mistero più grande. Si avvicinò a un piccolo gruppo di gente in fila al banco dei salumi: “Mi scusi…” cercò timidamente di attirare l’attenzione di una donna sui quaranta, con una tuta grigiastra addosso “…mi scusi… cosa significa: da consumarsi preferibilmente entro il tre marzo?” La donna si aggiustò con le guance gli occhiali sul naso “Ragazzo, ma è la data di scadenza!” “Cioè?” fece lui sempre più confuso. “Ma dove hai vissuto fin’ora? Sulle nuvole? Quella data ti dice fino a quando puoi mangiare una cosa e quando non la puoi mangiare più!”


“E se la mangio il quattro marzo?” La donna strabuzzò gli occhi “Insomma, ragazzino, mi stai prendendo in giro?” disse ad alta voce. Decine di occhi si puntarono sul Sognatore, attirati dal tono di sorpresa e indignazione della donna. “No è che…” Il Sognatore credeva di aver capito il cosa ma non il perché, ma nonostante tutti quegli sguardi inquisitori puntati su di lui, aveva deciso di fare un’altra domanda:

“Perché c’è tutta questa plastica e carta o cartone intorno al cibo che mangiate?” La donna con la tuta aveva storto la testa di lato “Perché parli di noi come se fossi diverso, ragazzino?” “Lascialo stare cara…” un uomo alto e floscio con una polo gialla era intervenuto nella discussione “… lascialo stare, sarà uno di quei soliti ambientalisti" Quella sera l’aveva passata in piazza, ad attirare i passanti con le solite risa e i versi di stupore e meraviglia che aveva imparato a ricreare: gli veniva semplice stupirsi di ogni cosa, semplicemente perché il suo stupore non era finto. Si riposava tra un numero e l’altro con le sue solite mele comprate ad un piccolo negozio di frutta “Il Rametto”: lo chiamavano così forse perché su un’insegna in legno era finemente inciso un ramo fiorito, o forse perché il fruttivendolo era un contadino alto e pelle ed ossa con movenze a scatti legnose.

“Da quanto tempo lo fai?” domandò una voce serena e curiosa alle sue spalle, lui mosse la testa in un lentissimo movimento, e vide la proprietaria di quella voce. Era una ragazza coi capelli lunghi intrecciati in una complicatissima treccia laterale, non era molto alta e aveva l’aria ancora da bambina, due iridi blu facevano da contorno alla pupilla. Doveva avere più o meno la sua età, stava avvolta in un vestito che le copriva le forme e al collo aveva una collanina di perline che si completava con un ciondolo a forma di luna.

“Da quanto tempo lo fai?” le aveva detto quindi la ragazza dalle iridi blu. “Faccio c-cosa?” disse quasi intimidito. “Il giocoliere” “Intendi l’artista di strada?” “No, proprio il giocoliere, quando hai imparato?” “Da bambino… giocavo con mia madre, ho imparato con la frutta…” “Mi insegni?” fece lei con un sorriso. E lui sgranò gli occhi e aggrottò la fronte. “Dai…” continuò lei “…prometto solennemente che non ti farò concorrenza se imparo!” E lui le insegnò a far passare da una mano all’altra creando ampi cerchi nell’aria due mele che aveva nello zaino. Le insegnò senza neppure domandarle il suo nome, dopotutto per lui i nomi non erano mai stati così importanti… ma per lei, cresciuta nel mondo di sotto, era importante sapere. “Grazie… ehm… come posso chiamarti?” aveva detto dopo una sera di giochi e risa, seduti su una panchina della piazza ormai semi-deserta. “Sognatore.” “E un nome, non ce l’hai?” “Mi hanno sempre chiamato così…”


Lei si strinse nelle spalle “Selene” si presentò “significa Luna.” “Beh… Selene… io devo tornare a casa.” disse sistemando mele e attrezzi nello zaino di tela. “Devi insegnarmi con tre mele, Sognatore!” “Lo farò, promesso.” E il sognatore aveva mantenuto quella promessa, per giorni e giorni, alla sera, nella piazza, come un muto appuntamento, si trovavano sotto il lampione rotto accanto al Pub Irlandese. E passavano così la sera. “Hai un numero di telefono?” aveva domandato lei, d’un tratto. “Veramente…” il Sognatore era rimasto spiazzato da quella domanda, eppure nel mondo di sotto era così… normale! “Veramente no…” “Ma allora… come faccio a contattarti? Se una sera non ti presenti qui sotto il solito lampione, o se… se volessi vederti di giorno. Insomma… come faccio se sparisci?” Lui ci pensò un momento. Guardò il cielo senza stelle sopra di sé. “Facciamo così: adesso io ti prometto che non sparirò…” sfilò da un brandello scucito dello zainetto di tela due fili grossi e li legò attorno al polso di lei “… e se vuoi vedermi…” disse cingendole le spalle “…le vedi quelle nuvole lontane?” Lei annuì. “Se vuoi vedermi… fa’ volare un aquilone fin sopra le nuvole ed io arriverò.” Lei aggrottò la fronte e pensò che fosse matto, ma sembrava davvero così serio. “Ed io…” aggiunse lui “…io dove posso trovarti?” E lei aveva scritto su un biglietto: via delle Stelle n. 3

Era un giorno come tanti, un giorno di fine inverno. Nel Regno delle Cinque punte qualcosa turbò la solita quiete. Le nuvole bianche erano tinte di nero. Le Cicogne s’erano rifuggiate nei nidi, tentando di sfuggire a quella fitta coltre di fumo che stava invadendo le guglie innevate. Il vento soffiava forte e il Sognatore era corso a cercare Bora. Con la sua mongolfiera sfidava il vento e il fumo, non vedeva sotto le nuvole, non aveva idea di quello che stesse accadendo. Il pallone tutto rattoppato oscillava vorticosamente in balia delle correnti d’aria. La voce del ragazzo riempiva il cielo. “Mamma!” gridava forte attraversando di vetta in vetta quel regno infinito “Mamma, dove sei?” Ma nessuno rispondeva. Non sarebbe riuscito a vedere Bora, non in quelle condizioni. Volava alto, c’era troppo fumo e troppo vento, e il piumaggio candido di Bora si sarebbe di certo confuso con la neve. Il tempo, sopra le nuvole nere, sembrava infinito. Il sognatore gestiva il vento, ma non poteva domarlo. Credeva che tutto fosse ormai perduto quando vide subito dietro l’insenatura del Falco, in una piccola rientranza nella parete rocciosa, la madre. Cominciò una lenta e dura discesa, gli sembrò di scendere verso l’inferno: perlomeno il sentimento era uguale; sgomento e paura si stavano lentamente impadronendo di lui. Quando scese a terra Bora lo abbracciò così forte che le ali di lei sembrarono al Sognatore come vele di un gigantesco veliero, grandi e accoglienti com’erano. Scoprì solo dopo, quando tutto si fu calmato, che Bora era in volo quando era iniziata quella strana tempesta di fumo, scoprì che era andata a cercarlo, temendo che volesse scendere di sotto. Scoprì anche che lei s’era ferita ad una zampa, ma a medicarla ci mise poco e colmò ogni benda di quanto amore aveva in cuore. Decise anche di scendere nel mondo degli uomini, dovevano appena essere passate le cinque, e lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi, quello, era davvero l’inferno.


C’era un bosco, proprio attaccato alla pianura dov’era solito atterrare con la sua mongolfiera. C’era un bosco. C’era. Ma quello che il Sognatore vide fu solo un ammasso di cenere. Bruciato. Sparito. Per sempre. Arrivò correndo in città, fermava ogni passante dicendo “Il bosco è bruciato! È distrutto!” Nessuno ci badava troppo. Era il solito Sognatore, quello squattrinato con mille idee per la testa. Che importanza poteva avere un bosco? Il Sognatore correva per lei vie, aveva attraversato il parco tagliando in diagonale per le aiuole, e infine, dopo mille e mille vie, s’era trovato di fronte a una piccola casa con la facciata blu, in via delle Stelle al numero 3.

“Cosa c’è?” Selene lo vedeva preoccupato e stanco. “…Bosco…fuoric…ittàbr…ciato” aveva balbettato lui, col fiato corto. Ma lei aveva capito poco, e lo aveva invitato a entrare. Lui le stava parlando dell’incendio nel bosco quando aveva notato un titolo in prima pagina “Laputa-Il dibattito continua: Foreste artificiali per aumentare la produzione di ossigeno.” Il Sognatore s’era voltato verso quelle iridi blu che gli stavano sedute accanto “La… la conferenza…. Quando finirà?” “Fanno un incontro a settimana, poi fanno esperimenti sulle proposte, lì sotto, alla Laputa… dopodomani… dopodomani è l’ultimo giorno del dibattito, beh… diciamo il… ecco… il giorno in cui tireranno le somme… decideranno cosa fare per salvare il pianeta…” “No!” il Sognatore s’era alzato e camminava avanti e indietro per il piccolo salotto “No! Salveranno sé stessi. Il pianeta? Il PIANETA? A quelli non importa nulla del pianeta!” Selene stava seduta a guadare quel ragazzo strambo e così sereno trasformarsi in un vulcano d’ira. “Stupide Nuvole! Sono stato davvero fuori dal mondo!” aveva detto poi tornando tranquillo, ma battendosi una mano sulla fronte, poi, rivolto a Selene le aveva domandato “Possiamo rivedere le deliberazioni della conferenza?” Sul portatile di lei scorrevano i volti dei Grandi della Laputa, il più giovane dei cinque, un uomo calvo sui sessanta, cominciava così il suo discorso: “Io credo che l’uomo possa vivere anche senza la Terra, la scienza può risolvere il problema del clima senza cambiarlo su scala globale, basterebbe creare delle cupole in cui concentrare la popolazione: una nuova era è alle porte, quella delle città di vetro: creeremo dei microclimi nelle nostre accoglienti teche. Non ci sembrerà neppure che sia cambiato qualcosa. Il vetro sarà così spesso da proteggerci da qualsiasi cosa, ma così limpido da permetterci di vedere il cielo come se nulla ce ne dividesse. La mia proposta si basa su ecoteche, e dentro di esse l’uomo rinascerà.”

L’ultimo, che il Sognatore non aveva ancora sentito parlare, era proprio l’uomo che aveva proposto le foreste artificiali, era altissimo e scheletrico, con la pelle attaccata quasi alle ossa, il cranio sembrava un teschio, e gli occhi erano talmente scavati che sembravano non esserci affatto e creavano nelle cavità oculari ombre che davano a quel volto una parvenza di spettro. “Rispettabili colleghi, le vostre sono tutte nobili proposte, ma per contrastare quell’effetto serra che sta mandando in ebollizione il pianeta dovremmo riuscire a riequilibrare il rapporto Ossigeno-CO2 nell’antica misura.” aveva cominciato quello scheletro vivo “Il mio progetto è semplice: foreste artificiali. Diciamocelo:


gli alberi ci mettono troppo a crescere e noi non abbiamo tutto questo tempo. E poi le foreste prendono spazio, uno spazio che potremmo utilizzare in modi ben migliori. E le foreste sono pericolose, le foreste bruciano, e quando bruciano distruggono, e spigionano ancora più anidride carbonica. Senza di esse il mondo sarebbe certo più grande per tutti, basterebbero pochi impianti di alberi artificiali per produrre tanto ossigeno quanto quello dell’intera foresta pluviale.” Un sonoro applauso era partito, e come ogni giorno la conferenza s’era chiusa. Ora gli studiosi, i Titani, andavano a sperimentare le loro strambe idee sul micro-clima simile a quello terrestre che aveva sede poco sotto la sala conferenze, in un’immensa stanza chiamata “similterra”. Una donna in abito verde scuro era apparsa sullo schermo a fine conferenza, sedeva a uno di quei tavoli che si vedono ai TG, era un Telegiornale molto speciale, istituito per l’occasione, e in quel caso, la sigla “T.G.” non stava per “TeleGiornale” ma per “Tele-Green”, così avevano chiamato il programma temporaneo che mandava in onda, in diretta, e su tutte le TV, quella “Conferenza straordinaria della filosofia e delle scienze per la guerra al surriscaldamento globale”. La donna in verde aveva chiuso con un annuncio “Signori e signore, buonasera, con l’incontro di oggi si conclude il dibattito sulla guerra al surriscaldamento globale, i nostri Scienziati e Filosofi si sono ritirati a compiere gli ultimi esperimenti e a valutare quale delle misure indicate e selezionate in questo incontro si debbano attuare nel prossimo quinquennio. Nel frattempo, è stato lanciato un appello, se qualcuno di voi volesse proporre nuove misure o differenti interventi, può mandare una mail al seguente indirizzo, che potete vedere in sovraimpressione: laputascienze@human.com Vi ricordo soprattutto di inserire alla voce “Oggetto” il nostro hashtag #iAmLaputa. È inoltre molto importante che le vostre mail ci giungano da un indirizzo di posta elettronica certificato e che voi abbiate apposto su quest’ultima la firma elettronica. Qualsiasi messaggio che non segua i canoni da noi indicati non verrà valutato. Tele Green vi augura una buonanotte. Il Sognatore aveva guardato Selene con uno sguardo indecifrabile: “Cos’è la posta elettronica?” le aveva poi domandato. Lei, che ormai aveva smesso di farsi domande sul perché quel ragazzo non conoscesse nulla del mondo, gli aveva spiegato in cosa consistesse. “E io… come faccio ad avere una casella e- mail di posta certificata con tanto di firma… se non ho nemmeno un documento di identità?” Lei lo aveva guardato stupita “Fammi capire… per il mondo tu non esisti?” “Più o meno… io non ho nemmeno un nome… intendo un nome vero come “Selene”” “Chi sei tu?” Lui aveva fatto un sorriso imbarazzato “me lo chiedi solo ora?” le aveva risposto. “Credevo che fossi solo un tipo strambo, che avremmo parlato una sera o due e non ci saremmo più visti. Poi siamo diventati amici, e ormai ci avevo fatto l’abitudine a chiamarti Sognatore, credevo fosse una specie di… di nickname che usavi nel fare l’artista, non credevo che DAVVERO non avessi un nome.” “Selene, io vivo sopra le nuvole” aveva confessato lui tirando un sospiro profondo. “Lo avevo notato” aveva detto lei seria.


“No. Intendo che vivo davvero sulle nuvole, su una montagna, in una specie di grande grotta che ho abbellito, è piena di libri, di fiori secchi, di stoffe colorate e candele di ogni dimensione. E vivo con…” si fermò di colpo alzando lo sguardo, Selene lo fissava incredula, con gli occhi sbarrati . “Dovrei cacciarti di casa, ogni persona normale lo farebbe.” disse lei con le labbra serrate. Ma lui ormai stava raccontando tutto, non aveva intenzione di fermarsi. “Dicevo, Selene, io vivo in cima a una di cinque montagne, sopra il livello delle nuvole. Sono cinque guglie appuntite. Come una grande cattedrale dalle alte torri costruita dalla natura per celebrare sé stessa. Io vivo lì, mia madre è una Cicogna, si chiama Bora e non ha voluto lasciarmi nel mondo di sotto perché lei crede che gli uomini siano tutti come quei Grandi che ho appena visto sul tuo computer, a mia madre non sono mai piaciute le vostre ciminiere fumanti, le vostre auto che vomitano nebbia e stingono le città. Mia madre ha sempre odiato quegli uomini che per mangiare sei fragole compravano con pezzi di carta anche una scatola di plastica. Credeva che gli uomini fossero malvagi e sciocchi, paranoici e sempre di fretta. Avvinghiati al lavoro, alle loro vite di cera, estranei alla terra. Credeva che gli uomini fossero tutti come quelli che hanno fatto finta di nulla vedendo il bosco bruciare. Per questo non mi ha lasciato qui. Non voleva che diventassi come loro e io non ho mai conosciuto la mia vera famiglia. E la mia famiglia ora è lei, e davvero non avrei potuto desiderare di meglio. Ma in tutto questo tempo ho sempre voluto venire di sotto, conoscere il mondo e dimostrarle che si sbagliava. Volevo tornare su con anche uno solo tra gli uomini che non fosse come lei diceva, e giocando coi birilli e con le mele, una sera qualsiasi, in piazza, ho trovato te” Selene lo guardava negli occhi, non era pazzo e non era un bugiardo, poteva vederlo chiaramente negli occhi neri illuminati come da una luce di lanterna in fondo alla pupilla. “So che non sei pazzo. Cosa vuoi dirmi con questa storia?” concluse lei infine. E che fosse pazzo non ci credeva sul serio. La sua aveva la parvenza di una dichiarazione, e in fondo, forse, ci sperava. Ma lui non sapeva come funzionava l’amore nel mondo di sotto, né che quel timore misto a estrema gioia si chiamasse così. “Selene. Devo fermare quei Titani della Laputa. Devo dire la mia, adesso che posso.” Aveva continuato lui. “Per quelli come te, per quelli che ad un artista di strada non lasciano solo una moneta nel cappello. Per quelli che lasciano una parola, una risata, un’emozione. Devo fermare quelli della Laputa per quella terra che amo tanto… per quella terra che ho imparato ad amare come…” e s’era fermato, seguendo il corso dei suoi pensieri non riusciva più a capire se il suo animo stesse parlando della terra o di Selene. “Come…?” aveva domandato lei, colma di speranza. Ma lui aveva distolto lo sguardo dagli occhi di lei “Aiutami. Fammi usare la mail. Dimmi che hai una mail, ti prego.”

E così, il Sognatore s’era messo a scrivere. Selene aveva provato a spiegargli il tipo di formalità da usare per una lettera di quel genere, ma lui le parole “Egregio, Professore, Gentilissimo, Richiedo, Proposta” o il formale uso del “lei” non riusciva a comprenderlo né a digerirlo. S’era deciso, dopo un attento colloquio con se stesso, di comportarsi come s’era comportato fino a quel momento nel mondo. E aveva cominciato a dettarle il testo della mail: A quell’uomo che si fa chiamare Atlante,


Ho seguito attentamente la conferenza di cui eri a capo. Ho visto cinque uomini vecchi discutere su un vecchio come loro: il mondo. Vorrei solo sapere, se il Mondo fosse un uomo come voi: avreste davvero il coraggio di prenderne i polmoni perfettamente sani e sostituirli con polmoni artificiali? Se il mondo fosse un uomo, chiudereste i globuli rossi o bianchi in capsule di vetro? Se il mondo fosse un uomo… provereste davvero a controllarne le emozioni, gli stati d’animo e le idee? Il professor Atlante leggeva ad alta voce la mail ai suoi colleghi:

Cosa succede ad un cervello, o meglio, a un’anima, se questa viene oppressa, schiacciata, torturata, mutata contro la sua volontà? Ve lo dico io: impazzisce. E comincia a distruggere. Tutto. Volete davvero essere la malattia che scatenerà gli anticorpi del globo? Volete davvero essere il morbo che attacca le cellule sane, che fa collassare su se stesso un corpo? Credete che la terra sia nostra? Non lo è. Lei è Madre e Dimora, ma mai possesso… Il professore Giapeto aveva ridacchiato. “E così, l’unica protesta ci è giunta da un folle?” aveva domandato. “L’unica. L’unico che ha avuto qualcosa da ridire.” Aveva detto il professore Atlante. “È pericoloso?” aveva domandato lo scheletro umano. “No, non lo è.” “La terremo nascosta?” “Al contrario, la diffonderemo come la lettera di un pazzo.” E tutti avevano annuito sorridendo. A un giorno dalla conclusione della conferenza, Al, il giornalaio, leggeva la lettera del Sognatore in prima pagina: ...Professore, l’etichetta mi dice di chiamarti così, Professore Atlante. Hai idea di che peso enorme porti sulle spalle? Il peso dell’intero mondo grava sulla tua schiena, è scritto nel tuo nome, ma ne sarai davvero degno? Siamo sulle spalle dei Giganti, noi piccoli di una moderna Lilliput, Lillipuziani che guardano la vecchia Laputa cascare giù dal cielo e conficcarsi sottoterra. Io mi chiedo, Atlante, se piuttosto che cinque giganti, o piuttosto che una singola isola non-più-volante, non servano tanti piccoli abitanti di Lilliput. Mi chiedo se tutto il tempo e il denaro che avete impiegato per questa conferenza e che impiegherete per le vostre assurde trovate tecnologiche, non sia solo un cieco tentativo di sentirvi ancora padroni di quella terra che da secoli vi dimostra il contrario… Anche Bora, nel suo nido, sfogliava con le zampe il giornale: … mi chiedo, professore Atlante, e lo chiedo soprattutto a te, se non sia più facile un minuscolo gesto dei piccoli, che un enorme sforzo di quelli che si sono presi il titolo di Giganti. - Il Sognatore.


Tutti ridevano di quella strana lettera che compariva in prima pagina, tutto il mondo ascoltava o leggeva il bisbiglio di un piccolo uomo.

Tutto il mondo rideva, perché cinque Titani avevano scelto che quelle brevi parole avrebbero dovuto suscitare il riso. Eppure quei Titani non stavano ridendo affatto, sotto terra, alla Laputa, il professore Atlante aveva convocato un’assemblea straordinaria: lontana dalla diretta della TV e strettamente riservata. Nessuno seppe mai cosa si fossero detti quegli uomini vecchi in consiglio, ma la deliberazione dell’assemblea straordinaria fece il giro del mondo in poco meno di mezz’ora: Non si sarebbe atteso il Lunedì, i Grandi avrebbero esposto le loro scelte al mondo la stessa sera della Domenica.

La Tv gracchiava forte nella casa di Selene. Era la solita signora in verde. Selene aveva appena sfornato la sua famosa torta di mele, le stesse mele prese al Rametto, le stesse mele con cui il Sognatore le aveva insegnato qualche stramberia da giocoliere. Il Sognatore era rimasto sul divano di lei per tutta la notte, quasi senza riuscire a chiudere occhio, e la voce della donna in verde alla TV gli dava un enorme fastidio. Insomma, era mattina presto, perché mandare in onda un’edizione speciale di Tele-Green? Eppure, quando ne comprese il motivo, capì che l’essere rimasto nel mondo di sotto per la notte non era stata del tutto una scelta sua, ma più una decisione del destino. “Devo parlare con loro” aveva detto a Selene “Devo andare alla Laputa.” Lei s’era voltata a guardarlo, e aveva colto ogni dettaglio di quel volto ancora segnato dal sonno: aveva i capelli arruffati, un lieve segno del cuscino sulla guancia destra, e gli occhi ancora gonfi di sonno. Lo vide stropicciarsi gli occhi con l’aria da bambino, mentre farneticava di una strana mongolfiera:

“Dovrei avvertire mia madre e poi partire. Devo tornare alla mongolfiera e dirglielo.” E allora lei s’era presa di coraggio, e con mille incertezze nel cuore gli aveva domandato se lui credesse davvero di essere stato cresciuto da una Cicogna, se credesse davvero in quella stramba favola che la sera prima s’era ostinato a raccontarle come fosse davvero la sua vita. Glielo aveva chiesto spaventata dalla risposta, come se un sì le potesse dimostrare la follia di quel ragazzo strambo comparso d’un tratto nella piazza come se fosse piombato giù dal cielo. E se la sera prima non aveva avuto dubbi sulla sua sanità mentale, se la sera prima aveva creduto che stesse scherzando, o che fosse solo un modo strambo per raccontarle il mondo, dopo i consigli dei sogni e delle stelle, non ne era più così sicura. E quando il sognatore le disse “Ti giuro che è la verità” lei lo guardò negli occhi e confuse la fiamma dell’innocenza con quella della follia. “Và via.” Gli disse in tono serio. “Và via, sei un folle. Ti ho aiutato. Hai scritto quella lettera e… e tu non riesci neppure a dirmi chi sei davvero.” Non gridò, non pianse. Serrò solo le labbra in un’espressione senza emozioni. E lui non disse nulla, non cercò di ripeterle che fosse la verità, non inventò una bugia che apparisse più


vera. Uscì dalla casa di lei, lasciando socchiusa la porta, perché i finali dei libri o i punti a fine frase non riusciva a comprenderli. Per questo amava i sogni più che le storie, perché ci si sveglia a metà. E per lo stesso motivo amava i puntini di sospensione… Uscì e non corse. Camminò a passo lento fino al suo pallone rattoppato. E salì nella sua casa di bambino e di sognatore, lì, sopra le nuvole. Disse a Bora che aveva ragione, che nel mondo di sotto nessuno era come lui. Le disse anche che voleva andare alla Laputa, a parlare con quelli diversi da lui e uguali a tutta la gente grigia. Le disse che se gli uomini non potevano amarlo, allora doveva proteggere l’unica cosa che lui aveva davvero amato: la Terra. E allora Bora, per la seconda volta, ripetè una parola già nota: Tornerai. Ma non era più una domanda, era una richiesta, quasi un ordine. E solo Bora, in cuor suo, sapeva di non intender solo “tornerai da me”, ma che si riferiva anche a un ritorno nel mondo di sotto.

La Laputa era lontana, molte e molte ore di viaggio separavano il Sognatore dalle ali di stoffa, dai Titani col guscio di ferro. La terra della Laputa era una terra gelata, protetta dalla neve e dal vento. Ma il Sognatore ne era avvezzo e nulla, neppure la neve più fredda, il vento più forte, sarebbe riuscito a fermarlo. Chi racconta la storia del Sognatore, tace su come riuscì a entrare alla Laputa. Dettagli che si perdono nella leggenda, qualcuno dice addirittura che la Terra stessa, al suo arrivo, abbia aperto un varco fino alla Base. Quel che è certo, perché ce lo ha detto la Tv, è che il sognatore, poco dopo l’inizio dell’ultima diretta, era entrato nella sala conferenze vestito di Juta e speranze. Ed altrettanto certo è quello che disse, salendo con un balzo sul tavolo di vetro: “So che un piccolo uomo che scrive parole sulla carta fa fatica a farsi prendere sul serio. E fa fatica a farsi prendere sul serio anche perché non indossa la giacca o la cravatta, o perché ha uno zaino di tela e non le vostre borse con dentro migliaia di carte timbrate e penne col vostro nome inciso sopra. Fa ancora più fatica chi non ha un nome grande e raro come “Atlante”, fa ancora più fatica se un nome non lo ha per nulla. Io sono il Sognatore, e ho scritto la lettera di cui il mondo ha ridacchiato. Sono il folle. Il diverso. E non mi importa. Parlo con voi. Non con voi che state seduti a guardarmi stupiti e impietriti su sedie di vetro. No, non con voi. Parlo con tutti quelli che da una scatoletta luminosa che detta il bene e il male mi stanno a sentire. Voglio essere il matto che rompe la finzione della diretta. Che frantuma il gioco delle maschere. Voglio essere il figlio che difende sua madre. La madre di tutti: la terra.


Noi uomini, sulla faccia della terra, siamo solo abitanti temporanei, che vi abitiamo in un tempo infinitamente piccolo: ci crediamo grandi perché abbiamo costruito le Piramidi, e le Cattedrali, e i Grattacieli. Perché ci siamo inventati un modo comodo di non usare le zampe: le automobili. Ci crediamo grandi perché abbiamo imparato che produrre, produrre, produrre per vendere, vendere, vendere porta tonnellate di carta a cui abbiamo affidato un valore. E non pensiamo che quel produrre, e imballare, e esportare genera tonnellate di fumo. Non pensiamo che quel modo comodo per non usare le zampe ci avvolge in una nebbia fitta di smog. Che tutta quella plastica, e carta, e cartone non fa che aumentare, e aumentare e aumentare la nebbia. E non ce ne rendiamo conto perchè quei fumi che colorano di grigio le mie nuvole, e che stingono la realtà, sono gli stessi fumi che ci fanno vedere il mondo in bianco e nero. Ma se vieni al mondo con delle lenti grigie sugli occhi, fai certo fatica a vederci dietro i colori. Ho una bicicletta verde foglia nella mia città, ci sfreccio in mezzo alle vostre macchine, e corro più veloce del vento. Ho un amico vicino alla piazza del centro, ha un negozio di frutta, si chiama “ Il Rametto”: lui mi vende le mele senza imballarle nella plastica e mi racconta storie. Mi racconta dei suoi campi, poco fuori la città, e mi dice sempre che “la frutta ha un tempo e un luogo” e che non sa che farsene di quei mega furgoni che riforniscono i grandi negozi di frutta proveniente dall’altra parte del mondo. Li chiama “macchine del fumo” e ha ragione. Dice anche che non sa nemmeno che farsene di tutte quelle belle mele lucide, se poi non hanno sapore. Nella periferia della mia città c’era un Bosco, è bruciato ieri mattina. Anche il Bosco in fiamme sembrava una macchina del fumo. E già stamattina leggo che un signor Tal de Tali costruirà sulla terra bruciata un grande centro commerciale. Ho anche un altro amico, si chiama Al e vende i giornali. Ogni mattina me ne regala uno: so che vuole insegnarmi come va il mondo, ma è difficile imparare ad obbedire al mondo, quando il mondo è sordo e tu vuoi solo provare a farti ascoltare. E aveva un’amica con il nome della Luna, lei è stata l’unica a non essere sorda.

Tutti hanno riso della mia lettera. Forse perché stavo dicendo una cosa vera: non servono i Grandi, ma i Piccoli. Tutti hanno riso perché nessuno mai aveva detto loro “Ehi, tu, proprio tu, tu puoi cambiare il mondo!”. Se il clima cambia, se, come dicevi tu, professor Atlante, arriveremo ad annegare nel sale, non sarà perché questa conferenza non ha scelto l’intervento dei Grandi, della forza della ragione. Ma perché ha ignorato la forza delle emozioni e le azioni dei piccoli. Basta poco alla fine: più verde, meno macchine, una mela un po’ meno lucida e più saporita, sei fragole senza una scatola di plastica. Meno capricci, meno pigrizia, più azione, e arte. Serve tornare ad ascoltare la terra, e la terra, a quel punto, sono sicuro che ascolterà noi. Alla fine, tutto quello che serve… … è amore. I cinque Titani tacevano, poi, il professor Atlante s’era alzato in piedi: “Mi scuso con chi ci sta guardando.” disse col volto rigato da una lacrima “Ma penso che questo consiglio abbia farneticato troppo. Abbiamo sentito una voce diversa oggi ed è giusto che ci prendiamo del tempo, cari colleghi, per parlarne. Dichiaro la decisione sospesa per oggi.” E il Sognatore sparì lontano nel cielo, senza un perché, all’improvviso, com’era arrivato.


E tra i tanti che raccontano questa favola, qualcuno dice che sopra la Laputa, quasi portati spontaneamente dal vento giunsero tanti palloncini variopinti, come fossero uno stormo che aveva seguito la mongolfiera. Qualcuno dice che quei palloncini portavano all’interno fogli strappati da taccuini e da quaderni, e tutti recavano poche parole dei Piccoli che chiedevano indietro il mondo. Qualcun altro, forse con meno fantasia o con meno fede, raccontava ai TG che le caselle di posta della Laputa erano state inondate di e-mail, ma non recavano l’hashtag #iAmLaputa, bensì le parole: “I Am a Dreamer” “Io Sono un Sognatore” E altrettanto incerta e avvolta dal mito è la spiegazione sulla lacrima di Atlante. Qualcuno dice che ebbe paura nel sentire la verità a cui aveva voltato le spalle presentarsi al lui con abiti di Juta, qualcun altro bisbiglia a bassa voce che forse temeva solo di perdere prestigio e potere. E i più romantici, invece, vollero vedere nella lacrima rubata la scintilla di un ricordo: sostenevano che Atlante s’era rivisto ragazzo, quando ancora aveva i capelli rosso vivo e credeva di poter essere lui a cambiare il mondo! Ma la voce ufficiale, la TV, non spiegò mai la lacrima del Professore. Selene, tormentando con le dita i due fili che lui le aveva stretto al polso lo aspettava invano seduta di fronte alla cartoleria di Al. Lui, invece, se ne stava nella sua grotta a sfogliare vecchi libri e a guardare cartoline, e a fare distratti scarabocchi all’angolo di ogni foglio. Bora aveva sbirciato il suo discorso dalla finestra di una casa a lei nota, una casa che aveva visto l’ultima volta vent’anni prima, in via delle Petunie. “Sei stato grande, piccolo Sognatore” gli aveva detto appollaiandosi accanto a lui. “No, non lo sono stato, non voglio nemmeno sapere come questa volta rideranno di me…” “La deliberazione starà già andando in onda… non vuoi nemmeno vederla?” “Diranno che quello di ieri sera è stato uno spiacevole inconveniente e che si dà il via al controllo del clima o a quelle cupole di vetro e quegli alberi di ferraglia…” Bora notò che lui aveva disegnato, tra i tanti scarabocchi, un volto di donna. “È quella Luna di cui parlavi ieri sera?” gli aveva chiesto. “Sì…” “E per lei… non vale la pena scendere di sotto?” “Ha creduto che fossi pazzo e...” Ma non fece in tempo a finire la frase che notò un aquilone rosso volare sopra le nuvole. S’alzò di scatto per vedere meglio: sì, era proprio un aquilone! Abbracciò Bora senza dire nulla e corse al suo pallone rattoppato. “Ma è… straordinario!” disse Selene sgranando gli occhi “…ma allora dicevi sul serio! Io…” fece poi facendosi seria “… scusami, sono stata una sciocca.” “No… capisco che… beh… ho detto tante cose che potevano sembrarti senza senso…” “Sognatore, tu racconti le favole e con le favole commuovi il mondo. Ti ho visto ieri sera alla TV… e ho visto il Professor Atlante…” “Hanno già…” disse lui rabbuiandosi “…hanno già deciso?”


Lei lo guardò leggendogli negli occhi ogni preoccupazione. “Si, hanno deciso, in diretta, un’ora fa.” rispose. “E cosa… cosa hanno detto?” E allora lei sorrise “Hanno detto che loro faranno un piccolo sforzo come tutti, e che hanno accantonato i loro strambi progetti… che come una pioggia colorata piombata dal cielo hanno ricevuto milioni di messaggi nella loro casella di posta, messaggi dalla gente, che richiedeva indietro il mondo.” “Davvero?” domandò lui incredulo. “Sì Sognatore, hanno detto che dovremo diminuire le emissioni di CO2, che dovremo ricordarci di spegnere la luce. Hanno detto che sosterranno il chilometro zero e la frutta di stagione, e che dovremo accontentarci delle fragole senza plastica… e che se ognuno di noi farà la sua piccola parte, potremo vedere ancora Venezia.” ridacchiò solare “Ah, e… mi hanno detto che ti hanno rubato la bicicletta!” Ma il Sognatore pensava a tutto fuorché alla bici “Andrò a piedi…” disse stringendosi nelle spalle e tentando di sembrare calmo quando in realtà nell’animo si sentiva carico di gioia “… andrò a piedi, o al massimo ho questa…” e indicò con un gesto del capo il grande pallone alle sue spalle “…vuoi…vuoi fare un giro?” E il pallone salì fin sopra le nuvole. “Madre!” chiamò il sognatore, e Bora volò fino alla mongolfiera. “Sognatore, com’è andata?” Selene guardava la scena a bocca aperta, stupita e allo stesso tempo colma di un sentimento indefinito. “Abbiamo vinto, mamma, hanno vinto i Piccoli.” disse lui. E Bora sorrise lievemente sul becco “…vi lascio festeggiare la vittoria!” e volò via dietro una delle cinque guglie. La ragazza dalle iridi blu s’era voltata incredula verso il Sognatore. “E così… non erano favole…” aveva sussurrato appena. E lui, piegando la testa di lato aveva risposto “…si che lo erano… e non c’è nulla di più vero delle favole.” E mentre la mongolfiera inseguiva il tramonto, lì, sopra le nuvole, le labbra del Sogno conobbero la Luna.


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