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Direttore responsabile e project manager Paola Bolaffio Art director David De Angelis Responsabile organizzativo Ernesto Stacchiola Impaginazione Marco Morici Tutor e Relazioni Esterne Giorgia Burzachechi Tutor e Editing Ilaria Romano Tutor e consulente educational ciclo rifiuti Eleonora Cerulli Tutor e Segreteria Hélène Duval Tutor Giacomo Matera Capicciuti Hostess Roberta De Angelis e Ksenia Vanieva Vicedirettore giornalistinellerba.it Andrea Sorrentino Per AnsaScienzaLab: tutor Leonardo De Cosmo e Paolo D’Angelo
I Relatori in ordine alfabetico
Eric Barbizzi, 10 anni, responsabile pagine Esteri di Giornalistinellerba.it Enrica Battifoglia, responsabile canale Scienza & Tecnica ANSA Tullio Berlenghi, giurista esperto in Diritto Ambientale, ufficio di presidenza FIMA Antonella Canini, delegato Politiche Ambientali del Rettore Università di Roma Tor Vergata Valeria Conte, Chimica Organica Dipartimento Scienze e Tecnologie Chimiche Università di Roma Tor Vergata Monica Coppola, ingegnere, docente e responsabile relazioni esterne CHOSE polo solare organico Regione Lazio e Università di Roma Tor Vergata Leonardo De Cosmo, giornalista, ANSA Scienza & Tecnica e AnsaScienzaLab Ugo De Giovanni, marketing director Unilever e Sustainability team leader di Unilever Italia Francesca Dragotto, linguista, Scienze della Comunicazione Università di Roma Tor Vergata Simona Falasca, direttore GreenMe, GreenBiz, NextMe Sergio Ferraris, direttore QualEnergia, referente per la qualità dell’Informazione Scientifica di FIMA, federazione italiana media ambientali Cinzia Forni, biologa, laboratorio di Botanica e Fitotecnologie Macroarea di Scienze Università di Roma Tor Vergata Marco Fratoddi, direttore La Nuova Ecologia, Segretario Generale FIMA federazione italiana media ambientali Roberto Giovannini, responsabile Tuttogreen de La Stampa, ufficio di presidenza FIMA Matteo Iegri, brand manager Unilever Fabio Iraldo, professore Management ambientale Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa direttore Ricerca IEFE Bocconi Alfredo Macchi, inviato speciale reti Mediaset Laura Marchini, communication manager di Carlsberg Italia Paolo Mondini, ingegnere dei materiali e ecodesigner Roberta Ragni, caporedattore GreenBiz, ufficio di presidenza FIMA Daniela Riganelli, chimica, consulente per politiche ambientali ed educational di chimica verde Novamont Diego Scipioni, linguista, Scienze della Comunicazione Università di Roma Tor Vergata Mauro Spagnolo, direttore Rinnovabili.it, architetto e giornalista
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l progetto Giornalisti Nell’Erba Si fa presto a dire green, realizzato dall’associazione di promozione sociale Il Refuso, è stato premiato come Fuoriclasse e co-sostenuto dalla Regione Lazio. Ringraziamo per le preziose partnership l’Università di Roma Tor Vergata ed in particolare la Macroarea di Scienze, che, oltre ad aver ospitato i 4 appuntamenti, ha contribuito, insieme a Scienze della Comunicazione, tramite i propri docenti e ricercatori, alla costruzione dei contenuti dei workshop. Grazie, inoltre, a Olga Rickards, Cinzia Forni, Francesca Dragotto e Fabio Peresempio per tutto l’aiuto che ci avete dato, a FIMA , la Federazione Italiana Media Ambientali, costituita da moltissime testate e singoli giornalisti, blogger e comunicatori che si occupano di ambiente nel nostro Paese, per aver contribuito, tramite i propri soci e rappresentanti dell’ufficio di presidenza,
al coordinamento degli interventi Il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che, grazie al Presidente Iacopino e al giudice di gNe Ugo Armati, recentemente scomparso, è da sempre a fianco ai nostri progetti di giornalismo ambientale per giovani e giovanissimi l’Agenzia giornalistica ANSA, ed in particolare il canale Scienza e Tecnica, per il contributo attivo dell’AnsaScienzaLab al tutoraggio giornalistico scientifico. Le scuole e i giovani universitari che hanno aderito, e quindi creduto al progetto. I partecipanti erano dell’Istituto Comprensivo di Frascati, lstituto Comprensivo Don Milani di Monte Porzio Catone, San Nilo di Grottaferrata, Liceo Manara, Università di Roma Tor Vergata, Università La Sapienza, Università Roma 3, Università Luiss Guido Carli, oltre che giornalisti, addetti stampa, biologi, architetti, economisti, ingegneri.
Un meritato applauso va a Novamont, l’azienda leader delle bioplastiche, con cui abbiamo realizzato il 2° workshop; Carlsberg Italia, la prima azienda birraia EPD d’Europa, con cui abbiamo realizzato il 3° workshop; Unilever, la grande multinazionale, con cui abbiamo realizzato il 4° workshop; per aver abbracciato un progetto innovativo e mai tentato, aver creduto negli obiettivi formativi, aver avuto il tempo e la voglia di mettersi a disposizione per farsi indagare, aver scommesso nella nuova lingua del green parlata dai giovani reporter ambientali gNe. Una scommessa vinta, secondo noi. Leggete e giudicate voi.
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IL FILO ROSSO DELLE PAROLE DEL GREEN
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i fa presto a dire green è il titolo di un progetto in quattro puntate (per ora), che ha visto coinvolti circa 500 giovani e giovanissimi di Roma e provincia e che ha portato alla realizzazione di altrettante inchieste intorno alle questioni della #greenicità delle aziende. L’idea vincente di questo progetto, premiato come “Fuoriclasse” e sostenuto dalla Regione Lazio, è stata quella di far usare ai ragazzi - come agli adulti - gli strumenti del mestiere di giornalista (scientifico e ambientale) per indagare a 360° sulla sostenibilità di chi produce. Un modo, insomma, per imparare a distinguere il green dal greenwashing, per aumentare la consapevolezza sull’ambiente, per esercitarsi nelle strategie dell’informazione e comunicazione efficace. Questa è la prima inchiesta, risultato del workshop “Green sin dall’inizio”. In questa occasione i Giornalisti Nell’Erba di varie scuole ed università hanno avuto modo di intervistare ed ascoltare biotecnologi ed eco-designer, bio-architetti e giornalisti esperti in questioni energetiche, ingegneri dei materiali ed ingegneri esperti in solare organico. In particolare, nella sua prima parte frontale, i partecipanti hanno ascoltato le relazioni di Antonella Canini, delegato Politiche Ambientali del Rettore dell’Università di Roma Tor Vergata, Enrica Battifoglia, responsabile canale Scienza & Tecnica di ANSA, Mauro Spagnolo, architetto e direttore di Rinnovabili.it, Cinzia Forni, docente Laboratorio di Botanica e Fitotecnologie Macroarea di Scienze Università Tor Vergata, Sergio Ferraris, referente per la qualità dell’informazione scientifica di FIMA (Federazione italiana media ambientali), Paolo Mondini, ingegnere dei materiali, ecodesigner esperto in tecnologie per l’ambiente, Monica Coppola, ingegnere e responsabile relazioni esterne del CHOSE, Center for Hybrid and Or-
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ganic Solar Energy. Abbiamo imparato molto pure noi, in questi tre mesi di lavoro insieme, lavoro in cui l’aiuto di Leonardo De Cosmo e Paolo D’Angelo di ANSAScienzaLab è stato prezioso.Dal 30 gennaio, data del primo del ciclo di workshop alla Macroarea di Scienze dell’Università di Roma Tor Vergata, all’impaginazione delle quattro prime* inchieste (*abbiamo intenzione di continuare), siamo cresciuti tutti, dai tutor Giorgia Burzachechi, Eleonora Cerulli, Hélène Duval, Giacomo Matera Capicciuti, Ilaria Romano, ai docenti coinvolti, dai relatori (persino loro, gli esperti) ai giovani e giovanissimi autori. Un’ esperienza entusiasmante che intendiamo proseguire, durante la quale “greenicità”, il termine coniato per l’occasione in data 17 gennaio, ha avuto anche l’onore di essere “consacrato” dai social media tra gli hashtag più utilizzati da chi parla di ambiente e dai linguisti come neologismo a tutti gli effetti. In queste pagine troverete articoli e interviste concordati in “riunione di redazione”, ossia durante la parte laboratoriale con i tutor, ma anche pezzi decisi in autonomia dai partecipanti. Non tutti i partecipanti hanno scritto. Ma tutti i testi sono originali. Ringraziamo la Regione Lazio, l’Università di Roma Tor Vergata, la FIMA, il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, l’ANSA, Carlsberg Italia, Unilever, Novamont e i media partner QualEnergia, GreenMe., Rinnovabili.it, La Nuova Ecologia e Minimo Impatto per aver creduto e supportato questo progetto.Un grazie speciale a Ernesto Stacchiola, responsabile tecnico organizzativo e a David De Angelis, direttore artistico di gNe. Grazie anche a Ksenia Vanieva e Roberta De Angelis, le nostre deliziose e perfette hostess e a Marco Morici, responsabile dell’impaginazione.
Paola Bolaffio
Ai 4 workshop il contributo dei linguisti La lente d’ingrandimento sui significati
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reen is the colour: green il prodotto ma, ancor prima, la sua rappresentazione a livello sociale. Se è vero che promozione e sviluppo possono andare di pari passo, nel momento in cui il prodotto viene immesso sul mercato la “greenicità” deve risultare già consolidata: tutto deve infatti rivestirsi di una simbolica mano di verde che, alla fine del processo, finirà con l’aver tinto brand e apparato iconico ad esso associato, battage pubblicitario a campagne informative collocate nelle zone di confine delle categorie comunicative. In un universo mediatico complesso, spesso minacciato dagli inganni del “greenwashing”, come viene significata la “causa verde”? Qual è il lessico scelto per veicolare il messaggio, quali le strategie retoriche messe in atto per ricomporre davanti agli occhi dello spettatore-consumatore la paradossale frattura tra logica del profitto e sviluppo sostenibile? Che genere di sintesi, infine, tra gli strumenti della comunicazione iconica e quelli del linguaggio verbale? Il contributo dei linguisti Francesca Dragotto e Diego Scipioni (Scienze della Comunicazione Università di Roma Tor Vergata) lungo tutto il percorso del ciclo di workshop SI FA PRESTO A DIRE GREEN cercherà di individuare, alla luce di queste premesse, l’azione e gli effetti prodotti da strategie comunicative ricorrenti in questo ambito; la cristallizzazione di scelte di comunicazione che finiscono per diventare veri e propri marchi distintivi di chi le pratica; la sussistenza di una “lingua (del) green”, verbale e non, comune e condivisa; l’incidenza della retorica pubblicitaria nella “causa verde”, anche in un confronto a quanto solitamente accade nella comunicazione pubblicitaria tout court.
PRIMA INCHIESTA
GREEN SIN DALL’INIZIO
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Alessia Maria Lanari
II media C Istituto Comprensivo via D’Azeglio di Frascati
Ma cosa si intende veramente con questo termine? Eh sì, perché alcune industrie usano questa parola (che in italiano vuol dire “verde”) solo per “farsi belle” agli occhi degli altri, anche quando di “green” non hanno proprio niente. All’Università di Roma Tor Vergata, per il primo workshop di Giornalisti Nell’Erba del ciclo Si Fa Presto a Dire Green, abbiamo capito che un’industria non è “green” per come si presenta agli occhi del consumatore, ma per il rispetto che ha realmente verso l’ambiente e che potrebbe influenzare anche il nostro modo di pensare e di ragionare. Spesso anche la pubblicità ci trasmette un messaggio “green”; ma dobbiamo stare attenti a non confondere il “green” con il “greenwashing”, cioè quello apparente, come una superficiale lavata di verde da comunicare ai consumatori.
Pubblicità GREENWASHING
Qualcuno dice il vero Ne abbiamo parlato con il linguista Diego Scipioni che durante il workshop ha fatto qualche esempio. Alcune industrie e aziende come Microsoft, Pirelli e Google, sui loro siti Internet, fanno vedere ai loro utenti e clienti quali sono le loro azioni per dare una mano alla natura. Non sono le sole. Sono infatti sempre di più le aziende che mostrano aspetti di “greenicità”. Alcuni, come Microsoft e Pirelli, lo fan8
no dando consigli ai clienti su come utilizzare i computer e gli pneumatici risparmiando energia, mentre Google, invece, mostra ciò che starebbe facendo per proprio conto per risparmiare energia: un esempio è la navetta che mettono a disposizione dei dipendenti in modo che evitino di prendere la macchina, un altro esempio è il fatto che fa sapere di aver investito 915 milioni di dollari in energia rinnovabile. A.M.L.
Questo tipo di pubblicità invece allude al GREEN e ne dà solo un’idea, senza esempi concreti. Hanno fatto così due aziende, Coca Cola e Mulino Bianco, facendo “uso strumentale ed allusivo del colore verde e della famiglia lessicale di natura, naturale ecc ed uso strumentale ed eufonico del termine life”, come dice il linguista Scipioni: alludono al GREEN, dunque, offrendocene colore e parole, ma senza darci dati e indicazioni precise sui loro percorsi sostenibili, che magari fanno anche, ma che non usano per pubblicizzarsi. La Coca-Cola Life gioca sul verde della lattina e sulle parole vita e natura; il Mulino Bianco invece allude alla sua presunta greenicità tramite le sue confezioni verdi e con facili slogan. Come ci ha spiegato Scipioni, citando altre fonti, “il sistema di comunicazione di Mulino Bianco viene costruito partendo dai bisogni latenti degli italiani negli anni Settanta, che manifestavano un crescente interesse per il ritorno al verde, alla campagna, ingredienti naturali e genuini, la forma familiare di un biscotto come quello della nonna”.
D Chiara De Luca e Gianmarco Lavornate
(II media A Istituto Comprensivo Don Milani Monte Porzio Catone)
Per essere più informati su questo argomento abbiamo fatto un po’ di domande a Paolo Mondini, ingegnere dei materiali ed esperto in eco design e tecnologie per l’ambiente. Mondini, ci spiega cos’è l’eco-design? “L’eco design, detto anche design sostenibile, è la progettazione di oggetti realizzati con materiali che non inquinano, una progettazione che tiene conto di tutto il ciclo di vita di ciò che si progetta da un punto di vista della tutela dell’ambiente e delle persone. L’obiettivo dell’ecodesign è quello di costruire oggetti riducendo l’inquinamento nella produzione degli stessi. Ci vuole più o meno tempo per progettare qualcosa di green?“Dipende dai casi”. Costano di più i prodotti green o tutti gli altri? “Anche questo dipende dai casi. Può costare di più ma anche di meno, se ad esempio l’azienda produttrice risparmia lungo il percorso proprio grazie all’eco-progettazione. Il prezzo poi dipende anche dalla qualità, dalle materie prime di cui è fatto un prodotto, da tantissimi fattori. Ma è un luogo comune pensare che ciò che è green costi necessariamente di più” Ci può dire quali materiali sono più ecosostenibili? “Dipende dall’oggetto che si vuole costruire”. Dopo questa intervista possiamo dire che... L’Eco-Design fa bene alla nostra salute e alla natura.
all’intervista a Paolo Mondini, ingegnere, ecodesigner e docente di “Scienza e Tecnologia dei Materiali”, da noi sentito durante il workshop “Green sin dall’inizio” all’Università di Roma Tor Vergata, ecco qualche pillola di eco-progettazione.Progettare green non richiede tempi più lunghi. Per progettare green, a parte i materiali ecologici, i quali meriterebbero un ragionamento a parte, bisogna utilizzare tecniche di costruzione più semplici.Per questo motivo i tempi possono essere alla pari o inferiori rispetto a progettazioni non green. Inoltre un progetto green è perfetto sin dall’inizio, quindi previene ogni difetto. Gli errori, se si correggonoa progetto avviato, fanno perdere tempo. Questo con i progetti green non succede perché sono studiati in modo da non avere errori. Non è detto che un prodotto green, con minor impatto ambientale, costi di più; dipende tutto dalla complessità del procedimento e dai materiali a minor impatto ambientale che si adoperano per quell’oggetto. Paradossalmente potrebbe costare pure di meno. Un prodotto è green quando è costruito con materiali ecologici, riciclati, quando è impiegata meno energia rispetto a un progetto non
green, quando ingombra di meno e quindi il trasporto costa di meno. A eccezione di casi particolari, comunemente negli elettrodomestici di ultima generazione sono adoperati motori più efficienti o altre particolari caratteristiche che permettono un consumo minore di energia da parte del consumatore. L’ecoprogettazione, dunque, tiene conto anche dell’uso che ne dovrà fare l’utente finale. I prodotti più ecosostenibili, sono in realtà, quei prodotti che impiegano MENO materie prime e PIÙ materiali ecosostenibili e magari un trasporto breve che inquina di meno. In definitiva non esiste un prodotto a priori ecosostenibile, dipende dall’oggetto da costruire e da come si costruisce. Tuttavia si può comparare un prodotto ecosostenibile con un altro, ammesso che questi siano prodotti omogenei (un divano con un divano, una tv con una tv o ancora un frigorifero con un frigorifero) e i risultati possono certamente essere diversi. Esistono sistemi “numerici” che consentono di “valorizzare” la sostenibilità di un prodotto e, quindi, di effettuare confronti validi tra un prodotto e l’altro. Zaninni Caroleo
II media A Don Milani Monte Porzio Catone
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hi è un ecodesigner e cosa fa esattamente? Insomma, chi c’è dietro questa parola un po’ misteriosa? L’ecodesigner – ha spiegato Paolo Mondini (ecodesigner, appunto) al primo workshop di giornalismo ambientale del ciclo “Si fa presto a dire Green” organizzato da Giornalisti Nell’Erba all’Università di Roma Tor Vergata - è colui che si occupa di una produzione di arredo inserita un sistema di protezione dell’ambiente. Può essere un progettista, un ideatore, un disegnatore di oggetti a basso impatto ambientale. L’ecodesigner si interessa all’intero ciclo di vita del prodotto, dal progetto iniziale alla sua produzione all’immissione sul mercato, fino al “fine vita”. Deve fare in modo che l’impatto ambientale sia il minore possibile e questo deve valere sia per l’uso delle materie prime, sia per la produzione del manufatto, sia per il suo trasporto, sia quando l’oggetto è in uso, sia per lo smaltimento dei materiali che compongono l’oggetto, una volta che questo avrà finito il suo ciclo di vita. Una scelta green effettuata nella fase iniziale di progettazione e sviluppo di un prodotto incide per il 70 – 80 % del suo impatto ambientale. L’ecodesigner quindi seleziona processi di produzione efficienti, usa produttori che dispongano di sistemi di gestione ambientale: sistemi puliti. Si preoccupa inoltre della fase di uso del prodotto: molti prodotti necessitano di accessori, di cui bisogna ugualmente valutare l’impatto, oppure consumano materiali o energia quando sono utilizzati. Concretamente, significa che “un tostapane che tende a bruciare pane avrà un impatto ambientale maggiore di uno che fa sempre fette tostate al punto giusto”, spiega Mondini, perché il tostapane che brucia le fette, spreca pane (che è stato coltivato sul suolo, ha consumato acqua, ha richiesto energia per la cottura, eccetera). Allo stesso 10
ECO Progettista
Tutti i segreti di un nuovo Design
di Edoardo Di Franco, Andrea De Simone, Sabrina Valeri, Leonardo Di Vito, Gaia Torrisi IE I.C. Frascati
modo, a parità di requisiti “eco”, una stampante che stampa fronte-retro, e quindi permette di consumare meno carta, potrebbe avere un impatto ambientale minore di una che stampa i fogli solo su un lato.La forma, la funzione e la qualità sono fattori importanti per un prodotto di design. Ma quando svolge il suo lavoro, l’ecodesigner, nella sua scaletta delle priorità, deve sempre mettere al primo posto le sei R, che, come spiega Mondini, stanno per “Ripensare un prodotto stesso e il suo utilizzo; Ridurre le componenti, il materiale,l’energia necessaria a produrlo e farlo funzionare; Rimpiazzare componenti pericolosi con altri più innocui; Riciclare: ossia usare dove è possibile materiali riciclati e assicurarsi. che poi i materiali usati possano essere riciclati a fine vita del prodotto; Riutilizzare: ossia pensare ad un’eventuale riutilizzo del
prodotto; Riparare: ossia progettare oggetti che possano essere riparati invece che sostituiti in caso di rottura”. Nel 1992 Douglass North, vincitore del premio Nobel per l’economia nel 1993, diceva “aiuta l’ambiente e danneggia la tua impresa”. Eppure, spiega il designer, progettare oggetti ecosostenibili fa risparmiare: “Le grandi aziende applicano abitualmente l’ecodesign al fine di ridurre i costi di produzione. L’utilizzo di alcuni materiali, ad esempio l’alluminio riciclato di cui è sempre stata fatta la caffettiera Moka Bialetti, è stata una prassi che non necessitava di essere messa in evidenza e non era considerata un plus fino a pochi anni fa”. Anzi… Oggi invece è diventato un aspetto importante, e le aziende che progettano all’insegna dell’ecodesign ci tengono a comunicarlo, anche perché i consumatori sono più informati sulle questioni ambientali.
LE GRANDI AZIENDE VOGLIONO ROMPERCI IL CELLULARE Marco Zuaro
III C Don Milani Monte Porzio Catone
La durevolezza dei prodotti della nostra quotidianità è sempre minore
Questa parola così difficile ci dice in sostanza che le aziende realizzano dei prodotti che sono destinati sin dall’inizio a danneggiarsi e rompersi. Come dice Sergio Ferraris, direttore del giornale QualEnergia,“nella storia l’utilizzo degli oggetti prevede che essi si consumino, ed è l’essenza stessa degli oggetti. Ma che si consumino in maniera naturale” Il problema è questo, gli oggetti ormai vengono programmati per rompersi prima del tempo debito. Perché avviene questo? Perché il sistema economico attuale non può permettersi prodotti che durino anche per quindici, vent’anni, perchè in tal caso non ci sarebbe bisogno di acquistarne uno nuovo dopo uno o due anni. In sostanza l’economia ristagnerebbe. Questo genere di produzione ha avuto inizio nel secolo scorso, quando i grandi produttori di lampadine si accorsero che nessuno le riacquistava perché resistevano bene, così crearono una lampadina che
si bruciava prima della lampadina standard. Ancora oggi questo processo è valido, e lo vediamo ad esempio con gli smartphone (sempre più fragili) che escono ogni due mesi con un programma simile al precedente. La soluzione che propone Ferraris è molto semplice, l’economia deve puntare più che sulla produzione sugli aggiornamenti, sulle riparazioni e sui servizi. Servizi e manutenzioni che possono essere fatti anche online, con notevole risparmio di energia e emissioni, oltre che di tempo e di denaro. Modificare questa situazione è importante perché un oggetto durante
la sua “vita” è estremamente inquinante. Cominciamo con la produzione. Per creare un telefono cellulare servono molti litri di acqua non riutilizzabile, e per lo smaltimento pone molti problemi. Quindi al costo del prodotto stesso si aggiungono i costi ambientali. Un prodotto certamente green secondo Ferraris, ma non secondo tutti, è un prodotto duraturo, fatto in modo da poter essere aggiornato, e se questi aggiornamenti richiedessero il cambio di parti del prodotto, queste dovrebbero essere fatte con materiali riciclabili in modo da poter riusare il pezzo sostituito per crearne uno più adatto alle esigenze del consumatore. 11
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Si fa per dire...
Non bisogna sempre credere alle pubblicità, agli slogan e alle icone scritte sui prodotti o alle immagini trasmesse in TV. Ormai assistiamo ad un vero e proprio abuso delle parole come “green”, “ecologia” e “natura” e allo stesso modo siamo sommersi di immagini che riproducono ambienti naturali e incontaminati. Questo fenomeno non interessa tutto il pianeta, ma solo i paesi sviluppati occidentali, come gli Stati Uniti e l’Europa ed ha avuto sviluppo soprattutto negli ultimi anni. Facciamo un passo indietro: perché si usa la parola green, invece della parola italiana verde? Si usa perché la parola green in inglese ha molti più significati nella lingua originale rispetto alla sua traduzione in italiano, infatti in inglese il significato è più ampio rispetto nostro “verde”, e anche perché è in inglese che la parola “green” è stata usata per la prima volta, nel secolo scorso, per designare gli ambientalisti. Oggi la parola green viene spesso usata per descrivere prodotti che sono o vogliono presentarsi come “verdi”, cioè naturali e/o rispettosi dell’ambiente. “Ci sono prodotti green ed altri allusivamente green” spiega Diego Scipioni, linguista dell’università di Roma Tor Vergata. Qualche esempio? La Coca Cola Life, ad esempio, è un prodotto allusivamente green: infatti di verde ha l’etichetta ed il tappo. L’unica cosa che la differenzia dalla Coca Cola comune è, a quanto pare, un dolcificante naturale.
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Oltre alla Coca Cola Life, Scipioni porta altri esempi di prodotti allusivi. Fra questi, i prodotti del Mulino Bianco: pubblicità e spot spingono il cliente ad acquistare questi prodotti dicendo che usano ingredienti naturali, che hanno il 30% di grassi in meno e che i loro alimenti sono imballati con materiali riciclati, ma senza approfondire, nell’imballo in vendita, i passaggi di #greenicità della produzione. Questo non vuol dire che non sia green a tutti gli effetti: la greenicità di Mulino Bianco è da “indagare”. Vuol dire solo che non è sulla completezza dell’informazione che punta la pubblicità. Altre industrie, invece, come la Google e Microsoft, comunicano il proprio “green” in modo diverso e i loro messaggi puntano a farlo sapere ai clienti. Google fa sapere che alla mensa distribuisce solo frutta e verdura, che ha un sistema di navette per i propri funzionari così non devono prendere l’auto ed usa energia rinnovabile presa da pale eoliche e da pannelli fotovoltaici. La greenicità di un prodotto quindi non si certifica dal colore della confezione o dagli slogan, ma necessità di una analisi più approfondita riguardo al suo impatto sull’ambiente e sulla nostra qualità di vita.
Camilla Cannuccia, Lorenzo Carafa, Guida Simon e Maria Chiara Taggi I media E Istituto Comnprensivo Frascati via d’Azeglio
V.I.A - VALUTAZIONE
IMPATTO AMBIENTALE Che cos’è l’impatto ambientale? Sono effetti causati da un evento o da un’azione, svolti sull’ambiente; essi possono essere sia negativi sia positivi. L’impatto ambientale coinvolge quindi molti fattori come: l’uomo, la natura, la chimica, l’architettura, l’agricoltura o l’economia. Purtroppo sono tante le azioni a danno dell’ambiente, soprattutto da parte dell’uomo. Una delle cose che incide di più è sicuramente l’inquinamento. Esso è responsabile anche del fenomeno conosciuto come “buco nell’ozono”, che con
siste nell’assottigliamento dello strato di ozono, un gas che è presente nella stratosfera e che protegge la Terra dalle radiazioni provenienti dal Sole. La conseguenza è il riscaldamento del pianeta e lo scioglimento dei ghiacciai, che modificano in modo determinante il clima. Un altro elemento a danno della terra è la deforestazione, cioè la progressiva riduzione delle zone verdi del pianeta, a causa della quale molte specie animali si stanno estinguendo e i terreni sono sempre più soggetti a frane e
smottamenti. Anche il disboscamento influisce sul clima, basta pensare alla riduzione drastica delle foreste tropicali e alle conseguenze che questa ha portato e sta portando. Un impatto ambientale pesante. L’uso indiscriminato delle risorse primarie del pianeta ha un impatto esponenziale, così come, di conseguenza, i nostri consumi. Produciamo tanti rifiuti e stiamo trasformando il nostro pianeta in una enorme pattumiera. Ciascuno di noi deve rendersi conto di ciò e cercare di cambiare le proprie abitudini, a cominciare dalla raccolta differenziata. È importante il riciclo dei materiali che scartiamo, come
plastica, vetro e carta, ma sopratutto la riduzione dei consumi e dei materiali, perché sono l’unico modo che abbiamo per risparmiare materie prime e ridurre almeno il nostro impatto ambientale. Per poter controllare e prevenire i possibili danni sull’ambiente, nel 1969 negli Stati Uniti è nata la Valutazione di Impatto Ambientale (VIA). La VIA è nata negli anni sessanta con il nome di environmental impact assessment (E.I.A). Marco Tabarri, Filippo Di Giulio, Christian Cerquetti, Mauro Ferru
I E scuola media Ist. Compr. Frascati via D’Azeglio
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FITOTECNOLOGIE PER IL PIANETA
Il sole
e i mirtilli
I pannelli solari organici: li abbiamo conosciuti all’Università di Tor Vergata. Sono realizzati con materiali organici, ibridi organici, inorganici; servono ad accumulare energia e a distribuirla. Vengono assemblati con una specie di gelatina, per colorarli si usano mirtilli, fragole, anche melanzane: più green di così I ricercatori propongono questi pannelli fotovoltaici organici alle imprese interessate, per uno sviluppo ecosostenibile. Anche Frascati è interessata al progetto, rispettoso dell’ambiente e bello a vedersi. Daniel Bassi, Nicolò Forti, Valerio Pisaturo, Gabriele Saputo
II media C I. C. Frascati via D’Azeglio
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Green sin dall’inizio è un concetto che dovrebbe applicarsi ovunque e comunque, per la sopravvivenza del pianeta e per quella dell’umanità. La professoressa Cinzia Forni, biologa ed esperta in biotecnologie all’Università di Roma Tor Vergata, ci ha dato qualche numero su cui riflettere: la popolazione globale, ha detto, continuerà a crescere ed è probabile che per la metà del secolo sarà di 9 miliardi di persone; sarà necessario produrre dal 70 al 100% di cibo in più. Ma il pianeta è già ora sfruttato molto di più di quanto possa dare. Bisogna cambiare qualche cosa, altrimenti si scateneranno guerre per l’acqua, per la terra, per l’energia, per il cibo. E’ così che nasce il concetto di agricoltura sostenibile, una Filosofia che ha bisogno della Scienza. Le biotecnologie sono una delle strategie scientifiche utili allo scopo. Creano e propagano nuove varietà di piante, utilizzano microorganismi che producono sostanze utili (anche nel campo della depurazione e bonifica dei terreni), migliorano le proprietà nutritive e la conservazione degli alimenti. “Le piante posseggono la proprietà fondamentale di utilizzare l’energia solare per la fotosintesi e la possibilità di crescere su terreni molto semplici, producendo una biomassa significativa”, spiega ancora
Cinzia Forni. Le piante, dunque, sono una fonte fantastica e rinnovabile di materiali, grazie alla loro grande “capacità di produzione di numerose molecole da utilizzare in vari campi dalle bioenergie fino alle materie prime per l’industria”. Laura Morgagni
16 anni, Roma
COME VIVERE ‘‘GREEN’’ di Viola Patrizi IC Don Milani Monte Porzio Catone
In base agli studi fatti dai ricercatori si stima che nel 2050 gli abitanti della Terra saranno nove miliardi. Per sfamare la popolazione e salvaguardare l’ ambiente bisogna innanzitutto imparare a rispettarlo, attraverso l’uso sostenibile delle energie rinnovabili (sole, vento, terra). Bisogna produrre senza impattare sull’ambiente, riducendo emissioni di gas serra e di metalli pesanti, che sono responsabili
dell’innalzamento della temperatura della terra. Gli studiosi dicono che se la temperatura aumenterà ancora di 6 gradi, come previsto se non si prendono seri ed immediati provvedimenti, le conseguenze saranno molto gravi. Tra le sfide dei ricercatori c’è la costruzione eco-sostenibile, cioè aiutare gli edifici ad inquinare di meno e quindi ad impattare meno sull’ ambiente COME? Utilizzando le fonti rinnovabili che sono fonti “virtualmente infinite” e non causano danni ad altri o all’ambiente come invece fanno e fonti fossili ovvero: carbone, gas, petrolio, che bruciando inquinano.
COME SI PUO’ COSTRUIRE RISPETTANDO L’AMBIENTE? 1)Utilizzando ad esempio il fotovoltaico che diventa un generatore di elettricità. 2)Usando materiali atossici. Bisogna rendere gli edifici comple-
tamente autonomi dal punto di vista energetico. Il rispetto dell’ambiente si dovrebbe ottenere anche dall’impegno che i nostri politici devono prendersi nel far rispettare le regole ed indurre le aziende ad effettuare una buona produzione obbligandole ad una riduzione dei gas serra e dei metalli pesanti. Pensando alle generazioni future si possono studiare anche delle nuove pratiche agronomiche nel campo dell’agricoltura e ad una GREEN ECONOMY mettendo sul mercato prodotti duraturi. Questi infatti dovrebbero essere riparabili e aggiornabili e quindi riciclabili. Se si pensa per esempio ad una automobile si potrebbe immaginare la parte interna fatta con materiali più resistenti (e quindi che abbiano una vita più lunga), e la parte esterna (cioè parte di consumo) fatta con materiali riparabili che si possono sostituire . Concludendo possiamo dire che l’ ambiente siamo NOI! E l’ amore ed il rispetto che gli dobbiamo non è altro che l’amore verso noi stessi.
Mirtilli al costo di 2€... a watt di Margherita Vinciguerra, Beatrice Cerroni, Simone Cabras, Lorenzo Riccioni, IE I.C Frascati
Il pannello solare al mirtillo è un pannello fotovoltaico organico inventato da CHOSE cioè il polo solare organico frutto della collaborazione dell’Università di Roma Tor Vergata e la Regione Lazio ne sfrutta i meccanismi della fotosintesi clorofilliana. E' nato tra il 2009 ed il 2010 per utilizzare energie rinnovabili e ricavare energia da materiali naturali. Questo è costituito da un processo di “sinterizzazione” del biossido di titanio e da un colorante preso dai mirtilli o da altri vegetali con simile caratteristiche e sigillato da due vetri. Questi pannelli presentano molti vantaggi infatti funzionano an-
che se il cielo è nuvoloso, non devono necessariamente essere orientati a sud, non utilizzano silicio evitando così gli scarichi nocivi e possono essere installati quasi ovunque. L' installazione di un impianto fotovoltaico con pannelli al mirtillo permetterebbe la produzione di energia anche durante la notte sfruttando l'illuminazione delle lampade accese all'interno dell'abitazione e riducendo la dipendenza dell' energia elettrica. Per costruirli servono 2 euro per ogni watt che riescono a produrre. I vantaggi della realizzazione di questa particolare tipologia di pannelli solari prevedono la riduzione delle emissioni
inquinanti nell'atmosfera; inoltre grazie alla sottile pellicola di cui è costituita la loro struttura, i pannelli solari al mirtillo potranno essere sfruttati in numerose applicazioni su medi e grandi palazzi e per ora non presentano particolari difficoltà. Per ora il problema da risolvere è quello dell'efficienza e quello della durata del prodotto. Oltre al mirtillo per farli funzionare si può utilizzare anche la melanzana, la buccia d'arancia e gli spinaci, quindi i colori possono essere: viola, blu e verde. Per ora le ricerche per il solare al mirtillo si svolgono al polo solare con i ricercatori dell'Università di Tor Vergata a Roma. 15
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‘‘CASA’’ GIUSTA
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reen: fai la “casa” giusta Lo sapete com’è progettata una casa ecologica ? Vi piacerebbe viverci ? All’Università di Roma Tor Vergata con Giornalisti Nell’Erba, durante il workshop “Green sin dall’inizio”, abbiamo capito che il primo problema sono i materiali. Devono essere quelli giusti, che non inquinino l’ambiente. Ci può aiutare la bio archittetura che tutela la salute delle persone, rispetta l’ambiente, usa materiali naturali non inquinanti, utilizza tecniche di risparmio energetico. Ci si può avvalere dell’energia di nuova generazione, ricavata dal sole e dai mirtilli, come ci ha detto Monica Coppola, del progetto CHOSE, solare organico: questi frutti di bosco con le loro molecole organiche, le antocianine, provocano una reazione elettrochimica naturale, che permette la trasformazione dell’energia solare in energia elettrica. Come la fotosintesi, “maestra” della ricerca in questo campo. Al polo solare organico, progetto dell’Università di Tor Vergata e della Regione Lazio, si studiano “pannelli solari golosi di mirtilli ”: la casa diventa così un accumulatore di energia pulita. Giacomo Risi, Stefano Talucci, Davide Omagbon, Andrea Frasca, Flavio Ricottini, Flavia Marcoccia IIC I.C. Frascati
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PANNELLI
GENIALI di Noemi Cusimano Rebecca Gabrieli Alessio Bultrini Jacopo Monresi IE I.C. Frascati
Possono essere installati sulle pareti degli edifici, anche verso nord con uguale efficienza, e sulle finestre fungendo di giorno da tende e di notte da fonti di luce sostituendo le lampadine. Possono essere installati su strade e ferrovie nonché sui tetti delle automobili. Sono i pannelli fotovoltaici del futuro, che però è molto vicino: questi pannelli infatti verranno perfezionati e si stima che nel 2015 potranno entrare in commercio. Sono definiti organici perché le celle che li compongono si basano su materiali organici. Qualcuno lo chiama “solare al mirtillo” perché una delle sostanze che questo tipo di pannelli usa per “catturare” l’energia solare è il colorante contenuto nei mirtilli. Il tema è di particolare interesse. Infatti molti architetti si stanno specializzando nella costruzione di edifici a basso consumo energetico, poiché più del 40% dei danni ambientali è causato dagli edifici. Inoltre, si è alla ricerca di soluzioni per rendere i pannelli solari più facili da smaltire. Il progetto CHOSE, finanziato dalla regione Lazio, si impegna nella realizzazione di pannelli fotovoltaici organici. Ha già realizzato numerosi prototipi e ha avviato la produzione realizzandoli per
la prima volta a grandezza naturale nel 2010. Ma perché realizzare questo tipo di pannelli solari quando ce ne sono altri già in commercio? Beh, perché questi pannelli riducono i costi di produzione ed, inoltre, sono ecosostenibili poiché impiegano materiali organici, per questo anche il loro impatto ambientale, i danni che causa all’ambiente la loro produzione, la loro vita e il loro smaltimento, è praticamente nullo, spiega Monica Coppola, ricercatrice del progetto CHOSE. Questi pannelli possono cambiare le nostre città perché, pur producendo energia e calore come i comuni pannelli solari, sfruttano le antocianine, cioè i pigmenti contenuti in alcuni vegetali, e sono realizzati con sistemi semplici. I coloranti organici sono ottenuti in laboratorio e CHOSE, che collabora con altri centri di ricerca, ha trovato il modo di realizzare i pannelli in diversi colori a seconda delle piante da cui sono originati. I pannelli organici potrebbero quindi essere usati al posto dei vetri delle finestre, con il duplice effetto di decorare e di produrre energia sfruttando una superficie degli edifici che non può essere utilizzata con i tradizionali pannelli solari. Inoltre, i pan-
nelli organici possono essere flessibili e rivestire superfici curve o guard rail, muri urbani e altre superfici, aumentando in questo modo le superfici utili per la produzione di energia. Il loro smaltimento non sarebbe così dannoso per l’ambiente e si risparmierebbero i materiali altrimenti occorrenti.
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Costruire sostenibile C
ostruire sostenibile è “una sfera sconfinata”, dice Mauro Spagnolo, direttore di Rinnovabili.it, al workshop “Green sin dall’inizio”, il primo degli incontri sulla “greenicità” organizzati da Giornalisti Nell’Erba all’Università di Roma Tor Vergata. La progettazione sostenibile in edilizia è una necessità, visto che l’europeo medio passa il 90% della sua esistenza in ambienti costruiti e che quindi la qualità della nostra vita è molto influenzata da quella degli edifici in cui abitiamo, lavoriamo, studiamo. Progettare costruzioni più verdi è un dovere soprattutto perché gli edifici partecipano attivamente e massicciamente al fenomeno del cambiamento climatico. In Europa l’edilizia è responsabile del 41% del consumo energetico e delle emissioni di CO2 globali. Anche in Italia si sta facendo strada la consapevolezza che nel rapporto tra edifici ed energia si gioca gran parte del futuro del pianeta e che quindi è importante progettare green, un po’ anche grazie alle direttive europee che ci hanno “imposto” di fare più attenzione a questi aspetti. Le soluzioni possibili sono tante, tali da consentire di pensare a una strategia di progettazione sostenibile a 360 gradi. Si va dalle soluzioni per il risparmio energetico al solare attivo (fotovoltaico e termico) e passivo (bioclimatica e tecniche costruttive), all’uso delle biomasse di origine vegetale, ai materiali “attenti” come riciclati e legno, alle tecniche innovative come la cogenerazione e l’uso dell’idrogeno come vettore energetico che può consentire di utilizzare in un secondo momento
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l’energia prodotta dalle rinnovabili. Il risparmio energetico degli edifici sta insomma diventando un tema di discussione anche da parte di politici e amministratori. Restano da affrontare però due aspetti critici di cui i media parlano poco. Il primo: nel nostro paese manca ancora una politica unitaria e nazionale di riferimento e le regioni hanno cercato di supplire con iniziative autonome. Questo potrebbe portare alla situazione paradossale in cui potremmo avere, su questo stesso tema, 20 normative regionali diverse una dall’altra. L’altro aspetto critico è che, a fronte delle tante soluzioni possibili per l’efficientamento energetico degli edifici, mancano indicazioni certe su come integrarle in uno stesso edificio per ottenere risultati armonici col tessuto urbano circostante. Per Spagnolo “la grande scommessa del risparmio e dell’efficientazione energetica nell’edilizia può essere vinta”, ma occorre coltivare la capacità di integrare e far dialogare tra loro l’insieme delle tecnologie disponibili e delle metodiche progettuali “che costituiscono la sconfinata sfera del costruire sostenibile”. Rosa Clementi, 17 anni, Roma
costa quanto
uno brutto ma è
bello “le esigenze cambiano molto più velocemente rispetto ai tempi di approvazione di un piano regolatore”
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al terremoto all’asilo nido del futuro: “Costa quanto uno brutto, ma è bello” (Articolo di Redattore Sociale 08 aprile 2014) Anteprima della nuova scuola di Guastalla (RE), progettata dall’architetto Mario Cucinella, allievo di Renzo Piano. Ecosostenibile, tutto in legno e vetro, costa 1.650 euro al mq. Per i bambini sarà come essere in mezzo alla natura. REGGIO EMILIA Appena 1.650 euro al metro quadrato, per uno spazio ecosostenibile che sarà più di una scuola per 120 bambini di Guastalla (RE), orfani di due istituti scolastici irrimediabilmente danneggiati dal terremoto che ha colpito l’Emilia due anni fa.“Costa quanto un edificio ‘brutto’, ma sarà bello”, dice con orgoglio l’architetto di origini palermitane Mario Cucinella, autore del nuovo nido d’infanzia per bambini da 0 a 3 anni che verrà presentato alla città il 12 aprile. Bello non solo per i materiali utilizzati (è tutto in legno), ma perché mette in pratica un nuovo concetto “di qualità dello spazio, che permetta ai bambini di riappropriarsi degli ambienti circostanti e non di stare chiusi tra quattro mura con una finestra”. In effetti, a vederlo, il nuovo asilo nido di Guastalla è uno spazio tutt’altro che convenzionale: tramite le ampie vetrate divise da strutture in legno, pone i bambini a strettissimo contatto con la natura. Proprio quella
natura che due anni fa ha tolto, adesso ridà speranza a un’intera comunità, ponendosi come modello per l’architettura del futuro, che non potrà fare a meno dell’ambiente e del suo rispetto. Ecco perché il 54enne allievo di Renzo Piano tiene anche a precisare che “tutti i materiali utilizzati sono ecosostenibili”, come se questo aspetto rappresentasse non solo una precisa responsabilità professionale dell’architetto ma anche un messaggio da tramandare alle nuove generazioni. Generazioni che, a partire dai bambini fino ai giovani laureati, dovranno fare proprio non solo il rispetto dell’ambiente ma anche un nuovo concetto di riqualificazione delle città e delle periferie, “le cui esigenze cambiano molto più velocemente rispetto ai tempi di approvazione di un piano regolatore”. Dopo un terremoto, certamente, ma anche per altre iniziative sociali o nella normale trasformazione dei centri urbani. “E’ un modus operandi che Piano chiama del ‘rammendo’ – spiega Cucinella -, dell’affrontare i macrotemi partendo dai microtemi” . Teorizzato da Piano, sposato da Cucinella, il “rammendo” è già realtà. Giuseppe Baselice
Redattore Sociale www.redattoresociale.it
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greenicità In architettura D
ue esempi di architettura davvero green tutta made in Italy. L’Italia per quanto riguarda l’architettura sostenibile non si tira indietro. Che siano case davvero piccole, immaginate come una tana da portare con sé, o grandi interventi che ospitano 65 imprese hi-tech, la parola d’ordine è greenicità. Renzo Piano, a Weil amRhein in Germania, si è voluto cimentare nella progettazione della casa minima, che nel 2013 è stata inaugurata con il nome Diogene. In soli 2,5 per 3 metri ci spiegano dal suo studio RPBW di Genova contiene tutto il necessario per essere utilizzata come riparo, adattabile alle esigenze e facilmente trasportabile. Si compone di tre ambienti: una stanza trasformabile per uso diurno e notturno, una piccola cucina ed un bagno. Quest’unità abitativa è energeticamente autosufficiente; pannelli solari e fotovoltaici la dotano di acqua calda ed elettricità, serbatoi raccolgono l’acqua piovana che viene filtrata e pompata all’interno per essere utilizzata in cucina e per la doccia, uno speciale tipo di sistema compost fa sì che la toilette non abbia bisogno di acqua. Mario Cucinella, invece, nel 2010 ha concluso il progetto del Polo Tecnologico di Navacchio a Pisa. Cinquemila metri quadri tra uffici e laboratori che consumano solamente 16 kg di anidride carbonica al metro quadro l’anno, circa il 55% in meno di un edificio tradizionale. Interpellato lo studio MCA di Bolognadi Cucinella, scopriamo che la piazza tra i tre edifici, paralleli e poco ruotati rispetto all’asse est-ovest, è riparata da una copertura schermante, che alterna pannelli tondi fotovoltaici e frangisole che favoriscono la ventilazione naturale della corte interna, le acque piovane sono raccolte e riutilizzate. Gli spazi di lavoro sono organizzati con una struttura semplice e modulare, blocchi da 100 metri quadri aggregabili senza limite, orientati in maniera razionale per ottimizzare gli apporti termici estivi ed invernali. Tutto ciò fa sì che l’edificio sia collocato nella classe A, in quanto i fabbisogni energetici sono davvero sorprendenti per un intervento di queste dimensioni. Raffaella Spizzichino 25 anni Roma
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SECONDA INCHIESTA BASTA PRODURRE GREEN
PER ESSERE
GREEN?
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BASTA PRODURRE GREEN PER ESSERE GREEN? di Francesca Zanobbi 15 anni, Grottaferrata
È
questo il tema che è stato affrontato nel secondo workshop organizzato da Giornalisti Nell’Erba per aiutarci a focalizzare ed interpretare al meglio il concetto di “greenicità”. Più volte durante la giornata è stata sottolineata l’importanza che le imprese adottino comportamenti finalizzati alla salvaguardia dell’ambiente e condividano le innovazioni sostenibili provenienti da ogni campo della scienza. A volte però accade, come abbiamo capito, che le aziende si ingegnino sì, a produrre in modo green, tralasciando conseguenze che potrebbero investire l’ambito sociale. Per conoscere proprio quest’altro aspetto che in parte risponde alla nostra domanda principale (Basta produrre green per essere green?) abbiamo intervistato Daniela Riganelli, consulente di Novamont, azienda chimica italiana che si occupa del settore delle bioplastiche. Per l’appunto, le ho chiesto se a volte l’aumento dei prezzi di alcuni prodotti e il cambiamento di alcune abitudini della società è dovuto anche ad un’evoluzione ecologica. Partendo dall’esempio dei bio-shopper, i sacchetti biodegradabili, di cui la dottoressa si è occupata, le ho chiesto se è vero che la loro produzione è tra le cause dell aumento del prezzo dei cereali, poiché implicano l’uso del mais. Riganelli non ha dubbi: mentre riporta una sin-
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tesi delle principali analisi di mercato relative al picco dei prezzi dei prodotti agricoli di base del 2007, spiega che gli aumenti sono riconducibili a ben altri fattori. Le cause principali, dice Riganelli, sono state l’aumento dei prezzi del petrolio con il conseguente aumento dei costi della produzione di cereali, dei fertilizzanti, quindi dei costi di stoccaggio, trasporto e distribuzione della produzione agricola; la domanda crescente in India e Cina; il cambiamento del regime alimentare nei Paesi emergenti (maggior consumo di carne), l’interesse speculativo dei mercati; gli scarsi raccolti in alcuni Paesi, come l’Australia. Per quanto riguarda invece le tensioni economiche e sociali globali legate all’utilizzo dei campi per coltivare materie prime rinnovabili usate dall’industria che potrebbero essere sfruttati per la produzione di generi alimentari e mangimi, la consulente di Novamont non pensa che queste “preoccupazioni” siano fondate: secondo i dati, la coltivazione di mais per le bio-shopper, per esempio, richiede solo lo 0,06% del terreno agricolo europeo totale.
LA CERTIFICAZIONE spiegata da Sergio Ferraris
O
gni prodotto GREEN possiede un certificato che lo autentifica come tale.I certificati green esistono per ogni sorta di prodotto (dal tostapane agli edifici). Per ogni tipologia di prodotti esistono diversi tipi di certificazioni, che a volte cambiano addirittura da stato a stato. Qualcuna prende in considerazione il prodotto stesso, altre i vari processi che gli sono dietro. Per fare qualche esempio, in Italia c’è la certificazione IMQ-ECO che è una “certificazione delle asserzioni ambientali di prodotto”, cioè verifica le dichiarazioni dei produttori che definiscono “green” i loro prodotti, aiutando così a distinguere ciò che è green dal greenwashing. Per quanto riguarda gli edifici green due certificazioni molto note sono LEED (Leadership in Energy and Environmental Design) per gli USA e BREEAM che vuol dire BRE Environmental Assessment Method, cioè “metodologia di valutazione ambientale del BRE, elaborata in Gran Bretagna ma oggi diffusa in tutto il mondo. Le certificazioni sono dei certificati che comunicano al consumatore che quel prodotto è in qualche modo ecologico cioè non danneggia l’am-
biente. Servono per limitare i danni, ridurre insomma l’impatto dei prodotti e delle produzioni. Non sono perfette ma comunque necessarie, ancor di più se si parla di quelle europee. Per esempio l’Ecolabel assicura che alcuni parametri ecologici siano rispettati da tutti i paesi europei. Grazie ad un’intervista a Sergio Ferraris, giornalista professionista che scrive di scienza e tecnologia, è stato possibile rispondere ad alcune domande molto frequenti.
Le certificazioni green servono davvero? “Le certificazioni servono se sono fatte da enti terzi, enti totalmente indipendenti da chi produce o vende un prodotto, che danno una certificazione totalmente obiettiva. Inoltre, se l’azienda che certifica è accreditata dal governo c’è una sicurezza maggiore che il prodotto sia green”.
Tra le certificazioni green ce ne sono alcune migliori di altre? “Tra le certificazioni green, ce ne sono alcune migliori di altre, se però
confrontate in uno stesso settore. Non si può comparare la TUV, specializzata nei prodotti manifatturieri, con la LEED o la BREEAM, specializzate negli edifici. Si può però paragonare la TUV con altre certificazioni specifiche per quello stesso settore.”
I prodotti certificati sono facilmente riconoscibili dai consumatori? “Di solito si, però è fondamentale leggere le etichette dei prodotti acquistati. Per esempio oggi nelle etichette del prodotto è obbligatorio specificare se è presente l’olio di palma, come dicevo. Tutto sta nel leggere l’etichetta, ma non tutti lo fanno o comunque non ne hanno la pazienza. Questo è un problema che ci si sta ponendo e si sta tentando di risolvere. Alcuni marchi come la TUV o la ECOLABEL sono più riconoscibili perché più noti”.
Intervista degli alunni della II A San Nilo Grottaferrata 23
PLASTIC 'QUEST’ ISOLA AVVELENA IL MARE'
ISOLA DI rifiuti Nel Pacifico, al largo delle isole Hawaii, si è formato un accumolo di rifiuti, soprattutto plastica, per questo esso prende il nome di “isola di plastica”. Le buste di plastica hanno cominciato ad accumularsi verso gli anni Cinquanta perché l’azione della corrente oceanica è dotata di un movimento a spirale che fa aggregare i rifiuti tra di loro. La dimensione dell’isola può variare dai 700.000 (km)2 a 1 milione di (km)2, più grande della Penisola Iberica. Mentre i rifiuti biologici sono sottoposti alla biodegradazione, nella zona oceanica si stanno accumulando rifiuti non biodegradabili: la plastica e rottami marini che sono devastanti per l’ecosistema. Infatti la plastica invece di biodegradarsi, si “fotodegrada” cioè si disintegra in pezzi molto piccoli, fino ad arrivare alla dimensione dei polimeri, la cui biodegradazione è difficile. Perciò la fotodegradazione produce inquinamento. Inoltre le particelle che galleggiano sembrano zooplancton, cibo di cui si nutrono le meduse e molti altri animali che, ingannati, si cibano di queste particelle, le quali ne causano la morte. Simona Salvagni
II D dell’I. C. Frascati via d’Azeglio
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L’Isola di plastica del Pacifico è un enorme accumulo di spazzatura galleggiante situato nell’Oceano Pacifico, approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano. “QUEST’ISOLA AVVELENA IL MARE”. Questo accumulo informalmente viene chiamato con diversi nomi, tra cui Isola orientale di Immondizia o Vortice di Pattume del Pacifico. I rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, e in questa zona oceanica quindi si sta accumulando una enorme quantità di materiali non biodegradabili come la plastica e rottami marini. Anziché biodegradarsi, la plastica si disintegra in pezzi sempre più piccoli fino alle dimensioni dei polimeri che la compongono, la cui ulteriore biodegradazione è molto difficile. Il galleggiamento di tali particelle, che apparentemente assomiglia-
La dimensione può variare dai 700.000 (km)2 a 1 milione di (km)2 più grande della Penisola Iberica
no a zooplancton, inganna le meduse che se ne cibano, causandone l’introduzione nella catena alimentare. In alcuni campioni di acqua marina presi nel 2001, il rapporto tra la quantità di plastica e quella dello zooplancton, la vita animale dominante dell’area, era di sei contro uno. Le ricerche compiute dalla Woods Hole Oceanografic Institution hanno rivelato che il sistema costituisce una nuova nicchia ecologica, chiamata “platisfera”, dove la plastica e’ colonizzata da circa mille tipi diversi di organismi, eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti, tra cui diatomee, batteri, alcuni dei quali apparentemente in grado di degradare la materia plastica e gli idrocarburi, si ritrovano anche agenti patogeni come batteri. alunne della III A San Nilo,
Grottaferrata
700.000
1 milione
C ISLAND Questa volta gli esploratori non hanno scoperto una nuova terra, ma un nuovo problema. Infatti nell’Oceano Pacifico, al largo delle isole Hawaii e’ stata scoperta “l’isola di plastica” una grande chiazza di immondizia. È un enorme accumulo di spazzatura e soprattutto plastica galleggiante.
Un colpo al nostro ecosistema! Oh no! Un altro colpo al nostro ecosistema! Ecco l’ultima notizia! Un’immensa isola dove non saranno costruiti alberghi posta al largo delle Hawaii nell’oceano Pacifico! La quantità di plastica e detriti ammonta a 103 milioni di tonnellate. Queste buste non sono biodegradabili, ma sono soggette alla “fotodegradazione”, cioè si decompongono fino ai “polimeri di partenza. Questi, poi, sono scambiati per zooplancton dalle meduse e da altri animali marini che se ne cibano e muoiono. Anche le tartarughe scambiano le buste per delle meduse e anch’esse ci “lasciano la pelle” come si suol dire. Sapevamo dei danni provocati dalla plastica diffusa nell’ambiente
e non abbiamo fatto nulla per evitare il disastro. Per giunta sapevamo anche che le buste di plastica potevano arrecare danno alla fauna marina come le tartarughe e le meduse. Se avessimo fatto un minimo di attenzione in questi anni questo ulteriore colpo all’ambiente poteva essere evitato. Questo orribile spettacolo non è gradito a Madre Natura, né ai bagnanti delle Hawaii, ma quest’ultimi dovrebbero riflettere perché se ciò è accaduto ognuno di noi ha la sua parte di responsabilità. Francesco Ferroni
della II D dell’I. C. Frascati via d’Azeglio
L’accumulo si è formato a partire dagli anni Cinquanta a causa dell’azione della corrente oceanica chiamata vortice subtropicale del nord pacifico; essa è dotata di un particolare movimento a spirale in senso orario, che permette ai rifiuti di aggregarsi fra di loro. Per diversi anni alcuni ricercatori oceanici hanno investigato a fondo la diffusione dei detriti. Si sa che i rifiuti galleggianti di origine biologica sono spontaneamente sottoposti a biodegradazione, ma in questa zona oceanica si sta accumulando un enorme quantità di materiali non biodegradabili come la plastica e rottami marini, inoltre il galleggiamento di tali particelle inganna le meduse e altri animali che se ne cibano con un gravissimo danno per l’intero ecosistema. Alessandra Cubeddu
della II D dell’I. C. via d’Azeglio Frascati
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PLASTICA, MATERIA LEGGERA DA NON PRENDERE ALLA LEGGERA Articolo di Noemi Cusimano, Jacopo Morresi, Rebecca Gabrieli della I E dell’I. C. Frascati via d’Azeglio
L
a plastica è stata inventata da Giulio Natta. Ha portato vantaggi e svantaggi. Tra i vantaggi, ha ridotto il peso delle automobili del 40% e di conseguenza ha ridotto il costo dei trasporti riducendo l’impiego del carburante; ha dato la possibilità di creare nuovi tessuti, ad esempio il pile, oltre a prodotti di uso quotidiano. Purtroppo l’eccessivo spreco di questa risorsa importantissima che ha portato tanti benefici, ha portato anche svantaggi tra i quali troviamo di certo il danno 26
ambientale. Pensateci un po’: dopo che abbiamo utilizzato gli oggetti in plastica, o li gettiamo insieme alla spazzatura (usando sacchi di plastica per contenerli), o li gettiamo per terra o creano cumuli, o finiscono nelle discariche. Ma molti finiscono in mare. Infatti il 94% dei rifiuti in mare è plastica, soprattutto i sacchetti. Proprio quando finiscono in mare i sacchetti possono essere ingeriti da cetacei, delfini, che sono attirati dai loro colori vivaci, nonché da tartarughe che li scambiano per meduse, di cui sono ghiotte. Lo Stato italiano è stato il primo in Europa a vietare l’ utiliz-
zo di sacchetti di plastica e ha messo in commercio i sacchetti di bioplastica ricavati dall’amido di mais, di farina, di grano o di altri cereali. I sacchetti in bioplastica sono biodegradabili, cioè possono degradarsi senza inquinare il luogo in cui sono depositati. Ma... cosa succede se questi sacchetti finiscono in acqua? Una bambina della redazione di Giornalisti nell’erba, due anni fa, ha messo un sacchetto di plastica in un barattolo pieno d’acqua dolce per 2 mesi e ha scoperto che il sacchetto era
come prima. Come mai? Una ricerca ha mostrato che i sacchetti in MaterBi di Novamont, l’azienda che realizza questo tipo (brevettato) di bioplastica, in mare si degradano al 90% in 8 mesi e inoltre sono compostabili (cioè si degradano entro 3 mesi, diventando compost). Però non si possono sciogliere in breve tempo nell’acqua, altrimenti come faremmo se andassimo a fare la spesa in un giorno di pioggia? Ci si chiede: se questi sacchetti sono fatti di plastica ma ricavati da sostanze organiche, dove buttarli facendo la raccolta differenziata? A questa domanda è difficile rispondere con certezza, perché dipende dal tipo di sacchetto. E neppure le grandi aziende che si occupano della raccolta dei rifiuti lo dicono chiaramente, poiché esistono sacchetti biodegradabili compostabili e non compostabili. Una cosa è certa: i sacchetti compostabili vanno nell’ umido perché finiscono per essere trasformati in compost come gli scarti alimentari. Quelli biodegradabili ma non compostabili non vanno gettati nell’umido poiché non possono essere smaltiti negli impianti di compostaggio industriale. Se li gettiamo nella plastica da riciclare alcuni additivi che li compongono possono interferire nel riciclaggio. Per questo la ricerca si sta impegnando per capire quali additivi possono essere tollerati nel riciclaggio della plastica e quali no.Una cosa è certa: da quando in Italia c’è l’obbligo di distribuire sacchetti in bioplastica è diminuito il numero di buste in circolazione, perché la gente preferisce acquistare buste non usa e getta, più resistenti, durature e riutilizzabili e questo è un grande beneficio perché, forse, in questo modo stiamo cambiando le nostre abitudini. Perciò ricordiamo che non esistono cose completamente buone o completamente cattive, ma è l’ uso che se ne fa che può essere giusto o sbagliato.
CHIMICA, BUONA O CATTIVA? C
os’è la chimica? Perché sembra una parola cattiva? La chimica è la scienza «che studia le proprietà, la composizione, l’identificazione, la preparazione e il modo di reagire delle sostanze, sia naturali sia artificiali...Non è una “invenzione dell’uomo”, ma una scienza naturale perché descrive tutto quello che esiste e come esso si trasforma”, ci spiegano sia il linguista Diego Scipioni che la professoressa Valeria Conte, che all’Università di Roma Tor Vergata insegna la chimica green.Il problema però è che la studiamo a scuola, e non è facile. Quindi non ci piace. E poi il problema ancora più serio della chimica è che è “la scienza di cui ci accorgiamo solo quando un’autocisterna di benzina va a finire in un fiume”, come ha detto il Nobel per la chimica 1981 Roald Hoffmann. Ne sentiamo parlare in contrapposizione con la parola “naturale” o “biologico”, o anche quando si parla di guerra “chimica”, di industrie che inquinano, di piogge acide… per questo ne abbiamo in testa un concetto negativo, anche se, sembra strano scriverlo, la chimica è naturale. Soprattutto, lo è la buona chimica green, quella che studia Valeria Conte. E’ una chimica che si è posta un dodecalogo da rispettare. Tra le regole, quella di evitare gli scarti il più possibile, usare materie prime rinnovabili, pensare in termini di efficienza energetica in generale e diminuire i passaggi sintetici che tra l’altro necessitano di più energia. Ma la chimica green non è green solo perché nei laboratori si sta attenti a non inquinare e ad usare meno energia. E’ green anche perché va a braccetto con la chimica sostenibile. Per esempio, il biodiesel, ottenuto con procedimenti meno inquinanti. Francesco Maria Cozzolini 15 anni, Roma
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LE PIANTE, L’UOMO E LE
BIOFABBRICHE Carlotta Serafini, Alessio Sterlicchio, Julia De Dominicis, Valentino Petroni III E San Nilo, Grottaferrata
PIANTE E UOMO
BIOFABBRICHE
Tra le pratiche più antiche usate dall’uomo per alleviare o curare i propri disturbi c’è l’uso delle piante. Se ne trovano tracce già nella civiltà egizia, indù, greca, cinese, araba e romana. Le varie parti e le sostanze contenute nelle piante sono state utilizzate sotto forma di infusi, decotti, macerati, cataplasmi ed impacchi per millenni. Le piante o particolari parti di esse, vengono raccolte nel loro periodo di maggiore efficacia e poi trattate in modo da esaltarne la proprietà. Molti farmaci sono versioni sintetiche degli estratti vegetali, contengono cioè principi attivi che sono derivati da un componente vegetale. Con l’arrivo di farmaci sintetici l’uso delle piante è stato in parte accantonato dall’uomo, anche se l’uso corretto delle piante può in certi casi farci portare ad un risparmio di farmaci. I vegetali non sono necessariamente innocui, ma possono avere effetti collaterali se assunti in dosi eccessive e per lungo tempo. Se usate in maniera mirata possono rafforzare, stabilizzare ed alleggerire il lavoro degli organi aiutandoli a funzionare meglio, in più possono anche riequilibrare il sistema nervoso. Per questi motivi prima di usare qualsiasi pianta bisogna chiedere ad una persona esperta.
Un esempio di biofabbrica è citato nella definizione di Wikipedia: “struttura in cui si attua l’allevamento di artropodi su scala industriale, finalizzato alla produzione di organismi viventi da liberare in grandi quantità nell’ambiente nell’ambito di tecniche di lotta biologica e lotta integrata”. Ma la definizione è limitante. In effetti, pure se la Limoneira Company è datata 1896, di biofabbriche si inizia a parlare negli anni 60. La professoressa Cinzia Forni, del laboratorio di Botanica e Fitotecnologie del dipartimento di Biologia dell’Università di Roma Tor Vergata, parla di piante usate come biofabbriche di composti utili per l’ambiente. Le piante, spiega, ci forniscono cibo, fibre con le quali fare tessuti ma anche materiali per le costruzioni, per l’industria e per l’energia e medicinali. Oltre a proteine, vitamine, carboidrati, lignina, grassi, altre molecole importanti per le bioraffinerie, le piante offrono anche pigmenti e coloranti. Occorre sottolineare che le piante non sono angeli e possiedono degli efficaci sistemi di difesa. Il problema di difendere le piante dai loro nemici che le attaccano, ad esempio, non può essere risolto danneggiando l’equilibrio naturale, ad esempio abusando degli insetticidi.
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l’agricoltura biologica deve rispettare certi criteri Drastica limitazione all’uso di concimi minerali di sintesi
Limitazione all’uso dei fitofarmaci di sintesi
La rotazione delle colture
Utilizzo intensivo di concimi organici La scelta di specie e varietà tradizionali
La lotta alle malerbe La protezione dei nemici naturali dei parassiti
Agricoltura e fitotecnologie di Valentina Giovinazzi, Francesca D’Ottavi,
Alessandra Olivieri, Chiara Santoni, Daniel Nardi, Beatrice Arduini
classe II C dell’I. C. di Frascati
I
principali vantaggi dell’agricoltura bilogica consistono nell’aumento della sostanza organica del suolo che migliora la porosità del terreno consentendo di trattenere meglio l’acqua e far passare più aria utile per far respirare le radici. Inoltre, i lombrichi trovano maggior nutrimento e le gallerie che essi scavano aumentano ulteriormente questi effetti positivi. Un altro vantaggio della pratica dell’agricoltura biologica consiste nel minor uso dei concimi minerali e fitofarmaci che dovrebbe garantire alimenti più sani. Le fitotecnologie, ovvero l’utilizzo delle piante per risanare i terreni contaminati e rendere migliore la qualità dell’ambiente, e come biofabbriche di composti utili, possono rappresentare una valida soluzione per garantire catene produttive per ottenere alimenti salutari e nutrienti, anche capaci di guadagnare la fiducia dei consumatori sempre più attenti alla qualità dei prodotti alimentari. Questa visione accomuna molto da vicino, quindi, il mondo della ricerca scientifica e il mondo della produzione agroalimentare. Nel centro scientifico di Tor Vergata abbiamo scoperto che l’uso dei compost è una delle tecniche di base dell’agricoltura biologica. Infatti, la produzione dei compost è facile e si pratica per piccoli appezzamenti e persino per i giardini delle nostre case. Ma i residui chimici sono assenti solo nei prodotti
biologici? Contrariamente a ciò che si crede, nell’agricoltura biologica alcune pratiche possono essere dannose, ci spiegano gli esperti. Per esempio grandi quantità di rame (uno dei pochi elementi ammessi come fitofarmaco nel biologico) può inquinare il suolo e produrre effetti tossici nell’ecosistema locale. Quando i fitofarmaci sono utilizzati rispettando le norme di legge e i buoni criteri agricoli d’uso, gli alimenti sono altrettanto sicuri e sani. Le tecniche agrarie convenzionali, praticate correttamente come ci tiene a ribadire la professoressa Cinzia Forni, biologa e docente di fitotecnologie all’Università di Roma Tor Vergata, presentano numerosi vantaggi rispetto a quelle biologiche: le maggiori quantità di alimento prodotte il minor tempo di lavoro e di manodopera hanno come conseguenza che il prezzo dei prodotti è più basso e in alcuni casi dimezzato l’uso di fitofarmaci può impedire lo sviluppo di muffe parassite e delle pericolose sostanze tossiche da esse prodotte l’uso di concimi azotati migliora la ricchezza in proteine del grano e, di conseguenza, anche la qualità della pasta che viene con esso prodotta. 29
UNA MACCHINA NATURALMENTE EFFICIENTE di Marco Zuaro
III C, Don Milani, Monte Porzio Catone
Le biotecnologie fanno grandi progressi. Fin dall’antichità, le piante sono state per l’uomo indispensabili. Esse ci forniscono moltissimi prodotti della vita quotidiana come cibo, fibre (da cui si ottengono i tessuti), e anche materiali per la costruzione come il legno. I botanici attualmente stanno cercando di applicare ciò che ci offrono le piante in altri campi, più ampi di quelli già detti. Prendiamo i fiori, ad esempio: i loro colori sgargianti sono stati riutilizzati come coloranti. Non dimentichiamoci che molte piante hanno grandi proprietà curative e sono efficienti al pari dei prodotti farmaceutici. Il vero problema è che le piante che più possono essere utili all’uomo in questo campo sono generalmente piuttosto difficili da coltivare intensivamente, ecco perché sono state create le coltivazioni in vitro. Si tratta sostanzialmente di riprodurre in piccole fiale o anche in grandi serre le condizioni ideali per la crescita di specie particolari di piante. “Molte piante possono essere coltivate in vitro, ma su molte altre ancora non è attualmente applicabile questo metodo di coltivazione”, come ci spiega Cinzia Forni, docente al laboratorio di Botanica e Fitotecnologie dell’Università di Roma Tor Vergata. Per questa ragione la ricerca scientifica è molto importante, i suoi progressi sono un passo in più verso la sostenibilità di prodot30
ti che attualmente sono di origine non green, come la plastica a cui molto recentemente è stata messa in contrapposizione la bioplastica. La ricerca sulle piante inoltre ci ha permesso di creare vaccini nei semi, questa è stata un’importante invenzione, perché nei paesi più poveri, dove le tecniche di conservazione sono estremamente limita-
te, gli strumenti tradizionali si danneggiano facilmente. Invece i semi non hanno bisogno di particolari metodi di conservazione e quindi sono migliori, oltre ad essere più ecologici. In sostanza, le applicazioni delle biotecnologie sono molteplici e ci possono dare prodotti di eguale qualità (o anche migliore) di quelli prodotti in fabbrica.
INQUINAMENTO COME FARE? L’inquinamento è l’introduzione di sostanze tossiche e nocive nell’ambiente. Nell’aria, per esempio, si possono trovare sostanze tossiche provenienti dalle industrie chimiche; nell’acqua possiamo trovare invece petrolio o detersivi e nella terra sono presenti plastica e detriti che faranno fatica a deteriorarsi per anni o che non riusciranno mai a farlo. Ma perché siamo arrivati a queste condizioni? E come possiamo migliorare? Si è arrivati a questi alti livelli di inquinamento perché l’uomo non pensa abbastanza alle conseguenze delle proprie azioni sporcando l’ambiente con sostanze inquinanti, ma si può migliorare imparando a rispettarlo con un po’ di senso civico ed educazione ambientale che purtroppo la maggior parte di noi non ha per disinteresse e malainformazione. Ci potrebbe aiutare la diffusione della raccolta differenziata con cui potremmo dividere i rifiuti per genere e poi riciclandoli, quegli stessi rifiuti ci darebbero altri materiali utili. Un altro modo per aiutare l’ambiente sarebbe quello di usare prodotti di natura biologica come quelli per l’igiene personale (bagnoschiuma, shampoo, creme ecc..); mangiare cibi biologici (coltivati in terre non inquinate da discariche, o altro per esempio, e concimati con fertilizzanti naturali); indossare vestiti creati con fibre naturali (cotone,seta e lana). Secondo me l’uomo pensa ancora troppo poco alle condizioni dell’ambiente e non fa abbastanza ancora per bonificare i territori inquinati pensando così di avere un futuro migliore. “Noi siamo quello che mangiamo” ed è per questo che tante malattie sono aumentate negli ultimi tempi. Quindi aiutare ad avere un ambiente più pulito non può che essere un vantaggio per tutti. Giorgia Dell’Otto
della classe II A I. C. Don Milani, Monte Porzio Catone
PIANTE PER L’ECONOMIA Intervista a Cinzia Forni, docente di Botanica All’università di Roma Tor Vergata
P
erché ci dovrebbe interessare la trasformazione delle piante da materie prime a prodotti industriali? Perché le piante possono rivelarsi un grande potenziale economico: infatti potrebbero offrire fonti alternative di materie prime per energia, combustibile e prodotti di uso quotidiano. La nostra generazione dipende dal petrolio. Ma il petrolio è una risorsa limitata e bisogna trovare risorse alternative. Le piante però, se opportunamente “sfruttate”, possono fornirci tutto ciò che oggi viene prodotto impiegando il petrolio, aiutandoci a creare una società sostenibile per il futuro e ad affrontare i problemi attuali come l’aumento dei costi energetici e il nostro impatto sull’ambiente. Per capire come, abbiamo fatto qualche domanda a Cinzia Forni, docente di Botanica all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Le piante sono una grande risorsa anche quali materie prime per alcune industrie. Ma vengono sempre usate in modo ecologico oppure nella lavorazione possono essere passaggi che ne vanificano questo aspetto? “Questo dipende dagli operatori. Nei vari laboratori stanno mettendo a punto diversi metodi per cercare di ottenere le materie prime dalle piante nel modo più ecologico possibile. Molte volte sono i processi di estrazione delle materie prime dalle piante quelli che possono risultare i più inquinanti. Ad esempio, l’ottenimento della carta dalla cellulosa (componente della parete della cellula vegetale) è un processo in-
quinante, ma adesso c’è un obiettivo biotecnologico finalizzato al miglioramento del processo industriale riguardante la preparazione della carta. Per ridurre l’impatto inquinante di questa lavorazione bisogna intervenire sulla lignina, che è il polimero (cioè una molecola costituita da tante unità; nelle piante svolge una funzione di sostegno) legato alla cellulosa. Staccare la lignina dalla cellulosa richiede dei processi altamente inquinanti che possono degradare parzialmente la cellulosa riducendo la qualità della polpa e la forza della carta. La principale sfida biotecnologica, a cui i ricercatori stanno lavorando, è quella di ottenere piante transgeniche con lignina modificata per migliorare la qualità del legno da cui si ottiene la carta, cioè minore quantità di lignina o una diversa composizione che la rende più facilmente separabile dalla cellulosa eliminando gli interventi inquinanti”. La creazione di nuove piante dall’incontro di più tipologie è considerata una prassi ecologicamente compatibile? “Cosa intendete per più tipologie? Brevemente: ci sono gli incroci all’interno delle specie e tra le diverse specie, che creano nuove combinazioni di geni. Questi incroci sono stati fatti dall’uomo da moltissimo tempo. Pensate che molte delle piante che noi mangiamo (frumento, mais, fragola, banana ecc.) derivano da questi incroci. In natura nel corso dell’evoluzione questi incroci possono essere avvenuti anche spontaneamente. Ci sono poi le piante geneticamente modificate che prevedono interventi in laboratorio. In questo caso bisogna sempre considerare quali sono gli impatti di queste ultime sull’ambiente, tenendo anche presente che 31
questo materiale non deve essere disperso nell’ambiente in modo incontrollato. In Europa la legislazione è molto severa nei confronti della coltivazione in campo di piante geneticamente modificate”. L’utilizzo del legno come materia prima per tanti prodotti e usi non rischia di provocare desertificazioni? “Se l’utilizzo del legno avviene in modo indiscriminato abbattendo le foreste, come avviene in Amazzonia, dove però c’è anche il problema di avere più aree coltivabili, l’impatto è enorme. Bisogna pensare sempre di utilizzare coltivazioni dedicate a questo scopo, utilizzando specie che non siano a rischio di estinzione”. E’ vero che esistono piante che purificano l’ambiente domestico? Se sì, quali sono? “Sì, è vero. Sono state studiate da alcuni ricercatori e sono in grado di diminuire la concentrazione delle sostanze volatili nocive che si formano negli ambienti chiusi come case, scuole, ambienti di lavoro. Sono Spathiphyllum floribundum, Dracaena, Ficus benjamin, Epipremnum aureum, insomma piante da appartamento che potete comprare nei vivai”. In alcune metropoli (Tokyo, New York ecc) non ci sono molte piante. Quali conseguenze a lungo andare può portare agli abitanti? “La presenza delle piante migliora la qualità dell’aria e pertanto la qualità della vita”. Esistono delle piante che ci possono liberare dall’inquinamento liberando gli inquinanti dal sottosuolo, vero? “Sì. Si parla in questo caso di fitodepurazione o fitorisanamento. Le piante sono in grado di estrarre molti inquinanti dal suolo e dalle acque”. E perché ne sono a conoscenza poche persone? “Perché manca in alcuni casi la diffusione delle notizie”. Ci sono operazioni di bonifica in atto in questo momento in Italia grazie alle piante? “Si sta lavorando in diverse zone. E’ da tenere presente ad esempio che esistono impianti di fitodepurazione delle acque inquinate. Stanno prendendo in 32
considerazione queste tecniche anche per cercare di risolvere il problema della terra dei fuochi”. Abbiamo letto che ci sono batteri “elettricisti” che producono energia da reflui e rifiuti. Può dirci qualcosa? “Sì, si può ad esempio produrre idrogeno utilizzando batteri (Clostridium), cianobatteri ed alghe verdi cresciuti su acque reflue e rifiuti dell’industria alimentare (siero di latte del formaggio) e delle attività agricole (reflui dei frantoi eccetera)”. Michele Lo Cicero, Gabriele Ambrosetti IIIE, San Nilo, Grottaferrata
PILLOLE DI
#GREENICITÀ di Francesca Mazzi
I
n questo articolo inizierò parlando di una rivoluzione dai risvolti inquinanti, per poi passare alle piante e a tutte le sostanze benefiche che si possono ricavare da esse; successivamente parlerò del significato di chimica e del significato del prodotto naturale; per poi concludere con l’intervista al giornalista scientifico Sergio Ferraris. LA RIVOLUZIONE IN UNA BUSTA Una grande rivoluzione che nacque dopo la seconda guerra mondiale fu quella delle shopper; ossia sacchetti di plastica la cui quantità prodotta è di circa mille miliardi all’anno. Pensate che ogni uomo in media ne usa 142,8 in un anno; e la maggior parte di questi sacchetti finisce in mare, dove le tartarughe li scambiano per meduse e li ingeriscono oppure ad esempio quando i cetacei o altri animali marini scambiano questi sacchetti per plancton e finiscono comunque per mangiarli. Le notizie che ho scritto derivano dall’intervento di Sergio Ferraris e da quello di Daniela Riganelli di Novamont al workshop di Giornalisti Nell’Erba. LE PIANTE E I LORO DERIVATI In ambito naturale mi vengono in mente le piante e tutto ciò che si può ricavare da esse; ad esempio dalle piante possiamo ottenere il cibo, le fibre da cui ricavare l’abbigliamento, i materiali delle costruzioni o anche i medicinali. Inoltre dalle piante come il taxus brevifolia vengono prodotti
IIA, Don Milani, Monte Porzio Catone
medicinali usati per la cura del tumore alle ovaie; e avreste mai pensato che i flavonoidi, ossia un gruppo di pigmenti che si trovano all’interno dei fiori, vengano utilizzati come coloranti per le caramelle?! Incredibile vero? E pensate che anche dall’espiantazione della pianta del tabacco si ricavano le vitamine. Tutte queste notizie le abbiamo ricavate dall’intervista a Cinzia Forni, docente di biologia all’Università di Roma Tor Vergata che era al workshop.
naturale. Un prodotto per essere naturale deve funzionare secondo l’ordine della natura; quindi il prodotto deve essere buono, salutare e benefico. Essere a base naturale non significa essere naturale, per questo arrivo alla conclusione che chimica non significa necessariamente “cattivo” e che naturale non significa necessariamente “ buono”. Questo è ciò che ho ricavato dall’intervento della professoressa Valeria Conte, docente di chimica green all’Università di Roma Tor Vergata. Al giornalista Sergio Ferraris ho fatto domande dirette: Le certificazioni green servono davvero? “Sì, servono ancora di più se sono europee e non dei singoli Paesi; ad esempio l’Ecolabel assicura che i parametri ecologici siano rispettati da tutti i Paesi europei”.
LA CHIMICA E IL NATURALE La chimica è la scienza che studia il modo di reagire delle sostanze sia naturali sia artificiali. Non è un’“invenzione dell’uomo”, ma una scienza naturale perché descrive tutto quello che esiste e che si può toccare. La chimica è la scienza di cui ci accorgiamo solo quando, ad esempio, un’ autocisterna di benzina finisce in un fiume e ciò vuol dire: inquinamento! Quindi noi della chimica avremo sempre un pensiero negativo. Un pensiero che è legato a quello di cose non sane, non “naturali”, ma un pensiero scorretto, perché la chimica stessa è una scienza
Ce ne sono alcune preferibili ad altre? “Sì, anche se da enti diversi, l’importante è che sia garantita la qualità naturale del prodotto”. I prodotti certificati sono facilmente individuabili dai consumatori? “Di solito sì, se si leggono le etichette; ad esempio sull’etichetta dell’olio di palma ci deve essere scritto che comunque è olio di palma e non vegetale. Inoltre sulle etichette degli elettrodomestici dovrebbe esserci una traduzione in termine ecologico finanziale, ossia quanto il cliente riesce a risparmiare su un determinato prodotto”. 33
IL MATER-BI
® UN’INNOVAZIONE NEL CAMPO DELLE BIOPL CONVIENE DAVVERO USARLO? di Patrizio Guerzoni, Lorenzo Menichelli Scuola media San Nilo, Grottaferrata
VANTAGGI - ha un tempo di biodegradazione di qualche mese sia negli impianti dedicati (compotatori) che in mare (in circa dieci mesi) contro i 1000 anni richiesti alle altre plastiche - non rilascia sostanze pericolose nel terreno e nel compost in cui si decompone SVANTAGGI - non riesce a sostituire tutte le plastiche derivanti dal petrolio, quindi alcuni tipi di plastica tradizionale rimangono ancora in circolazione; - in futuro sarà necessario trovare risorse rinnovabili che non vengono utilizzate per la produzione di cibo per evitare crisi alimentari dovute all’aumento di popolazione
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Secondo la definizione corrente una bioplastica è un materiale completamente biodegradabile derivante integralmente o parzialmente da risorse rinnovabili (ovvero vegetali). Il Mater-Bi® è il nome commerciale della bioplastica brevettata da Novamont. Essendo biodegradabile e compostabile, consente sempre una buona gestione dei rifiuti. Il Mater-Bi® si ottiene grazie alla trasformazione industriale di varie risorse rinnovabili tra cui l’amido di mais e oli vegetali di varia natura. È utilizzato principalmente per la produzione degli shopper, sacchi per la raccolta differenziata, ma anche nel catering, prodotti per l’igiene e l’agricoltura. Presenta vari vantaggi: rappresenta un servizio alla raccolta differenziata perchè attraverso l’uso di shopper o sacchi dedicati, la frazione organica raccolta è pulita e puo’ essere interamente compostata proveniendo da fonti rinnovabili (le piante fissano la CO2 con la fotosintesi) riduce la CO2 in atmosfera che viene poi restituita al suolo grazie al processo di compostaggio.
Per avere le idee più chiare sulla bioplastica, abbiamo posto delle domande alla dott.ssa Daniela Riganelli, consulente della Novamont. Oltre ai vantaggi, la bioplastica presenta anche degli svantaggi? “Vantaggi e svantaggi della bioplastica sono in relazione con l’uso che se ne fa, nel senso che, se volessimo ad esempio sostituire tutta la plastica usa e getta (shopper, piatti, bicchieri ecc.) con la bioplastica lasciando invariate le nostre abitudini, probabilmente andremmo a consumare risorse inutilmente. Quando invece si sono introdotti gli shopper compostabili, la legge diceva che era vietata la plastica usa e getta e non che fossero obbligatori gli shopper compostabil, ma che questi potevano sostituire l’usa e getta nel caso non si avesse a disposizione un sacco riutilizzabile. Questo ha portato ad un radicale cambiamento nelle abitudini degli italiani che hanno re-imparato ad usare sacchi riutilizzabili (le famose sporte) e il consumo della plastica usa e getta si è ridotto del 50%. In conclusione, il mas-
Greenicità e multinazionali, intervista a mio papà impiegato di Leroy Merlin Come fanno le aziende a essere (più) green? Dopo aver partecipato a un workshop di Giornalisti Nell’Erba su questo argomento, ho pensato di fare una piccola intervista a mio padre che è impiegato presso Leroy Merlin, per farmi raccontare la sua esperienza di “greenicità” all’interno della sua azienda.
LASTICHE. simo vantaggio della bioplastica si ha quando viene usata in un’ottica di reale risparmio delle risorse e per un cambiamento degli stili di vita.”
proprio marchio sulle buste. È infatti necessario stare attenti al falso BIODEGRADABILE perché quando c’è scritta solo questa parola, non vuol dire nulla e spesso è plastica (in genere polietilene) con un additivo che a tempi non dichiarati prima o poi si degrada.”
Le buste di Mater-Bi® sono al 100% biodegradabili? “Come si può notare sopra, ho parlato di compostabili e non di biodegraÈ giusto usare il mais per scopi indudabili, perché la biodegradazione è un striali piuttosto che alimentari? concetto che di per sé ci dice solo che “Questa è una vecchissima questione un oggetto si trasforma in anidride carche viene sempre a galla, ma è necesbonica ed acqua ad opera di microrgasario considerare varie cose. nismi. Però non ci dice né in quanto tempo né in quali condizioni. E prima 1) in primo luogo, le bioplastiche non o poi tutto si biodegrada… usano solo mais, ma anche altre coltuGli shopper in Mater-Bi® invece sono re e la ricerca sta lavorando per usare biodegradabili e compostabili seconsempre di più piante che non vengono do una normativa europea (si chiama usate per mangiare EN13432) che dice in quanto tempo (3 2) l’amido è stato da sempre usato mesi), in quali condizioni (impianto di nell’industria della carta, dei tessuti (il compostaggio) e in cosa si trasformafamoso appretto), delle colle…L’uso no (anidride carbonica, acqua e altre che se ne fa per le bioplastiche è sostanze che non sono nocive nel comquindi abbastanza marginale post finale). Quindi posso dire che sì, 3) il mais, in massima parte, non viesi biodegradano al 100% (anche se la ne usato per l’alimentazione umana, norma parla di un 90% perché c’è l’erma animale, e questo fa sì che ci sia un rore sperimentale) con tempi certi e grande dispendio di terreno per coltidefiniti. Esistono addirittura degli enti vare foraggio. Se mangiassimo meno certificatori (tipo il CIC, Consorzio Itacarne, infatti, risparmieremmo più terliano Compostatori) che sono andati reno che usando bioplastiche. Bisogna proprio a vedere se infatti considerare i sacchi in Materche per produrDal colloquio con la dott.ssa RiBi® rispettano quere una tonnellata ganelli, emerge dunque che usare sta norma nei loro di Mater-Bi® seril Mater-Bi® è un’ottima azione di impianti di comvono 0.03 ettari salvaguardia dell’ambiente. Aupostaggio. E dato coltivati a mais, spichiamo una diffusione ancora che ne hanno veper produrre una maggiore di questa bioplastica! rificato la rispontonnellata di carne denza, mettono il servono 4 ettari!”
Come fate ad inquinare di meno? “Per inquinare di meno nella nostra azienda abbiamo messo in campo alcune azioni: la produzione autonoma di energia elettrica per i nostri negozi costruendo pannelli fotovoltaici, il risparmio di carta con l’adozione della documentazione elettronica (tutte la fatture dei fornitori e tutte le pratiche di comunicazione sono per via telematica), l’’apertura di una città logistica dove convergono tutti gli scarichi di fornitori cosi da non dover trasportare le merci con i mezzi a carburante ma con il treno” . Ci sono prodotti ecosostenibili nel negozio? “Sì, ci sono molti prodotti “eco” (abbreviazione di ecosostenibile) in vendita, tra cui il legno che viene acquistato solo da fornitori con aziende certificate a basso impatto ambientale, e i combustibili a biomassa , pellet e bioetanolo e tutti i prodotti a risparmio energetico che fanno parte di un progetto che si chiama “la casa di domani”” . Che cos’è questo progetto? “Questo progetto spiega ai clienti come creare una casa capace di farti risparmiare , con prodotti che migliorano il rendimento energetico e la qualità dell’aria con una certificazione “eco” ufficiale”. La vostra azienda fa la raccolta differenziata? “Sì, in tutti i negozi ci sono dei macchinari chiamati presse dove appunto vengono differenziati cartoni e plastiche che vengono poi rivenduti” . Ci sono delle persone che si occupano solo di prodotti ecosostenibili ? “Sì, queste persone fanno parte di un gruppo inglese, il “green group”, che controlla tutta la filiera dei prodotti eco, dal produttore al consumatore”. Alessandro Fumanti II E San Nilo, Grottaferrata
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SHOPPER di Mattia Spera e Lorenzo di Stefano,
Scuola media San Nilo, Grottaferrata
La bioplastica è un materiale innovativo, più sostenibile rispetto alla plastica tradizionale. Ad adottarla, ci sono solo vantaggi? La plastica è un materiale utilizzato per creare vari oggetti che possono migliorare la nostra vita. Purtroppo però, inquina molto! Per questo è stata messa a punto la bioplastica, ossia una plastica biodegradabile e compostabile, fatta di materiali che quando vengono buttati, si distruggono più velocemente. Con questa bioplastica, fatta con amido di mais, vengono prodotte delle buste (shopper). Nei supermercati si possono trovare alle casse, per portare a casa i prodotti acquistati. Diverso è il discorso per le buste che servono per frutta e verdura. A differenza delle buste che si acquistano alla cassa a fine spesa, queste non vengono fatte pagare al consumatore e sono quindi a totale carico del supermercato. Per questo motivo, i supermercati utilizzano per frutta e verdura le classiche bustine di plastica non compostabili, contribuendo notevolmente all’inquinamento. Il discorso delle shopper è molto vario: alcuni supermercati dichiarano di usare shopper in bioplastica, ma non sempre è vero (magari consumano scorte di shopper in plastica tradizionale accumulate negli anni), altri – pur usando shopper in bioplastica – non ne incentivano l’uso fra i clienti, dicendo che sono prodotti di scarsa qualità e che si rompono con facilità. Senza dubbio la bioplastica ha dimostrato di avere molte qualità e di rispettare l’ambiente, potrebbe rivoluzionare il mondo, ma è necessario che venga usata in maniera più capillare e soprattutto che vada a sostituire totalmente la plastica tradizionale nel trasporto della nostra spesa. 36
Plastica e bioplastica di di Noemi Cusimano, Jacopo Morresi,
Rebecca Gabrieli
ATTENTI AL GREEN di Samuele Melis
I E dell’I. C. Frascati via d’Azeglio
II D dell’I. C. Frascati via d’Azeglio
Negli ultimi anni sta diminuendo l’uso delle buste di plastica derivata dal petrolio. Forse non tutti sanno che il “padre” della plastica è stato un italiano e che la sua invenzione non ha portato solo danni, infatti si è cominciato a sostituire parti di automobili con la plastica e di conseguenza il loro peso è diminuito insieme all’energia per farle muovere. D’altra parte dobbiamo ricordare che ad esempio in Italia il 13,3% dei rifiuti è costituito da buste di plastica. Ognuno di noi usa mediamente circa 142,8 buste di plastica all’anno che spesso vanno a finire nel mare e fanno soffocare tantissimi animali che le scambiano per pesci e meduse. Per smaltire questo tipo di polimero ci vogliono anni ed anni. Per questo si è cominciato a proibirne l’uso e l’Italia è stato il primo Paese ad aderire a questa iniziativa. Ed è italiana anche la Novamont, l’azienda che produce materiali biodegradabili tra cui appunto bioplastica derivata dall’amido di mais. Le buste in materbi non solo evitano di inquinare, ma essendo biodegradabili si decompongono autonomamente in pochissimo tempo. Questi prodotti “bio” però hanno ancora dei difetti, perché sono fragili avendo uno spessore minimo rispetto a quelli di plastica derivata dal petrolio che riuscivano a sostenere un peso maggiore. Inoltre tenendo conto della quantità di mais che serve per produrre tali buste, il costo di questo prodotto agricolo secondo alcuni potrebbe aumentare a danno delle popolazioni che si cibano di mais. La strada per liberarci dagli orribili sacchetti è appena iniziata, il cammino è ancora lungo e passa attraverso la Riduzione.
Green è una parola molto semplice che significa verde. Nella nostra quotidianità la usiamo per descrivere un prodotto sano e genuino proprio perché il verde ci dà un senso di naturalezza. Green, infatti è l’aggettivo che indica tutto ciò che non è dannoso per l’ambiente quindi di ecologico. Ma … c’ è sempre un ma, cerchiamo di non farci imbrogliare da questa parola. Ad esempio se prendiamo una busta di plastica e la coloriamo di verde, possiamo dire che è green? Per il colore sì, ma di fatto non è per niente ecologica perché la plastica è una sostanza ricavata dal petrolio ed è tossica per la terra e soprattutto quando viene bruciata negli inceneritori emette gas nocivissimi. Cerchiamo quindi di essere attenti a questa parola perché spesso inganna. In Argentina è stata commercializzata una “Coca Cola” che ha un’etichetta verde con una scritta sopra:” Life”, vita. L’ industria della Coca Cola vuol farci pensare ad una bibita biologica, il che è impossibile per via delle sue sostanze. Ovviamente tutto ciò è stato fatto per indurci a comprarla. Ancora è noto a tutti che spesso vengono pubblicizzate creme al cocco e un’infinità di cosmetici “Naturali” che di naturale hanno molto poco perché sono stati prodotti nei laboratori con sostanze chimiche; perciò non pensiamo che un prodotto a base di cocco sia realmente naturale. Il che però non vuol dire che sia migliore o peggiore.
GREENICITÀ
NON È UNA PAROLACCIA
Professoressa Dragotto*, cosa pensa della parola “greenicità”? La trovo efficace. Non le sembra una parola “brutta”, come ha commentato qualcuno? Questo tipo di lamentele di solito le avanza il purista della lingua, chi parla di contaminazioni anziché di interferenze linguistiche. Le interferenze linguistiche sono un fatto normale, che in questo caso mi sembra giustificato da un antecedente, quello che ci porta a usare la parola inglese “green” invece dell’italiano “verde”: è una storia che ha quarant’anni, quindi il termine “green” è ormai acclimatato e possiamo considerarlo italiano. Altrimenti dovremmo annoverare tra le parole straniere anche “bar” e “stop”, che invece i parlanti avvertono e trattano come italiane, tanto che ne fanno derivare “barista” e “autostoppista”. Allo stesso modo “green” ora è avvertito come diffuso e acclimatato, quindi inizia a fare da base per parole derivate. Analizziamo “greenicità” dal punto di vista linguistico. E’ un neologismo che trova le sue ragioni all’interno della lingua italiana. Stiamo parlando di sostantivi deaggettivali, cioè che hanno alla base un aggettivo: in questo caso “green”. In italiano molti deaggettivali terminano in –ezza, per esempio “bellezza” che viene da “bello”. Però esiste un certo numero di deaggettivali che terminano in –ità, rappresentando un precedente importante per la parola che esaminiamo. Nei deaggettivali in –ità solitamente c’è un forte riferimento al nucleo di significato fondamentale della base di partenza: “-ità” significa “caratteristica di ciò che è in un certo modo”. E ci sono circa 200 deaggettivali in –icità: per esempio “elettricità”, “liricità”, “storicità”… Questa terminazione di solito ha una connotazione di natura tecnica. Seondo lei come mai si è formato “greenicità” invece di “greenità”? Come dicevo, –icità conduce verso campi tecnici. Le parole che terminano così sono in gran parte termini che hanno conno-
tazione tipica dei linguaggi tecnico-specialistici, anche del filosofico, religioso… Tutto ciò che fa parte di un bagaglio della lingua non di base ma connesso con necessità di riferirsi ad ambiti specialistici. E “green” ce lo siamo preso come doppione di “verde”, ma abbiamo fatto un prestito polarizzato alla connotazione che va a guardare i movimenti politici che si sono affermati, all’estero e poi in Italia, scegliendo il verde per fare riferimento a politiche di tutela dell’ambiente. Un dominio di per sé tecnico, che successivamente è diventato di ampia diffusione. Poi, a far propendere la scelta dei parlanti verso “greenicità” ci può essere stata una ragione eufonica: “greenità” non suona altrettanto bene, e neanche “greenezza”. E “verdità”? In contesti filosofici può indicare l’essenza del verde, ma in questo caso non sarebbe stato efficace quanto “greenicità” perché il primo rinvio al livello del significato operato dai parlanti non sarebbe stato alle politiche di sostenibilità o di salvaguardia ambientale, ma al colore. Invece “green”, come dicevo, è stato “preso” dai parlanti italiani per indicare altri significati oltre al colore. Quindi possiamo sentirci autorizzati a usare greenicità anche fuori dalle virgolette! E a chi obietta che è una parola che non si capisce, cosa possiamo rispondere? Possiamo fare un’indagine sociolinguistica su quanti delle generazioni più anziane o meno colte saprebbero capire greenicità, ma ce lo possiamo chiedere anche per “navigare in internet”, “computer”, eccetera. *Francesca Dragotto, linguista, docente a Scienze della Comunicazione Università di Roma Tor Vergata Mattia Lombardi
21 anni, Frosinone
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FALSI MITI SU
CHIMICA E BIOPLASTICHE
INTERVISTA A DANIELA RIGANELLI DI NOVAMONT
di II C Scuola Media I.C. Frascati via D’Azeglio
Perché secondo lei la parola “chimica” sembra che abbia il significato di qualcosa che fa male? La consuetudine a vedere la “chimica” come qualcosa di cattivo l’abbiamo imparata a nostre spese dai disastri ambientali, dalle malattie che ne sono derivate e magari anche da un certo tipo di insegnamento che ha fatto vedere questa materia come una delle più difficili e talvolta inutili che abbiamo affrontato nel corso degli studi. Da cosa possiamo capire se una pubblicità di qualche prodotto ci sta ingannando? Il problema non è tanto la chimica (termine che viene assolutamente evitato nelle comunicazioni pubblicitarie), quanto l’allusione che in quel determinato prodotto la chimica sia completamente assente. Il consumatore viene quindi accattivato da termini come “naturale” che non vuol dire nulla perchè molte cose possono anche essere naturali ma dannose (pensiamo ad un pesce naturale che è andato a male, ha prodotto tossine naturali che possono anche uccidere) o magari scrivono “in assenza di conservanti” quando in alcuni casi non ci sono mai stati in quel prodotto... Il problema pero’ che ritengo più rilevante nella disinformazione sulla chimica è l’uso che ne viene fatto quando in alcuni articoli divulgativi quando si vuole mettere in cattiva luce un determinato prodotto o uno stile di vita. Ho letto ad esempio un articolo allarmistico sulla 38
raffinazione della farina dal quale il lettore trae certamente l’impressione di dover morire da un momento all’altro per il solo fatto di mangiare una rosetta.... e guarda caso tutti i problemi sono dovuti a “prodotti chimici” che “sbiancano e intossicano la nostra farina”. Personalmente ho risposto pubblicamente spiegando che ossido di cloro e di azoto non corrispondono a nessuna sostanza chimica perché ne esistono di molti tipi. In particolare gli ossidi di azoto sono gassosi e sono alcuni tra gli inquinanti più pericolosi presenti nell’aria, non ho idea di cosa possono usare nelle farine...Per il cloro potrebbe eventualmente trattarsi di ipoclorito che è pure la varichina e la amuchina (in varie %). Dire ossidi chimici non vuol dire niente perché tutta la crosta terrestre è un ossido di qualche elemento”. Questo per dire che a mio parere basterebbe sapere che la farina 0 o 00 e’ un fattore predisponente il diabete e (forse) la celiachia per farci stare attenti ad usarne quantità limitate, e invece continuiamo ad anteporre lo spauracchio della chimica come se noi esseri viventi fossimo fatti di etere. Tutto è chimica. Come si fa a riconoscere se dicono delle cose vere o false? Io ho delle semplici regole: • Quando mettono tante, direi troppe informazioni allora molte sono false o esagerate (dubitate sempre quando si parla di 10 regole per capire questo o quello).
• Quando non c’e’ nessun riferimento certo e serio (Istituti nazionali di ricerca, università, altra letteratura) • Quando scrivono “composto chimico di sintesi” senza specificare. Questa affermazione davvero non vuol dire nulla perchè se un composto è tossico lo sarà sia di sintesi che naturale, viceversa se una molecola è innocua lo è sia se estratta dalle piante che sintetizzata per via chimica. Fate una prova: andate a vedere in rete cos’è il Dihydrogen Monoxide – DHMO. Sembra una formula chimica terribile... vedrete come è possibile manipolare l’informazione. Quante tartarughe (circa) hanno subito danni a causa delle buste plastiche? Non si sa il numero esatto. Per rispondere mi baso su un documento UNEP, in cui si dice che su 7 tartarughe analizzate, 6 hanno mostrato di aver ingerito plastica. Il problema non sono solo le buste di plastica che soffocano pesci e tartarughe ma anche che si frantumano in piccolissime particelle simili al plancton (microinquinamento). I pesci o le balene li mangiano e si sentono sazi, ma invece... Quali zone sono più inquinate a causa di queste buste plastiche? Secondo il rapporto che ha fatto l’UNEP si evince sfortunatamente che non ci sono zone particolarmente inquinate e zone pulite. Il micro e nano inquinamento si estende in tutte le parti del globo, dal Mare del Nord fino al Mar Artico. Anche nel Tirreno infatti, in particolar modo al sud, si sono trovati oltre 13 oggetti per Km2 di cui il 95% è plastica. Quanto ci mettono le buste plastiche a dissolversi nell’ambiente? E’ un dato che non abbiamo (almeno non io) perché dipende molto dalle condizioni atmosferiche, dalla temperatura ed altre cose. Comunque parliamo di decine di anni anche 100 o 1000 (ma nessuno hai mai vissuto tanto a lungo) in funzione del tipo di plastica e dagli spessori. Una cosa però è certa: i legami chimici con cui sono fatte le plastiche non sono “noti” ai microgranismi che non sono quindi in grado di “digerirli”. Come se noi mangiassimo solo cellulosa (carta) o plastica; il nostro organismo non è in grado di spezzare molecole cosi’ complesse e quindi passano intatte nel sistema digerente.
produrre una tonnellata di carne di manzo servono 4 ettari di coltivazioni a foraggio mentre per produrre una tonnellata di bioplastica (quante buste si producono se ognuna è 24 grammi?) servono 0,03 ettari (vedi pag 79-80 Rapporto Sostenibilità Ambientale Novamont). Visto che gli alimenti bio costano di più, anche le buste biodegradabili hanno un costo maggiore? Il metodo di produzione del biologico non è correlato con le bioplastiche biodegradabili anche se tutte queste parole hanno il prefisso BIO. Biologico è un metodo per produrre cibo (coltivazioni, allevamenti, trasformazioni) che non fa uso di prodotti chimici (diserbanti, insetticidi, fertilizzanti) che siano anche inquinanti della natura. L’idea del biologico è semplicemente aiutare la natura a produrre senza forzature chimiche. In genere i prodotti costano di più perché le rese sono più basse. Per le bioplastiche invece il costo maggiore è dovuto al fatto che le materie prime devono essere prima prodotte (e non è detto che siano esse coltivate secondo i principi del biologico, anche se sarebbe preferibile) e poi trasformate con metodi che si stanno mettendo a punto ora. Il petrolio invece è ancora troppo a buon mercato (non deve essere prodotto ma solo estratto) e le produzioni sono ormai standardizzate da decine di anni. Tra qualche anno quando il petrolio finirà (dicono circa 40 anni), questo diventerà così costoso che sarà più conveniente usare le biomasse. Per creare le buste biodegradabili si impiega tempo maggiore delle solite buste? Per produrre le buste è necessario una macchina (chiamata filmatrice) che fonde i granuli di plastica (o bioplastica) e ne fa una pellicola come quella delle foto. Le macchine che filmano il Polietilene (la plastica delle buste) sono praticamente uguali a quelle che filmano il Mater-Bi. Quindi direi che nel processo di filmatura non ci sono differenze. Per la produzione del granulo invece valgono i discorsi fatti sopra. La bioplastica è una nuova tecnologia e le produzioni non sono così ottimizzate come il vecchio polietilene.
Utilizzando il mais per produrre buste biodegradabili, non si rischia che scarseggi per l’alimentazione dei popoli? L’amido (che per altro è solo una parte della bioplastica) è usato per le bioplastiche e per altri scopi industriali da sempre ma non solo, in genere viene coltivato non tanto per alimentazione umana quanto per alimentazione animale. Per 39
BUSTE AL BANDO IN
CALIFORNIA di Antonio Fragola, 17 anni, Roma
La riduzione del consumo di borse di plastica va nella giusta direzione
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uel che l’Italia ha deciso già da tempo, lo Stato della California sta faticosamente mettendo a punto oggi. Non sempre, dunque, il nostro Paese è fanalino di coda. Nel caso della messa al bando delle buste di plastica per la spesa, infatti, l’Italia ha preso la decisione nel 2011. E’ di questi giorni (l’Ansa la riporta il 26 febbraio 2014) la notizia che 100 comuni californiani hanno deciso di vietarle e le autorità statali – secondo il New York Times – stanno pensando di fare una legge per proibirle in tutto lo Stato: la California diverrebbe così uno dei primi stati americani a vietare le buste di plastica. Uno dei primi, perché, in effetti, tutte e quattro le contee delle Hawaii, il 2 gennaio scorso, hanno approvato una norma che vieta i sacchetti, che sono spariti dai supermercati il 17 gennaio, mentre si attende la decisione della contea Kalawao, piu remota e poco popolata. “Al pubblico sono divenuti chiari i danni ambientali che una singola busta può causare” afferma Alex Padilla, il senatore che spinge per il divieto. Nel testo della proposta di legge
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è previsto il divieto per i supermercati e i negozi. Le buste di carta o quelle riutilizzabili saranno a disposizione dei clienti per 10 centesimi, una piccola quota con la quale si punta a costringere gli amanti dello shopping a ricordare le proprie buste di tela. Come in Italia: fino al 2010 il nostro era il primo paese europeo per consu-
“Al publico sono divenuti chiari i danni ambientali che una singola busta può causare” mo di sacchetti di plastica usa e getta, con una percentuale di consumo pari al 25% del totale commercializzato in Europa. Dal 2011, questa percentuale si è notevolmente ridotta, ma è ancora troppo alta (181 buste a testa). La Commissione europea, intanto, ha presentato lo scorso novembre una proposta di direttiva che modifica la legislazione comunitaria in vigore sugli imballaggi e i rifiuti d’imballaggio per ridurre il consumo delle buste di plastica o sportine usa e getta, individuate come quelle particolarmente sottili, con spessore inferiore a 50 micron (sono dunque esclusi i sacchi della spazzatura o quelli per la raccolta differenziata, più spessi e robusti, ma sono incluse le sportine biodegradabili comprese quelle fabbricate a partire dal mais). Gli Stati membri
saranno tenuti a prendere delle misure per scoraggiare il consumo delle buste di plastica usa e getta, ma potranno scegliere se agire attraverso disincentivi economici (come imposte o prelievi che aumentino il prezzo della sportina), obiettivi nazionali di riduzione, o anche divieti di vendita o altre restrizioni alla commercializzazione, che finora non erano possibili secondo la legislazione Ue. L’Italia, in realtà, aveva già scelto la terza opzione (vietando, tuttavia, solo le buste usa e getta di plastica tradizionali, non quelle biodegradabili), ed era perciò incorsa in una procedura d’infrazione da parte della Commissione europea, procedura che a questo punto è stata congelata. La proposta della Commissione Ue ha trovato subito il sostegno dell’ex-ministro dell’Ambiente Andrea Orlando che ha detto di sostenere “con convinzione l’iniziativa della Commissione Europea” rivendicando “con orgoglio che l’Italia in questa materia è all’avanguardia, avendo una normativa che mette al bando i sacchetti che non siano di materiale biodegradabile e compostabile. La riduzione del consumo di borse di plastica va nella giusta direzione della protezione dell’ambiente e dell’uomo da uno dei più insidiosi fattori di inquinamento”, ha concluso il ministro.
Green, social network
E LA VERIFICA DELLE FONTI
I
siti green sono siti che si occupano dell’interesse comune sulla salvaguardia dell’ambiente e quindi sui cambiamenti climatici, sulle energie rinnovabili,sul riciclo creativo. Essi sono un punto d’incontro per le persone che hanno uno stile di vita green e possono informare le persone interessate. Ci sono alcuni motori di ricerca che controllano le emissioni di CO2, delle community on-line per la ricarica dei veicoli elettrici e la condivisione di notizie eco-friendly, o ancora delle comunità per preservare la salute del pianeta. I GREEN SOCIAL NETWORK sono una grande occasione per coinvolgere persone di ogni età al fine di promuovere l’urgenza delle tematiche green. Ne citiamo alcuni. WISEREARTH WiserEarth è un social network che, nonostante sia sorto da pochi anni, conta già 72mila utenti registrati attivi in tutto il mondo. Unisce le tematiche ambientali a quelle sociali e culturali. E’ più una comunità on-line che un social network : si può sia scrivere o commentare un’opinione, sia informarsi su come risolvere alcuni problemi del nostro pianeta. Questo social network permette di informarsi sul benessere del nostro pianeta prendendo consapevolezza della gravità dei problemi ed ha l’ambizione di riunire gruppi, comitati, associazioni, cittadini di tutto il mondo intorno alle telmatiche dell’ambiente. TREE-NATION Tree-Nation pianta alberi e si dedica al cambiamento climatico e al problema dell’aumento delle temperature. A questi problemi propone delle soluzioni che possono essere attuate da chiunque: riciclo corretto dei rifiuti, riduzione dello spreco d’acqua, riduzione o rinuncia
Danae Lizzi
San Nilo Grottaferrata
della carne in una dieta, spostamento su mezzi pubblici o in bici, insomma azioni di vita quotidiana per migliorare il nostro ecosistema. Il social network tratta anche di altri temi come la lotta contro la desertificazione e la deforestazione. Come soluzione a questi gravi problemi ha deciso di seminare degli alberi. Ognuno può decidere di piantare un albero: basta iscriversi e prendersene cura nelle zone disponibili. Ad oggi gli alberi piantati sono quasi 760 mila. Entro il 2015, promettono che ne saranno piantati 8 milioni. CARE2 Care2 è una grande community, con più di 25 milioni di membri, che parla di tutto ciò che riguarda il vivere green. Tiene aggiornati i suoi utenti sulle battaglie del giorno e sulle petizioni online da firmare per rendere rilevante il proprio contributo per la salvaguardia del pianeta. BIORADAR Bioradar è un social network dedicato agli utenti che vogliono rimanere informati su attività ed eventi riguardanti tematiche green. Chiunque può registrarsi gratuitamente per venire a conoscenza delle attività sul territorio riguardanti la salute, la cultura, il benessere e il fai da te. Ma la vera novità è il motore di ricerca TrovaBio su cui è possibile scoprire nuove realtà nelle vicinanze per un corretto stile di vita. La ricerca di queste attività può essere un nuovo modo per rispettare l’ambiente in cui viviamo. Ma i Green Social Network hanno preso piede nel nostro Paese? E sono influenzati dalle aziende? Abbiamo fatto qualche domanda a Simona Falasca, direttore responsabile di Greenme.it e Greenbiz.it. “Se è vero che i social hanno successo anche in casa nostra - ci dice Falasca - non funzio-
na così se si parla dei social che si occupano di argomenti specifici. A dire il vero, neppure io ho mai creduto in Social Network tematici (compreso quelli green) in quanto, secondo me, Facebook, Twitter e gli altri tendono a fagocitare un po’ tutto e gli utenti tendono a creare community specifiche all’interno di quelli. Detto ciò, osservando gli esempi che mi hai mandato mi colpisce in particolar modo Bioradar che permette alle piccole aziende green di avere una bella vetrina ed entrare in contatto con utenti interessati. Si tratta di piccole realtà imprenditoriali che non mi pare abbiano “il potere” di influenzare la scelta della linea editoriale. Anche Wiser, ad esempio, che è una realtà più internazionale, dà ampio spazio all’etico e alle associazioni”. I green social network sono davvero così utili o le notizie vanno sempre filtrate e interpretate ? “Penso che valga il discorso che si fa per tutti i canali di informazione ovvero che le notizie che circolano, dalla televisione, ai giornali al web, vanno sempre “prese con le molle” e, quando si hanno dubbi o voglia di approfondirle, risalire alla fonte. Il fatto che, al contrario di molte altre realtà che operano sul web, tendano a citare e linkare la loro fonte, conferisce maggiore credibilità. Fermo restando che il miglior filtro è quello che fa il lettore e il proprio senso critico”. I Green Social Network possono essere dunque un nuovo mezzo di diffusione utile per la salvaguardia e la tutela dell’ambiente, soprattutto perché il Web è il servizio più utilizzato negli ultimi anni e farne anche un uso per questioni importanti e urgenti come quella ambientale è diventato necessario. 41
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TERZA INCHIESTA COME SI MISURA LA
GREENICITÀ
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COME SI MISURA
WORKSHOP DI GIORNALISMO LA GREENICITA’ PER IMPARARE COME di Paola Bolaffio FUNZIONA IL GREEN
L
a terza puntata del ciclo SI FA PRESTO A DIRE GREEN è sulle certificazioni e i metodi per la misurazione dell’impatto ambientale. I partecipanti hanno avuto la possibilità, al workshop del 20 marzo 2014, di ascoltare ed intervistare Tullio Berlenghi, giurista esperto in diritto ambientale, Sergio Ferraris, giornalista specializzato in questioni energetiche e referente per la qualità dell’informazione scientifica di FIMA, Fabio Iraldo, professore associato di Management ambientale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e direttore della Ricerca IEFE (Centro di ricerche politiche economiche energetiche e ambientali della Bocconi) e indagare sul caso scelto del percorso di valutazione ambientale intrapreso da Carlsberg Italia, rappresentata nell’occasione da Laura Marchini, capo ufficio comunicazione dell’azienda birraia, prima ad aver ottenuto nel mondo la certificazione EPD. Un grazie particolare, in questa occasione, lo dobbiamo ad Alfredo Macchi, inviato speciale delle reti Mediaset, che ha moderato l’incontro: grazie al suo coordinamento anche i temi complessi come quelli previsti da questo workshop (già solo la parola misurazione è poco attraente) sono arrivati a destinazione. Immancabile e prezioso l’angolo delle parole, con il linguista Diego Scipioni e il suo focus sul valore performativo del linguaggio (“dire è far credere...”) e sull’uso dei numeri per “misurare” a parole la greenicità. Come sempre, non tutti i partecipanti, che sono intervenuti da varie facoltà ed università romane, hanno scritto. La partecipazione al workshop è valsa come credito formativo per gli studenti della facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma Tor Vergata. 44
di Filippo Maria Mazara 28 anni Roma
L’
importanza di salvaguardare l’ambiente è un argomento da insegnare a tutti i consumatori e i cittadini, grandi e piccoli.
L’educazione deve partire dall’inizio; ne è d’esempio il workshop di Giornalisti Nell’Erba che si è svolto il 20 marzo presso l’Università di Tor Vergata nell’Aula Magna Macroarea di Scienze. Il workshop ha avuto come parola chiave, “greenicità”, che racchiude sia un concetto “glocale”, come direbbe Bauman, ma anche globale. Si è preso in esame il caso della Carlsberg Italia, che è stata la prima azienda birraia ad avere la certificazione EPD (Environmental Product Declaration), un’ etichettatura di conferma requisiti del prodotto al Programma Internazionale. Per la Carlsberg è intervenuta Laura Marchini, responsabile Comunicazione di Carlsberg Italia, che ha illustrato il percorso industriale dell’azienda, sino ad arrivare alla soluzione vincente di confezionare la birra sull’impiego di un nuovo fusto in PET. La fase di spillatura, processo per confezionare la birra, viene fatta esterna al fusto, e non più tramite bombole cariche di CO2. In questo modo, oltre a rispettar l’ambiente, il prodotto si mantiene più a lungo e con più qualità. Ad aprire l’evento è stata Paola Bolaffio, direttore e organizzatrice di “Giornalisti Nell’Erba”, che ha mostrato di cosa si occupa il progetto “Si fa presto a dire green”. Sono quattro incontri con tema il rispetto dell’ambiente, dove i ragazzi possono interagire e apprendere i primi passi nel mondo dell’informazione mediante interviste agli interessati, articoli di giornale e tre mini contest inerenti al tema. A seguire il direttore di QualEnergia, Sergio Ferraris, ha stupito gli astanti, quando ha introdotto il concetto di obsolescenza programmata. Ossia, alcune aziende programmano il ciclo vitale di un determinato prodotto, al fine di venderne uno nuovo, tenendo conto della fiducia che il cliente nutre per quell’azienda dopo che per il lasso di tempo che intercorre tra uso e usura, si sia affezionato al marchio. Hanno preso parte anche Tullio Berlenghi, giurista esperto di diritto ambientale; Fabio Iraldo, professore associato di Management ambientale e direttore della Ricerca IEFE (Centro di ricerca politiche, economiche, energetiche ed ambientali presso la Bocconi); ed il linguista della Facoltà di Scienze della Comunicazione di Tor Vergata, Diego Scipioni che ha parlato di ambiguità semantica e di altri escamotage che usano alcune aziende, celandosi dietro al concetto di essere green. Moderatore dell’evento è stato l’inviato speciale Mediaset, Alfredo Macchi.
ANCHE IL MINISTERO DELL’AMBIENTE VUOLE MISURARE LA GREENICITÀ di Adalberto Cossetti, 25 anni, di Roma
Tutti volontari, selezionati dal ministero stesso o autoproposti. Lo scopo, secondo l’idea di Clini è quello di trovare un modo per misurare l’impronta ambientale (carbon footprint e water footprint) dei prodotti/servizi e quindi “di sperimentare su vasta scala e ottimizzare le differenti metodologie di misurazione delle prestazioni ambientali, tenendo conto delle caratteristiche dei diversi settori economici, al fine di poterle armonizzare e renderle replicabili”. Non se ne leggono tutti i nomi, per un problema del software del sito stesso, ma solo una ventina. L’elenco inizia con Benetton, che ha firmato un accordo per “l’analisi e la contabilizzazione delle emissioni di CO2 (carbon footprint) legate alle attività produttive dello stabilimento Benetton in Tunisia. In particolare si valuterà l’impronta ambientale relativa a due prodotti della linea “bimbo” (t-shirt e polo). Nell’ambito dell’accordo si valuteranno tutte le possibili misure di riduzione e di neutralizzazione dell’impronta ambientale che prevedono l’utilizzo di tecnologie e delle best practice a basso contenuto di carbonio, al fine di ottenere prodotti carbon neutral (ad emissioni compensate)”. Al secondo posto, il comunicato
Quand’era ministro Corrado Clini, il dicastero ha dato il via al Programma nazionale per la valutazione dell’impronta ambientale. Gli aderenti, si legge sul sito, sono circa 200 tra aziende, comuni e università.
congiunto sull’intesa tra Ministero e Carlsberg Italia. Nell’ottobre 2012, l’allora ministro Corrado Clini e l’amministratore delegato di Carlsberg Italia Alberto Frausin hanno firmato un accordo per “individuare le procedure di Product Environmental Management dello stabilimento di Induno Olona (VA) in cui opera Carlsberg Italia, attraverso l’analisi dell’impronta ambientale generata dal ciclo di vita dei prodotti selezionati dall’azienda e l’identificazione delle misure di miglioramento e di ottimizzazione delle prestazioni ambientali”. Il ministro spiega anche che il suo dicastero “ha creato una task force che lavora con le aziende che operano in Italia e che costituiscono casi di eccellenza per farne un punto di riferimento nei rispettivi settori industriali. Nel settore della produzione e distri-
buzione della birra la scelta è caduta su Carlsberg Italia”. E ancora: “Attraverso la valorizzazione delle esperienze avanzate e delle innovazioni tecnologiche delle imprese, come nel caso di Carlsberg Italia, si intende innescare all’economia reale un circolo virtuoso di buone pratiche e scelte che consentano di migliorare l’ambiente e aumentare la competitività. La qualità dell’ambiente, infatti, viene migliorata soprattutto grazie all’impegno di chi opera nei mercati e può agire in molti casi anche sulle abitudini dei consumatori”. Soddisfazione, ovviamente, da parte di Frausin, che dice: “La scelta del Ministero dell’Ambiente ci riempie di orgoglio e costituisce il coronamento di un processo che ha contraddistinto i nostri ultimi anni”. E, per concludere: “Se penso alla storia recente di Carlsberg penso proprio al nostro Paese. Come l’Italia, Carlsberg ha vissuto un momento molto difficile ma ha saputo ‘svoltare’. Questo è l’augurio che faccio a tutti noi: puntare sull’innovazione di prodotto e di processo e credere nella sostenibilità come leva di sviluppo”. 45
ESSERE GREEN MINDED
LA STORIA di CARLSBERG La mission aziendale è quella di produrre birra con il massimo grado di perfezione e utilizzando modelli di qualità di elevato livello. La Carlsberg nasce nel 1847 a Copenaghen quando JC Jacobsen aprì la propria fabbrica al di fuori delle mura della città e la chiamò Carlsberg (“la collina di Carl”), dedicandola al figlio e al colle su cui aveva costruito lo stabilimento. Successivamente verranno incise sugli archi di ingresso (Dyplon Gate) le famose Golden Words incise nel 1882 “SemperArdens”, segno indelebile della volontà di Jacobsen di puntare sempre all’eccellenza e al continuo miglioramento. La crescente necessità di assicurarsi tutti i vantaggi della produzione su grande scala, insieme all’intensificarsi della concorrenza internazionale, crearono nel tempo le premesse per la fusione, avvenuta nel 1970, tra le due più grandi fabbriche di birra danesi: Carlsberg e Tuborg. Nel 2006 Carlsberg brevetta un innovativo metodo di spillatura,denominato DraughtMaster, che elimina il ricorso all’anidride carbonica e sostituisce i tradizionali fusti metallici a rendere con quelli in PET (materiale riciclabile). Nel 2011 la tecnologia stessa è a disposizione dei consumatori con il marchio Drink Different. Ad oggi l’azienda, leader nel beverage, fabbrica anche accessori e abbigliamento. La sua performance economica è basata sull’etica e responsabilità nelle attività aziendali e verso il mercato; si avvale di tre canali di vendita importanti: Off Trade(vendita al minuto in supermercati e negozi), Horeca (catena di Hotellerie, Restaurant e Cafè) e Clienti Speciali. Grazie a tutte queste qualità Carlsberg è il terzo produttore di birra in Italia, con ben 27 marchi di birra prodotti e/o commercializzati, totalizzando un quantitativo prodotto pari a 1,05 milioni di ettolitri in un anno (2012).
P. I.
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di Pietro Ielpo, 24 anni Roma
C
“Green: a wishfulthinking?”
osì esordisce a inizio workshop Sergio Ferraris (direttore QualEnergia) che dà il via al discorso su come misurare la “greenicità”, termine coniato per questa avventura di giornalismo ambientale e scientifico. Questo “pensiero desideroso” ha legami ben radicati in ambito di produzione, finanza e mercato, per il nostro esperto. Ci spiega che l’Italia è stata una delle prime nazioni nel riciclo degli olii usati (per necessità, a dire il vero, e povertà, che a volte risulta essere una virtù). Dai dati Coou, il Consorzio obbligatorio degli oli usati, si scopre che nel 2011 l’Italia ha rigenerato l’ 88 per cento degli olii divenendo così il leader contro quest’altissimo impatto ambientale. Il Green ha contribuito inoltre a nuove assunzioni (green-job) nel Belpaese e con l’avvento dell’IT (Information Technology) si sono abbattute anche le obsolescenze in ambito di produzione (il ché non è detto che sia un bene), contribuendo pero così ad una maggiore greenicità dei
prodotti (ad esempio gli elettrodomestici più efficienti energeticamente). Raccoglie il testimone un giurista, esperto di Diritto ambientale, Tullio Berlenghi, che ci mostra il lato Green dell’ambito giuridico in Italia. Un nuovo termine suscita l’interesse del pubblico dell’Università di Tor Vergata: “Greenwashing”. L’esperto ci spiega essere la pubblicità della presunta greenicità di un prodotto, un termine negativo a tutti gli effetti, che significa “pittata di verde”, un vestitino ad hoc messo su senza sostanza. Una “pittata” che ha valore di operazione di marketing e che ammicca ad una produzione di un bene che può essere “naturale”, “verde”, “riciclabile”, insomma apparentemente non dannoso per l’ambiente, ma tacendone i reali percorsi e dettagli di sostenibilità. Sia Berlenghi che Diego Scipioni, il linguista che ha definito green e greenwashing, e anche Sergio Ferraris ci invitano a tener sempre d’occhio le certificazioni green dei prodotti, capendone il significato. Esistono molte associazioni, fondazioni e metodologie che si occupano del rilascio di tali
La Carlsberg nasce nel 1847 a Copenaghen quando JC Jacobsen aprì la propria fabbrica al di fuori delle mura della città e la chiamò Carlsberg (“la collina di Carl”)
4 premi Premio dei Premi 2012 (Presidenza del Consiglio dei Ministri)
Premio Imprese per l’Innovazione 2012 (Confindustria)
Premio Innovazione Amica dell’Ambiente 2012 (Legambiente). Premio impresa ambiente 2014 (camera commercio di Roma E ministero dell’ambiente)
DraughtMaster, elimina il ricorso all’anidride carbonica e sostituisce i tradizionali fusti metallici a rendere con quelli in PET (materiale riciclabile)
Per capire meglio la performance di sostenibilità, qualità e impegno sociale di Carlsberg, abbiamo intervistato proprio Laura Marchini.
“bollini”, primo dei quali quello di Life CycleAssestment (LCA) che, come ci spiega in seguito Fabio Iraldo (Professore di Management ambientale all’Istituto di Management della Scuola Superiore San’Anna di Pisa) è una metodologia che valuta un insieme di interazioni che un prodotto o un servizio ha con l’ambiente, considerando il suo intero ciclo di vita, includendo le fasi di preproduzione, produzione, distribuzione, uso, riciclaggio e dismissione finale. Molto pragmatico l’intervento di Iraldo che con parole comuni spiega la difficoltà che ha in primis la gente a coniugarsi con la greenicità: se un prodotto green costa di più rispetto a un prodotto standard, una persona qualunque acquisterà il meno caro (e quindi quello maggiormente inquinante). Anche la moltitudine degli impatti ambientali di un prodotto rende difficile la scelta tra un prodotto green e uno di pari livello ma non “verde”. Quando, al workshop, “Parla l’esperto”, è il “Caso Carlsberg” ad essere illustrato. A raccontare la storia di una delle più importanti società produttrici di birra al mondo è la responsabile Ufficio Comunicazione e stampa Carlsberg Italia, Laura Marchini. Il discorso si snoda intorno alla mission storica dell’azienda (spiegata nel box). Ma il focus di Marchini è sul progetto aziendale “SustainaBEERity”, grazie al quale l’azienda è divenuta la prima azienda birraia al mondo ad ottenere la certificazione EPD ed è tra le prime ad aver aderito al programma del Ministero dell’Ambiente per la valutazione dell’impatto ambientale delle imprese. Per tale mossa green, afferma la Marchini, l’azienda ha ricevuto 3 premi: Premio dei Premi 2012 (Presidenza del Consiglio dei Ministri); Premio Imprese per l’Innovazione 2012 (Confindustria); Premio Innovazione Amica dell’Ambiente 2012 (Legambiente).
intervista a Laura Marchini Come si misurano i parametri che giudicano vincente la tecnologia “DraughtMaster”? Sono frutto di ricerche interne o per conto di terzi? La tecnologia DraughtMasterTM esprime la volontà di offrire ai consumatori la miglior birra alla spina possibile da tutti i punti di vista: organolettico, ambientale, gestionale e salutare. Questa nasce nei laboratori Carlsberg a Copenhagen, ma successivamente diviene un progetto guidato da Carlsberg Italia che assume così il ruolo di paese pilota a livello mondiale. Grazie alla tecnologia DraughtMasterTM la birra non è più contenuta nei tradizionali fusti di acciaio, ma in fusti in PET totalmente riciclabili, ideati anche questi da Carlsberg, che permettono un’innovativa spillatura senza CO2 aggiunta, grazie alla semplice compressione effettuata dall’aria contenuta nel modulo a pressione in cui il fusto in PET va inserito. Il tutto è stato guidato sì da Carlsberg ma ci siamo serviti di molte ricerche per conto terzi, in quanto nascendo come un’azienda che produce birra non avremmo potuto avere anche le competenze dal punto di vista ingegneristico e/o costruttivo. Come vengono coniugate l’eco-sostenibilità della birra Carlsberg in fusti di plastica con la qualità maggiore presunta in quelli di ferro? Il gusto viene impattato dalla mossa di Greenicità applicata dall’azienda? Per un’impresa che opera nel settore food&beverage, la responsabilità sociale non è soltanto qualità e sicurezza dei prodotti e dei processi produttivi, ma anche consapevolezza del proprio ruolo e dell’influenza esercitata sui comportamenti dei consumatori. È per questo che prima del lancio abbiamo testato insieme agli stessi consumatori se il prodotto fosse stato modificato. Il risultato? Nessuna variazione dal punto di vista del gusto; ma di questo ne eravamo già certi in quanto con i molteplici test in laboratorio l’involucro e contenitore non alterano le proprietà organolettiche della birra. P. I.
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GREENWASHING:
non è tutto green quello che è verde
“Greenwashing” è un neologismo inglese nato per indicare la tendenza da parte di aziende, società o organizzazioni a presentare al consumatore i propri prodotti e comportamenti come ecosostenibili per risultare attenti all’ambiente agli occhi del cliente.
Spesso le aziende che attuano politiche di greenwashing hanno il bisogno di nascondere delle scelte incompatibili con la sostenibilità ambientale o comportamenti che mettono addirittura a repentaglio la salute del pianeta. Il greenwashing è quindi a tutti gli effetti una pubblicità, un’immagine ingannevole che l’azienda in questione mostra ai propri consumatori. Alba Di Pietrantuono 23 anni Campobasso
Altrettanto ha fatto il sistema camerale lombardo, premiando le Buone Prassi di 137 imprese. Anche la Unioncamere Liguria premia le virtuose e così via. A livello internazionale, l’European Business Awards for the Environment, della Commissione Europea: i vincitori dell’edizione 2013-2014 si conosceranno il 27 maggio. L’award italiano più prestigioso, secondo il Ministero dell’Ambiente è il Premio Impresa Ambiente, premio che apre direttamente le porte alle selezioni europee, “il più alto riconoscimento italiano per le imprese private e pubbliche che si siano distinte in un’ottica di Sviluppo Sostenibile, Rispetto Ambientale e Responsabilità Sociale”, come si legge sul sito del dicastero, promosso dalla Camera di Commercio di Roma. I vincitori proclamati il 16 aprile scorso sono quattro, uno per categoria (1. Miglior Gestione, 2. Miglior Prodotto, 3. Miglior Processo/ Tecnologia, 4. Miglior Cooperazione Internazionale, più il “Premio Speciale Giovane Imprenditore”, riservato a ti48
wigreen è solo uno dei tanti premi destinati al riconoscimenti della greenicità delle imprese. Nel nostro paese le iniziative sono tante. Questo mese, ad esempio la Camera di Commercio di Pavia ne ha premiate 10 del suo territorio per le loro azioni nel campo del rispetto dell’ambiente e buone pratiche nel sociale
PREMIO IMPRESA
AMBIENTE tolari o dirigenti d’impresa under 40). L’edizione 2014, a cui hanno concorso 228 aziende, è stata vinta da Carlsberg Italia, Eni, Brebey e Ikea. Nella categoria miglior Gestione (46 progetti) vincitore è la Carlsberg Italia Spa di Lainate (Mi) per il progetto “DraughtMaster – Innovazione e rivoluzione della birra alla spina” con questa motivazione: “La Carlsberg Italia ha introdotto sul mercato un sistema che, con fusti in PET riciclabili e senza utilizzo di CO2, consente di spillare una birra di qualità perfetta nel totale rispetto dell’ambiente. I benefici sono molteplici, tra cui:
l’eccellente qualità, genuinità e naturalità della birra; la freschezza inalterata e garantita per oltre 31 giorni dall’apertura del fusto (rispetto ai 3/4 giorni del fusto tradizionale); il minor impatto ambientale certificato EPD (Environmental Product Declaration) pari a -29% di emissioni di CO2 per ettolitro prodotto rispetto al fusto in acciaio”. Nella categoria miglior Prodotto (112 progetti), vince Eni Spa, con il progetto “Enjoy: il car sharing”. Ecco la motivazione: “L’azienda ha dimostrato di aver sviluppato un servizio di car sharing di nuova concezione denominato
a “free floating” che – diversamente dal una innovativa politica di approvvicar sharing “tradizionale”, nel quale è gionamento del cotone, materia prima necessario prenotare l’auto in anticipo con elevati costi di produzione oltre e riportarla nello stesso parcheggio da che ambientali. In collaborazione con cui si è prelevata – permette l’utilizzo il WWF, Ikea porta avanti da otto anni “libero”. E’ possibile quindi decidere in India e Pakistan il progetto “Farmer di prendere un’auto in qualsiasi moField School”: attraverso corsi di formento, utilizzarla per il tempo che si mazione, gli agricoltori apprendono le vuole, per poi lasciarla dove risulta tecniche Better Cotton per rendere più più comodo, all’interno dell’area di coredditizie e più sostenibili le piantagiopertura. Tutto il sistema è costruito su ni usando meno acqua e minori quanuna applicazione attiva titativi di prodotti chimici. su smartphone basata sul Grazie alla partecipazione 228 AZIENDE di organizzazioni locali e a GPS sia dell’utilizzatore che di tutte le auto didi training, poi, i coltiIN CONCORSO corsi sponibili nel momento in vatori diventano a loro volVINCONO IN 4 ta insegnanti, diffondendo cui viene richiesto il servizio. Il servizio offerto, in modo sempre più capilin partnership con Trelare queste tecniche agricole. nitalia e Fiat, è paperless e plasticless”. Il primo Better Cotton è stato raccolto Nella categoria miglior Innovazione di nel 2010 in Pakistan. Il progetto piloprocesso/tecnologia (66 progetti), vinta ha dimostrato l’efficacia delle nuove ce la Brebey società Coop. a r.l. di Detecniche di coltivazione che hanno percimomannu (Ca) con il progetto “Tecmesso di ridurre il consumo di acqua, nolana: innovazione ed ecologia per tagliare concimi chimici e pesticidi, miun futuro sostenibile” con la seguente gliorare i margini e aumentare i profitti motivazione: “L’azienda ha sviluppato degli agricoltori, migliorarndo le loro un pannello in lana di pecora, impiecondizioni di vita”. Menzionata, per la gando una tecnologia innovativa che stessa categoria, la ERICA Soc. Coop. ha portato alle realizzazione di un prodi Alba (Cn) con il progetto “Les Oasis dotto con ottime proprietà termoisoEl Oudiane”. Il “Premio speciale giovalanti e fonoassorbenti. I benefici della ne imprenditore”, è andato a Camilla tecnologia Brebey per la produzione di Masala di Novara (No) con il progetto pannelli in lana consistono nella mi“Pupulito. Cambiare è più facile”, con gliore consistenza, nella struttura elaquesta la motivazione: “Pupulito è una stica e nella stabilità di forma del propiattaforma di servizi rivolti a famiglie dotto rispetto ad altri isolanti in lana, e asili nido, volta a incentivare, supporche si presentano con feltri molli e tare e semplificare l’adozione e l’uso dei incoerenti. La disponibilità di un panpannolini lavabili. Il servizio principale, nello compatto, strutturato ed elastico, core business dell’impresa, è il servizio oltre che la modulabilità delle densità di noleggio e lavaggio di pannolini, un e degli spessori favorisce lo sviluppo di servizio in abbonamento che va inconapplicazioni anche nei settori tessile, tro alla limitata disponibilità di tempo abbigliamento, geotecnica e disinquidei genitori lavoratori e facilita l’utilizzo namento industriale”. Nella categoria dei pannolini all’interno di asili nido. I miglior Cooperazione internazionale pannolini offerti a noleggio sono lavati (4 progetti), vince Ikea Italia Retail e igienizzati impiegando esclusivamente Srl di Carugate (Mi) per il progetto detergenti biologici”. “Better Cotton Initiative” con questa motivazione: “L’azienda ha adottato Francesca Romani, 24 anni di Roma
WiGreen Nel febbraio scorso, si è svolta a Milano la seconda edizione del WiGreen, un Forum sulla Sostenibilità ambientale, promosso dalla Srpim Italia (azienda di consulenza strategica nel campo della Salute dell’Uomo e dell’Ambiente). Il leit motiv dell’evento è stata la salvaguardia dell’ambiente e lo spreco alimentare, ambientale ed economico. Ad aggiudicarsi il premio quest’anno è stata la Curtiriso, che ha introdotto un sistema ed un processo moderno di tecnologia industriale. In pratica, l’azienda, sfrutta una centrale termica a biomassa che genera e rigenera energia, riducendo a zero l’emissione di anidride carbonica. La promessa di Curtiriso, afferma Valentina Lugano, responsabile ambientale dell’azienda, è quella di “far conoscere ai propri consumatori la quantità di CO2 emessa da ogni singolo prodotto, in base alla scadenza e punto di acquisto, mediante un codice riportato sulla scatola”.Questo codice, spiega ancora Lugano, “dovrà essere inserito sul sito aziendale, e oltre alla verifica dell’emissione anidride carbonica del prodotto, si potranno ricevere consigli utili per evitare l’ammontare di CO2 nell’ambiente”. FIlippo Maria Mazara
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“CARLSBERG,
PRIMA AZIENDA BIRRAIA AL MONDO EPD” Ha ben 5 marchi con il bollino Environmental Product Declaration, tra cui le bottiglie dell’italiana Poretti.Ma come c’è arrivata, la Carsberg, a decidere di iniziare il suo percorso di greenicità? Laura Marchini si rifà alla storia delle due famiglie (Jacobsen di Copenhagen, data di inizio 1847, e Poretti di Induno Olona, che parte nel 1876 investendo tutti i suoi guadagni nella creazione del birrificio) e alla mission dell’azienda che rappresenta: “Sviluppare l’arte di produrre birra al massimo grado di perfezione a prescindere dall’immediato profitto in modo da far riconoscere i prodotti e le birrerie come modelli di qualità”. Oggi è il 4° produttore di birra a livello mondiale e il primo in Europa orientale e del nord, ha più di 500 marchi di birra, 41 mila dipendenti in tre continenti e 36 milioni di bottiglie vendute nel 2012. Con questi numeri, il suo impatto, anche ambientale, dovrebbe essere notevole. Al suo 130° compleanno, innovazione “esistenziale”, evoluzione sono le parole d’ordine, tutte declinate secondo criteri
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di sostebibilità. Partiamo dall’innovazione tecnologica: il nuovo sistema di spillatura, “basato su un fusto in Pet riciclabile che elimina per sempre il ricorso alla CO2“, un sistema di cui è stato calcolato in ogni passaggio l’impatto ambientale (salvo, forse, il tener conto del sistema di raccolta differenziata nel nostro Paese), e su sistemi modulari (DM Modular 20, DM Flex 20, DM Select 10) che eleminando la CO2 offrono anche più qualità nella birra, danno vantaggi economici grazie alla durata del fusto (31 giorni), facilitano la gestione perché si lavano automaticamente e in autonomia e sono sostenibili, appunto, perché il fusto è in materiale totalmente riciclabile. Ma il fusto in Pet è solo una delle innovazioni sostenibili di Carlsberg, continua Laura Marchini. “L’intero ciclo produttivo della birra, infatti, è stato analizzato e ottimizzato dal punto di vista ambientale: dai consumi di acqua a quelli energetici, dalle emissioni di gas serra alla produzione di rifiuti di produzione”. Carlsberg ha chiesto alla Bocco-
Laura Marchini, capo della comunicazione
ni di realizzare uno studio LCA (Life Cycle Assessment), ha fatto valutare la documentazione (con tanto di sopralluogo e approvazione del comitao tecnico ambiente di RIMA, società accreditata per la convalida delle EPD) ed ha ottenuto così la certificazione ufficiale. Andiamo un po’ a fondo ad esaminare i dati. Per quanto riguarda i consumi idrici, i contenitori Carlsberg (fusti in acciaio, bottiglie in vetro, lattine in alluminio), secondo le tabelle, sono stati mediamenti ridotti del 26%. Sui rifiuti, la riduzione è stata dal – 18,9% dei fusti in acciaio all’87% delle lattine in alluminio. Consumi energetici: - 19,9% per il fusti in acciaio, - 41% per le bottiglie in vetro, - 33,2 per le lattine. Infine, sulle emissioni di CO2: -28,6% dai fusti in acciaio, - 49,1% dalle bottiglie, - 25,8% dalle lattine. Carlsberg ha stimato che 60 litri di birra spillati dai nuovi fusti in PET contribuiscono alla riduzione dell’effetto serra quanto un albero in un anno di vita. Antonio Ferretti 23 anni, Latina
ALIMENTI A CONTATTO CON LA PLASTICA?.... Carlsberg è la prima azienda produttrice di birra ad aver ottenuto certificazione EPD. Prima, però, ha dovuto valutare e misurare ogni passaggio produttivo e misurare l’impatto ambientale dei sui processi. Nel piano di sostenibilità dell’azienda, rientra la sostituzione dei vecchi fusti in acciaio con un nuovo tipo in PET. Un metodo che funziona, al di là di ogni possibile dubbio, spiega il professor Iraldo che ha misurato il LCA. A tal proposito, qualcuno ricorderà di come la plastica delle bottiglie, a contatto con l’acqua, possa trasferire le proprie sostanze rendendola non più sana. Chiediamo quindi spiegazioni. “Niente paura, non è questo il caso”, ci dice Iraldo. «Dipende dal tipo di polimero e da quanto entra in contatto con il prodotto. Quelli che compongono fusto e bottiglia di plastica sono molto diversi. In
questo caso, rispetto all’alternativa, si hanno vantaggi ambientali». Luca Crosti
24 anni Roma
Cos’è la EPD Dichiarazione ambientale di prodotto (EPD) è un documento che descrive gli impatti ambientali legati alla produzione di una specifica quantità di prodotto: per esempio consumi energetici e di materie prime, produzione di rifiuti, emissioni in atmosfera e scarichi nei corpi idrici. La Dichiarazione, predisposta su base volontaria, deve essere predisposta a partire da una analisi del ciclo di vita (a partire dalle materie prime fino allo smaltimento finale) redatta secondo le linee guida delle norme UNI EN ISO 14020
e le regole specifiche per la categoria di prodotto (Product CategoryRules). I contenuti della Dichiarazione vengono analizzati e verificati da un ente terzo indipendente che ne attesta la veridicità. La Dichiarazione convalidata viene resa pubblica attraverso un apposito sito internet (www.environdec.com) che consente all’utilizzatore finale di onfrontare le caratteristiche ambientali di prodotti simili o alternativi. Antonella Proietti 26 anni Rieti
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L’IMPRONTA IDRICA L’impronta idrica è un indicatore che consente di calcolare l’uso diretto ed indiretto di acqua, andando a calcolare tutta quell’acqua “invisibile” che si cela dietro la produzione del prodotto, che il consumatore non vede, andando ad analizzare tutto il ciclo di vita del prodotto, “dalla culla alla tomba”. M.I
I PROBLEMI
DELL’ACQUA Dovrebbe essere la risorsa “comune” (nel senso di condivisa) più preziosa eppure per molte persone è un bene quasi inaccessibile.
L’acqua costituisce il 65% della massa del corpo umano e copre il 71% del pianeta Terra. Dovrebbe essere la risorsa “comune” (nel senso di condivisa) più preziosa eppure per molte persone è un bene quasi inaccessibile. Circa 1,4 miliardi di persone nel mondo non hanno accesso regolare all’acqua potabile. Altre 2,6 miliardi di persone non usufruiscono dei servizi igienico-sanitari. Il 22 marzo è stata la “Giornata mondiale dell’acqua”, istituita per sensibilizzare Paesi e singoli cittadini sull’importanza che ha l’acqua e sulla responsabilità che ciascuno di noi ha verso di essa. Per l’occasione WWF e Legambiente hanno pubblicato due rapporti sul consumo e sulla qualità dell’acqua in Italia. Quello del WWF è incentrato sull’impronta idrica della produzione e del consumo dei prodotti. Da questo rapporto si scopre che l’Italia importa 62 miliardi di metri cubi all’anno di acqua “invisibile” contenuta nei cibi dall’estero. Nella produzione l’Italia utilizza 70 miliardi di metri cubi, di cui l’85% nell’agricoltura, allevamento e pascolo, mentre il restante 15% dell’impronta idrica è composto da produzione industriale (8%) e uso domestico (7%). Il singolo cittadino consuma l’89% dell’impronta idrica giornaliera in cibo, il 7% in prodotti industriali, e solamente il 4% per uso domestico. Si tratta di acqua che non vediamo, non misuriamo, alla quale non si pensa nella quotidianità, ma grava pesantemente sulla gestione delle risorse idriche. Il primo cambiamento che si può applicare alla propria vita, quindi, è una scelta più attenta ai prodotti che compriamo. Si tratta di non guardare con miopia al prodotto, ma interrogarsi su tutto il ciclo di produzione del bene che stiamo acquistando. Il rapporto di Legambiente, invece, si concentra sulla qualità dell’acqua. In Italia, solo nel 2011, sono state immesse oltre 140 tonnellate di metalli pesanti nelle acque e quasi 2,8 milioni di tonnellate di sostanze inorganiche, di cui quasi la 52
metà sono scarti chimici. In Europa, invece, nel 2009 si è rilevato che il 58% dei corpi idrici (fiumi, laghi, acque costiere, falde) gode di uno stato di salute “non buono”. L’Istat,nei dati relativi al 2013, ha evidenziato un forte calo nel consumo pro capite di acqua, che si è ridotto dai 209 litri al giorno del 2000 ai 175 del 2011. In Italia, però, sono ancora pochi i casi in cui l’acqua è oggetto di investimento; pochi gli interventi di riqualificazione, molti gli scarichi non depurati. I dati esaminati ci devono sempre più far desiderare uno sviluppo sostenibile, che dia la possibilità di soddisfare i nostri bisogni senza compromettere il futuro delle prossime generazioni. Matteo Isidori, 23 anni Roma
IN ITALIA, SOLO NEL 2011, SONO STATE IMMESSE OLTRE 140 TONNELLATE DI METALLI PESANTI NELLE ACQUE E QUASI 2,8 MILIONI DI TONNELLATE DI SOSTANZE INORGANICHE.
GREY
O GREEN... di Helodie Fazzalari 20 anni Roma
E
se fosse Bloch a possedere quella che Heidegger chiamava “essenza della verità”, quel concetto tanto meditato da Kant, quel tassello mancante, quell’ultimo numero, quella chiave che apre la mente umana e rivela ciò che l’apparenza nasconde e ciò che la bocca omette? Bloch comprende quanto sia grande l’insoddisfazione umana, tanto da portare l’uomo stesso a stancarsi del bene che la natura gli ha offerto, tanto da cercare qualcosa di meglio con la conseguenza di distruggere ciò che di bello aveva, tanto da doversi infine accontentare della distruzione che le sue stesse mani insoddisfatte hanno generato. Analogia azzardata la mia, ma a mio avviso completa. Racchiude perfettamente quel ciclo umano che finisce per concludersi con il degrado, con l’amaro in bocca, e con l’annichilimento più totale di anima, corpo e, in questo caso, ambiente! Un annichilimento che da anni ormai si cerca di superare, e che in parte si cerca di nascondere, vuoi per comodità, per la fretta, o per scarse risorse economiche. È questo l’esempio di Fabio Iraldo al workshop “Come si misura la greenicità” (per il ciclo “Si
fa presto a dire green”) organizzato da Giornalisti Nell’Erba all’università di Roma Tor Vergata. “Oggi come oggi, di fronte a due prodotti identici ma di prezzo differente si è portati a scegliere quello con il costo inferiore”. Iraldo ha quindi sottolineato come prima cosa il problema economico, e ha continuato: “Oggi come oggi” (e forse neanche un tempo, aggiungo io) “nessuno di noi si sofferma a leggere le etichette dei prodotti sugli scaffali del supermercato, tanto meno si presta particolare attenzione a quelli che possono essere prodotti più o meno GREEN, e quando lo si fa, c’è il rischio di incorrere nell’errore”. Perché? Dove sta l’errore? La risposta è la cattiva informazione. Spesso infatti capita che un prodotto, che ad esempio limita le emissioni di CO2, possa inquinare più di un altro, che nonostante non sia etichettato GREEN, è stato realizzato con materiali di gran lunga meno inquinanti del primo prodotto. Come fare allora? Come distinguere il GREY dal GREEN, in una società dove riesce quasi impossibile la messa a fuoco dei colori? La proposta di Iraldo è l’LCA, Life Cycle Assessment (Valutazione del Ciclo di
Vita). Si tratta di un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto/processo/attività lungo l’intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita del prodotto stesso. Non più quindi una sola faccia della medaglia, ma un’intera panoramica del totale processo di sviluppo e distruzione. La rilevanza di tale tecnica risiede principalmente nel suo approccio innovativo che consiste nel valutare tutte le fasi di un processo produttivo come correlate e dipendenti. Tra gli strumenti nati per l’analisi di sistemi industriali l’LCA ha assunto un ruolo preminente ed è in forte espansione a livello nazionale ed internazionale. I fini di questa metodologia sono diversi, eccone alcuni forniteci da Iraldo durante il workshop proposto da Giornalisti Nell’Erba: • creare un sistema informativo che supporti il sistema di gestione dell’azienda, monitorando e tenendo sotto controllo consumi di risorse, emissioni e connessi impatti ambientali • identificare i punti critici 53
all’interno del ciclo produttivo o del ciclo di vita dei prodotti per individuare le aree di miglioramento • guidare la progettazione di nuovi prodotti/processi, al fine di minimizzarne l’impatto ambientale • comparare i carichi ambientali connessi a processi o prodotti alternativi, in fase di gestione degli approvvigionamenti selezione dei fornitori (e di scelte di integrazione/disintegrazione verticale) • fornire un supporto scientifico alla comunicazione di marketing e all’informazione dei consumatori. Se da un lato il problema appare in parte risolto, dall’altro come ogni antagonista che si rispetti, si è sviluppato il fenomeno del greenwashing, “quella falsa pennellata di verde che rende l’ambiente più nero”. Possiamo definirla un’azione di marketing molto astuta, ma allo stesso tempo smascherabile e riconoscibile. Uno studio molto interessante è stato realizzato da TerraChoice (oggi UL Environment): “The Sins Of Greenwashing” Sarebbero 7 i peccati capitali che può commettere chi tenta di rendere più verde un prodotto: [1] Peccato di trade off nascosto - cioè suggerire che un prodotto è ‘verde’ basandosi solo su un insieme ristretto di attributi, spostando così l’attenzione da altri attributi che hanno importanti implicazioni ambientali. Ad esempio sottolineare che la carta prodotta proviene da foreste ecosostenibili ma tralasciare l’uso del cloro per il suo sbiancamento. [2] Peccato di mancanza di prove - cioè una affermazione ambientale che non può essere suffragata da informazioni di supporto facilmente accessibili o da una affidabile certificazione di terzi. Ad esempio prodotti di carta igienica che si sostengono composti da varie percentuali di materia54
le riciclato senza però fornire prove. [3] Peccato di vaghezza - cioè quando le indicazioni sulle caratteristiche del prodotto sono così mal definite o così generiche che il loro vero significato è suscettibile di essere frainteso da parte del consumatore. Ad esempio la vaga dicitura “contiene elementi naturali”. Arsenico, uranio, mercurio, formaldeide sono infatti tutti componenti naturali, ma velenosi. [4] Peccato di falsa etichetta - cioè un prodotto che, attraverso parole o immagini, vanta certificazioni di terze parti che in realtà sono inesistenti o contraffatte [5] Peccato di irrilevanza - cioè affermazioni ambientali che possono essere veritiere, ma non sono importanti o utili per i consumatori alla ricerca di prodotti ambientalmente preferibili. Ad esempio la dicitura ‘CFC-free’, quando è risaputo che i CFC sono vietati dalla legge [6] Peccato del minore dei mali - cioè una indicazione che può essere vera per la specifica categoria di prodotto, ma che rischia di distrarre il consumatore dagli effetti ambientali maggiori della categoria nel suo complesso [7] Peccato di falsità - Asserzioni ambientali che sono semplicemente false. Gli esempi più comuni sono i prodotti che affermano falsamente di essere certificati Insomma una bella carrellata di peccati. La differenza sostanziale tra Dio è l’ambiente è che Dio perdona, l’ambiente prima o poi reagisce, prima o poi la corda si spezza, e ciò che ieri era il mare dove da bambini passavamo l’estate, domani diventerà quel mare che ha travolto me, la mia casa, la mia famiglia e quel pochi ricordi belli dell’infanzia passata
in spiaggia. Ci si ritrova ad “accontentarsi per timore del peggio”, per ritornare alle parole di Bloch. Accontentarsi di una vita incompleta, di un progetto non portato a termine, di una relazione senza amore, ci si ritrova ad accontentarsi di un sospiro a metà, quando in realtà si vorrebbe respirare profondamente; di una semplice voce quando in realtà vorremmo che questa diventasse urlo; ci si accontenta della sufficienza in matematica, di una pizza fredda, di una bicicletta senza freni, e di un bucato sempre imperfetto; ci si accontenta delle notti insonni, di guadagnare vendendo il proprio corpo, di ottenere pagando; ci si accontenta di uno stato senza governo e di un governo senza vergogna, di un autobus che non arriva mai e di una casa svaligiata nel bel mezzo della notte. Ci si accontenta anche della solitudine. Ma di una cosa non ci si può assolutamente accontentare: di distruggere la propria casa, la propria dimora, perché se distruggo il mio pianeta distruggo me stesso, e io all’accontentarmi scelgo la VITA!
L
a certificazione Green è un documento che dimostra come un’azienda, un ente, o anche una scuola, lavora e produce in modo da minimizzare il danno ambientale, scegliendo materiali che non inquinano, risparmiando sulle risorse consumate (energia elettrica, gas, acqua, ecc), diminuendo la quantità di rifiuti; oppure progettando un oggetto affinché durante l’uso rispetti l’ambiente. E’ quindi un ottimo strumento per combattere il fenomeno del greenwashing, quel finto verde che alcune aziende usano per colorare prodotti che invece non sono attenti alle loro conseguenze ecologiche. Solitamente la certificazione è rilasciata da un istituto indipendente, nazionale o internazionale, il cui scopo è verificare il rispetto di certe regole. Esistono molti tipi di certificazioni, il che non facilita la scelta; per questo parliamo di “giungla” di certificazioni: è quindi necessario unificarle e realizzarne poche e comprensibili al pubblico, al fine di incentivare tutti i comportamenti necessari a favorire la produzione e i prodotti Green. A volte è proprio l’elevato numero di certificazioni ad ostacolare la selezione ed i criteri di individuazione per le aziende attive sulla sostenibilità ambientale, che meritano di ricevere un riconoscimento in questo campo. La EPD rientra nelle etichette Green di tipo III, ossia di quelle dichiarazioni fondate sulla quantificazione degli impatti ambientali mediante approccio LCA, ha come obiettivi il confronto tra articoli equivalenti e lo sviluppo di prodotti che minimizzano gli effetti ecologici. Il principale contributo alla realizzazione di queste etichette proviene dai paesi nordeuropei, l’Italia comincia ad introdursi nel sistema EPD con una propria quota significativa. Di recente il produttore di birra Carlsberg Italia si è fregiato
LA GIUNGLA DELLE
CERTIFICAZIONI
GREEN di Giacomo Cupatici 26 anni, Roma
della EPD, grazie ad una LCA condotta in collaborazione con importanti istituti di management, al fine di raggiungere una vera e propria leadership ambientale, basata su qualità, innovazione e sostenibilità. Introducendo nel 2012 la tecnologia DraughtMasterTM la Carlsberg Italia ha rivoluzionato il mondo della birra alla spina, aumentandone la qualità e riducendo al contempo l’impatto ambientale, di processo e di prodotto.
Quali sono i principali tipi di certificazione ? La Ecoetichetta è un marchio europeo usato per certificare il ridotto impatto ambientale di prodotti o servizi, mediante misure di alcuni dati sull’inquinamento indotto. È rappresentato da una margherita stilizzata e lo si trova sulla confezione del prodotto certificato, quindi facilmente individuabile per il consumatore. LCA: Life Cycle Assessment, serve a valutare l’insieme di interazioni che un prodotto ha con l’ambiente, considerando il suo intero ciclo di vita che include le fasi di estrazione e/o recupero delle materie prime, produzione, distribuzione, uso
(quindi anche riuso e manutenzione), riciclaggio e dismissione finale. Non si tratta di una certificazione ma di un metodo di analisi per ottenerla: è infatti indispensabile per far scaturire la EPD: Environmental Product Declaration, è un documento che permette di comunicare informazioni oggettive, confrontabili e credibili relative alla prestazione ambientale di prodotti. I dati contenuti nella EPD hanno carattere esclusivamente informativo (in pratica non contengono livelli minimi da rispettare, come per l’Ecolabel). FSC: Forest Stewardship Council, è
una certificazione internazionale e indipendente specifica per il settore forestale e i prodotti - legnosi e non legnosi - derivati dalle foreste. Si trova spesso su molti prodotti cartacei di uso quotidiano (ad esempio sul retro dei rotoli di alcuni scontrini).LEED: Leadership in Energy and Environmental Design, è un sistema di certificazione nato negli USA che definisci i requisiti per costruire edifici ambientalmente sostenibili, sia dal punto di vista energetico che da quello del consumo di tutte le risorse coinvolte nel processo di costruzione. 55
Secondo il professore l’inquinamento si comporterebbe proprio come la nebbia per Totò, infatti per parlare di impatto ambientale non bisogna più pensare a gigantesche e grigie fabbriche avvolte da cumuli di vapori e fumi, poiché ci troviamo in una fase in cui l’inquinamento si nasconde dietro i più semplici gesti quotidiani. Prendiamo la spesa: in un momento di crisi economica viene naturale al consumatore medio scegliere un prodotto che a parità di qualità con altri, costi meno. “Quindi è sufficiente produrre un prodotto ecologico che costi poco per risolvere il problema dell’inquinamento” continua Iraldo “ma non è così semplice”. Infatti le accortezze nei confronti dell’ambiente necessitano di ulteriore dispendio di energie e mezzi, il che si traduce inevitabilmente in ulteriore consumo di danaro che accresce quindi il costo finale del prodotto. Nel caso degli stabilimenti Carlsberg ad esempio, per ottenere una buona produzione occorre depurare l’acqua con cui viene prodotta la birra e questo avviene grazie all’utilizzo di “bestioline”, cioè batteri di fatica impiegati nel così detto depuratore biologico. Per evitare che fumi inquinanti vengano dispersi nell’aria, poi, l’azienda utilizza i metodi del “filtro a manica”, che in sostanza riprende la pratica del filtro con il fazzoletto utilizzato anche in casa, e lo “scrubber” metodo per cui, prima di rilasciare i fumi nell’atmosfera, viene effettuato un contro lavaggio. In ultimo, ma si fa per dire, anche la raccolta differenziata è una fase complicata, molto più complicata di quella che praticano i singoli cittadini. Tutto questo per giustificare il fatto che le aziende attente alla greenicità, sono costrette a imporre prezzi più alti rispetto a quelle che inquinano e che quindi non eseguono tutte le fasi di una produzione green. A chi conviene risparmiare sulla spesa? La rispo56
L'INQUINAMENTO È DOVE NON SI VEDE
“Attento Peppino! Quando c’è, la nebbia non si vede”
è la citazione del grande Principe Antonio De Curtis tratto da film “Totò, Peppino e la malafemmina” con cui Fabio Iraldo, professore associato di Management ambientale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, ha aperto il suo intervento del workshop “Come si misura la greenicità”. sta è inaspettata: il guadagno è tutto dell’azienda “disattenta”, il risparmio del compratore è infatti effimero, poiché il cittadino viene comunque coinvolto in seguito e attraverso il versamento dei tributi utilizzati poi per far fronte al recupero di situazioni ormai compromesse da un punto di vista ambientale. Risparmiare sulla spe-
sa ha quindi un costo sociale. Iraldo continua il suo gioco di scatole cinesi, supponendo che in un supermercato si trovino allora, a parità di prezzo un prodotto proveniente da azienda green e uno da azienda “disattenta”. A questo punto la scelta è facile: si opterebbe per il prodotto green. Ma in questa circostanza “come faccio a
UN RIFIUTO RICICLABILE? RESTA UN RIFIUTO P
er valutare l’impatto sull’ambiente di un prodotto lo si deve osservare “dalla culla alla tomba”: dall’approvvigionamento delle materie prime con cui è realizzato ai rifiuti prodotti durante e al termine del suo consumo. Non sempre la percezione comune su quella che può essere la sua greenicità corrisponde al vero. Uno degli indicatori maggiormente utilizzati per misurarla è la quantità di CO2 emessa, in tutte le fasi. E’ quello che ha fatto anche Carlsberg quando ha preso in considerazionedi sostituire i fusti di birra in acciaio riutilizzabili con dei fusti in PET, riciclabile (sistema Draught Master TM).La scelta nasce dall’esigenza di migliorare la qualità della birra, e si scontra con l’” Usa e getta”. L’azienda birraria commissiona lo studio allo
IEFE (Istituto di Economia e Politica dell’Energia e dell’Ambiente) dell’Università Bocconi di Milano, che ne prova la sostenibilità ambientale; l’analisi del ciclo di vita (Life Cicle Analysis) ottiene la certificazione EPD, e il sistema permette alla Carlsberg di conquistare il Premio Innovazione amica dell’Ambiente di Legambiente (ed. 2012). Tra i punti focali vi è il risparmio di CO2 che veniva utilizzata per l’insufflazione della birra nel fusto d’acciaio, e la riciclabilità del fusto in PET. Ma basta questa qualità a renderlo green? Per essere effettivamente avviato al riciclo, una volta vuoto, il commerciante dovrebbe smaltirlo correttamente nella raccolta differenziata, che l’amministrazione comunale dovrebbe gestire efficientemente. Questo è presuppo-
sto. Ma nel Rapporto Rifiuti Urbani (ed. 2013) dell’ISPRA, leggiamo che nel 2011 nell’UE 27 circa il 36% dei rifiuti urbani gestiti è smaltito in discarica, in Italia la percentuale supera il 40% a cui si aggiunge il 16,9% di incenerimento. Vi sono regioni in Italia in cui la raccolta differenziata non supera il 20% sul totale dei rifiuti prodotti. Solo il 36% degli imballaggi in plastica immessi al consumo nel 2011 venivano riciclati, e le previsioni (L’Italia del Riciclo 2013) annunciano solo un lieve incremento (39% nel 2015). Che fine fanno i fusti green di Caslberg?
sapere tra i due qual è meno inquinante?”, giustamente domanda il relatore. Il consumatore può fare affidamento a certificazioni redatte da terzi per il determinato prodotto, le quali garantiscono sulla greenicità, oppure fidarsi delle dichiarazioni che l’azienda riporta sulle eti-
chette in cui viene indicato il tasso d’inquinamento. Ma allora è proprio facile! Basta seguire la giusta dicitura delle etichette o scegliere prodotti certificati per stare sereni con la propria coscienza ecologica? Nemmeno per sogno. L’impatto ambientale può nascondersi nelle numerosissi-
me fasi che portano un prodotto dalla progettazione alle nostre mani, il che comprende il trasporto fisico dal luogo di produzione al negozio, l’utilizzo da parte del fruitore e in ultimo anche il corretto smaltimento dell’imballaggio. Claudia Ressoni
Antonella Proietti 26 anni, Roma
18 anni, Roma
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LEGGI e NORME
per le imprese di Anna Carosi, 19 anni Roma
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a sensibilità ambientale è una conquista recente: fino al secolo scorso si è pensato in termini di crescita e produzione, e solo recentemente si è fatta strada la consapevolezza dell’impatto ambientale dei prodotti e delle azioni necessarie per produrli. Fra le prime tappe “ufficiali” di questa consapevolezza Tullio Berlenghi – giurista ambientale, relatore al workshop di Giornalisti Nell’erba sul tema “Come si misura la greenicità” – indica la data del 1972, quando il Club di Roma, un’associazione non governativa di scienziati, commissionò al Massachusetts Institute of Technology di Boston il rapporto (ormai famoso) I limiti dello sviluppo, “per valutare le conseguenze della crescita di alcune variabili fondamentali: popolazione mondiale, industrializzazione, inquinamento, produzione alimentare e consumo di risorse”. Da allora lo sappiamo: crescere implica aggressione alle risorse naturali, che possono essere riproducibili… Oppure no. Assodato questo, occorre porsi una domanda: come vogliamo crescere, senza rischiare di ritrovarci senza più un pianeta sotto i piedi (o senza acqua, petrolio, …aria)? Le scelte coinvolgono tutti: istituzioni, operatori economici, cittadini. E’ questione di stili di vita, ma anche di norme. Per sollecitare buoni comportamenti ambientali abbiamo a disposizione tre modalità, spiega Berlenghi: “moral suasion, command and control o deregulation”. Mettendo da parte la deregulation, significa che o ci vuole un “poliziotto cattivo” o occorre rimboccarsi le maniche. E quindi tante aziende si sono rimboccate le maniche, per aderire alle norme sull’ambiente, ma anche per far conoscere le loro pratiche green, vere o (a volte) presunte. Nasce quindi un altro problema: come distinguere green da greenwashing? Possono esserci utili le certificazioni... In Europa, dal 1992 in poi, sono stati emanati diversi regolamenti che riguardano le certificazioni ambientali. Nel 1992 nasce Ecolabel, il marchio europeo di certificazione ambientale per prodotti e servizi. Si basa sull’ade58
sione volontaria e viene concesso a prodotti o servizi che rispettano alcuni criteri stabiliti a livello europeo: si tiene conto di consumo energetico, inquinamento, produzione di rifiuti, risparmio di risorse naturali, sicurezza ambientale e protezione dei suoli. Un’altra certificazione europea è l’EMAS (Eco-management and audit scheme), un sistema a cui possono aderire volontariamente imprese e organizzazioni che vogliono impegnarsi nel valutare e migliorare la loro efficienza ambientale. “Ha come indicatori chiave – spiega Berlenghi – efficienza energetica, efficienza dei materiali, acqua, rifiuti, biodiversità, emissioni”. L’IPP (integrated product policy, cioè politica integrata dei prodotti) è “finalizzata a garantire che lo sviluppo tecnologico e industriale sia accompagnato da un costante miglioramento dell’efficienza ambientale della produzione”: in poche parole, intende responsabilizzare i produttori su tutto il ciclo di vita del prodotto, fino al suo recupero o smaltimento, e quindi comprende la fase successiva alla vendita coinvolgendo anche il consumatore in scelte consapevoli. Il GPP, green public procurement, è l’approccio che le pubbliche amministrazioni devono avere, considerando nei loro acquisti gli aspetti di impatto ambientale di prodotti e servizi, favorendo con le loro scelte lo sviluppo di un mercato “più green”. C’è poi l’EPD, environmental product declaration (in italiano DAP, dichiarazione ambientale di prodotto), che, come l’Ecolabel, è un’etichetta ecologica a cui si può aderire volontariamente. L’EPD prende in considerazione tutto il ciclo di vita di un prodotto o sevizio secondo il sistema LCA (life cycle assessment). La certificazione EPD viene verificata e convalidata da un organismo indipendente che garantisce la veridicità delle informazioni fornite da chi richiede la certificazione. “Uno degli obiettivi dell’EPD – dice Berlenghi – è quello di migliorare la comunicazione tra produttori e tra produttori e consumatori”, fornendo le “prove” di questa attestazione di greenicità.
QUANTO COSTA ALL’ AMBIENTE... Al giorno d’oggi viviamo circondati da un numero infinitamente grande di oggetti, più o meno utili alla nostra vita. Ci siamo mai chiesti, però, qual è il loro impatto sull’ambiente? Se questo si possa misurare e cosa comporti produrli? Ebbene, la risposta è sì, un metodo c’è e può essere utilizzato da tutti quegli enti o imprese che vogliono dedicarsi allo sviluppo sostenibile. Proprio di questo abbiamo parlato con Fabio Iraldo, professore associato di Management ambientale alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e direttore della Ricerca IEFE (Centro di ricerca Politiche economiche energetiche e ambientali presso l’Università Bocconi), durante il workshop “Come si misura la greenicità?”, tenutosi il 20 marzo scorso presso l’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ma come è strutturato questo metodo? Il nome stesso può già dire qualcosa. “Viene definito dell’analisi del ciclo di vita dei prodotti o dei servizi poiché l’impatto ambientale viene valutato dall’estrazione delle
materie prime dalla terra fino alla restituzione del prodotto inutile all’ecosistema – spiega il Prof. Iraldo - Ogni singola fase viene analizzata». Due “macroconfini”, quindi, risorse naturali e restituzione del prodotto “esaurito” all’ambiente, all’interno dei quali, per valutare tutti i tipi di output inquinanti che vengono generati, «va collocato tutto ciò che accade in termini di trasformazioni della materia prima, compresi trasporto, utilizzo e fine vita”. Il metodo rappresenta una vera e propria svolta in termini di sostenibilità ambientale ma stenta a decollare e divenire norma, al pari dello stesso concetto di “green”. “Putroppo tali iniziative sono molto personali. – commenta il professore – Se l’imprenditore o il politico sono persone sensibili, non legate al profitto o al consenso politico, è facile indirizzare la propria impresa o la propria amministrazione verso un miglior impegno ambientale. In caso contrario, rimane impossibile”. Luca Crosti, 23 anni, Roma 59
Quanto e come siamo green
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er rispondere a tale domanda sarebbe ottimale per il lettore spiegare cosa si intenda per green. Questo è il modo in cui ultimamente viene indicato tutto ciò che ha a che fare con il rispetto per l’ambiente. Questo cambiamento di etichetta, in realtà non riguarda solamente la terminologia della titolazione, ma più un’espansione del settore stesso, volto ad abbracciare più argomenti riconducibili tutti alla stessa “matrice”: la greenicità. Il termine “green” ha debuttato anche nel dizionario statistico, sorgendo in una piccola infografica all’interno della pubblicazione annuale “Italia in cifre”, elaborata dall’Istat. Tale operazione ha fatto sì che si concedesse il giusto valore, la stessa importanza che si addice a qualsiasi svolta o cambiamento. Molte sono infatti le innovazioni nell’ambito della coscienza ambientale, novità che hanno portato a rilevare dati e indicatori su energia verde, aree protette e consumo di suolo: hanno dato il via ad un nuovo movimento, quasi uno stile di vita. Quanto e come siamo green? Quanto la nostra greenicità corrisponde alle scelte delle istituzioni, nostre rappresentanti? Siamo un Paese in crescita, seppur in proporzioni minime in alcuni settori. Uno degli obiettivi massimi sarebbe infondere radicalmente i valori verdi nella cultura popolare e civile, facendoli diventare quasi come dei principi basilari della coscienza nostrana: il percorso è lungo, certo, ma non impossibile. I dati Istat sul 2012 dimostrano che l’Italia è diventata molto più attenta all’ambiente, aumentando la produzione da fon60
l’Italia rappresenta il valore più alto tra i primi 15 paesi dell’Unione europea di consumo del suolo: il 7,8% del territorio
Raccolta Diferenziata -Nord 51,1%-Centro 30.2%-Sud 21,9%-
ti rinnovabili, arrivando nel 2012 al 26,9% sul totale dell’energia consumata, equivalente al doppio registrato nel 2002. È bene portare all’attenzione del lettore anche la continua diminuzione registrata del consumo idrico giornaliero procapite, pari a 175 litri, una netta riduzione d’uso degli ultimi 10 anni, frutto del sempre più riguardo che si dedica a questo settore per educare il cittadino a non sprecare, ma figlio anche degli alti costi economici che l’acqua comporta. Le auto in città sono diminuite e le città ciclabili sono aumentate: tutti dati che fanno presupporre ottimismo. È un peccato però affiancare i dati positivi a quelli negativi. In pochi ad esempio sono a conoscenza del fatto che l’Italia rappresenta il valore più alto tra i primi 15 paesi dell’Unione europea di consumo del suolo: il 7,8% del territorio presenta una copertura artificiale; la media europea è pari a 4,6%. Oppure pensiamo ai dati riguardanti la raccolta differenziata dei rifiuti, ancora etichettata come “stranezza” nelle famiglie italiche. In questo campo è molto attivo il nord che raggiunge il 51,1% dei cittadini attivi in tale ambito; situazione opposta la si trova nella zona del Mezzogiorno dove solamente il 21,9% differenzia la propria spazzatura; al centro il dato corrisponde al 30,2%. Sì, siamo green, in un modo degno del “tricolore”, ma lo siamo. La nostra greenicità è in completa espansione ed il verde della nostra bandiera sarà presto quello delle nostre città. Marco Harmina 22 anni Roma
LA CERTIFICAZIONE ENERGETICA DEGLI EDIFICI Risparmio energetico ed energia pulita sono valori chiave per una formula vincente contro l’inquinamento ambientale. Da dove cominciare? Non possiamo pensare la quotidianità senza tener conto dell’edificio in cui viviamo. E’ proprio a questo proposito che vogliamo analizzare cos’è e come funziona la “Certificazione energetica degli edifici”. L’Attestato di certificazione energetica (ACE), tramite un meccanismo analogo a quello utilizzato per la classificazione degli elettrodomestici o dei veicoli, permette di stimare il livello dei consumi energetici primari di un immobile e di conseguenza ci offre un quadro indicativo dei loro costi. Il certificato viene rilasciato da un professionista abilitato, che sulla base di dati tecnici e calcoli mirati, definisce la classe energetica di appartenenza dell’edificio (A +, A, B, C, D, E, F e G)che ne evidenzia le prestazioni e le caratteristiche. Gli scopi della Certificazione Energetica possono essere molteplici. Primo tra questi la sensibilizzazione sulle problematiche energetiche ed ambientali mirata tanto ai professionisti quanto ai cittadini. Inoltre il certificato energetico di un edificio si propone come guida per orientare proprietari di immobili, costruttori o semplici inquilini a prediligere gli edifici con elevati standard energetici, grazie anche alla ormai nota convenienza in termini economici di un’abitazione “green”. Cosa misura precisamente l’ACE per
valutare la nostra classe energetica? La legge prevede l’obbligatorietà della certificazione energetica per tutti quegli edifici di nuova costruzione o sottoposti a ristrutturazione edilizia e per la compravendita o la locazione di un intero immobile o di singole unità immobiliari, questa solo in alcune regioni. A differenza poi della diversa destinazione d’uso dell’edificio è opportuno valutare in base alle norme vigenti la necessità o meno dell’ACE. Valutare il consumo di energia della nostra casa e conoscere in che modo possiamo ridurre gli sprechi ed ottimizzare i consumi può essere il primo passo per un’idea di un mondo migliore, che parta da un’edilizia ed un “modus vivendi” più salubri per noi e più rispettosi per l’ambiente. Andrea Giannetti, 21 anni Roma
ELEMENTI CHIAVE PER LA VALUTAZIONE DEL NOSTRO EDIFICIO IN TERMINI ENERGETICO–AMBIENTALI SONO: • LA CLIMATIZZAZIONE ESTIVA ED INVERNALE • IL RISCALDAMENTO DELL’ACQUA AD USO DOMESTICO • L’EVENTUALE VENTILAZIONE • L’ILLUMINAZIONE • IL CONTRIBUTO ENERGETICO DI EVENTUALI FONTI RINNOVABILI
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sogno che tutto il Paese sostenga l’innovazione ambientale. Ma soprattutto è importante capire quanto ognuno, nelle scelte e nei piccoli gesti quotidiani, è fondamentale in questo cambiamento. Anche quando si pensa di vivere in modo green a volte in realtà si fa il contrario: pensate che “il 90% dei prodotti che crediamo essere ecologici in realtà non lo sono”, dice Fabio Iraldo, professore associato di Management ambientale alla Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, direttore della
Sai la misura della greenicità
di un cheeseburger?
C
ome essere “green”? cominciamo con l’essere ben informati Quanto contribuiscono al riscaldamento globale le cose che facciamo ogni giorno? Come capire quando un prodotto è davvero ecosostenibile? Scopriamolo insieme. Preferite mangiare un cheeseburger sotto casa invece che prendere un treno e andare a casa di vostra nonna a pranzo? Scelta sbagliata. Non solo perché non passerete del tempo con vostra nonna e non mangerete cose genuine, ma avrete anche inquinato l’ambiente. Proprio così, un cheeseburger equivale a 30 km in treno. Pensate di scrivere una mail invece di recavi a casa di qualcuno? Rifletteteci bene, un anno di mail inquina come 300 km in auto; inoltre, ogni volta che acquistate un computer sappiate che la sua impronta di carbonio (fasi di produzione, trasporto, vendita, uso comprese) equivale a quella di un volo di andata e ritorno da Glasgow a Madrid. (*) Per permettere all’intero sistema produttivo italiano di migliorarsi c’è bi62
Ricerca IEFE (Centro di ricerca Politiche economiche energetiche e ambientali alla Bocconi), cofondatore di Cesips, centro inter-universitario per lo sviluppo della sostenibilità (Politecnico di Torino e Università di Genova), al workshop “Come si misura la greenicità”. Allora come scegliere uno stile di vita realmente green? Una via semplice sta nella capacità di valutare quanta anidride carbonica (CO2) viene prodotta attraverso le scelte più semplici: qual è la meta del vostro viaggio, che mezzo di trasporto usate, che prodotti acquistate, se lasciate la tv in stand-by, e così via. E occorre imparare a leggere bene le etichette e a controllare se ci sono le dovute certificazioni… Insomma, per diventare completamente green bisogna essere prima di tutto ben informati. Alba Pietrantuono 23 anni Campobasso
(* fonte “La tua impronta” di Mike Berners-Lee, ed. Terre di Mezzo)
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etichette per l'ambiente C
osa sono le certificazioni green? Servono davvero? Ci sono certificazioni green preferibili ad altre? I prodotti con certificazioni green sono facilmente individuabili dai consumatori? Le certificazioni sono dei certificati che comunicano al consumatore che quel prodotto è ecologico cioè non danneggia l’ambiente. Servono per limitare i danni, ridurre insomma l’impatto dei prodotti e delle produzioni. Secondo Sergio Ferraris, giornalista scientifico e ambientale, non sono perfette ma comunque necessarie, ancor di più se si parla di quelle europee. Per esempio l’ Ecolabel assicura che i parametri ecologici siano rispettati da tutti i paesi europei. Ci sono alcune certificazioni green preferibili ad altre?
Non esistono certificazioni green migliori ma ci sono enti diversi con certificazioni di prodotti diversi I prodotti con certificazioni green sono facilmente riconoscibili? Di solito si, però è fondamentale leggere le etichette dei prodotti acquistati. Per esempio oggi nelle etichette del prodotto è obbligatorio specificare se è presente l’olio di palma, mentre prima veniva generalmente definito come olio vegetale. Un altro esempio è quello degli elettrodomestici, per cui sarebbe meglio inserire nelle etichette la traduzione in termini ecologico-finanziale, da cui si può dedurre quanto si può risparmiare. Dalia Di Giambattista
II media A Don Milani Monte Porzio Catone
A
nche le certificazioni si stanno evolvendo e hanno raggiunto un livello in cui sono diventate di buona qualità. Oltre alle normali certificazioni (ISO 9001, ISO 14001 e OHSAS 18001) ne sono nate alcune che rendono le imprese più green (EMAS, ECOLABEL), Le certificazioni servono alle aziende perché indicano cosa fare quando si vuole, volontariamente, dare un percorso ambientale nel loro ciclo di produzione o in tutto il ciclo di vita dei loro prodotti. Sono un riconoscimento ufficiale di alcuni passaggi in direzione della sostenibilità. Ci sono certificazioni diverse perché ciascuna ha un metodo e un obiettivo. Alcune analizzano ad esempio la fase di produzione (come EMAS), altre il prodotto o il servizio (come Ecolabel) ecc. Molte imprese italiane hanno aderito al programma del ministero dell’ambiente per le certificazioni di prodotti sostenibili. Da questo si può dedurre che sta crescendo il numero di imprese interessate alle certificazioni di qualità ambientali con l’obiettivo di ottenere miglioramenti ambientali, economici ed organizzativi. Negli ultimi tempi, anche il consumatore viene coinvolto nel sistema di sostenibilità. Infatti si parla di “produzione e consumo sostenibili” (SCP). Altri strumenti per l’analisi della greenicità sono LCA e il GPP. Camillla Ruberti, Claudio Giubilei, Sara Cannavò e Valeria Serafini
III media Ist. Compr. via D’Azeglio Frascati
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COME SI MISURA
LA GREENICITÀ
DI UNA FAMIGLIA? di Maria Grazia Antonella
La greenicità è uno stato interiore. Ce l’hai dentro, anche se non sempre ti comporti in modo da farla venire fuori. Ma basta un evento della tua vita, un evento dirompente ed inaspettato, per farla affiorare in superficie e per farle sconvolgere tutte le tue abitudini. Cinque anni fa il mio piccolo Bibo venne al mondo. Da quando avevo deciso di insegnare, le tematiche ambientali mi erano sempre state molto a cuore. Ma quando seppi che lui c’era, iniziai a rendermi conto di dover fare qualcosa di più concreto per il pianeta su cui avremmo vissuto insieme. Così iniziò il mio percorso di downshifting, o decrescita felice. Il concetto di decrescita felice arriva in Italia nei primi anni del 2000 e diventa realtà grazie al lavoro di Maurizio Pallante, il quale fonda nel dicembre 2007 il Movimento per la Decrescita Felice (MDF). Cosa si propone, in parole povere, la decrescita felice? Di invertire la tendenza per cui il benessere di uno Stato si misura attraverso il PIL e quindi attraverso una crescita economica che spesso produce inquinamento. Chi aderisce a questo movimento, si propone di agire lungo tre direttive 66
principali: 1.Lo STILE DI VITA: si passa dall’acquistare tutto ciò di cui si ha bisogno all’autoprodurre (cibo, cosmetici, detersivi…), usando per lo più ingredienti semplici, biologici e a km zero e riscoprendo la bellezza del saper fare da sé! 2.La POLITICA: nascono Circoli Territoriali che si propongono di diffondere i principi della Decrescita Felice, anche attraverso l’organizzazione di corsi di autoproduzione del pane, dello yogurt, dei detersivi… 3.Le NUOVE TECNOLOGIE: si usano le nuove tecnologie per ridurre l’impronta ecologica e migliorare così la qualità della vita. Tutto questo prescinde dal fatto che il PIL aumenti o diminuisca. Quello che interessa è che ci sia un miglioramento nella qualità della vita delle persone, insieme ad una significativa riduzione delle risorse e ad una attenta salvaguardia dell’ambiente. Come pratico quotidianamente la De-
crescita Felice? La nascita di un bambino comporta molte spese…e anche molto inquinamento! Basti pensare alle centinaia di pannolini usa e getta che ogni neonato consuma nei suoi primi 2-3 anni di vita. Pannolini che inquinano sia quando sono prodotti, sia quando vengono smaltiti in discarica. Ma come hanno fatto i nostri antenati prima dell’avvento del pannolino usa e getta? Semplice! Con i pannolini lavabili (i famosi ciripà)! Acquistando una decina di questi pannolini lavabili, si sta tranquilli fino a che il bimbo non riesce ad andare in bagno autonomamente. E poi si possono riusare per fratellini e sorelline che verranno, e addirittura essere regalati ad altre mamme che vorranno fare questa scelta! Per conoscere tutti i vantaggi dei pannolini lavabili, basta visitare il sito di nonsolociripà. Da quando è stata inventato questo sistema di assorbenza usa e getta, i pannolini non sono stati utilizzati solo per i bambini, ma sono diventati anche i fidati compagni mensili delle mamme. E così, per decenni, si gettano in di-
scarica assorbenti non biodegradabili, che rilasciano diossine e altre sostanze nocive nell’ambiente. La mamma green ha però la possibilità di scegliere tra due soluzioni, entrambe estremamente ecologiche: o acquistare degli assorbenti lavabili, oppure acquistare la mitica coppetta mestruale, grazie alla quale non ci sarà neppure bisogno di sprecare acqua e detersivo! GENIALE! Quanto influisce la pubblicità sulle scelte dei neogenitori? Negli ultimi decenni intorno ai neonati si è sviluppata una fiorente industria di prodotti per lo più inutili e spesso dannosi. Oggetti di cui per millenni l’umanità ha fatto a meno e che improvvisamente – grazie al sapiente lavoro di condizionamento della pubblicità – sono diventati indispensabili per poter crescere un figlio: lo scaldabiberon, lo sterilizzatore per ciucci e biberon, il termometro ad infrarossi, il walkie talkie per controllare giorno e notte che il piccolo non faccia neppure uno strilletto di cui mamma e papà non siano al corrente. Accanto a questi oggetti superflui, che fanno sembrare enormemente dispendiosa la crescita di un figlio e che hanno sicuramente un importante impatto ambientale sia in fase di produzione che in fase di smaltimento, ma che per lo meno non sono dannosi per i bambini, vi sono poi prodotti che risultano nocivi per l’ambiente e – purtroppo – per i bambini. Parlo innanzitutto di quei prodotti cosmetici che dovrebbero servire per la pulizia quotidiana del neonato, come bagnoschiuma, salviette umidificate, shampoo, creme emollienti. La maggior parte di questi prodotti contiene ingredienti che il Biodiziona-
rio (www.biodizionario.it) non esita a definire “inaccettabili”: ingredienti come, solo per citarne uno, i petrolati (si trovano sotto le diciture “paraffinumliquidum”, “mineraloil”, “cera microcristallina”, “vaselina”…), che non sono altro se non derivati raffinati del PETROLIO!! Queste sostanze hanno un apparente (e sottolineo apparente) effetto emolliente e lisciante, ma in realtà rilasciano su pelle e capelli un film oleoso molto tossico, non ecocompatibile e non biodegradabile. Quando
questo film con il passare delle ore si toglie, l’effetto emolliente e lisciante sparisce, ma sul nostro corpo lascia tracce indesiderate, che accumulandosi possono secondo alcuni avere persino un forte potere cancerogeno. Come risolve questo problema una famiglia green? Usa prodotti eco-bio, che abbiano per la maggior parte ingredienti di origine naturale e che siano certificati da enti internazionali che ne attestino la totale sicurezza,
l’ecocompatibilità e la biodegradabilità. Oppure scopre che esistono prodotti 100% naturali, come l’amido di riso per fare il bagnetto al neonato, il ghassoul per lavare i capelli come fanno le donne del deserto, l’olio di avocado o di mandorle dolci da arricchire con qualche goccia di profumato olio essenziale per massaggi rilassanti (sia per i piccoli che per i grandi!). E anche l’ambiente ringrazia! Molti di questi prodotti infatti si possono comprare in negozi che li vendono sfusi, cosicché non c’è più neppure il problema dei flaconi da smaltire. E per pulire la casa di una famiglia green? Fino a qualche anno fa entrare in un supermercato e girare per gli scaffali stracolmi di detersivi per tutte le esigenze non mi avrebbe dato nessun fastidio. Al contrario, sarei stata lì tutta intenta a scegliere il lavapavimenti al profumo di cedro del Libano e ylang-ylang oppure lo sgrassatore così potente da far brillare persino i cerchi delle macchine. Ma quando la mia greenicità è venuta a galla, girare per quegli stessi scaffali è diventato insopportabile, oltre che superfluo. Anche per i detersivi, infatti, è possibile fare lo stesso discorso fatto per i cosmetici: pieni di sostanze nocive, hanno oltretutto il terribile difetto di non dichiarare in etichetta la verità, tutta la verità. Cosa c’è all’interno di quei bei flaconi colorati? Non si sa. Per saperlo con certezza, occorrerebbe contattare il produttore. Ma quanti di voi si sono mai presa la briga di farlo? Sicuramente pochi, per non dire nessuno. E allora, nel dubbio, la famiglia green prende le distanze da tali prodotti, e con l’aiuto di molti siti Internet e di un ottimo libro come “Pulire al naturale” di Gabriele Bindi, inizia a lavare i pavimenti con miscele di aceto, bi67
carbonato di sodio, alcol e gocce di olii essenziali e i piatti con un detersivo fai da te a base di limoni, aceto bianco e sale. La scelta più importante e difficile Già da adolescente, guardando un documentario sulle sofferenze degli animali da allevamento, avevo manifestato la volontà di non mangiare più carne. Poi purtroppo non ero riuscita a mantenere l’impegno, ma qualche anno dopo ci ha pensato il mio organismo a dirmi di smettere. Una mattina, mentre bevevo la mia consueta tazzona di latte, ho cominciato a stare male. E così ogni volta che ingerivo latte e latticini. Allora ho iniziato ad informarmi, e leggendo leggendo, ho scoperto quanto fossero incompatibili quei due alimenti con il nostro corpo, e come loro, anche tutti gli altri prodotti di origine animale. Così un bel giorno presi la decisione di diventare vegan e quindi di non mangiare più niente che provenisse da mucche, maiali, pecore e altri animaletti simpatici e sfortunati. Continuando nella mia ricerca sull’alimentazione, ho scoperto quanto mangiare alimenti di derivazione animale sia contro l’ambiente. Infatti un chilo di carne equivale a 35 metri quadrati di foresta, 15.500 litri d’acqua, 15 chili di cereali e 36 chili di Co2. Dal rapporto “I costi reali del ciclo di produzione della carne”, curato dalla Lega antivivisezione (Lav) e consegnato all’ex Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, si evidenzia che se la produzione di carne continuasse a crescere al ritmo attuale, le emissioni di Co2 dovute allo specifico settore raddoppierebbero entro il 2050, intralciando lo sforzo internazionale di riduzione di emissioni da gas serra provenienti dalle altre fonti. La carne bovina è quella a maggiore impatto ambientale, seguita da quella di maiale e di pollo. 68
La scelta vegan tiene conto poi anche del triste rapporto tra consumo di carne e fame nel mondo. Un vitello, per esempio, per raggiungere un peso di 500 chili, deve consumare oltre 1200 chili di cereali. Con 1.200 chili di cereali si ottengono quindi 250 chili di carne, ovvero circa 200 grammi di carne ogni chilogrammo di cereali (questo rapporto è riferito alla carne da vitello e diventa ancora più sfavorevole nel caso di carne di manzo o di vacca adulta). Dunque quante persone si possono sfamare con 200 g di carne? E quante con un kg di cereali? Fatte queste considerazioni, una famiglia green che si rispetti non può che scegliere di essere vegan, o - se proprio non ci riesce - per lo meno di limitare al massimo l’assunzione di prodotti animali. Purtroppo nella società attuale portare avanti certe scelte risulta spesso difficile, ma certamente non impossibile: se si crede in una buona causa, nonostante a volte ci si senta dei “pionieri”, non si può e non si deve mai mollare! Al supermercato, la famiglia green acquista soprattutto alimenti biologici, frutta e verdura a km zero e sta ben attenta ad evitare che tra gli ingredienti dei prodotti che compra ci siano degli “ecokiller”, come ad esempio l’olio di palma proveniente dalle foreste indonesiane. Anche in cucina, non dimentica la lezione della decrescita felice: autoprodurre, autoprodurre, autoprodurre! Avete mai provato la gioia di sfornare in casa il pane fatto con la pasta madre? O la deliziosa bontà della crema di nocciole homemade? Profumi e sapori inimitabili, scaturiti da gesti e complicità che arricchiscono la mente e lo spirito… Solo l’inizio di un lungo ed importante viaggio
Ogni giorno siamo chiamati a fare scelte green. In questo interessante viaggio, si è costantemente in cammino e non si può mai dire di essere arrivati. Si può camminare più spediti, essere bravi e caparbi come maratoneti oppure, come camminatori della domenica, andare piano piano e fermarsi ogni tanto. L’importante, su questo sentiero, è camminare. L’importante è sentirla, dentro di sé, la greenicità. Sentire che hai un insegnamento importante da trasmettere ai tuoi figli e un desiderio che solo loro, le generazioni future, potranno esaudire: coccolare la nostra Madre Terra, aiutarla a riparare le sue ferite e ricoprirla di un manto prezioso, tutto verde.
QUARTA INCHIESTA PUÒ UNA MULTINAZIONALE ESSERE
GREEN?
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‘GREENCASHING’
-VS-
‘GREENWASHING’ Quanto è verde il profitto delle multinazionali? di Eric Barbizzi
Il 3 aprile all’Università Tor Vergata di Roma si è svolto il quarto incontro del ciclo SI FA PRESTO A DIRE GREEN dal titolo ‘Può una multinazionale essere green? Il workshop è iniziato con una tavola rotonda: Paola Bolaffio, direttore di Giornalisti Nell’Erba, Roberto Giovannini, responsabile Tuttogreen de La Stampa, Sergio Ferraris, direttore di QualEnergia, Roberta Ragni, caporedattore di GreenBiz, Matteo Iegri manager marketing della Unilever e il sottoscritto hanno introdotto ed approfondito il tema proposto. Come hanno confermato Giovannini, portando l’esempio della compagnia Rio Tinto, il terzo gruppo multinazio70
nale al mondo che si occupa di ricerca, estrazione e lavorazione di risorse minerarie, e Ragni di GreenBiz, che ha parlato delle certificazioni degli enti terzi non sempre sostenibili, la pessima fama delle multinazionali è purtroppo spesso meritata: basta pensare allo scandalo dello sfruttamento del lavoro minorile della Nike, all’inquinamento causato da aziende petrolifere come Exxon e Chevron, alla Monsanto, che per tutelare la propria produzione di OGM è riuscita a farsi firmare da Obama il ProtectionAct che sospende l’indicazione della provenienza OGM sulle etichette, o alla Syngenta i cui pesticidi nicotinoidi, stando alle denunce di Greenpeace e di altre associazioni ambientaliste,
stanno uccidendo le api in tutto il mondo. Eppure alcune multinazionali, come ha dichiarato Iegri della Unilever, stanno puntando su di un approccio di rispetto sociale ed ambientale grazie a un ‘sustainable living plan’ e collaborazioni con enti di beneficienza come quella tra Algida e Save the Children. La recente scelta di un maggior impegno ambientale di alcune multinazionali può essere un segnale di semplice greenwashing, ovvero un’operazione di facciata intrapresa per promuovere i propri prodotti senza un reale impegno ecologico, che anzi talvolta nasconde sistemi di produzione molto inquinanti, oppure un segnale che po-
tremmo definire ‘greencashing’, ovvero l’inizio di una trasformazione realmente verde quando ci si rende conto che la protezione dell’ambiente è indispensabile anche per poter mantenere i propri profitti. Perché le multinazionali hanno improvvisamente abbracciato l’idea che il cambiamento climatico, ormai a livelli insostenibili, come conferma l’ultimo rapporto dell’IPCC, Intergovernamental Panel on ClimateChange, del 31 marzo 2014 (http://ipcc.ch/ pdf/ar5/pr_wg2/140330_pr_wgII_ spm_en.pdf), finalmente riguarda anche loro? Gli esempi di quanto è successo alla Coca Cola e alla Nike possono aiutarci a capire, infatti entrambi questi giganti commerciali hanno sperimentato in prima persona le spiacevoli conseguenze climatiche dovute a disinteresse per l’ambiente: la Coca Cola si è vista annullare la licenza per utilizzare l’acqua necessaria alla produzione della sua bevanda in India in seguito a una grave siccità, lo stesso problema ha fatto aumentare molto il costo del cotone, materia prima fondamentale per la Nike che ha anche perso una fabbrica in Tailandia, in seguito ad un’inondazione (fonte New York Times 23/01/2014). Le ragioni delle trasformazioni, più o meno genuinamente green, intraprese sono di diverso tipo: come ha fatto notare Ferraris, ad esempio una certa la tendenza a ridurre l’impatto del trasporto e della produzione ha portato le multinazionali a preferire l’acquisto di materia prima e produzione locali; è dovuto a ‘greencashing’, ad effetti ecologi-
camente positivi di una azione di risparmio. L’approccio ‘greencashing’ è necessario anche per il fatto che i consumatori sono più informati e più sensibili alle conseguenze di consumi eccessivi sull’ambiente: infatti, come dimostra un’indagine della Nielsen (agosto 2013), il 50% di essi pagherebbe di più per un prodotto green e il 43% lo ha già fatto. Se ne sono dovute rendere conto la Nestlè, la Coca Cola e la Pepsi quando hanno visto una riduzione nelle vendite delle loro acque minerali ed hanno deciso di produrre le loro bottiglie con materiali più green (fonte Forbes 30/01/2014). Come precisato da Giovannini, il controllo che giornalisti e associazioni ambientaliste possono esercitare sulle multinazionali è un altro importante fattore che costringe le grandi aziende commerciali a stare attente al proprio operato e a fare proposte più green,
come è successo per esempio al gruppo Leroy Merlin che, dopo numerose critiche, ora usa pannelli fotovoltaici e trasporta di più su ferrovia. A proposito di greencashing, greenwashing e correttezza dell’informazione, Giovannini ci racconta di quella volta che si è trovato ad occuparsi giornalisticamente di un progetto della Syngenta su fasce di essenze vegetali in grado di richiamare e far prosperare le api. Nel leggere il comunicato, la notizia è sembrata “vicina” al greenwashing. Cosa fare in questi casi? “Il mio giornale ha riportato correttamente la notizia di un progetto che sembrava valido, senza omettere di illustrare le attività di Syngenta con OGM e pesticidi”. Perché, continua Giovannini, “sta sempre a noi giornalisti discriminare tra notizie e greenwashing, facendo uno sforzo aggiuntivo per informare in modo corretto i lettori e cercando di sfuggire ad eventuali trappole”. Un’altra ragione importante per le azioni di ‘greencashing’ delle multinazionali, secondo Forbes, è che gli investitori preferiscono le aziende che inquinano meno perché mettono al riparo da costi futuri dovuti a leggi più severe per la protezione dell’ambiente (fonte Forbes 12/06/2011). Purtroppo il ‘greencashing’ non è applicabile a tutte le multinazionali: per Giovannini vi sono alcune aziende che non hanno la possibilità di diventare sostenibili se non chiudendo la loro attività, ed è molto improbabile che lo facciano. Le multinazionali creano però anche 71
un altro gravissimo problema: essendo così ricche, a volte più degli stessi paesi in cui operano, sono anche così potenti da poter addirittura impedire ai governi delle varie nazioni di proteggere i propri cittadini: casi come quello della Philip Morris e della Ely Lilly fanno riflettere. La Philip Morris ha chiesto un risarcimento miliardario al governo Australiano, che è stato il primo al mondo a proteggere i suoi cittadini dai rischi mortali del fumo tramite la cancellazione dai pacchetti delle sigarette di tutti i loghi delle multinazionali del tabacco lasciando solo il loro nome su uno sfondo verde sotto ad immagini di persone malate di cancro, mentre la Eli Lilly ha chiesto un risarcimento di 500.000 $ al governo canadese per aver sospeso il brevetto di un suo farmaco, che dovrebbe curare la sindrome di iperattività nei bambini ma è stato testato, secondo la Suprema Corte, solo su 22 pazienti. Un caso particolarmente grave, secondo Giovannini, è quello delle multinazionali dei farmaci che hanno denunciato stati come il Sud Africa e l’India quando questi Paesi hanno iniziato a produrre farmaci generici per l’AIDS: il giornalista de La Stampa ri-
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Visto che al workshop di Giornalisti Nell’Erba sulla greenicità delle multinazionali è presente la Unilever, colgo l’occasione per chiedere qualcosa a proposito della dichiarazione di utilizzo di OGM nei prodotti alimentari. La vostra è stata la prima azienda al mondo ad adoperare e a dichiarare sull’etichetta l’uso di soia OGM nella sua linea di piatti semi-pronti Batchelors Beanfeast. Considerata sia la recente entrata in vigore del Monsanto Protection Act che la semina di Mais 810 della Monsanto anche in Italia - decisione che ha già causato boicottaggi alle aziende che lo hanno piantato - cosa ha intenzione di fare l’Unilever per garantire oggi al consumatore che i suoi ingredienti escludano prodotti OGM i cui effetti sulla salute non sono ancora noti? Mi risponde Ugo De Giovanni, team leader del Sustainable Living Plan di Unilever: “Molti ingredienti sono prodotti utilizzando organismi geneticamente modificati (OGM) e questo avviene senza alcun rischio e/o problema - mi risponde - Dalla loro introduzione nel 1996, l’utilizzo degli OGM è stato ampiamente adottato per migliorare la resa e la qualità dei raccolti delle materie prime agricole, aumentando la resistenza a malattie e a condizionali ambientali sfavorevoli. In un contesto globale in cui la domanda di cibo continua a crescere, è necessario utilizzare nuove tecnologie per garantire la soddisfazione di questa domanda. Ad oggi, molte delle principali coltivazioni al mondo come la soia, il mais ed il riso sono geneticamente modificate. Questo è vero, ad esempio, per più del 75% della produzione mondiale di soia. Unilever supporta l’uso responsabile delle biotecnologie poiché ha già portato importanti benefici e può svolgere un ruolo fondamentale nel miglioramento della sostenibilità dell’approvvigionamento mondiale di materie prime alimentati. Ogni società Unilever è libera di utilizzare ingredienti geneticamente modificati, purché siano approvati dalle autorità competenti e rispettino i nostri standard qualitativi e di accettabilità”.
tiene però che stati e cittadini abbiano i mezzi per difendersi. A tal proposito, sebbene alcuni trattati possano essere utili ai Paesi che li sottoscrivono, perché, come sostiene Giovannini, aiutano a proteggere le vendite dei prodotti delle nazioni firmatarie dall’invasione di quelli di altre nazioni, forse anche meno controllati, io ho dei forti timori sulle conseguenza dell’entrata in vigore del TTIP, Transatlantic Trade and Investment Partnership che fa di UE e NAFTA un mercato unico per le multinazionali, e non sono il solo ad essere preoccupato: tale accordo riprodurrebbe in Europa tutti i meccanismi previsti TTP, il Trans Pacific Partnership, un trattato che moltissimi senatori e parlamentari di vari governi hanno chiesto venga reso pubblico per esaminarne gli obblighi per gli stati firmatari prima che diventi definitivo (http:// www.tppmpsfortransparency.org/). Ufficialmente il TTIP dovrebbe creare posti di lavoro, ma vi è il rischio che le multinazionali possano imporre la propria volontà ai governi firmatari minacciando la democrazia e chiedendo indennizzi esorbitanti: il fatto che il testo stesso del trattato non sia consultabile non è certo rassicurante.
Tornando a risparmio e greenicità, Giovannini ha affermato di essere d’accordo con me in merito alla genialità di un’idea di alcuni scienziati inglesi di fare una ricerca per dare un valore economico ai servizi naturali come, per esempio, l’impollinazione, che nella sola Inghilterra vale 500 milioni di euro, (http://www.giornalistinellerba.org/quanto-vale-il-tuo-panorama/) per stimolare a un maggior rispetto dell’ambiente: il risparmio è una arma convincente su chi ha a cuore i propri profitti! L’informazione ha un dovere che non può mai dimenticare: deve essere sempre attenta e pronta ad aiutare i consumatori a distinguere tra iniziative di greencashing, o promozione di immagine cui corrispondano azioni realmente green, anche se determinate dalla necessità di difendere i propri profitti, e di greenwashing, o finta promozione di immagine: non sarebbe una cattiva idea stabilire dei criteri per calcolare il livello di greenicità di ogni prodotto in modo da poter acquistare consapevolmente e spingere le multinazionali in una competizione utilissima per tutte le creature di questa terra, inclusa la più dannosa e sconsiderata di tutte, ovvero l’uomo.
INTERVISTA A ERIC BARBIZZI Eric è un ragazzo di soli 10 anni ed è già responsabile delle pagine Esteri del giornale “Giornalisti nell’Erba”. Lo è diventato grazie ad un concorso a cui ha partecipato a soli 6 anni. Oltre ad essere un ragazzo prodigio è anche un ragazzo molto devoto alla scuola, infatti in una recente intervista fattagli per Giornalisti Nell’Erba, alla domanda “come riesci a bilanciare questa tua passione con la scuola?” ha risposto che la scuola è sempre al primo posto, ma appena ha un attimo libero si dedica a questa sua grande passione che è il giornalismo . Auguriamo a questo ragazzo una carriera scolastica (e non solo) molto importante, perché se lo merita. Inoltre vorremo ringraziare la redazione di Giornalisti Nell’Erba che ci dà le possibilità di intervistare e di scrivere articoli. Camilla Ruberti Sharon D’Andrea Leonardo Pietrantoni Giada Molino scuola media Frascati
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Quando un tè può salvare il pianeta:
la “Rainforest Alliance Certified” di Luca Crosti
A
lberi centenari, animali e migliaia di altre forme di vita. Ogni pezzo si incastra in quel puzzle perfetto che è il polmone verde del nostro pianeta.Un polmone sottoposto a uno sfruttamento indiscriminato che rischia lasciarci senza più aria, la deforestazione. Causata da meri interessi commerciali, questa pratica è un male che ci affligge da anni e nei confronti del quale è ora di correre ai ripari. Proprio in questa direzione va l'impegno assunto da importanti aziende e multinazionali, tra cui spicca il nome di Unilever. L'azienda, leader nel settore dei beni di largo consumo, dopo gli anni dei boicottaggi promossi da colossi dell’ambientalismo mondiale. negli ultimi tempi si sta fortemente impegnando ad attuare politiche che possano salvaguardare l’ecosistema in cui operano. Come previsto dall’Unilever Sustainable Living Plan (presentato nel 2010) alla fine del 2012, il 36% delle materie prime agricole è stato acquisito da fonti sostenibili. Nel caso del tè Lipton la sostenibilità è “Rainforest Alliance Certified”, ossia certificata dalla “Rainforest Alliance”, organizzazione non governativa (ONG) che lavora con lo scopo di conservare la biodiversità e garantire condizioni di vita sostenibili. Ottenuta da Unilever nel 2012, certifica 74
tendone una crescita il più possibile naturale grazie all’uso ridotto di pesticidi e fertilizzanti, mantenuti al di sotto del Livello di Residuo Massimo. Per raggiungere l’obiettivo della certificazione è stato, infatti, necessario rivolgere l’impegno a tutto quello che ruota intorno alle piantagioni: al suolo, prevenendone l’erosione grazie all’elevato numero di piante; all’inquinamento, ridotto grazie a una gestione migliore dei rifiuti; all’ecosistema, incrementando la biodiversità, stabilizzando i bacini idrografici e proteggendo le specie di alberi a rischio estinzione; alla fauna selvatica, che grazie agli ampi spazi naturali protetti e preservati può continuare a sopravvivere; ai dipendenti delle coltivazioni, ai quali viene sempre riservato un trattamento lavorativo corretto ed è assicurato un miglioramento delle condizioni di vita; alla sicurezza sul lavoro, cercando di mantenere al minimo il numero di incidenti grazie alla formazione continua dei lavoratori; alle comunità locali, attraverso numerosi programmi sociali come contribuire ai costi per la costruzione delle strade pubbliche o donare alberi che poi saranno piantati nelle scuole o nelle sedi delle istituzioni. L’importante multinazionale ha compiuto buoni passi. Basta pensare che, stando ai dati forniti dall’azienda, già a fine 2012 il 75% del tè venduto conteneva, anche se non integralmente, foglie provenienti da piantagioni “Rainforest Alliance”.
che i prodotti utilizzati provengono da piantagioni che non danneggiano l’ecosistema. Sostenibilità per Rainforest Alliance e Unilever non significa porre il proprio sguardo esclusivamente sulla Camellia sinensis, la pianta del tè, pur garan-
I propositi per il futuro sono ancora migliori. Si prevede, infatti, che entro il 2015 tutto il tè provenga da coltivazioni sostenibili e che, entro il 2020, il 100% del tè con marchio Unilever, quello sfuso compreso, abbia ottenuto tale riconoscimento http://www.unilever.it/sustainable-living-2014/#69-284853
COMUNICARE LA GREENICITA’ AI CONSUMATORI Ciao a tutti! Io sono Federica e oggi vorrei parlarvi di una grandissima novità che è il metodo usato dall’ Unilever per comunicae la greenicità ai consumatori. Il metodo che Unilever utilizza è l’Unilever Sustainable Living Plan http://www.unilever.it/sustainable-living/. Questo metodo non è proprio un vero e proprio metodo ma è più che altro un modello che dimostra come la crescita economica può avvenire insieme alla crescita sociale creando benefici e diminuendo l’impatto ambientale. Entro il 2020 l’Unilever ha prefissato 3 obbiettivi principali da raggiungere: ridurre l’impatto ambientale; migliorare salute e benessere; ottenere il 100% delle materie prime sostenibili. Dal 2010 al 2012 l’Unilever ha diminuito le emissioni di CO2,
l’utilizzo dell’acqua e la produzione di rifiuti http://www. giornalistinellerba.org/wp-content/uploads/2011/03/numeri-della-sostenibilita-Unilever.pdf. Entro il 2020 i valori dovranno diventare, secondo il piano: -50% emissioni di CO2, -80% di rifiuti e -65% di acqua. Secondo me è un metodo molto efficace e vantaggioso perché rispetta l’ambiente e garantisce prodotti sicuri. Pensando a questo metodo mi è venuta in mente l’agricoltura biologica perché anch’essa rispetta l’ambiente e garantisce prodotti sicuri. Federica Battiato
IC Don Milani Monte Porzio C.
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“SVELTO” MA GREEN In un mondo di trasporti, in cui tutto è movimentato da imballaggi, uno degli obiettivi del XXI secolo è quello di ridurre l’impatto ambientale causato dagli scarti e dal packaging. Il problema principale è lo smaltimento di questi imballaggi che hanno un forte impatto ambientale. Durante un workshop “Può una multinazionale essere Green?” di gNe (vedi box) si sono analizzati alcuni degli obiettivi di riduzione dell’impatto ambientale delle multinazionali. La capacità di crescita e di sviluppo di un’azienda è sempre di più influenzata dalla capacità di adeguarsi alle richieste di una maggiore eco-sostenibilità e rispetto per l’ambiente. Un caso interessante riguarda Unilever, immensa multinazionale anglo-olandese proprietaria dei marchi più diffusi nel campo dell'alimentazione, bevande, prodotti per l'igiene e per la casa. Nel 2011 lancia l’USLP (Unilever Sustainable
Living Plan) con una visione di tre grandi obiettivi da conseguire entro il 2020: migliorare la salute e il benessere, ridurre l’impatto ambientale, acquisire il 100% delle materie prime agricole in modo sostenibile. E, non da trascurare, raddoppiare il volume di affari. Sul fronte della riduzione dei rifiuti, l’approccio di Unilever sta nel ridurre, riutilizzare e riciclare il packaging prodotto, ottenendo vantaggi sui costi dei materiali, nell’energia e sui trasporti. Molti progressi sono stati compiuti nell’alleggerimento degli imballaggi, nell’ottimizzazione del design e nell’eliminazione degli stessi se non necessari, sostiene l’azienda. Una tra le mosse green di Unilever è quella di fornire ai consumatori ricariche dei prodotti di igiene per la casa e per la persona, consentendo quindi di riutilizzare la confezione principale: nel corso del 2012 sono state introdotte ricariche in diversi mercati, tra cui
Focus: il caso Svelto Eco Ricarica
Svelto arriva nella case italiane nel 1973 con l’invenzione di detersivi da piatti sia in polvere che liquido. La rivoluzione è stata con il formato liquido: le donne lo hanno apprezzato perché rendeva più pratico il dosaggio del prodotto. Le parole chiave sono velocità (il nome “Svelto” lo dimostra), efficienza (grazie alla presenza del limone contro i cattivi odori) e design, grazie alle confezioni. Quest’ultimo punto descrive negli ultimi anni l’ecosostenibilità dell’azienda, con la messa in commercio di formati del prodotto che danno al packaging una svolta green. Nell’immagine, lo Svelto Eco Ricarica al limone da 2 litri: contiene il 70% di plastica in meno e, essendo una ricarica, sensibilizza i clienti a non acquistare altri flaconi in plastica. Youmark analizza l’operazione Eco Ricarica di Svelto: “Lo studio di brand e product design Reverse Innovation ha sviluppato il progetto grafico del nuovo formato Svelto Eco Ricarica per Unilever. Creato da un pouch da 2 litri, il prodotto è strutturato attraverso una brand-architecture pulita, essenziale e di facile lettura che favorisce il messaggio. La comunicazione si concentra principalmente sui due aspetti chiave: maxi convenienza ed eco-sostenibilità ambientale attraverso il 70% di plastica in meno. Un background verde lime, tipico di Svelto, che narra la forza sgrassante del limone e la brillantezza”. P.I. 76
Cina, India, Sudafrica e Regno Unito. Al workshop tenutosi all’Università di Roma Tor Vergata, oltre a rappresentanti Unilever, ha preso parte anche Roberta Ragni, caporedattore di GreenBiz (portale dedicato alla green economy, al green business, alle piccole medie e grandi imprese verdi, e alla gestione dell' impresa green-oriented). Ragni ha espresso il suo parere in merito all’approvvigionamento e smaltimento del packaging industriale: “Le multinazionali hanno iniziato ad usare termini come eco, green, sostenibilità ed eco-sostenibilità, ma il vostro compito di oggi è capire chi è veramente amico dell’ambiente e chi invece applica solo greenwashing aziendale” La giornalista ha spiegato come può avvenire la comunicazione della greenicità da parte delle multinazionali seguendo due filoni: con l’autodichiarazione, cioè tramite report o campagne social, o tramite certificazioni redatte da terzi. A proposito di uno dei marchi Unilever, Svelto, proviamo ad analizzare il messaggio su refill Eco Ricarica. “Secondo un’indagine del Politecnico di Torino denominata ‘Nudi o Vestiti’ - continua Ragni - ho avuto modo di analizzare l’aspetto comunicativo da parte delle aziende sulla vendita e promozione dei prodotti, Vi sono quattro funzioni che se equilibrate bene tra loro possono mettere in ottima luce il futuro dell’articolo: funzione appellativa, persuasiva, identificativa e informativa. Se guardiano il prodotto Svelto Eco Ricarica si può notare l’acuto marketing nella definizione del 70% di plastica in meno e sul focus accentuato dalla parola €CO scritta con il simbolo dell’euro, che in momenti di crisi economica può avere un ottimo impatto sui consumatori”. Non ci focalizziamo soltanto sul packaging, però: non siamo a conoscenza del livello di eco sostenibilità del contenuto dell’Eco Ricarica”. Pietro Ielpo
S
pesso molte associazioni ambientali o semplicemente gruppi di persone denunciano multinazionali « cattive » con azioni di boicottaggio. Tutti sappiamo cosa significa questa parola? Boicottaggio, nel linguaggio ambientale, significa ostacolare una multinazionale al fine di portare dei cambiamenti, o meglio dei miglioramenti per il pianeta. Grazie ad alcune campagne di boicottaggio dei miglioramenti ci sono stati per davvero, come nel caso di Greenpeace dove degli attivisti, della campagna Kit Kat Killer, travestiti da oranghi hanno protestato presso degli stabilimenti in Inghilterra, Germania e Olanda contro la Nestlè a causa dell'uso eccessivo di olio di palma (piu' di 320000 tonnellate l'anno), procuratosi dal « campione » della deforestazione (chiamato cosi proprio dagli acerrimi nemici di Greenpeace) Sinar Mas. A causa dello sfruttamento dell’olio di palma vengono distrutte intere foreste indonesiane, habitat naturali degli oranghi. Il risultato è che ora Nestlè è sulla buona strada: la multinazionale ha infatti annunciato che non userà più prodotti che provengono dalla distruzione delle foreste del Sud Est Asiatico e non acquisterà più prodotti dalla Sinar Mas. Dopo la campagna Kit Kat Killer, il movimento ambientalista, vuole sollecitare altre aziende ad abbandonare comportamenti “poco green”. Altro obiettivo, la Carrefour, accusata dal WWF di essere tra i responsabili della distruzione di una foresta immensa in Indonesia proprio perché i suoi approvvigionamenti provenivano da APP (Asia Pulp & Paper, società della galassia di Sinar Mas): l'olio di palma è usato sia in campo alimentare sia per la produzione di cosmetici e biocarburante ed alcune multinazionali non riescono proprio a farne a meno, ma una multinazionale grande come Uni
BOICOTTAGGIO Una soluzione efficace Danaé Lizzi, Silvia Graziani, Eric Stainier, Dalia Shahen, Lorenzo Milani III A Scuola Media , San Nilo , di Grottaferrata
lever si è data 'da fare' per migliorare la situazione. Unilever infatti dal 2010 si pone di raggiungere alcuni obiettivi entro il 2020 per aiutare un miliardo di persone a migliorare la propria salute utilizzando il 100% di materie prime sostenibili. Unilever, incoraggiata da GreenPeace, usa nei suoi prodotti olio di palma sostenibile certificato da GreenPalm e nel 2012 si è unita a favore del China Sustainable Palm Oil Supply Chain Forum per la ricrescita delle riserve in Cina, il secondo maggior produttore di olio di palma. Sembra che Unilever si stia dando da fare ma a quali scopi? Da quel che dice nel suo Sustainable Living Plan, gli obiettivi da raggiungere servono per migliorare il nostro pianeta, ma anche a ottimizzare i costi e quindi risparmiare. E’ possibile pure che, con l'appoggio da parte degli ambientalisti, possa guadagnare clientela in più. Sinceramente a noi rispondere a queste domande poco ce ne importa, l'importante è che una multinazionale grande come Unilever si stia ponendo delle domande su cosa è giusto fare per migliorare le proprie azioni sull’eco-sistema, accorgendosi anche di avere a proprio favore l’economia. Nonostante Unilever oggi stia facendo
un buon lavoro, nel passato si sono verificati alcuni episodi sgradevoli come lo scandalo sollevato dagli animalisti sulle sperimentazioni della Lipton. Secondo le denunce della PETA, un’associazione americana per la difesa dei diritti degli animali, anche in un prodotto semplice come il tè si nascondono crudeli attività, come la sperimentazione animale e la vivisezione, risultate inutili e cruente su topi, ratti, conigli e piccoli maiali. Secondo le loro accuse, agli animali venivano somministrate dosi massicce di fruttosio che danneggiavano il cervello, e sostanze con contenuto radioattivo come i liquidi di contrasto per le radiografie ed altri sistemi diagnostici. La buona notizia è che, dopo aver ricevuto lettere con migliaia di firme, la Lipton ha smesso di fare test sugli animali. Ciò che con questo articolo vi vogliamo dire è di controllare sempre ciò che comprate, tenendo conto dell’ambiente in cui si vive, e una volta certi che in un determinato prodotto ci siano sostanze pericolose per il pianeta diffondete la notizia così che tutti si diano da fare. In questo caso anche voi starete facendo un’azione di boicottaggio. 77
PERCHÉ RISCHIARE SOLDI E REPUTAZIONE? Do per scontato che tutti sappiano di me abbastanza da credermi antivivisezionista e contro le sperimentazioni sugli animali. Giusto, lo sono. Ma, un po’ per natura, un po’ per mestiere, sono pure pronta a farmi domande. Leggendo l’articolo del gruppo di Danaè Lizzi, così come tanti altri articoli che sono usciti sulla guerra di Peta al tè Lipton del 2010 (guerra finita nel 2011 con la dichiarazione da parte di Lipton di “non commissionare nessun test su animali per produrre il proprio tè o bevande a base di tè”), mi sono chiesta ad esempio quale potesse essere stato lo scopo di sperimentazioni “crudeli ed inutili su topi, ratti, conigli e maiali”. Per quale ragione una multinazionale, il cui scopo primario è quello di far cassa, avrebbe dovuto mettere in piedi un ambaradam di laboratorio, pagando fior di quattrini di stipendi a ricercatori e sborsando fiumi di denaro per l’acquisto di apparecchiature, farmaci, liquidi di contrasto e mettere a repentaglio la propria reputazione – come infatti è accaduto, e non solo al Lipton, ad opera delle associazioni animaliste – per testare “inutilmente” un tè? pb 78
UNILEVER E I TEST ANIMALI Unilever sulla questione dichiara: “Siamo in prima linea nella ricerca di nuovi metodi alternativi alla sperimentazione animale per accertarci della sicurezza dei consumatori. Il nostro impegno per eliminare la sperimentazione animale è alla base del nostro lavoro dal 1980, con lo sviluppo e l’utilizzo di metodi alternativi ai test sugli animali; tra cui nuovi approcci alla valutazione del rischio, modelli biologici e modelli realizzati al computer, e metodi “non animali” per la generazione dati. Dal 2004 investiamo ogni anno 3 milioni di euro in un programma di ricerca innovativo su nuovi metodi alternativi alla sperimentazione animale, adatti a garantire la sicurezza dei consumatori. Il quadro concettuale di riferimento di Unilever per garantire la sicurezza è basato sulla valutazione del rischio potenziale piuttosto che sulla valutazione del pericolo potenziale. Ciò significa che prima di iniziare i test per il lancio, tutti i dati disponibili (compresi i livelli di esposizione e la tipologia d’ingredienti) vengono analizzati per valutare il livello di rischio che può essere attribuito a ciascun singolo ingrediente utilizzato. In questa fase del processo, tali procedure possono eliminare la necessità di test sugli animali. Stiamo inoltre facendo progressi nello sviluppo di un metodo alternativo non basato sulla sperimentazione animale per valutare il rischio di allergie cutanee. Nel 2012 le metodologie di valutazione di rischio che abbiamo
sviluppato a garanzia della sicurezza dei consumatori sono state discusse con scienziati di spicco, politici, autorità di regolamentazione e varie organizzazioni animaliste durante riunioni chiave in Europa, Stati Uniti e Cina (ad es. un workshop congiunto tra Unilever e la Food & Drug Adminitration di Stato Cinese (SFDA) sui metodi alternativi per la valutazione della sicurezza dei cosmetici svoltosi a Pechino nell’Agosto 2012, che ha anche visto il coinvolgimento di due esperti di istituzioni importanti in US). Unilever è impegnata nell’eliminazione della sperimentazione sugli animali. Siamo ugualmente impegnati ad assicurare la salute e la sicurezza dei consumatori, della nostra forza lavoro e dell’ambiente. Non testiamo i prodotti sugli animali a meno che non sia richiesto espressamente dalle autorità locali nei pochi paesi in cui è obbligatorio per legge. In questi casi, cerchiamo di convincere le autorità locali a modificare la legge. Quando per legge vengono richiesti alcuni test sugli ingredienti dei prodotti ed è impossibile utilizzare altri metodi, riduciamo al minimo il numero di animali coinvolti. Per perseguire tali obiettivi Unilever, da un lato applica severe procedure di controllo interno per garantire che la sperimentazione animale venga utilizzata solo quando non sono disponibili alternative, dall’altro lato, investe nello sviluppo e nell’utilizzo di metodi alternativi alla sperimentazione animale che garantiscano uguali condizioni di sicurezza per i prodotti di consumo.
Adottando questo duplice approccio, vogliamo far progredire l’eliminazione della sperimentazione animale e ridurre il numero di test al minimo. Siamo trasparenti sia nell’uso degli animali sia nel mostrare i progressi compiuti nello sviluppo di approcci alternativi. Per Unilever, utilizzare approcci non basati sugli animali è la norma e la sperimentazione sugli animali è l’eccezione. Prima che qualsiasi esperimento sugli animali venga effettuato, la procedura interna di Unilever prevede che la direzione certifichi che non vi sia altro modo per procedere. Unilever non intraprende alcuna procedura di sperimentazione animale, o commissiona ad altri dei test per suo conto, a meno che non sia necessario per soddisfare i propri obblighi di sicurezza, salute e protezione ambientale o sia richiesto dalla regolamentazione del governo locale o di altri organi ufficiali. Quando vi è la necessità di produrre nuovi dati circa la sicurezza e l’efficacia a sostegno dello sviluppo dei prodotti, metodi non basati sugli animali e studi su volontari umani sono usati nella maggior parte dei casi. Unilever sviluppa prodotti che possono contribuire positivamente alla salute e al benessere dei consumatori. Nello sviluppo di questi prodotti, per motivi etici non sempre è possibile effettuare test direttamente sugli esseri umani. Pertanto, nuovi ingredienti possono essere testati prima sugli animali. Gli studi sugli animali possono essere necessari per identificare i benefici dati da questi ingredienti, nonché per valutare la loro sicurezza. Gli scienziati del nostro Centro di Si-
curezza e Salvaguardia Ambientale (SEAC) hanno svolto un ruolo chiave nella collaborazione con ricercatori universitari, altre aziende, gruppi industriali ed enti di convalida, come ad esempio il Centro Europeo per la Convalida dei Metodi Alternativi (ECVAM), finalizzata allo sviluppo, alla convalida e alla successiva accettazione normativa di metodi diversi di valutazione della sicurezza non basati sulla sperimentazione animale. Tra questi metodi troviamo quelli per valutare la penetrazione cutanea, la foto-tossicità, la corrosione ed irritazione della pelle. La nostra ricerca in questo momento si focalizza sullo sviluppo di metodi alternativi per rilevare le allergie cutanee e i tumori della pelle. Abbiamo pubblicato più di 300 articoli scientifici sullo sviluppo e l’applicazione di metodi alternativi per la valutazione del rischio e la salvaguardia della sicurezza dei consumatori e presentato regolarmente le nostre ricerche in varie conferenze scientifiche. Nel corso del 2012, il lavoro del SEAC sulle metodologie alternative
alla sperimentazione animale per la valutazione del rischio e la salvaguardia della sicurezza dei consumatori, si è concretizzato in 23 pubblicazioni scientifiche. Nell’ agosto 2011, alla dottoressa Julia Fentem responsabile del SEAC, è stato assegnato il prestigioso premio Russell and Birch Award dalla Humane Society degli Stati Uniti per la sua leadership e per il suo contributo eccezionale allo sviluppo di metodi alternativi. Unilever è stata membro fondatore della Partnership Europea per gli Approcci Alternativi ai test sugli animali (EPAA). Iniziativa lanciata nel 2005, EPAA è una collaborazione volontaria tra la Commissione Europea, le Associazioni Industriali e le Aziende di sette settori industriali. EPAA promuove lo sviluppo e l’implementazione di metodi alternativi di test sulla sicurezza, e nel 2012 ha portato avanti diverse iniziative di cooperazione internazionale. Unilever ricopre oggi il ruolo di co-presidenza dell’EPAA . SEAC lavora in una partnership strategica con l’Istituto Hamner negli Stati Uniti, su metodologie non basate sugli animali per la valutazione della sicurezza, come suggerito in “I test sulla tossicità nel ventunesimo secolo: una visione ed una strategia” relazione del US National Research Council. Per sviluppare questo nuovo approccio Unilever è membro attivo del progetto EU AXL R8 e del “Human Toxicology Project Consortium” ed è coinvolta in maniera rilevante con la Commissione europea per la ricerca di fondi finanziari e coordinamento dei progetti”. 79
Zero rifiuti in discarica,
come fanno? La parola GREENICITA’ deriva dalla parola green, dall’inglese verde, che consiste nel produrre prodotti sostenibili che non danneggiano la salute dell’uomo e dell’ambiente. Questo è il principio utilizzato dall’Unilever, una multinazionale(industria che si trova in ogni stato). Essa produce cosmetici, detersivi, cibi surgelati, cibi freschi, salse, condimenti, prodotti per la casa, bevande… Attraverso la lettura dei loro siti utilizzati per farsi pubblicità emerge che L’Unilever non invia rifiuti in discarica, che ha aumentato in soli due anni il suo acquisto dell’olio di palma da fonti sostenibili. Per saperne di più abbiamo intervistato il Marketing Director Unilever e Sustainability team leader di Unilever Italia Ugo De Giovanni. Se le fabbriche dell’Unilever non inviano rifiuti a discarica, dove vanno a finire? “Dipende dal tipo di rifiuto. Alcuni vengono utilizzati in altre parti del processo produttivo; altri vengono utilizzati in altre lavorazioni (ad esempio scarti di produzioni che vengono rilavorati e vengono trasformati in cibo per animali); in altri casi vengono inviate a termovalorizzazione”. Com’è possibile la progressione da voi dichiarata riguardo l’acquisto di materie prime vegetali da fonti sostenibili per quanto riguarda l’olio di palma sia passata dal 37% nel 2010 (vostro grafico) al 100% nel 2012 (sempre vostro grafico), mentre per le altre materie prime le percentuali sono rimaste invariate? “Questo dipende dalla natura della materia prima agricola. Il problema di aumentare un acquisto sostenibile deriva dall’assenza/limitatezza dell’offerta e, di conseguenza dal costo. E’ ovvio che, tanto maggiore è il proprio fabbisogno, tanto più facile è creare l’offerta. Unilever è una delle principali utilizzatrici al mondo di Olio di Palma (ingrediente fondamentale nei prodotti della casa e della persona, nel food, etc…) e questo le ha consentito più velocemente di muoversi verso un target di sostenibilità spinto. Non è un caso che anche nel tè e nel cacao stiamo facendo buoni progressi, visto che siamo grandi acquistatori a livello mondiale 80
di questi ingredienti. Quando una materia prima tende ad essere più marginale in termini assoluti allora anche la nostra capacità di creare l’offerta diventa inferiore ed è il motivo per cui su alcune di queste siamo più indietro.” Se l’Unilever dichiara che il 100% dei rifiuti non alimenta le discariche, perché l’Unilever conta di raggiungere l’obiettivo “ZERO RIFIUTI IN DISCARICHE” per il 2015? “Unilever dichiara che il 100% dei nostri siti produttivi in Italia non alimenta discarica. A livello mondiale siamo più indietro del livello che abbiamo raggiunto in Italia ed è il motivo per cui contiamo di raggiungere globalmente questo obiettivo nel 2015”. Questo ci dice che comunque anche l’Unilever, negli altri paesi del mondo invia rifiuti nelle discariche, che utilizza la termovalorizzazione e materie prime che non provengono da fonti sostenibili. Chiara De Luca
IIA I.C. Don Milani Monte Porzio C
Ugo De Giovanni replica a Chiara: “Unilever sta progredendo velocemente verso il raggiungimento dei suoi obiettivi di sostenibilità e, nel caso specifico, ai target di 100% di sustainable sourcing e zero waste to landfill. La complessità della struttura di approvvigionamento e produttiva comporta, come detto, che in talune aree i target siano stati già raggiunti mentre in altre occorre ancora focus e lavoro. Infatti alcune delle fabbriche Unilever, ad oggi, inviano ancora rifiuti a discarica e l’approvvigionamento di alcune materie prima è ancora non totalmente sostenibile. La company comunque conferma che entro il 2015 nessuna sua fabbrica manderà rifiuti a discarica ed entro il 2020 tutte le sue materie prime agricole proveranno da fonti sostenibili.”.
“IN ITAlIA NO WASTE” Unilever nasce nel 1930 dalla fusione di due società, una inglese e l'altra olandese, e ad oggi possiede molti dei marchi più diffusi nel campo dell'alimentazione, per l'igiene e per la casa. Ai nostri giorni è presente in 90 Paesi con 200 filiali e si presenta come il gruppo più importante nel settore dei beni di largo consumo. Alcuni dei marchi che possiede sono: Lipton (bevande), Findus (surgelati), Algida (dolciumi), Slim Fast (alimenti dietetici), Calvé (condimenti), Svelto (detersivi), Calvin Klein (profumi), Knorr (cibi pronti), Axe (igiene personale), Athea (chimica),
Milkana (prodotti a base di latte). La loro missione è di “soddisfare esigenze quotidiane di nutrizione, igiene e cura della persona, con brand che aiutano i consumatori a sentirsi bene, ad aver un bell'aspetto e una vita più piacevole”. Dal 2010 hanno ridotto l'impatto dei loro rifiuti per utilizzo per singolo consumatore di circa il 7%. Il loro impegno è di dimezzare i rifiuti associati allo smaltimento dei loro prodotti entro il 2020. Per il loro impegno con i rifiuti hanno tre obbiettivi: ridurre gli imballaggi, incrementare il riciclaggio e i tassi di recupero, aumentare il
contenuto riciclato. Nel corso del 2012 hanno introdotto ricariche in diversi mercati, tra cui: Cina, India, Sud Africa, Regno Unito ed Italia. Il loro obbiettivo è “sviluppare e implementare un modello aziendale sostenibile per la gestione delle grandi quantità di sacchetti di scarto entro il 2015”. “Entro il 2020 il totale dei rifiuti destinato allo smaltimento sarà minore o uguale ai livelli del 2008, nonostante i volumi sono sensibilmente maggiori”, annuncia sul suo sito la multinazionale http://www.unilever.it/sustainable-living/wasteandpackaging/.
Camilla Ruberti , Giada Molino , Sharon D’Andrea e Leonardo Pietrantoni scuola media via D’Azeglio di Frascati
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LA PAROLA COSA SUCCEDE QUANDO GREENICITÀ UNA MULTINAZIONALE FA GREENWASHING Il neologismo è una parola nuova. Può essere presa da parole già conosciute e che già si usano oppure viene introdotta da una lingua diversa. I neologismi nascono per esprimere dei nuovi concetti e per nominare nuove cose. Per esempio la parola greenicità è un neologismo. Informazioni sulla greenicità. Come ci ha spiegato Diego Scipioni, linguista all’università di Roma Tor Vergata http://www.giornalistinellerba.org/wp-content/uploads/2011/03/ LE-COSE-CAMBIANOPAROLECAMBIANO-di-DIEGO-SCIPIONI.pdf Greenicità ovvero la caratteristica di tutto ciò che è green: verde, ecologico e rispettoso dell’ambiente. La parola greenicità è nata il 17 gennaio 2014, in occasione dei workshop di giornalismo ambientale che Giornalisti Nell’Erba ha fatto all’università di Tor Vergata. Di solito non sappiamo chi è l’inventore delle parole, ma in questo caso sì: la parola greenicità è stata coniata da Paola Bolaffio e dai componenti di Giornalisti Nell’Erba. Loro hanno inventato questa parola per esprimere la qualità delle aziende, delle persone, delle cose, delle azioni green. Commento articolo: per noi è una cosa giusta. Perché per esempio se noi mangiassimo alimenti green, mangeremmo cose sane e così ci eviteremmo molte malattie che poi in alcuni casi portano anche alla morte. Elena Di Giangiacomo IIA Don Lorenzo Milani Monte Porzio Catone
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Cosa succede quando una multinazionale fa il greenwashing? Ci viene da pensare che probabilmente nasconda qualcosa… qualcosa di poco green! Che nasconda degli operati non ecosostenibili o comunque voglia fingersi come ecosostenibile. Il greenwashing consiste in campagne pubblicitarie o altre forme di comunicazione, quindi autodichiarazioni, attraverso cui un’azienda si dà “una mano di verde”, facendo sembrare prodotti o comportamenti più verdi di quanto realmente non sono. A volte il greenwashing serve a coprire dei fatti contro l’ambiente, dei fatti poco green, oppure serve a vendere di più in un momento in cui ci si sta più attenti, oppure ancora sbaglia la campagna di promozione. D’altro canto molte aziende fanno qualcosa di veramente green ma non lo comunicano. Ad esempio la Piaggio, pur usando da anni materiale riciclato, non se ne vanta nelle sue campagne promozionali. Forse è convinta che i suoi clienti pensino che il materiale riciclato sia di qualità inferiore. Una soluzione può venire dalle certificazioni da parte di enti terzi: queste certificazioni offrono una “prova verificata” che la multinazionale le ha ottenute perché i suoi comportamenti rispettano i criteri necessari per ottenerle. Le certificazioni quindi sono utili ai consumatori, che in questo modo hanno uno strumento per capire meglio l’effettiva greenicità delle
aziende. Le certificazioni sono anche utili alle aziende per comunicare meglio la propria greenicità: attraverso le certificazioni, infatti, le aziende possono mostrare le prove della propria greenicità, e dire così – attraverso dati e numeri certificati da un ente esterno all’azienda – che non fanno greenwashing, ma si impegnano davvero per essere più green. Non esiste una certificazione che dica che una azienda è totalmente green: ogni certificazione infatti prende in esame alcuni particolari parametri. Quindi noi, come consumatori, dovremmo imparare a conoscere le certificazioni per capire cosa misurano e cosa testimoniano: in questo modo possiamo sapere di più sulle aziende che ce le hanno e su quanto sono effettivamente green. Poi, non esiste un prodotto sostenibile se da parte dei consumatori c’è un cattivo utilizzo di esso. La sostenibilità del prodotto dipende dall’approvvigionamento delle materie prime, dalla fabbricazione, dall’usufruire del prodotto (per esempio la Unilever, una multinazionale che pone molta attenzione sull’educazione dei consumatori al corretto utilizzo dei suoi prodotti, fa notare che circa il 69% della sostenibilità di un prodotto dipende dall’utilizzo che se ne fa https://www.youtube. com/watch?v=VYxJXC1Hpfk) e dallo smaltimento. Zaninni Caroleo II media Don Milani Monte Porzio C.
MENO PLASTICA GRAZIE AL REFILL L
e aziende si sono accorte da non molto che continuando come facevano, era difficile produrre e allo stesso tempo far del bene all'ambiente. In questo però aiuta il refill. Ma cos'è il refill? La parola letteralmente significa ricambio, ricaricare (es. penne stilografiche, accendini, eccetera). Il refill è stato introdotto dalle aziende perché si sono rese conto che si producevano molti rifiuti quando venivano utilizzati i loro prodotti... danneggiando l'ambiente. Il refill consiste nel diminuire il packaging, cioè la scatola/busta in cui è confezionato il prodotto che viene comprato. Quindi il refill costa anche meno al consumatore perché paga meno imballaggio. Una delle aziende che usa il
refill è, ad esempio, la Unilever, che al workshop di Giornalisti Nell’Erba su “Può una multinazionale essere green” ha proposto le Eco Ricariche Svelto come esempio di come la loro azienda si impegna nell’aiutare i suoi consumatori a ridurre i rifiuti. Il packaging ha un ruolo fondamentale nel mantenere inalterate le qualità dei prodotti ma presenta delle criticità per lo smaltimento. Oltre a lavorare sull’educazione e sul civismo attraverso campagne di sensibilizzazione, le aziende possono però fare molto in termini di design per ridurre pesi e volumi. Ad esempio, “Svelto” nel 2011 ha ridotto la confezione del 20% ( -800 tonnellate di plastica l’anno), mentre quest’anno il formato
ricarica da 2 litri è stato realizzato con il 70% di plastica in meno rispetto alle bottiglie standard da 1 litro”, informa l’azienda http://www.giornalistinellerba.org/wp-content/uploads/2011/03/ Schede-sui-4-prodotti-Unilever-per-singoli-filoni-di-indagine.pdf. In realtà il refill non è usato solo per avere meno impatto nell'ambiente, ma anche per aumentare la popolarità delle aziende che si “fanno belle” pubblicizzando che questa pratica è green, ovvero attenta all'ambiente. Non c’è nulla di male, purché sia vero ciò che dicono. Naturalmente anche i consumatori devono fare la loro parte. Mi raccomando, riutilizzate i contenitori comprando le ricariche.
Daniele Englaro IC Don Milani Monte Porzio Catone 83
La diminuzione del CO2 Coccolino, l’ orsetto ambientalista? di Anselmi Valentina e Wanda Soldati
“Unilever rivoluziona il mondo”. L’ introduzione di fonti energetiche a basso impatto ambientale e di nuove tecnologie per ottimizzare il ciclo di produzione, sono diventati la priorità di questa azienda, assicura il team leader della sostenibilità di Unilver Italia Ugo De Giovanni. Se i criteri di sostenibilità sempre più rigorosi fossero applicabili a tutti i 17 miliardi di prodotti Unilever acquistati ogni anno nel mondo, si tratterebbe davvero di una rivoluzione. L’ obiettivo (http://www.giornalistinellerba.org/wp-content/ uploads/2011/03/Schede-sui-4-prodottiUnilever-per-singoli-filoni-di-indagine. pdf) , infatti, è diminuire, entro il 2020, le emissioni di CO2 del 40% per tonnellata di prodotto. Un ulteriore traguardo che si vuole raggiungere è ridurre di 1/3 il totale del packaging, puntando verso la produzione di formule concentrate, recuperando così gli scarti e diminuendo del 65% l’ utilizzo dell’ acqua in fase di produzione. Tutto ciò ha avuto già qualche buon risultato: in quattro anni la quantità di anidride carbonica rilasciata è diminuita del 31.5%. Questo si può dire anche grazie all’ “intervento” della CHP (Combined heat and power plant, cogenerazione). Come si legge in una scheda diffusa da Univer al worshop di Giornalisti Nell’Erba http://www.giornalistinellerba.org/wpcontent/uploads/2011/03/Schede-sui-4-prodotti-Unileverper-singoli-filoni-di-indagine.pdf, questa tecnologia ha permesso, in Europa, di evitare il rilascio di 50.000 tonnellate di CO2 nell’ atmosfera e di risparmiare 10.000.000 di €. Tra 84
il 2010 e il 2012 Unilever ha registrato una riduzione del packaging del 9.5%. Ulteriori obiettivi sono stati raggiunti nei quattro stabilimenti di Unilever presenti in Italia, (Casalpusterlengo, Sanguinetto, Caivano e Pozzilli, considerati tra i più avanzati in Europa per dimensione, sicurezza, tecnologia, rispetto dell’ambiente e produttività).Nel 2011 è stato evitato il rilascio di circa 20.000 tonnellate di CO2, che avrebbero avuto effetti disastrosi sull’ ambiente, spiega l’azienda: questo buon risultato è stato ottenuto grazie ad un approccio integrato per l’ efficienza energetica che agisce attraverso metodi del tutto naturali. Infatti vengono utilizzati sistemi fotovoltaici e tubi solari. A Caivano è stato installato un sistema aerobico per la produzione di biogas. Questo contribuisce a ridurre le emissioni di 1000 tonnellate di anidride carbonica. Grazie a particolari vasche di riciclo, presenti in tutti i siti italiani, nello stesso anno, gli stabilimenti hanno consumato 200.000 metri cubi di acqua in meno rispetto all’ anno precedente. A voler bene all’ ambiente è anche l’immagine del dolce e profumato orsetto Coccolino. Questo simpatico pelouche vuole trasmettere un messaggio ben preciso e cioè “Più cura al tuo mondo”. “Dobbiamo amare l’ ambiente come amiamo la nostra famiglia, prendendocene cura come faremo con i nostri cari”, spiega Matteo Iegri di Unilever. Ulteriore obiettivo della multinazionale, infatti, è quello della sensibilizzazione dei consumatori, responsabili molto spesso di un uso poco sostenibile dei loro prodotti.
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INNOVAZIONI SOSTENIBILI:
POSSIAMO FIDARCI?
P
IL CASO DEL TÈ LIPTON E DELL’ECORICARICA SVELTO di Patrizio Guerzoni, Lorenzo Gatta, Elisa Sgameli
asseggiando fra gli scaffali del supermercato, possiamo trovare moltissimi prodotti della multinazionale Unilever: dal detersivo per piatti al tè, dai bastoncini di pesce al dentifricio. Quanti di questi però vengono fatti in maniera rispettosa dell’ambiente? Da dove vengono le materie prime con cui sono prodotti? Quanto si impegna questa multinazionale, dal fatturato importante e dunque dal grande impatto ambientale, perché ciò che propone ai consumatori sia il più sostenibile possibile? Per rispondere a queste domande, esaminiamo più da vicino due prodotti, il tè Lipton e il detersivo per piatti Svelto (http://www.leitv. it/cambio-cuoco/wp-content/uploads/ sites/8/2012/06/te-verde.jpg). Il tè Lipton si fregia della certificazione “Rainforest Alliance”, che – come si legge anche sul sito della Unilever – è “un'organizzazione indipendente il cui scopo è ridurre l'impatto ambientale e migliorare i vantaggi socioeconomici”. Questo sistema di certificazione si occupa di attestare che alcuni prodotti di origine tropicale, come tè, caffè, banane, ananas, olio di palma e zucchero di canna, vengano prodotti rispettando alcuni criteri sociali ed ambientali. I criteri sono in tutto 94, suddivisi in 10 categorie, e per ottenere la certificazione è necessario che sia rispettato almeno il 50% di ogni categoria e l’80% in totale. Ci sono poi alcuni criteri obbligatori, come il divieto di discriminare i lavoratori o il divieto di usare OGM in qualsiasi punto della filiera produttiva. Quali di questi criteri rispetta la Unilever 86
ed eventualmente quali non rispetta e perché? Unilever ha così risposto: “L’Unilever Sustainable Living Plan (USLP) si prefigge di separare la crescita dall’impatto ambientale, pur incrementando al contempo l’impatto sociale positivo. Il piano prevede tre grandi obiettivi da conseguire entro il 2020: migliorare la salute e il benessere, ridurre l’impatto ambientale e acquisire il 100% delle nostre materie prime agricole in modo sostenibile e migliorare le condizioni di vita delle persone su tutta la nostra catena del valore.Il Brand Lipton, grazie a oltre un secolo di esperienza ai vertici
nell’industria mondiale del tè, bilancia la tradizione con una continua innovazione rispettando l’ambiente e le persone che lavorano nel settore fin dal momento della coltivazione. Lipton gestisce l’approvvigionamento del suo tè in maniera sostenibile. Utilizza tè proveniente da piantagioni certificate Rainforest Alliance ed ha già aiutato 38.000 piccoli coltivatori a migliorare il proprio tenore di vita. È così che Lipton fa giungere nella nostra tazza un tè Quality N.1”. Da qualche anno, l’offerta dei tè Lipton si è arricchita di una nuova linea, gli infusi alla frutta Lipton Pyramid. Questi infusi sono contenuti in bustine diverse da quelle cui siamo abituati, bustine piramidali che dovrebbero avere il vantaggio di conservare maggiormente aromi e caratteristiche organolettiche del prodotto, ma che sfortunatamente sono fatte di un materiale, il PET, non compostabile. Come sono sigillate queste particolari bustine? Abbiamo chiesto alla Unilever se la sigillatura fosse fatta con la colla, generando problemi per la salute dei consumatori, ma dall’azienda è arrivata una rassicurante smentita. Inoltre il materiale di cui sono fatte le bustine, a contatto con l’acqua calda, non sprigiona ftalati, ossia sostanze cancerogene, come si potrebbe pensare dato che la sigla PET significa “polietilene tereftalato”. Il PET in questione è un materiale ampiamente utilizzato per la produzione di packaging alimentari e dunque totalmente sicuro. Il suo unico difetto, quindi, sembra essere il fatto che non sia compostabile.
Perché allora la Unilever, la cui mission è quella di essere un’azienda sempre più sostenibile, ha deciso di tirar fuori questo tipo di bustina? Così rispondono dall’azienda: “riguardo al packaging impiegato per le bustine della linea Pyramid, è opportuno sottolineare che Unilever utilizza molteplici materiali per l’imballaggio, affinché vengano rispettate ed esaltate al meglio le caratteristiche di ogni suo prodotto nel rispetto della sicurezza dei consumatori. Negli ultimi anni inoltre, come parte del Sustainable Living Plan, Unilever si è posta anche l’obiettivo ambizioso di dimezzare i rifiuti associati all’utilizzo dei nostri prodotti entro il 2020. Unilever sta inoltre migliorando continuamente la sostenibilità di tutti i suoi prodotti e nel frattempo è impegnata a comunicare sempre di più come smaltirli nel modo meno impattante sull’ambiente”. Per raggiungere questi obiettivi, l’azienda potrebbe ad esempio utilizzare carta riciclata per le confezioni di tè oppure creare un’unica confezione interamente di plastica per contenere le bustine, invece della confezione attuale, fatta di cartoncino e involucro esterno di plastica. Esaminiamo ora un’altra innovazione della Unilever che mira a ridurre l’impatto ambientale: l’ecoricarica Svelto. Anche in questo caso, la Unilever si è dimostrata attenta al fatto che il maggior impatto ambientale dei suoi prodotti si verifica quando questi arrivano nelle nostre case, e dunque quando li usiamo e quando li smaltiamo attraverso i rifiuti. Per limitare quindi l’utilizzo di plastica nella confezione, è stata creata questa ecoricarica con il 70% di plastica in meno rispetto alla bottiglia tradizionale. Sicuramente un bel risparmio, anche per le tasche dei consumatori, in quanto, a parità di detersivo, l’ecoricarica costa sensibilmente di meno. Sicuramente una innovazione davvero sostenibile potrebbe essere quella di aprire degli store di prodotti sfusi, in cui ogni cliente possa ricaricare tranquillamente i flaconi che si porta da casa.Da quanto risulta dunque da questa inchiesta, la Unilever può fare ancora molto sulla strada della sostenibilità, ma è sicuramente una delle poche multinazionali che ha a cuore l’ambiente e che cerca costantemente di migliorarsi sotto questo profilo.
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LE CERTIFICAZIONI GREEN:
IL CASO DELLA RAINFOREST ALLIANCE SONO REALMENTE EFFICACI O È GIUSTO AVERE DEI DUBBI NEI LORO CONFRONTI?
Cos’è la Rainforest Alliance? La Rainforest Alliance è un’associazione non governativa che attesta il rispetto di alcuni criteri sociali ed ambientali nella produzione dei prodotti agricoli di origine tropicale: cacao, caffè, tè, banane, ananas, noci, canna da zucchero, palma da olio, girasoli e soia. Questa associazione utilizza 94 criteri divisi in 10 categorie: sistema di gestione sociale ed ambientale, conservazione degli ecosistemi, protezione della fauna selvatica, conservazione dell’acqua, salari e condizioni di lavoro, sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro, relazioni con le comunità locali, gestione dei pesticidi e fertilizzanti, gestione del suolo, gestione dei rifiuti. Questi sono solo alcuni dei criteri che vanno a tutela dell’ambiente: l’obbligo di mantenere integro l’ecosistema acquatico o terrestre dentro e fuori l’azienda (obbligatorio); l’obbligo di avere le autorizzazioni governative per qualsiasi attività di deforestazione; la conservazione dell’ecosistema tramite la coltivazione di specie vegetali tipiche del luogo 88
almeno in alcune porzioni di terreno; la possibilità di usare sostanze chimiche solo su terreni circoscritti da barriere di vegetazione; l’adozione di un programma di conservazione dell’acqua che assicuri l’uso razionale della risorsa (tale programma deve fare uso delle migliori tecnologie a disposizione); l’uso di appropriati sistemi di trattamento delle acque inquinate dalle attività produttive secondo quanto predisposto dalle leggi locali e nazionali (a tal proposito bisogna predisporre analisi periodiche delle sostanze che contaminano gli scarichi); l’adozione di misure atte ad evitare l’uso di OGM in qualsiasi punto della filiera produttiva (obbligatorio). Vi sono poi criteri di rispetto sociale, quali: il divieto di discriminare i lavoratori (obbligatorio); il pagamento di un salario perlomeno uguale al minimo legale stabilito localmente; il rispetto di un orario settimanale massimo di sessanta ore (48 più 12 di straordinario; tuttavia qualora la legge lo consenta, è permesso superare
LE CERTIFICAZIONI GREEN POSSONO AIUTARE IL CONSUMATORE AD ORIENTARSI VERSO PRODOTTI CHE ABBIANO MAGGIORE ATTENZIONE NEI CONFRONTI DELL’AMBIENTE E DEI LAVORATORI
tale limite nei periodi di picco stagionale senza oltrepassare le dodici ore giornaliere); la garanzia di un giorno di riposo alla settimana; il divieto di assumere ragazzi sotto i quindici anni; il divieto di lavoro forzato sotto qualsiasi forma (obbligatorio); l’obbligo di garantire libertà sindacale. È molto difficile ottenere la certificazione? Per ottenere la certificazione di Rainforest Alliance, basta rispettare il 50% di criteri per categoria e l’80% in totale!! In fondo, non è poi molto, se si pensa che, per esempio, una società potrebbe rispettare solamente i criteri più semplici, come predisporre analisi periodiche delle sostanze che contaminano gli scarichi per poi non considerare un criterio molto più difficile da rispettare, come il divieto di assumere ragazzi sotto i quindici anni, specialmente nei Paesi in cui è ancora tristemente frequente il lavoro minorile. Fin qui abbiamo capito che una certificazione non è difficile da ottenere se si riesce a fare qualche “manovra di aggiramento”, ossia se si cerca di ottemperare alla legge nel modo più facile possibile. Ma siamo sicuri che non sia ancora più facile ottenere una certificazione green? La prima domanda che dobbiamo porci è: chi rilascia le certificazioni? Nel caso della Rainforest Alliance, è la Sustainable Farm Certification Intl., un’impresa con sede in Costa Rica, che effettua le ispezioni e rilascia certificazioni tramite la collaborazione di entità dislocate in vari paesi dell’America Latina, che si presentano come organizzazioni ambientaliste. Nel complesso si tratta di otto entità federate in una coalizione denominata Sustainable
Agriculture Network (SAN), coordinata dalla stessa Rainforest Alliance. Ma chi è che possiede la SAN o l’ha fondata? Non abbiamo trovato nessuna indicazione su chi abbia fondato e attualmente possegga Sustainable Farm Certification ma non si può escludere che appartenga alla stessa Rainforest. Le imprese che hanno ottenuto la certificazione possono esibire sui propri prodotti il marchio “Rainforest Alliance”, come nel caso del tè Lipton, un prodotto della multinazionale Unilever. I controlli nelle aziende agricole vengono effettuati una volta l’anno usualmente non a sorpresa. Già questo elemento fa scattare un campanello d’allarme e getta un’ombra sull’efficacia di tali controlli, poiché le aziende potrebbero avere tutto il tempo di mettersi in regola laddove non stiano rispettando i criteri di cui abbiamo parlato. Le aziende inoltre pagano il controllo iniziale, più un costo fisso l’anno a seconda degli ettari di proprietà. Ma, abituati come siamo a certe logiche, si potrebbe pensare che, se a quel pagamento del controllo iniziale e del costo fisso all’anno si aggiungesse un buon “contributo”, forse si riuscirebbe a far chiudere un occhio all’ispettore e ottenere la certificazione. Le certificazioni green possono dunque aiutare il consumatore ad orientarsi verso prodotti che abbiano maggiore attenzione nei confronti dell’ambiente e dei lavoratori, ma forse non c’è la piena sicurezza che il prodotto che si fregia di tale certificazione sia green al 100%. Alessandro Antonelli 89
Gomma o rotaia, chi inquina di più? Unilever ha trovato la sua risposta Il trasporto dei prodotti è altamente inquinante. Essere “green” significa guardare all’intera produzione di Matteo Isidori
L’inquinamento che produce un prodotto, nella cultura collettiva, è dato dal suo consumo e dal suo conseguente processo di smaltimento. Niente di più sbagliato. Il danno che un prodotto reca all’ambiente va ricercato in tutto il suo ciclo vitale, “dalla culla alla tomba”. La ricerca delle materie prime, la fase di produzione del prodotto, il trasporto e solo in fine l’utilizzo e l’eventuale riciclo, sono tutte implicate in un processo di inquinamento “nascosto” del quale il consumatore non è a conoscenza. Il trasporto ad esempio è molto inquinante: se si considerano le tonnellate di prodotti che vengono trasportate su gomma nelle autostrade, enorme è la quantità di CO2 emessa dai camion. Una soluzione a ciò sarebbe la trasformazione del trasporto “su gomma” in trasporto “su rotaia”, attraverso la rete ferroviaria e l’utilizzo di treni al posto dei camion. Secondo quanto appreso da uno studio condotto da FerCargo (l’Associazione di imprese ferroviarie private che rappresentano il 30% del traffico ferroviario delle merci), il trasporto su rotaia è lo spostamento più ecologico. Per ogni tonnellata di carico e per ogni chilometro percorso con un treno merci europeo, nell’atmosfera vanno mediamente 29 grammi di CO2. Per ogni camion Euro 5, invece, le emissioni ammontano a 81 grammi, quasi il triplo. In Italia, però, predomina ancora il trasporto su gomma. Unilever, multinazionale alimentare e di prodotti igienici e per la casa, ha deciso di “viaggiare” nell’altra direzione, quella più ecologica. Nel 2010 ha lanciato il suo progetto per raddoppiare il fatturato e volumi di vendita entro il 2020 e mantenere invariate le emissioni derivate dal proprio sistema logistico. Una delle strategie per riuscirci è quella, in Italia, di stringere un accordo con Trenitalia e far viaggiare le sue merci quanto più possibile su rotaia. Ecco cosi il progetto Green Express, grazie al quale uno dei brand di punta della multinazionale, ovvero l’Algida, utilizzerà il treno come principale mezzo di trasporto dalla fabbrica produttrice dei gelati a Caivano (provincia di Napoli), all’hub logistico di Parma, distante circa 700 km, togliendo ogni anno dalla strada quasi 3500 camion e le relative emissioni di CO2. Nel 2013 Unilever ha annunciato che dal 2008 sono state 90
ridotte di un milione di tonnellate le emissioni di CO2 in Europa derivanti dalle operazioni di produzione e trasporto. L’operazione Green Express in Italia ha tagliato a -45% la CO2 dovuta al trasporto sulla tratta e - 12% di CO2 sulla rete. Ogni treno utilizzato è formato da 30 vagoni mobili; ciascun vagone equivale ad un camion, il che significa aver tolto dalla strada 30 tir e averli sostituiti con un unico viaggio in treno, per un totale di 3500 camion in meno all’anno. Così facendo l’azienda ha anche un ritorno economico: un risparmio annuale del 6% solo sul trasporto dei gelati. Seguire l’ambiente, quindi, si rivela sempre più necessario tanto da un punto di vista etico e morale, quanto da un punto di vista economico. Essere “green” non è mai stato più conveniente.
Intervista a Ugo De Giovanni Marketing director Unilever e Sustainability team leader Unilever Italia di III D scuola media Frascati via D’Azeglio
Ci occupiamo del “filone” trasporti. Secondo lei quale delle iniziative di Unilever descritte nel piano di sostenibilità è la più efficace ad oggi per la riduzione delle emissioni inquinanti? In generale se parliamo dei soli trasporti senza dubbio l’ottimizzazione della rete logistica, la riduzione del trasporto su gomma e l’utilizzo di veicoli ibridi sono le aree che possono avere un peso maggiore nella riduzione dell’impatto ambientale. Ciò detto il trasporto è la fase del ciclo di vita che ha l’impatto più basso in termini di CO2. Le aree maggiormente rilevanti sono l’approvvigionamento sostenibile e l’educazione ad un corretto utilizzo dei prodotti.
Le scelte di sostenibilità di Unilever possono mandare un perdita la società? In realtà una politica fortemente orientata alla sostenibilità può solo generare dei vantaggi economici rilevanti. Faccio un esempio per spiegarmi meglio: una persona normale, attenta alle proprie disponibilità, nello scegliere una macchina cerca di prendere quella che consuma di meno per risparmiare sul carburante. Facendo così compra anche una macchina che, a parità di altri fattori, inquina di meno. Non è diverso per l’azienda. Ottimizzare la rete logistica richiede ad esempio investimenti nel breve termine ma, a regime, consente di ridurre le percorrenze delle merci. Questo si tramuta in una forte riduzione dell’impatto ambientale ma 91
anche in minori spese di carburante, in un minor consumo dei mezzi di trasporto e quindi in minor costi. Lo spostamento del trasporto da gomma a rotaia è altrettanto emblematico. Come avete letto nei materiali distribuiti con il progetto greenexpress non solo abbiamo ridotto in modo massiccio le emissioni di CO2 ma abbiamo anche ridotto il costo di trasporto del 6%. In generale la sostenibilità è una fonte incessabile di inspirazioni per cercare forme di ottimizzazioni, di minor spreco e di minor impatto ambientale. Le multi nazionali prevedono degli incentivi per coinvolgere anche le piccole realtà locali che sono l' anello debole del sistema? Lo USLP si basa sulla collaborazione con le istituzioni, con i media, con le imprese e con i partner per riuscire a raggiungere degli obiettivi ambiziosi. Una multinazionale complessa come Unilever si avvale nelle sue operation di migliaia di partner, anche molto piccoli. Questi fanno parte integranti dei nostri programmi. Se pensate, ad esempio, al programma di sustainable agriculture questo si basa sul coinvolgimento di migliaia di piccoli proprietari terrieri. A queste persone insegniamo a massimizzare la resa delle loro produzioni, spieghiamo come poter attuare pratiche di agricoltura più sostenibile (e.g. irrigazione a goccia) e garantiamo una stabilità della nostra domanda nel tempo, con un salario superiore. Questo vale anche per la parte della logistica, dove il più delle volte le controparti sono realtà nazionali di più modeste dimensioni ma senza il cui contributo sarebbe impossibile raggiungere certi obiettivi. Le multinazionali prevedono un progetto di sensibilizzazione forte su giovani snella speranza di rieducare al rispetto del' ambiente anche i meno giovani? Questa è la cosa più difficile. Lo USLP evidenzia chiaramente che non è possibile ridurre l’impatto ambientale dei prodotti senza prendersi carico anche della fase di consumo dove si genera il 68% delle emissioni di CO2. Per poter incidere sulle modalità di consumo è fondamentale creare cultura e parlare ai consumatori e, soprattutto ai ragazzi. Purtroppo questo non è facile perché richiede elevati investimenti. Stiamo implementando diverse attività pilota in tale direzione con l’obiettivo di capire quali di queste possa avere la capacità di 92
essere allargata a scala nazionale o mondiale. Il problema è trovarne una che sia efficiente economicamente. Ad oggi le attività più rilevanti e promettenti in questa direzione sono le attività fatte presso le scuole con Dove per il programma dell’autostima famminile ed il programma che riguarda il nostro brand Lifebuoy, in Asia, che ha l’obiettivo di ridurre la mortalità infantile in quelle aree attraverso l’educazione dei bambini ad un maggiore igiene personale. Queste attività lavorano più nella parte dello USLP volta al miglioramento della salute e benessere dei consumatori e quindi al miglioramento dell’impatto sociale dei nostri prodotti. Ci sono altri programmi che riguardano la riduzione dell’impatto ambientale nel momento di consumo, con specifico riferimento al consumo d’acqua quando ci si fa la doccia o si lavano i capelli oppure i denti, ma ancora non siamo arrivati ad un modello scalabile. Sappiamo che il nostro tema riguarda i trasporti, ma vorremmo porre una domanda che ci sta molto a cuore: "L' Unilever come molte altre multinazionali ha sposato la Greenicitá: è previsto accanto agli obiettivi ecocompatibili , un impegno di sviluppo in linea con i diritti umani nei Paesi più poveri dove si raccolgono le materie prime e dove arrivano i scarti finali?". Se vedete la presentazione dell’USLP trovate chiaramente specificato che per Unilever la sostenibilità non ha solo un obiettivo ambientale ma anche sociale ed economico. Nel senso che con le nostre attività, contestualmente al raddoppio nel nostro fatturato, vogliamo dimezzare il nostro impatto ambientale e aumentare il nostro impatto sociale. A tal proposito lo USLP ha settato il chiaro target di raggiungere almeno 500.000 piccoli proprietari terrieri e 75.000 piccoli imprenditori. Ad oggi (fine 2012) abbiamo raggiunto 450.000 piccoli proprietari terrieri a cui abbiamo insegnato a coltivare in modo più sostenibile ed ai quali abbiamo migliorato le condizioni di vita. Così come, in India, con il progetto Shakti abbiamo dato lavoro a più di 40.000 donne disoccupate e che ora distribuiscono i nostri prodotti in piccoli villaggi. Abbiamo la volontà di mettere i diritti umani e dei lavoratori al centro di qualsiasi cosa facciamo. All’inizio del 2013 è stata creata una nuova figura all’interno dell’organizzazione mondiale di Unilever, il Global Vice President for Social Impact, che ha l’obiettivo di lavorare a questo obiettivo. Sicuramente c’è ancora molto da fare ma non c’è dubbio che raggiungeremo anche questo traguardo.
SONDAGGI SULLA #Greenicità
93
SONDAGGIO SULLA #Greenicità
1/Sai che differenza c’è tra bio e green? A) Bio significa biologico e rispetta la logica della vita, della natura; green significa ecologico e riguarda il rispetto per l’ambiente. B) Non c’è nessuna differenza C) Bio significa biologico ed è sinonimo di ecologico; green signifia che utilizza solo eenergia da fonte rinnovabile
sondaggio su un campione di
intervistati
2/Cosa è l’impatto ambientale? A) Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto B) L’inquinamento C) il danno procurato a flora e fauna da sostanze pericolose
4 Che differenza c’è tra impatto ambientale e impronta ecologica? A) il primo riguarda i problemi ambientali e la seconda riguarda solo i prodotti biologici B) l’impatto ambientale è l’insieme delle conseguenze di un’azione sull’ambiente mentre l’impronta ecologica è il modo per misurare il consumo delle risorse C) non c’è differenza, si riferiscono entrambi alle conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto 94
3 Che cosa è l’impronta ecologica? A) Un'idea non completa di un prodotto ecologico B) Un modo per calcolare quanta parte del pianeta consuma una popolazione, un’attività, un’azione, un cittadino misura il consumo delle risorse del pianeta rispetto alla sua capacità di rigenerarle C) Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto
A:26 B:11C:13
A:26 B:11 C:13
A:15 B:20 C:15
di Lorenzo Menichelli Matteo Lunatici Emanuele Contardi Davide De Santis Iacopo Rondinone Alessandro Mitrea Andrea Scenna della II media E dell'IC San Nilo di Grottaferrata
5 Secondo te i prodotti green costano di più? A) No perché altrimenti la gente è spinta a comprare cose tossiche B) Si perché si usano materiali di maggiore qualità C) Dipende dal prodotto, a volte di più a volte di meno; meno se progettati in quest’ottica
A:12 B:20 C:18
A:12 B:16 C:22
A:15 B:24 C:11
6 Che differenza c’è tra un prodotto chimico e un prodotto naturale? A) Il prodotto chimico è qualcosa che fa male, la cosa naturale è una cosa che fa bene alla salute; B) Chimico è un prodotto elaborato dall’uomo, naturale è un elemento fornito dalla natura; C) Sono tutti e due prodotti creati dall’ uomo con elementi diversi
7 Che differenza c’è tra buste di plastica e di bioplastica? A) Le buste di plastica sono resistenti mentre le buste di bioplastica si rompono subito B) Le buste di plastica derivano dal petrolio, le buste di bioplastica derivano da materie prime rinnovabili e sono biodegradabili C) Le buste in plastica non si smaltiscono facilmente in natura mentre le buste biologiche si smaltiscono molto più velocemente
A:8 B:30 C:12
8 Secondo te che cos’è una bufala green? A) E’ una bufala geneticamente modificata B) Sono informazioni false su questioni ambientali C) E’ una mozzarella di bufala completamente naturale A:8 B:15 C:27
9 Secondo te cosa inquina di più l’ambiente? A) I gas e i prodotti di scarto delle fabbriche B) Le sostanze prodotte dagli edifici C) I gas prodotti dal traffico automobilistico A:12 B:17 C:21
10 Cosa è l’isola di plastica nell’oceano Pacifico? A) E’ una cosa che non esiste B) E’ una grande piattaforma di plastica per l’atterraggio degli aerei C) Un insieme di prodotti di plastica scartati dall’uomo che galleggiano sulle acque del Pacifico A:8 B:5 C:37
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domanda n. 2 - Cosa è l’impatto ambientale?
SONDAGGIO SULLA #Greenicità
A) Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto B) L’inquinamento C) il danno procurato a flora e fauna da sostanze pericolose
25,86% 62,07%
116 giusta
12,07%
72 14 30
domanda n. 3 - Che cosa è l’impronta ecologica? A) Un’ idea non completa di un prodotto ecologico B) Un modo per calcolare quanta parte del pianeta consuma una popolazione, un’attività, un’azione, un cittadino C) Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto
18,10% 48,28%
Questi sono i risultati di un Sondaggio sulla #Greenicità effettuato dalla classe IE della Scuola Media dell'istituto Comprensivo di Frascati su un gruppo di persone:
116 giusta
33,62% numero persone
domanda n. 4 - Che differenza c’è tra impatto ambientale e impronta ecologica?
domanda n. 1 - Sai che differenza c'è tra bio e green?
A) il primo riguarda i problemi ambientali e la seconda riguarda solo i prodotti biologici B) l’impatto ambientale è l’insieme delle conseguenze di un’azione sull’ambiente mentre l’impronta ecologica è modo per misurare il consumo delle risorse C) non c’è differenza, si riferiscono entrambi alle conseguenze sull’ambiente e sulla salute di una qualsiasi azione e prodotto
A) Bio significa biologico e rispetta la logica della vita, della natura; green significa ecologico e riguarda il rispetto per l’ambiente. B) Non c’è nessun a differenza. C) Bio significa biologico ed è sinonimo di ecologico; green significa che utilizza solo energia da fonte rinnovabile
25,00%
19,83%
68,97%
116 giusta
6,03% 96
39 56 21
80 7 29
61,21%
116 giusta
19,83%
22 71 23
domanda n. 5 - Secondo te i prodotti green costano di più?
domanda n. 8 - Secondo te che cos’è una bufala green?
A) No perché altrimenti la gente è spinta a comprare cose tossiche B) Si perché si usano materiali di maggiore qualità C) Dipende dal prodotto, a volte di più a volte di meno; meno se progettati in quest’ottica
A) E’ una bufala geneticamente modificata B) Sono informazioni false su questioni ambientali C) E’ una mozzarella di bufala completamente naturale
25,86%
28,45%
22,41%
54,31%
116
giusta
116
30 26 60
giusta
17,24%
51,72% domanda n. 6 - Che differenza c’è tra un prodotto chimico e un prodotto naturale?
A) Il prodotto chimico è qualcosa che fa male, la cosa naturale è una cosa che fa bene alla salute; B) Chimico è un prodotto elaborato dall’uomo, naturale è un elemento fornito dalla natura; C) Sono tutti e due prodotti creati dall’ uomo con elementi diversi
14,66%
116
66,38% giusta
domanda n. 9 - Secondo te cosa inquina di più l’ambiente? A) I gas e i prodotti di scarto delle fabbriche B) Le sostanze prodotte dagli edifici C) I gas prodotti dal traffico automobilistico
20,69%
19,83%
116
22 77 17
giusta
18,97%
A) Le buste di plastica sono resistenti mentre le buste di bioplastica si rompono subito B) Le buste di plastica derivano dal petrolio, le buste di bioplastica derivano da materie prime rinnovabili e sono biodegradabili C) Le buste in plastica non si smaltiscono facilmente in natura mentre le buste biologiche si smaltiscono molto più velocemente
25,86%
116
65,52% giusta
69 23 24
59,48%
domanda n. 7 - Che differenza c’è tra buste di plastica e di bioplastica?
8,62%
20 63 33
10 76 30
domanda n. 10 - Cosa è l’isola di plastica nell’oceano Pacifico?
A) E’ una cosa che non esiste B) E’ una grande piattaforma di plastica per l’atterraggio degli aerei C) Un insieme di prodotti di plastica scartati dall’uomo che galleggiano sule acque del Pacifico
69,83%
21,55%
116
giusta
25 10 81
8,62% 97
TERZO SONDAGGIO Giovedì 13 febbraio 2014 alla facoltà di Scienze dell’ Università di Tor Vergata si è tenuto un workshop di Giornalisti Nell’Erba sulla “greenicità delle imprese” a cui hanno partecipato varie scuole secondarie di primo grado. Una volta assistito al workshop tutti noi ragazzi siamo stati divisi in gruppi. Ogni gruppo doveva svolgere un compito ben preciso: il nostro gruppo doveva svolgere un sondaggio su un totale di persone prestabilito e, in seguito, scrivere un articolo. Questo sondaggio comprende quattro domande a scelta multipla sui temi connessi all’economia sostenibile cioè sulla green economy. Quasi la totalità degli intervistati non sembrava veramente interessato a quello che veniva loro chiesto, infatti, rispondeva alle domande così tanto per fare, senza entrare realmente nel merito dell’intervista. Questo aspetto che abbiamo riscontrato in molte persone può essere dovuto allo scarso interesse per gli argomenti trattati, alla completa non conoscenza di questi ultimi e, infine, al fatto che alcuni intervistati si sono sottoposti all’intervista solo per far piacere ai ragazzi che porgevano queste domande. Tornando alle risposte date, la percentuale maggiore degli intervistati ha dato risposte corrette; questo fenomeno potrebbe essere dovuto anche alla banalità delle altre risposte multiple e quindi alcuni, andando per esclusione, sono arrivati a dare la risposta esatta. Molte delle persone che sono state intervistate (campione di 42) erano in massima parte commercianti e poi parenti ed amici. Nei grafici non sono stati riportati tutti gli intervistati perché molte persone hanno risposto solo alle prime domande e dopo, forse perché si erano stancati o forse perché non erano interessati, hanno “abbandonato” il questionario. Questo comportamento lascia intendere che molte persone non sono per nulla interessate alla questione inquinamento che sta portando al lento degrado del pianeta Terra, ma che anzi non sanno neanche quale azienda fabbrica le buste che si usano giornalmente per fare la spesa. Ciò dovrebbe far riflettere sul poco interesse e sul disinteresse che molte persone nutrono per la Terra. Per molti cittadini non è importante l’ ambiente, ma soltanto il proprio tornaconto. La parola “tornaconto” può essere usata solo fino ad un punto perché prima o poi la situazione dell’ambiente verrà a bussare alla porta di ognuno di noi e poi, quindi, tutti ci troveremo coinvolti. Ma ci chiediamo: non è meglio prevenire che curare?.
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Ludovica Pavoni Sabrina Kurugamage Maria Elena Coronado Riccardo Tarquini
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D. Il biologico fa bene alla ƐĂůƵƚĞ͕ ŝů ŐƌĞĞŶ ŶŽŶ ƐĞŵƉƌĞ͘
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D. L’ impronta ecologica ĐŽƌƌŝƐƉŽŶĚĞ Ăů ĐŽŶƐƵŵŽ Ěŝ ƌŝƐŽƌƐĞ ĞƋƵŝǀĂůĞŶƚĞ ĂĚ ƵŶĂ Ăƫǀŝƚă͕ ů͛ ŝŵƉĂƩŽ ğ ŝů ƐĞŐŶŽ ĐŚĞ ůĂƐĐŝĂŵŽ ƐƵůů͛ ĂŵďŝĞŶƚĞ͘
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D
A
B
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0%
14%
0%
29%
57%
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99
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