JACOPO TAMBELLINI, VIAGGIATORE STORIACCIA IN QUATTRO ATTI di Francesco Toscani ATTO PRIMO SAN PAOLO DELLE CASCATE I banditi erano arrivati quattro giorni prima. Gli uomini stavano rientrando a casa, chi portando i frutti, chi la cacciagione. Dagli usci esalavano spesse fette di fumo, simili a cascate rivolte verso l’alto. Il paese aveva iniziato a riempirsi di vocii, risate e battute, poi qualcuno aveva urlato mentre un uomo caracollava per la strada con una freccia piantata nel collo, altre tre frecce avevano colpito un tettuccio di paglia, una si era piantata nell’occhio largo, stupito di una contadina, e loro erano apparsi. Armati, grossi e sporchi. Il fraticello aveva lanciato loro un’occhiata e subito aveva visto le armature e le spade in ferro – armi da guerrieri, non da pezzenti; quelli venivano da una qualche guerra, erano ex soldati, magari disertori, non banditi di professione. Il suo amico, frate Mattia, era corso loro incontro, gridando in latino, e uno di loro si era fatto avanti e aveva calato lo spadone sulle sue tempie. Poi doveva essere iniziato il massacro; ma il fraticello non l’aveva visto. Accanto a lui c’erano due bambini; li aveva afferrati per i polsi (ricordava ancora la sensazione delle loro braccine ossute che premevano contro il suo pollice) e aveva iniziato a correre, guardando davanti a sé, il cuore che gli martellava il petto, cercando di non badare alle urla. Si era tuffato dietro la casetta di mastro Federico e, così facendo, si era gettato un’occhiata alle spalle. Un contadino giaceva a terra, urlando mentre un bandito continuava a colpirlo al petto con un’ascia. Un brigante trascinava per i capelli una donna in lacrime, avanzando verso una capanna. A pochi metri da loro un bambino era stato sgozzato e buttato per terra. Un paio di cacciatori brandendo le loro lance artigianali si erano gettati contro gli aggressori che, protetti dalle armature, li stavano uccidendo con colpi disordinati di spada. C’erano già una ventina di corpi a terra, mentre uomini, donne e bambini ancora vivi correvano in cerchio, gridando disperati e invocando il Signore. Qualcuno provava ad allontanarsi di corsa, e gli arcieri lo colpivano alla schiena. Tutto questo il frate lo aveva intravisto a colpo d’occhio, in quel breve istante, poi si era gettato dietro la casa di mastro Federico. Lì, nel prato, giacevano le grosse botti marce, sfasciate, da cui il venditore di vino traeva la legna da ardere. “Dentro! Dentro! E state zitti!” I bambini si erano tuffati nelle grosse botte e lui li aveva seguiti incespicando. Teneva ancora stretta la sua bisaccia, con dentro il pane, l’acqua e la carne secca che dovevano servire per il viaggio. “Zitti” mormorò “zitti”. Ed erano stati zitti… Tre giorni, era durato il saccheggio, tre giorni, e nessuno di loro aveva detto una parola. Sentivano le urla delle poche donne superstiti e le grida dei banditi, e le imprecazioni e le vanterie. Per tre giorni erano rimasti fermi, terrorizzati,
al freddo, scomodi, ammassati nella botte, respirando il fetore del legno rancido. Poi quegli uomini se ne erano andati. Ora stavano camminando. Attorno a loro la foresta era buia, cupa, con le cime degli alberi che gravavano sopra le loro teste. “Forza, piccoli, forza” continuava a mormorare il fraticello. Avevano preso quel poco che non era stato saccheggiato dai banditi – ancora un po’ di pane, di carne secca, qualche cavolo –, si erano riempiti d’acqua le borracce, e avevano iniziato a camminare. Il frate non conosceva bene la geografia dei villaggi nei dintorni, ma sperava di incontrare qualcuno che potesse dar loro asilo, e qualcosa di caldo per i bambini. I bambini gli mettevano pena; sconvolti, con gli occhi grandi e spaventati, coi corpicini sudici e magri. Il Sole stava per tramontare quando incontrarono gli altri uomini. Erano tre; quello davanti era grosso e aveva un faccione rotondo, scuro, su cui spiccavano il grossissimo naso schiacciato, gli occhi stupidi, la bocca larga. Dietro di lui veniva un ragazzo con un arco e un paio di lunghe cicatrici sul viso. A lui si appoggiava un uomo col viso aperto in un ghigno e gli occhi verdi e svegli. La sua gamba destra era stata mozzata poco sotto il ginocchio. “Salve” disse il frate. “Oh, salve!” esclamò l’altro. “Cosa ci fa un povero prete” e disse ‘prete’ come avrebbe detto un’oscenità “tutto da solo con due fanciulli nel bosco?” Sono rapinatori anche loro, pensò orripilato il frate. “Vi prego” mormorò “siamo appena scampati a un’incursione dei banditi…” Gli altri tacquero e per alcuni secondi non si sentì nulla, tranne gli squilli di qualche uccello nella foresta. Poi l’uomo senza una gamba disse: “Anche noi. Vi va di sedervi?” Mangiarono attorno al fuoco di fortuna acceso dal ragazzo. I tre avevano con loro una discreta quantità di selvaggina, e per la prima volta da giorni i bambini poterono sfamarsi sul serio. Quando i due piccoli, stremati, si furono addormentati, i quattro uomini si guardarono. Poi l’uomo senza un gamba, che si chiamava Antonio, disse: “Non sopravvivranno.” Il suo tono era molto diverso da quello sprezzante e intenso di poco prima. La sua voce si era fatta pacata. “Non dire così.” “Non lo dico per farti soffrire. Ma i deboli non sopravvivranno a lungo, nella foresta. Io non sopravvivrò. Sono astuto e ho la lingua svelta, ma così mutilato… O ci troveranno i banditi, e ci uccideranno, o ci prenderà la fame. O la stanchezza, o la sete, o il freddo. Arriva l’inverno, lo sai?” Il frate aggrottò la fronte. “La valle pullula di villaggi. Non è possibile che tutti siano stati saccheggiati.” Nessuno dei tre rispose, ma il loro silenzio era carico di allusione. “Che c’è? Volete dire che hanno bruciato tutto?” Ancora per alcuni istanti, nessuno dei tre rispose. “Rispondete!” strillò il frate, sul punto di perdere il controllo dei nervi. “Calmo” mormorò il ragazzo.
“Non hanno bruciato tutto” disse l’uomo con una gamba sola. “Almeno tre o quattro villaggi, forse di più. Il problema è un altro.” “Parla, ti prego.” “Ci sono villaggi intatti. A un paio ci siamo anche stati.” “E…?” cominciò il frate. “E ci hanno cacciato a sassate” concluse il ragazzo con fare noncurante. “Faccio io il primo turno di guardia?” Continuarono a camminare per tutto il giorno successivo, lentamente, fra i boschi. Il ragazzo sparì alla mattina e tornò molto più tardi, con cinque grosse lepri tra le braccia. “Sei un bravo cacciatore.” “Il migliore” fece Antonio. “Il migliore era il mio papà” disse deciso uno dei bimbi. La sera, attorno al fuoco, quando i bambini si furono addormentati, l’uomo con una gamba sola mormorò al frate; “Senti…” “Cosa?” “Noi, in realtà, abbiamo una meta.” “Anch’io” disse il frate sorridendo. “Ci ho pensato tutto il giorno. Nessuno ci obbliga a starcene tra le montagne. Potremmo uscire dalla valle e andare in cerca di una città Magari a Milano o a Mantova!” “Non ci arriveremmo mai” replicò l’altro deciso. “Io sono stato fuori dalla valle, più di una volta, e so quanto sono distanti quelle città. E poi non credere che la vita sarebbe più facile, una volta arrivati lì.” “E allora… Un monastero?” “Sono troppo lontani.” “E dove allora?” “Prima di incontrarvi” cominciò lentamente l’uomo “e prima di essere cacciati da altri tre villaggi, abbiamo incontrato un uomo, anche lui in fuga dai banditi. Aveva una freccia piantata nella spalla e sarebbe morto di lì a poco, ma prima di morire ci disse che stava andando in un posto dove sarebbe stato al sicuro, dove nessun bandito l’avrebbe toccato.” “E così è stato” mormorò il frate. “Pace all’anima sua”. “Non si riferiva all’aldilà, prete! Ci disse che voleva dirigersi verso la fina della valle.” “La fine della valle?” “Verso le cascate!” “Le cascate? Sì, me le ricordo. Saranno a due, tre giorni da qui. Ma alle cascate…” “Alle cascate?” “Alle cascate… C’è qualcosa di peggio dei banditi.” “Ah sì? E che cosa, sentiamo?” “Lo sai. Lo sanno tutti. Alle cascate si aggirano i lebbrosi.” L’altro sorrise. “Hai, ragione, lo so. Ma sai che penso? Meglio così! Non andremo proprio in mezzo a loro. Magari li spingeremo più a valle. Ma nessun bandito oserà
avvicinarsi. E poi, male che vada… Meglio diventare lebbrosi che nutrire i vermi, no?” E scoppiò a ridere. Camminarono e, camminando, nuovi viandanti si aggiunsero a loro. Un paio di grossi contadini, poi un’intera famigliola; marito e moglie, il vecchio padre di lui e quattro figli, una donna sola con lo sguardo spento, che (intuirono tutti) doveva essere stata violentata dai banditi, altri tre cacciatori, un vecchio che vagava biascicando chissà cosa, una bambina che trovarono tra i cespugli, terrorizzata, un cane, altri due cacciatori… E poi altri ancora. Erano quasi trenta dopo un paio di giorni, e mancava ancora almeno un giorno alle cascate. Essere così tanti li rallentava. “Noi tiriamo dritto” sbottò un giorno un cacciatore, indicando un folto gruppo dei suoi compagni. “Storpi, vecchi, bambini, donne, persino un cane! Ci rallentate e basta.” “Vuoi andar con loro?” chiese Antonio al ragazzo che viaggiava con lui. Quello scosse la testa. E così abbiamo perso i cacciatori rifletté cupo il frate. Questo è un problema. Non abbiamo ancora molte provviste. Vero è che possiamo mangiarci il cane; ma siamo comunque lenti e deboli. Se dei banditi ci trovano è… E poi videro il ragazzo che avevano mandato avanti, in ricognizione, correre verso di loro. “Banditi” esclamò appena fu giunto. “Banditi! In colonna. Marciano verso di noi.” Per un istante un silenzio terrorizzato scese tra gli uomini, e in quell’istante il frate si sentì esattamente sul punto di valicare il limite che separava la calma dall’isteria – sentì che di lì a un secondo qualcuno avrebbe urlato, e tutti avrebbero iniziato a correre in preda al terrore, e poco dopo sarebbero morti… E poi la voce di Antonio si stagliò nell’aria, stranamente nitida. “Ascoltatemi!” esclamò. Tutti lo fissarono. “Non dobbiamo scappare. Se scappiamo ci troveranno, e se anche riuscissimo a fuggire saremmo totalmente persi. Non possiamo combattere, ovviamente. Possiamo fare solo una cosa; nasconderci! Usciamo dal sentiero, marciamo tra i cespugli e aspettiamo che passino. Veloci!” Vociando, spaventati, uscirono tutti. Alcuni si lamentarono mentre i folti arbusti li graffiavano. La strada era in salita. “Forza, forza!” E poi le udirono. Grida, imprecazioni, bestemmie. “Si avvicinano!” Era vero. I suoni si avvicinavano. Il frate riprese ad avanzare, terrorizzato, facendosi largo tra le fronde. “Forza, forza…” E poi, d’un tratto, gli alberi cessarono, e la collina si aprì, aperta, di fronte a loro – e là, in cima… Là c’era un chiesa. Diroccata, in rovina… Ma era una chiesa, e quelle attorno sembravano le mura di un monastero, o forse di un vecchio castello. “Fermi” mormorò qualcuno. Per un tempo che parve interminabile rimasero schiacciati a terra, ansimando, con i fili d’erba a pizzicare i loro visi. Un grosso ragno saltò due volte di fronte al frate, e sparì sotto una foglia. I rumori, i vocii erano più vicini. Sempre più
vicini. Dio mio, se ci scoprono… E poi l’aria risuonò di una grossa bestemmia a pieni polmoni, e seppero che i banditi, ora, erano proprio sotto di loro. Al frate sembrava che il suo cuore battesse tanto forte da sovrastare ogni altro rumore. Pensò che era impossibile reggere quella tensione e che presto o tardi uno di loro sarebbe scattato in piedi, urlando. Forse l’avrebbe fatto lui stesso. I rumori continuavano a salire dal basso – passi, fragore di metallo, grida su grida. Il frate chiuse gli occhi. Ora ci scopriranno… Dio, Dio mio… Riaprì gli occhi. I passi… Non venivano più da sotto di loro. Si stavano allontanando. Trattenne il respiro… Ora erano più lontani… Si confondevano con gli altri rumori della foresta… Dov’erano? Spariti? No, forse erano ancora quel rumore… Sì, quel rumore quasi indistinguibile dagli altri… Ecco! forse… No, non c’eran più. O sì? No, no. Andati. Ma ci vollero comunque alcuni istanti perché qualcuno trovasse il coraggio di alzarsi. “Proseguiamo?” chiese timidamente un contadino. “Un momento, ti prego” sbottò una donna, e si sedette sull’erba. Ha ragione rifletté il frate. Dobbiamo fermarci. Guardò i suoi compagni. Sporchi. Malnutriti. Deboli. Non resisteremo a lungo. Non tutti di noi arriveranno alla cascata dei lebbrosi. E se anche ci arrivassimo? Non saremmo mai al sicuro. È un piano suicida, questo. Serve la protezione di chi ha un villaggio per superare l’inverno. Certo, nessun villaggio accoglierebbe così tanta gente. Io però… Io sono un frate. Nessuno mi negherebbe ospitalità. Nessuno nega un poco di cibo ai frati. Forse dovrei abbandonare questa gente. Però se lo facessi non arriverei a nessun villaggio. Non so cavarmela da solo nella foresta. Ci dev’essere un modo per… Ci serve un villaggio… La gente ama i frati… E l’idea si formò nella sua mente. Così pura, perfetta e limpida da togliergli il fiato e da lasciarlo per alcuni istanti sbalordito, incantato – tanto che impiegò alcuni secondi a realizzare che Antonio aveva esclamato “D’accordo, è ora di muoversi!”. Gli uomini iniziavano a muoversi attorno a lui – intorpiditi, confusi, spaventati. “No” disse il frate. E poi, più forte: “No!” Tutti si girarono, sorpresi, verso di lui – che di nuovo, piano, disse “No. No, non dobbiamo più muoverci.” “Che stai dicendo, prete?” “Ascoltate – ascoltate. Andare dai lebbrosi è un suicidio. Moriremmo tutti in un modo o nell’altro. Chi ci dice che i banditi ci risparmieranno? O forse ci ucciderà il morbo. E se poi così non fosse? Se anche sopravvivessimo ai banditi e ai lebbrosi, come sconfiggeremo il freddo? Come ci procacceremo il cibo?” “E allora? Che altro potremmo fare?” “Fermarci. Fermarci qui. In quel castello!”. Indicò le mura. “Attorno a quella chiesa!” “E perché dovremmo fermarci qui?” “Già” gridò qualcuno dal fondo “che ci guadagniamo?” “Qui saremmo indifesi!” “No” disse il frate, ansimando “questo non è vero. Le mura rendono qualunque luogo difendibile. Basterà avere un numero sufficiente di archi e frecce. E soprattutto”
continuò, via via più entusiasta “qui potremmo seminare il terreno. Procurarci del cibo.” “Ci vuole tempo perché il cibo seminato cresca” disse Antonio – ma senza più aggressività. Interessato. “Proprio questo è il punto. Se andassimo tra i lebbrosi, nessuno ci darebbe da mangiare per l’inverno.” “Perché, se ci trasferissimo in una vecchia chiesa sì?” “Sì! Lo farebbero i villaggi circostanti. Nessuno nega il cibo a dei frati!” “Ma noi non siamo frati” disse il giovane cacciatore. “È vero” disse il frate, e sorrise “ma gli abitanti dei villaggi questo non lo sanno.” Per alcuni istanti calò un silenzio stupefatto tra gli uomini. Poi, deciso, il frate riprese: “Vi vestirete da monaci, vi raserete i capelli. Nessuno saprà chi siete in realtà! Ci stabiliremo quassù, e vivremo dapprima grazie all’aiuto dei villaggi. In cambio dispenseremo i sacramenti e le indulgenze.” “Ma non è peccato?” fece qualcuno. “Vi assolverò tutti” ribatté deciso il frate. “Da domani inizieremo a girare per i villaggi. Nel frattempo vivremmo grazie al lavoro dei cacciatori.” “E potremo mangiare il cane” suggerì un bambino. “Giusto” concesse il frate. “Allora? Cosa ne dite?” Fissò Antonio e l’uomo con una gamba sola sorrise. “D’accordo, prete. È un buon piano.” Guardò il nutrito gruppo di contadini, cacciatori, donne, vecchi e bambini ronzare attorno alle mura. Ce l’avrebbero fatta, se lo sentiva. Le strade erano percorse da banditi, assassini, lupi, streghe e figli del diavolo, ma loro ce l’avrebbero fatta. Sarebbero sempre vissuti in cima alla collina. Avrebbero costruito qualcosa in grado di sovrastare il pericolo e la notte. Un paradiso in terra. Si pentì subito del pensiero blasfemo. No, il loro non era un Paradiso, ma una casa sicura che li avrebbe preparati al giorno del Signore – alla scomparsa di tutti i mali. Una piccola anticipazione disse fra sé e sé il frate del Paradiso che verrà. E sorrise aspettando il tramonto.” Con queste parole il professore concluse la lettura e alzò gli occhi sulla classe che lo fissava ammirata. “Vi è piaciuto?” “Sì, professore!” esclamarono i bambini. No, non bambini. Che strana, questa età. Non più bambini e non ancora adulti. È finito il momento in cui accettavano meravigliati tutto quel che gli dicevi; ma non è ancora arrivato quello in cui decideranno da soli di loro stessi. “Sapete chi l’ha scritto?” “Manzoni!” esclamò subito Marco tra le risate di tutti. Che ignorante che è. Anche per la sua età. “No, naturalmente” disse seccato il professore. “È stato un mio ex studente di Como. Si chiamava Toscano – o un nome del genere. Ha vinto, un paio d’anni fa, un premio indetto dalla Fondazione, per il miglior racconto sulle origini di questo posto, di San Paolo delle Cascate.”
Si alzò. “Avrete notato, forse, alcune imprecisioni”. Gli scolari lo guardarono perplessi, poi Jacopo alzò la mano. “Qualcun altro” disse il maestro “non sempre Jacopo.” LUI è un bambino sveglio. Com’è strano, però, sempre così silenzioso. Così attento. “Nessun altro?” Nessun altro. “E va bene. Jacopo?” “Beh” disse lui “penso che il monastero che costruiscono alla fine del racconto sia quello da cui è nato San Paolo delle Cascate.” “Certo.” “Ma quel monastero è lontano dalle cascate. Noi invece ci siamo molto vicini.” “Giusto” disse il maestro. “Bravo, Jacopo. Poi c’è un’altra cosa. Avrete notato, forse, che i dialoghi sono scritti in uno stile piuttosto moderno. Magari non proprio quello che usereste voi in un tema, ma non tanto diverso. Giusto?” Gli alunni annuirono. “Mentre un racconto ambientato nel Medio Evo dovrebbe avere personaggi che parlano come nel Medio Evo. Ma questi difetti non sono gravi. E questo racconto era il solo, ci è parso, che cogliesse bene lo spirito della nostra Fondazione. Non un Paradiso, ma una piccola anticipazione del Paradiso che verrà.” Mentre parlava camminava fra i banchi, guardando fisso i volti dei ragazzini. “Tra poche settimane avrete gli esami. Il vostro percorso qui dentro è quasi finito. State per entrare nell’adolescenza… E credetemi, non sarà bello per tutti, ma sarà sicuramente intenso. Vi aspettano anni di emozioni fortissime; sia positive, sia negative. E quando tra alcuni anni uscirete dall’adolescenza, vi accorgerete che siete ormai uomini e donne. E l’identità che vi sarete costruiti, ve la porterete dietro per sempre. Perché, allora, ho voluto tenervi questa lezione? Questa lezione sui valori della Fondazione San Paolo delle Cascate? Una lezione retorica, potreste pensare. Il vecchio insegnante che vi viene a fare un discorso sdolcinato su questo bel posto. Ma quello che voglio che vi ricordiate è questo: qualunque cosa decidiate di fare, qualunque cosa voi diventiate, quassù avrete sempre una casa. Per questo è stato costruito questo posto. Fuori, nel mondo, succedono cose molto brutte. Attentati, paura, tensioni. Razzismo e omofobia. Là fuori, il mondo diventa di giorno in giorno più brutto. Le città si fanno più grigie, più spente, si riempiono di asfalto. Il cielo diventa sempre più grigio. Spariscono una per volta le cose belle. Sapete tutti del riscaldamento globale. Sapete qual è il vero motivo per cui continuiamo a scaricare nell’aria scorie che trasformano la nostra terra in un deserto? Io credo di saperlo. Io credo sia perché, così facendo, un giorno non ci saranno più fiocchi di neve.” I ragazzini lo guardarono corrucciati e perplessi. “Pensateci. Oggi la gente sembra in grado di sopportare tutto, meno le cose belle. Prostitute agli angoli delle strade, quartieri allo sbando, drogati nelle strade; ogni giorno un rumeno o un albanese violenta un’italiana, e di contro ogni giorno crescono gli atti di violenza e razzismo; politici corrotti, un clero reazionario; e poi… Ci sono tutti gli altri. Tutti coloro che queste cose, giorno dopo giorno, le ascoltano, le
assimilano, guardano la televisione e si riempiono ancora e ancora di tutte queste porcate… Escono di casa e vedono città asfaltate e palazzoni ammassati e brutti, città piene di rumori e di luci accecanti… La bruttezza non è nel panorama, capite? La bruttezza è il panorama. E tutti questi uomini camminano immersi dalla noia, dall’insignificanza, dalla bruttezza delle loro vite… E si abituano, sopportano. Ma poi vedono un fiore. Un albero. Un grillo. Un fiocco di neve. E questo li pugnala, perché ricorda loro quello che avevano dimenticato! Ricorda loro la bellezza… E così distruggono una a una tutte le cose belle che trovano. Ma non qui, qui no! Qui non glielo permetteremo, capite? Qui la bellezza non sarà mai toccata da nessuno. Qui abbiamo costruito una roccaforte, un posto sicuro! Qui non ci toccheranno mai, ve lo prometto.” Sorrise loro. “Ecco, volevo lasciarvi questa lezione, come ultimo ricordo del vostro vecchio professore di italiano. Qualunque cose scegliate di essere, qui avrete sempre una casa. Intanto, buona fortuna per gli esami; sono sicuro che tutti li passerete brillantemente, e avrete una carriera scolastica splendida ovunque decidiate di andare. Ora direi che è il caso di festeggiare, cose ne dite?” Al suono della campanella i bambini corsero fuori ridendo. Jacopo si allontanò dalla massa dei suoi compagni con passo svelto. Non era un ragazzino timido o troppo studioso, tutt’altro, ma gli piaceva starsene da solo ogni tanto. Il che poteva essere un problema perché agli altri, effettivamente, piaceva stare con lui. Era bello, e robusto, e aveva un bel modo di muoversi, un suo particolare controllo dei movimenti che catturava subito lo sguardo. Era un tipo molto fisico e di poche parole, e questo gli dava fascino; d’altronde, quando parlava quasi tutti trovavano automatico ascoltarlo. Non gli piacevano tanto gli sport organizzati, ma adorava andare in bici, nuotare, e soprattutto arrampicarsi; i suoi genitori si erano quasi rassegnati a vederlo correre sui tetti con la sicurezza di un gatto, o a ritrovarlo in cima a un albero con aria pensierosa. Non era litigioso ma, quando qualche mese prima aveva fatto a botte con due ragazzi più grandi di lui, poco ci era mancato che li mandasse in ospedale entrambi. Non era nemmeno uno studioso, ma assimilava le cose molto in fretta. Piaceva a quasi tutti, e tutti pensavano che fosse un ragazzo, oltre che bello, intelligente e profondo. Ma ora aveva voglia di starsene un po’ da solo, e così si allontanò dai caseggiati bianchi e iniziò a inerpicarsi per il prato in salita. Quando si fu allontanato di un centinaio di metri, si voltò e guardò San Paolo delle Cascate. Costruzioni di vetro, acciaio e legno si sollevavano al cielo come elegantissimi ragni, attraversate da alberi, cespugli e arbusti che sembravano creare un incrocio tra una città e una foresta. Qua e là si vedevano delle vecchie cascine, o delle costruzioni in pietra – la parte medievale della città… Al centro stava il vecchissimo monastero, attorno a cui era stato edificata la Fondazione San Paolo. Di lì a qualche ora, le campane avrebbero suonato e i credenti sarebbero accorsi alla funzione religiosa. Il cielo si rifletteva sui tetti coperti dai pannelli solari. Lo sguardo di Jacopo indugiò sulle sobrie forme della biblioteca, dei negozi e della palestra, in netto contrasto con le multiformi cupole della serra, o con la discoteca dalle pareti trasparenti che brillava contro l’orizzonte. Lì a fianco, i mulini ad acqua roteavano su loro stessi, spinti dalla
corrente del fiume che, poco più in là, passato il ponte, si tuffava nelle cascate e trascinava tonnellate d’acqua giù, a valle. Antico e moderno, pre tecnologico e ultra tecnologico, alberi e case, mattoni e acciaio, paglia e vetro; tutto questo si rifletté nelle iridi di Jacopo per qualche secondo – poi lui si sedette sull’erba e se ne stette lì, con fare meditativo. “Bon jour, ragazzo. Come stiamo?” La voce di Andreas Livingstone si alzò alle sue spalle, di colpo, beffarda come sempre. Jacopo si irrigidì. Andreas stava a San Paolo da qualche settimana e lui non era ancora riuscito a farselo andare a genio. “Bene” disse, freddamente. L’uomo gli si sedette accanto. “Questi per voi sono gli ultimi giorni di scuola, vero?” “Sì.” “Tu com’è che ti chiami? Tamburini?” “Tambellini, Jacopo Tambellini.” “Jacopo, non sei emozionato? Stai per finire le medie. Cosa pensi che andrai a fare, poi?” “Il classico”. Perché gli faceva tutte quelle domande? Jacopo lo detestava, lo detestava proprio. Aveva sempre un’aria saccente, volgare e arrogante. “Classico. Anch’io ho fatto il classico. Non ero uno studente molto brillante… Ma sono riuscito a fare quel che volevo, e questo è l’importante, no?” Andreas era giornalista. A quanto Jacopo aveva capito, era lì per fare un servizio su San Paolo, anche se sembrava che la prendesse più come una vacanza. “Dì un po’” continuò l’uomo “il classico pensi di farlo qui, a San Paolo?” “Visto che c’è…” “Certo. Ma sai, forse faresti meglio a uscire dalla vallata.” “Quello che faccio io” disse Jacopo, con una voce che sperava fosse il più dura possibile “non sono affari tuoi”. Andreas rise. “Sai” e ghignò “tu mi piaci, ragazzo. Oh, l’ho capito subito che a te sto antipatico – non sono mica scemo. Vediamo… Mi trovi troppo poco raffinato?” “Sono uno a cui piace arrampicarsi sugli alberi. Non è che mi piaccion solo le persone raffinate.” “Ma mi trovi volgare.” “Sì.” “Specie a confronto di quel che mi circonda, vero? Scommetto che pensi che io sia troppo greve, troppo grezzo di fronte alla bellezza di questo posto. Che non sappia capire la sua magia.” Jacopo strinse gli occhi, come sempre quando si concentrava, e disse, lentamente: “Fammi indovinare… Tu, invece, ti consideri un realista. E pensi che qui siamo degli idealisti. Che ignoriamo come vanno davvero le cose.” “E dici che mi sbaglio?” “Certo” disse Jacopo, tranquillo. “Non siamo una banda di scemi che sognano di elevarsi al di sopra del mondo. Lo sappiamo com’è il mondo fuori di qui. E qui abbiamo costruito delle cose.” “Ah sì? E lo sapete davvero, come va il mondo?”
“Vediamo… Il denaro regola ogni cosa e la ricerca del piacere serve a far dimenticare questa verità. Passate le vostre giornate a venire comprati e la notte a comprare. Il vostro lavoro fa arricchire qualcun altro e voi arricchite qualcun altro per compensare. Comprate e vendete amore, droga, intrattenimento.” “Parole grosse per un ragazzino, sai? Soprattutto ‘amore’” e sorrise di nuovo. “Vi parlano malissimo delle prostitute, eh?” “La cosa ti dispiace?” “Beh… Sì.” “Ne hai conosciute molte, immagino.” “Qualcuna, qualcuna.” “Che schifo. Vendere il proprio corpo.” Andreas rise di nuovo. “Beh… Ognuno la pensa come vuole.” Stettero in silenzio alcuni istanti. “Sai” fece ad un tratto Andreas “a volte mi sembra di pensarla come te, su… Su di me.” Il tono della sua voce era cambiato; si era fatto di colpo meno energico, più sommesso. “A volte penso che, facendo il mio mestiere, vedendo di tutto, abituandomi a tutto… A volte penso di essermi lasciato andare. Di avere smesso di aspettarmi di meglio.” Jacopo annuì. “È la bruttezza” disse. “Ce ne ha parlato oggi il nostro prof di italiano. Dopo un po’ ti ci abitui. Ti entra dentro e diventi brutto anche tu.” “Forse, e dico forse… Forse avete ragione. Ma credimi, Jacopo. Io ti ammiro davvero, sai? Sei molto intelligente per la tua età. Hai un bellissimo modo di muoverti e parlare, e tutto quello che dici sembra sempre così intelligente, così… Necessario.” “Grazie.” “Però credimi, dovresti uscire un po’ da qua. Jacopo… Il classico, vallo a fare via da qui.” “Cosa?” “Ascolta, davvero. Può darsi che abbiate ragione su tutto – che fuori abbiamo trasformato tutto in merce, che ci siamo arresi alla bruttezza, ma credimi, Jacopo, queste cose devi conoscerle per poterne parlare.” Jacopo si alzò in piedi. “Per conoscere il mondo ho tempo. Intanto mi godrò ancora questo posto per qualche anno.” “Non so” disse Andreas, cupo “se tra qualche anno questo posto ci sarà ancora.” Jacopo rise. “È una minaccia?” “Non essere sciocco. Ma non pensare che basti schifare il denaro e il potere per esserne immuni.” Il ragazzo iniziò ad allontanarsi. “Non terrete fuori il mondo molto a lungo” gli gridò Andreas. “Non potete.” Nonostante il nome che portava, San Paolo delle cascate non era una comunità religiosa. Anzi, sebbene fosse stata costruita attorno ai resti di un monastero, e sebbene ogni domenica si celebrasse la messa, la comunità era laica e San Paolo delle Cascate era, di fatto, l’esperimento sociale più all’avanguardia degli anni Zero. Case coperte da pannelli solari, serre idroponiche immense, acqua distillata direttamente
dal fiume – un piccolo borgo aperto a tutti, totalmente autosufficiente, guidato da ideali degni di una corte umanistica del ’400. Era il 2009, e la città esisteva già da sei anni. I genitori di Jacopo erano stati convinti a trasferirsi quando i polmoni di sua madre si erano ammalati. Quello era il posto perfetto per lei, visto che avrebbe avuto un’aria molto più pulita che in città a un costo non minore. D’altra parte la compagnia era straordinariamente piacevole, visto che si trattava per un terzo di montanari e contadini scherzosi e vitali, per un altro terzo di poeti, matematici, filosofi, artisti, e per un altro terzo di gente normalissima che più o meno per caso si era trovata a voler ricominciare una vita lassù tra i monti. Così c’era chi fuggiva da un matrimonio finito male, chi da un passato di criminalità che non riusciva a dimenticare (come Paul, che dopo due anni in carcere non era più riuscito a trovare un lavoro dignitoso). Poi c’erano anche storie più singolari; c’era Irina, che era soggetta a crolli depressivi con tendenze suicide e aveva scoperto che stare a Terra Eden alleviava la sua psicosi; c’erano Marco, Giovanni e Honey che si erano trovati lì solo perché la loro macchina si era rovesciata lì accanto e che avevano deciso di non ripartire mai; c’era Andrea Alderani, il brillante conduttore televisivo che aveva avuto una crisi mistica e aveva deciso di andare a vivere in mezzo alle montagne. Ma l’uomo forse più ammirato da Jacopo era Marcus Wallace, che stava attraversando la strada proprio in quel momento. Jacopo si fermò a guardarlo di sottecchi, ammirato. Marcus era il fondatore della comunità, l’uomo che aveva coordinato e finanziato l’intero progetto. Sebbene fosse nato in Irlanda del Nord, si era trasferito in Italia con la madre già da bambino. Nato ricco, aveva enormemente ampliato un patrimonio già consistente grazie al suo grande senso degli affari; poi, all’età di trentacinque anni, aveva scelto di investire tutte le sue energie nella creazione della Fondazione San Paolo. Inutile dire che lì era molto ammirato – ma anche temuto; Marcus Wallace, da un certo punto di vista, era un uomo spaventoso. Certo, fisicamente era molto forte, e certo era una persona sottile, intelligente, dalla lingua tagliente. Ma ciò che faceva paura era la sua naturale attitudine al comando, il carisma con cui sembrava riempire qualunque spazio nel quale si muovesse. Tutti l’ammiravano – ma, al tempo stesso, tutti speravano che lui ammirasse loro. Sembrava uno che avrebbe potuto schiacciare qualunque avversario come una mosca, uno che avrebbe potuto ottenere qualunque cosa, in qualunque momento. Un uomo leale e che sapeva farsi rispettare senza ricorrere a bassezze di nessun genere; ma anche uno che nessuno avrebbe sfidato, perché se Marcus schiacciava qualcuno, quel qualcuno non solo si sentiva sconfitto – si sentiva anche nel torto. Sì, Marcus faceva un effetto straordinario alla gente; e lo faceva senza sforzo, senza nemmeno rendersene conto Era un uomo molto alto, con la barba nera, folta, e dei grandi, bellissimi occhi verdi, le spalle larghe e la schiena solida. Jacopo lo guardò passare pensando a quanto dovesse sentirsi orgoglioso di se stesso, circondato com’era da prove della sua intraprendenza. Ma mentre provava questi sentimenti, Jacopo si rese anche conto di quanto non riuscisse a sentirli fino in fondo. Si era reso conto più volte, già da bambino, di non essere affatto un tipo passionale. Le emozioni lo sopraffacevano
all’improvviso, magari anche con grande intensità, ma dopo pochissimo tempo – di solito pochi secondi; mai più di due, tre minuti – si stemperavano in un’indistinta, serena pace interiore. Tutto sommato sono davvero un solitario. Ma anche questo pensiero si scolorì subito. Era l’ultimo giorno di scuola; tempo di giocare con gli altri bambini. Si allontanò di corsa. Il tempo passò di corsa. Grida, saluti, abbracci, giochi, sua mamma che lo rimproverava affettuosamente. Il tramonto sulle montagne. La notte. Jacopo si addormentò nella sua stanza. Lì vicino, il fiume scorreva tranquillo verso le cascate. L’acqua nera passava, gorgogliando sommessa, sotto il ponte, agitando piano i mulini. Una figura, camminando lenta, cercando di fare meno rumore possibile, attraversava il ponte. Era Andreas Livingstone, giornalista, che tornava verso la sua casa. Il cuore gli batteva forte in gola. Non sapeva perché, ma la notte gli faceva paura. Abbassò lo sguardo. Il ponte era stato costruito proprio sul limitare della cascata. Un passo a destra, e sarebbe caduto nel vuoto per più di cento metri. Rabbrividì. Quando alzò lo sguardo, un uomo gli sbarrava la strada. Alto e robusto; era Marcus Wallace, il fondatore. “’sera, capo” disse Andreas. I suoi battiti accelerarono. “Buonasera, Andreas” disse l’altro uomo sottovoce. “Che facciamo in giro di notte?” “Oh, nulla. Sa, non riuscivo a prender sonno.” Con estrema, silenziosa calma, Marcus girò attorno all’uomo, e si fece avanti, fissandolo. Andreas indietreggiò verso l’orlo del ponte. Marcus continuò a avvicinarlo finché non gli fu vicinissimo. Andreas deglutì. Quest’uomo è un mostro. Come fa a terrorizzarmi così, solo guardandomi? Nei suoi anni di giornalista gli avevano sparato due volte e aveva avuto meno paura di quanta non ne provasse ora. Alle sue spalle la cascata mugghiava. “Non mi piacciono i bugiardi, Andreas.” “Ah, davvero?” Le bugie sparivano davanti a quegli occhi verdi. Quest’uomo mi legge dentro. “Conosci Pietro Tambellini, Andreas?” “Certo.” “Mi ha detto che hai parlato con suo figlio, oggi. Mi ha detto che gli hai detto cose che l’hanno molto turbato.” “Ma non mi dire.” “Cos’hai fatto stasera?” “Cosa ho fatto?” La voce di Andreas si fece più tesa, mentre raccoglieva ogni briciola del suo coraggio. “Ho fatto un po’ di foto. Contento?” “Foto a che cosa?” “Ai tuoi mulini. Ai tuoi mulini, Marcus” e mentre parlava una strana disperazione gli strinse il petto. Aveva paura – aveva paura! Ma non si sarebbe fatto metter sotto – lui aveva ragione, non Marcus. E così prese fiato e gli schiaffò la verità in faccia. “La sai una cosa? Neanche a me piacciono i bugiardi.”
Tacquero entrambi per alcuni istanti, poi… Al diavolo, si disse Andreas, e riprese a parlare: “So da dove prendi i tuoi soldi. So da dove vengono i soldi con cui hai costruito questo posto. E lo dirò a tutti, sai?” “Non so di che cosa parli.” “Ti distruggerò, Marcus.” “Distruggermi? Perché mi dovresti volere distruggere?” “Perché hai delle vite sulla coscienza e lo sai benissimo.” “Non ho mai ucciso nessuno.” “Ma i tuoi soldi l’hanno fatto. Vendi una bugia a questa gente. Stai costruendo un’illusione, e io la distruggerò.” “Stiamo costruendo un Paradiso” ringhiò Marcus. “Non distruggerai un bel niente.” “I Paradisi non si costruiscono sulle bugie” replicò Andreas sorridendo. “E poi dimmi… Una volta che saprò la verità, che avrò le prove… Come pensi di fermarmi?” “Così” disse Marcus, gelido, e mosse le braccia in avanti, di scatto. Colpì Andreas al petto e il giornalista, per un istante, si sentì incespicare sull’orlo del baratro. Poi cadde nel vuoto.
ATTO SECONDO LA FUGA Erano entrati nel 2015 festeggiando e ballando, come tutti gli anni. A San Paolo adoravano festeggiare. La città, nel corso degli anni, si era fatta più grande, ma neanche di molto. Era da alcuni anni, ormai, che sempre più gente veniva lì. Quasi tutti dicevano di stare scappando dalla Crisi. Questa parola volava di bocca in bocca, di giorno in giorno. Indicava, naturalmente, la Grande Recessione che aveva colpito l’Europa e il mondo intero dopo il crollo della Borsa nel 2007, ma indicava anche, in qualche modo, la fine di un sogno. Che sogno, non era chiaro a nessuno; probabilmente il sogno di un mondo in cui il capitalismo si sviluppava senza tensioni, disagi o scontri. Giorno dopo giorno l’Occidente perdeva la sua patina di gloria e successo e mostrava nuove fasce d’ombra. Sulla politica nazionale e internazionale, sulla cultura e sull’economia gravava allo stesso modo un senso di apocalisse e di oscurità incombente. Il mondo scricchiolava, scricchiolava… Ma non lassù. San Paolo, imperterrita, continuava a prosperare. E in quanto a me… E così dicendosi, Jacopo cominciò, non per la prima volta, a mettere ordine nei suoi pensieri e a ricordarsi chi era. Vent’anni compiuti ormai da alcuni mesi. Uscito dalla Maturità classica con 94. Molto bravo nelle traduzioni dalle lingue classiche; grande talento per la matematica. Laconico e forte. Non brutto, dai. Amante delle arrampicate, delle nuotate nei torrenti, del kayak e della canoa, degli scacchi, di Wittgenstein, Aristotele e Tommaso d’Aquino, dell’algebra, del latino, del tabacco, della marijuana, del kendo e del tiro con l’arco. Ufficialmente ateo, con notevole simpatia per il buddhismo, più volte tentato di diventare vegetariano. Non più vergine da alcuni anni. Nauseato dagli alcolici. Amo attaccarmi alle rocce più alte e bere l’acqua che scorre tra di esse, berla poggiando direttamente le labbra ai ruscelletti, tenuto in aria solo dalle braccia, le gambe sospese nel vuoto. Grande facilità a concentrarmi. Nauseato dal sentimentalismo, e nessuna passione forte resta nel mio animo per più di un’ora. Non troppo spiritoso e – lo so – più carismatico che intelligente. Ma comunque intelligente. E in tutto questo cosa c’era che non andava? Cosa c’era in lui, si chiese un po’ amareggiato, che lo intristiva? Finito il liceo, aveva deciso di continuare a studiare lì, a San Paolo. Effettivamente le scuole elementari, medie e superiori finanziate dalla Fondazione non avevano pretese altissime, rispetto alle scuole pubbliche (il loro costo, d’altra parte, era straordinariamente basso per essere delle scuole private). L’Accademia scientifica San Paolo, però, era ben altra cosa. Si trattava di una scuola di livello molto alto, lo sapevano tutti, che ammetteva meno di quaranta allievi all’anno da tutta Italia. Era stato felicissimo quando aveva passato il test, anche perché così facendo aveva risparmiato a suo padre il costo di una casa a Milano. La madre di Jacopo era morta due anni prima.
Jacopo si era trovato bene, i primi mesi in Accademia. Tutt’ora, in realtà, si trovava bene. Ma ormai da mesi si rendeva conto che qualcosa non andava. Non con i suoi compagni né coi professori, no. Qualcosa di più profondo… È difficile seguire i mutamenti dell’animo umano. Un giorno ci accorgiamo che non siamo più quelli di un anno prima; ma quando è iniziato il cambiamento? Le epifanie, gli improvvisi e radicali cambi nella nostra visione del mondo; tutte cose molto rare. In realtà i mutamenti dell’animo sono lenti, e ci logorano pian piano. Capire quando iniziano è difficile, capirne i contorni, a volte, è ancora più difficile… Ma Jacopo era paziente, e credeva di esser riuscito a svolgere all’indietro il gomitolo dei suoi pensieri. Sì, ne era certo. Doveva essere iniziato tutto il 7 gennaio e i giorni successivi – i giorni degli attentati. Undici morti… Barbarie… Rivendicato dall’Isis… Fatto irruzione al grido di “Allah Akbar”… Il noto giornale satirico aveva… Milioni di persone in piazza per manifestare contro il terrorismo… Attacco al cuore della democrazia… La comunità islamica parigina ha… #jesuischarlie… Dichiarazioni di… Dichiarazione schock di… Papa Francesco invita a… Che rumore, dopo un attentato. Doveva esserci stato un caos simile – e persino maggiore – dopo gli attacchi del 2001, d’accordo, ma all’epoca lui era un bambino. Aveva già diciassette anni, invece, al tempo della Strage di Utoya, ma l’impatto della strage a Charlie Hebdo era stato molto più grande. Jacopo, però, non era un retore. Non gli piaceva chi fingeva un’indignazione, una commozione che non provava di fronte a quanto era accaduto; non gli piaceva chi considerava le vittime della strage come martiri o eroi della libertà di stampa, e non come undici poveri cristi che erano stati ammazzati per niente. Non aveva pianto per le vittime di quell’attentato e non aveva scritto lunghissimi post su Facebook in loro onore; eppure, lo sentiva, da quel giorno qualcosa era cambiato. Non solo nella società che lo circondava; non solo nei rapporti tra l’Occidente intero e il mondo islamico in tutte le sue sfaccettature; ma anche in lui, in Jacopo. Dal giorno dell’attentato si era fatto più irrequieto. In palestra, durante gli allenamenti di kendo, i colpi di katana si erano fatti più vigorosi, ma anche meno eleganti e fluidi. Spesso suo padre, tornando a casa, lo trovava intento a muoversi in cerchio con aria concentrata, come pensando a chissà che. Anche nel parlare era diventato un po’ più brusco. Tutti gli chiedevano “Cos’hai?”, ma Jacopo non lo sapeva. In realtà, in quei momenti di riflessione non riusciva a formulare un pensiero preciso e dai contorni ben definiti. Sentiva, piuttosto, una specie di prurito mentale. Qualcosa lo turbava; ma aveva bisogno di tempo per metterlo a fuoco. Ma ora era convinto di avercela fatta, e stava seduto su un costone di roccia, a ripensare alla sua decisione. Da lì dove si trovava, San Paolo delle Cascate pareva piccolissima. Gli sembrava di starsene seduto in mezzo al cielo. Guardò le nubi. Per loro il cambiamento era costante, fluido. Nessuna di loro gli si opponeva o faticava ad accettarlo. Che pace che c’era in quelle trasformazioni silenziose. Sì, ma io non sono una nube. Chiuse gli occhi e meditò, e meditando si calmò pian piano.
Alla fin fine, le sue idee eran semplici. Sei certo della tua decisione? Sì. Vuoi rimandarla? No. Altro da dire? No. Ora di andare. Ma rimase ancora un minuto seduto sulla roccia, godendosi il battito dei raggi del sole sul suo viso. “Papà” gli disse, quella stessa sera “voglio andarmene”. Quello lo guardò, perplesso. “Ho riflettuto molto e credo di aver bisogno di vedere il mondo. Penso di andare via e lavorare per qualche mese, e intanto girare per la Lombardia e l’Italia. E poi deciderò cosa fare della mia vita.” “Non ti piace stare qui… In Accademia?” “Mi piace moltissimo” disse lui “ma temo non sia la mia strada.” “Non… Non stai bene qui con me?” Jacopo sorrise. “Certo che sto bene, papà. E ti darò mie notizie. Ma penso di aver bisogno di trovare la mia strada; e di trovarla per il mondo, non qui.” Suo padre annuì, e i suoi occhi si velarono di lacrime. “Papà…” “Non è niente, non è niente. Mi passa subito.” Finirono di mangiare. Marcus Wallace camminava per le vie di San Paolo con lo sguardo basso, muovendo appena le labbra, come riflettendo fra sé e sé. Jacopo gli si avvicinò piano. “Marcus?” L’uomo alzò gli occhi di scatto. “Oh, Jacopo.” La sua voce era rimasta profonda per tutti quegli anni. “Come stai?” Conquistare la stima di Marcus era stato un lavoro lungo, e difficile. Parlare con lui era un po’ come stare in equilibrio su un filo – da un momento all’altro si rischiava di precipitare… “Tutto bene” rispose Jacopo con calma. “Ma devo parlarti.” “Dimmi pure. Dimmi tutto.” “Io credo…” Deglutì. “Credo di volermene andare da San Paolo.” “Lo credi o ne sei certo?” “Ne… Ne sono certo, Marcus.” Quindi taque. “Posso chiederti perché?” “Voglio vedere il mondo.”
“Jacopo” disse Marcus, calmo, “noi ti abbiamo dato una casa e una scuola. Ti daremo anche un lavoro. Ti abbiamo permesso di studiare matematica come volevi. Non pensi di dovermi una spiegazione più sincera?” Per alcuni attimi, di nuovo, Jacopo stette in silenzio, poi parlò molto lentamente. “A gennaio, a Parigi è stata compiuta una strage.” “Quella a Charlie Hebdo, sì. Cosa c’entra?” “Da quel giorno, ho sentito in me una strana sensazione. Come se avessi creduto tutta la vita di vivere sotto il cielo, e quello si fosse rivelato di cartapesta. Là fuori stanno accadendo moltissime cose e noi viviamo in mezzo alle montagne.” “Jacopo” disse Marcus con calma “stai dicendo una cosa idiota. Noi siamo matematici, filosofi, contadini o impiegati. Non è a noi che spetta la lotta al terrorismo.” “No, non hai capito. Non è che voglio uscire per andare a combattere il Califfato. È un po’ più complesso. Il fatto è che il mondo si sta trasformando. Sta nascendo una nuova epoca.” “Ogni generazione pensa di star assistendo alla nascita di una nuova epoca.” “È vero” mormorò Jacopo, “ma questa è la mia epoca e il mondo sta cambiando. Nulla di nuovo, il mondo cambia sempre, ma non voglio perdermi la storia per vivere a San Paolo delle Cascate. Cosa prova la gente che vive in mezzo al cambiamento? Cosa prova chi vive nel mondo reale, quello dove tutto può crollarti addosso da un momento all’altro? Ho iniziato a chiedermi queste cose dopo gli attentati – ma gli attentati sono solo un aspetto di qualcosa di più grande. Anche l’incontro-scontro tra Occidente e Mondo Islamico è solo un aspetto di qualcosa.” “E cosa sarebbe questo qualcosa?” “La Storia” rispose Jacopo semplicemente “e ci accade attorno.” “D’accordo” disse Marcus con calma. “D’accordo. Ho ascoltato le tue ragioni. Ora tu ascolterai le mie?” “Sì.” “Jacopo, capisco quel che vuoi dire – lo capisco molto bene. Vivere immersi nella storia è meglio che vivere in un Eden lontano da tutto e tutti. Quello che secondo me ti è sfuggito, è che qui noi non stiamo scappando dal mondo. Non ci siamo ritirati su un’isola ignari del destino del mondo. Qui noi stiamo costruendo la storia. Stiamo mostrando all’umanità, all’umanità intera, la direzione per il futuro. Stiamo costruendo una roccaforte contro la bruttezza e la meschinità del mondo, ma il nostro scopo non è fuggire, il nostro scopo è combatterle. I principi che regolano questa comunità si diffonderanno al resto del mondo. Mostreremo alla gente che c’è un’alternativa, che si può vivere senza distruggere il nostro pianeta, ma in armonia con esso. Lo capisci?” “Certo. Ma per me è diverso.” “Cosa vuoi dire?” “Tu, Marcus” mormorò Jacopo “puoi senza dubbio dire di aver creato questo posto per affrontare la bruttezza, il degrado, e chissà cos’altro. Ma io ho sempre conosciuto solo e soltanto questo posto. La bruttezza e il degrado non li ho mai visti, Marcus.” “Perché dovresti voler conoscere la bruttezza e il degrado?”
“Perché no? Ognuno deve sapere in che mondo vive.” “Queste sono stupidaggini. Come se un uomo ricco bruciasse i suoi soldi perché vuole conoscere la povertà! Idee ridicole, Jacopo! Per ora non te ne andrai. Non se ne parla! Finirai il semestre, e poi ci prenderemo una vacanza, eh? Anzi, sai una cosa?” Si guardò intorno. “Sai, questo non dovrei proprio dirtelo, ma… La nostra non è una semplice accademia. Noi abbiamo contatti… Che altri non hanno.” Lo guardò con un mezzo sorriso. “A te piacerebbe lavorare in azienda, Jacopo?” “Di che stai parlando?” “Conosci la Bluesky Company?” “Sì, ovvio.” Chi non li conosceva, a San Paolo? Uomini della Bluesky venivano spessissimo a visitare la comunità. Erano immensamente ricchi, e interessati alla salvaguardia del pianeta. San Paolo era un modello per il mondo, dicevano. “Ebbene, anche loro conoscono te. Un ragazzo giovane, con ottime competenze scientifiche e grande talento per la matematica, ma anche con una brillante creatività e per di più cresciuto nei valori di sano umanesimo e rispetto per l’ambiente e la cultura. Esattamente quello che serve al mondo! Dovevi vedere com’erano entusiasti quando hanno visto il tuo profilo… ‘Questa è la persona che cerchiamo!’” “Dove vuoi arrivare?” “Voglio dire che quest’estate farai uno stage con loro, Jacopo, e andrai in Turchia.” “Cosa?” “Sarai posto di fronte a una situazione politica instabile, a una politica culturale inesistente, a una politica ambientale inesistente. E sai cosa dovrai fare?” Sorrise. “Dovrai aiutare una delle più grandi compagnie al mondo a costruire case, a costruire strade, a portare cultura e rispetto per gli altri. Cosa ne dici… Ti piacerebbe, come primo contatto col mondo esterno?” Le emozioni esplosero nel petto di Jacopo con incredibile velocità – gli dico di sì – gli dico di no – questa offerta è qualcosa di… Come faccio a dirgli di… Dirgli che… Sarei un privilegiato, sarei… Sarei ancora al suo guinzaglio, sarei sempre al suo guinzaglio. Circondato dai suoi amici. Su un sentiero tracciato da lui. Come una freccia lanciata da lui. Non è quello che voglio fare… Oh sì? Taquero tutti e due, poi Jacopo disse “Vedremo” e, con calma, si fece indietro. “Ma sei sicuro?” gli fece suo padre. “Si, papà” disse lui, deciso. “Voglio andarmene da qui, e Marcus non me lo lascerà mai fare. Parlarci servirà solo a litigare.” “D’accordo” mormorò suo padre, evidentemente a malincuore, “ti porterò io fuori dalla valle. Però penso che potresti almeno mandare una mail, no? Per avvertire…” “L’ho detto a Marcus di persona, e lui non mi ha voluto ascoltare. Papà, ti prego, io voglio andar via!” “Beh, non c’è nessuno che ci tenga prigionieri.” Pietro Tambellini sorrise. “Certo potevi farti tu la patente, ma va bene, andiamo.”
L’automobile proseguiva lentamente, coi finestrini abbassati. Jacopo respirò l’aria fresca mentre Pietro, al suo fianco, cantava a squarciagola, come sempre quando guidava in montagna. Costeggiarono lentamente il costone della montagna, mentre San Paolo spariva dietro le rocce alle loro spalle. “Posso fumare, papà?” “Solo finché ho i finestrini abbassati!” Il sapore del tabacco che scendeva nella sua gola lo aiutà a rilassarsi. Si sentiva di umore cupo. Chissà come avrebbe reagito male Marcus alla notizia che lui se n’era andato. Lanciò un’occhiata davanti a sé… E la vide. In mezzo alla strada, portiere aperte, c’era un’automobile messa lì di traverso. Poco distante c’erano cinque uomini, di cui uno appoggiato al cofano. Quattro erano montanari alti, abbronzati e sorridenti. Il quinto era Marcus. Pietro rallentò, fino a che fu di fronte all’automobile. “Ehilà” esclamò uno dei quattro uomini. Alto, biondo, muscoloso. Si chiamava Antonio, se Jacopo ben ricordava. “Salve” disse Pietro Tambellini con un sorriso. “Noi dovremmo passare.” “Non dovresti essere a scuola, Jacopo?” Provò l’irrazionale impulso di dire una bugia. Stiamo andando a fare un giro in città. A fare la spesa… Poi Pietro, sempre sorridendo, disse a Marcus un “Sto portando mio figlio in città, Marcus. Da lì prenderà un treno o un bus per Milano.” “Un ragazzo senza risorse, da solo a Milano?” “Ha un po’ di soldi che gli ho depositato sul conto corrente ed è un ragazzo in gamba. Se la caverà.” “Ho idea” ringhiò Marcus “che sia fuori discussione”. Pietro scese dalla macchina con calma, seguito dal figlio. “Non puoi costringere mio figlio a restare, se non vuole. Sposta la macchina.” “Non so” disse un altro degli uomini, e si fece avanti. Era grossissimo, questo, e aveva due enormi baffi neri spioventi. “Ho idea che non la sposterò affatto. Voi che ne dite, ragazzi?” Gli altri scoppiarono a ridere. Calmissimo Jacopo si fece avanti, spingendo suo padre di lato. L’uomo coi baffi neri era grossissimo, ma Jacopo non si faceva intimorire dai muscoli. Principalmente perché ne aveva anche lui. “Come ti chiami, caro?” chiese con finta cortesia all’uomo. “Giacomo, bimbo. Eh tu?” “Jacopo.” “Ehi, abbiam due nomi simili.” “Ho idea che sposterai la macchina, Giacomo.” “Ah sì? Altrimenti?” “Altrimenti ti farò male.” L’uomo rise, ma si fece un poò indietro. “Male, eh?” Lanciò un’occhiata a Marcus. “Gli devo dare una lezione?”
Marcus aprì la bocca per rispondere e Jacopo scattò in quel momento. Si tuffò in avanti, testa bassa e pugni chiusi, e colpì Giacomo al basso ventre con tutta la forza che aveva. L’uomo mandò un grugnito di dolore e piombò a terra mentre Jacopo saltava oltre il suo grosso corpo e si tuffava verso gli altri colpendo alla cieca. Non vide nemmeno il pugno che gli centrò le tempie. La sua visuale si annebbiò. Barcollò per un istante. Tre contro uno. Brutta sto… Antonio lo colpì alla stomaco ruggendo. Piombò a terra, senza fiato. “Fermi, fermi” gridava suo padre. Poi gli uomini gli furono attorno, le gambe alzate. “Si può sapere perché li hai aggrediti?” gli fece suo padre. “Ahi” lamentò lui quando il disinfettante gli bruciò le escoriazioni. “Comunque non preoccuparti, non posson mica tenerti qui. Ci metto un attimo a denunciarli!” “No. Così romperemmo definitivamente i legami con loro. Io volevo solo andarmene per qualche mese…” “Certo, è strano che Marcus abbia reagito così.” “Hai ragione. Non penso neanche di essere il primo che va a vivere altrove.” “No, infatti. D’altra parte, c’è anche da dire che tu non gli hai dato il tempo di abituarsi all’idea.” “Idea? Che idea? Che gliene importa, che io me ne vada o no?” “Stai scherzando? Tu sei il suo pupillo. Il suo preferito sia tra tutti quelli che han mai studiato all’Accademia, sia tra tutti coloro che sono mai venuti a vivere a San Paolo.” Jacopo si fermò ad assimilare il concetto. Il pupillo di Marcus, lui? Si accorse con stupore di sentirsi lusingato. “D’altra parte” riprese suo padre “è quantomeno raro che uno decida di andarsene così, da un giorno all’altro.” “È da un sacco di tempo che ci penso.” “Non ne dubito, ma non mi pare tu abbia pensato molto all’aspetto organizzativo della cosa. Voglio dire, tu non sai dove andresti a dormire a Milano. Sei sicuro di cavartela perché sei molto in gamba, e un paio di amici di famiglia che possano aiutarti a Milano li abbiamo. Ma di solito prima uno cerca la casa, e poi ci va a vivere.” “Allora dici che dovrei restare ancora un po’? Io voglio andare via.” “Figliolo… La verità è che tu sei molto, molto più intelligente di me. E se anche così non fosse, sei tu che devi decidere della tua vita, lo sai?” “Bene” disse Jacopo con calma. E poi: “Domattina lascerò la valle.” “E come?” “Ho chi mi porterà in città.” Gli uccelli iniziarono a cantare e il cielo si fece più chiaro. Strisciando vicino al fiume con la sua borsa in mano, Jacopo rifletté su quanto fosse bella l’alba. Aveva mentito a suo padre. Nessuno poteva aiutarlo a arrivare in città. Ma conosceva davvero un modo per andarsene…
Il kayak era ancora dove l’aveva ormeggiato, e le pagaia sempre nascosta poco più in lì. Si legò la borsa dietro la schiena, afferrò il remo e ne saggiò il peso… Poi mise piede nella barca. La gambe si appoggiarono contro il fondo. Il kayak dondolò e lui con esso. Sciolse gli ormeggi e si lasciò trasportare dalla corrente. Il muggito delle cascate, ancora lontano, gli salì alle orecchie. Poi fu sommerso da grida, frammenti di conversazione, clacson, e San Paolo gli apparve attorno. Attraversò la città lentamente, sorridendo a chi lo salutava. Intanto pensava a quello che stava per fare. Sapeva che era possibile usare il kakak per scendere dalla cascate. La parete era in lievissima pendenza, non nettamente in verticale. Ma sapeva anche che era pericolosissimo e che sarebbe bastato uno scossone di troppo per ribaltarsi e venire sbalzato nel vuoto. La città intorno a lui si svegliava. Le prime finestre venivano aperte, le strade iniziavano ad affollarsi. Ma San Paolo era ancora semideserta. Pagaiò piano, giusto per darsi un po’ di spinta. Vide la curva del fiume davanti a sé. Sono già qua? Sì, ci aveva messo così poco. Avanzò verso la curva, piano piano… Ecco, ora era arrivato… Dette un colpo di pagaia, e la oltrepassò. Il fragore delle cascate esplose nell’aria. Davanti a lui si estendeva l’ultimo centinaio di metri d’acqua, prima che il fiume si tuffasse nel vuoto. D’accordo. Sono pronto. Accelerò. L’acqua iniziava a ingrossarsi. Ecco, ora vedeva l’orlo del baratro. È un suicidio. Si slacciò il borsone dalla schiena e lo buttò nell’acqua. Quello galleggiò sulla superficie e scivolò verso la cascata, trainato dalla corrente, davanti a lui. È un suicidio, Jacopo. No. Posso farcela. Strinse i denti. Avanti, avanti… “Jacopo!” urlò qualcuno dalla riva. Lo ignorò. Ora stava correndo a pelo dell’acqua. Davanti a lui la cascata ruggiva, ruggiva. Al suo fianco, placide, le pale dei mulini ad acqua giravano. Il ponte si stagliò sopra di lui… Gli spruzzi d’acqua lo avvolserò, sollevandosi e schiumandogli attorno… Alle sue spalle sorse il sole. Lanciando un grido di sfida, Jacopo dette un colpo di pagaia e volò giù per le cascate. Schizzò giù lungo la parete, più veloce, più veloce, sobbalzando per la velocità, il petto schiacchiato dall’accelerazione, il vento in faccia. Andiamo, andiamo… Cadeva più veloce, sempre più veloce. Spinse al massimo, gambe, braccia e schiena, contro la barca. Accelerò ancora. Tutto il suo corpo tremava. La barca aderì alla parete e sobbalzò quando colpì un sasso, frustandogli la schiena. Chiuse gli occhi, in lacrime. Battè i denti. Il battito del suo cuore sembrò esplodergli nella testa. Forza, forza…
Poi impattò con l’acqua; il contraccolpo gli esplose lungo la schiena, una scarica di dolore, devo uscire, dette un colpo di reni e si allontanò dal kayak, totalmente immerso dall’acqua – nuotò verso la superficie e qualcosa lo strattonò verso il basso, un gorgo, e poi fu trascinato in mezzo alla spuma bianca e il suo corpo ruotò su sé stesso, non capiva più nulla, il cervello in fiamme, aria, aria, e poi si inabbissò, proteso verso il fondale, e un attimo dopo era sott’acqua, sotto ai mulinelli, e si spingeva avanti con rapidi colpi di polpaccio, avanti, avanti, e ora l’acqua si era fatta più calma, si era lasciato la cascata alle spalle e doveva respirare, quindi si spinse verso l’alto, bruciando dentro, Dio mio perché non posso nuotare più velocemente, i polmoni che ardevano, e poi la sua testa ruppe la superficie dell’acqua – e respirò. Ce l’ho fatta. Oh, Dio. L’acqua del Lago era calma. Si lasciò galleggiare per alcuni istanti. Poi, davanti a lui, sbucarono dall’acqua il suo bagaglio e la pagaia. Del kayak non c’era più traccia. Incagliato sul fondo, probabilmente. Bene. Ora devo andare. Afferrò la borsa con una mano, e incominciò a nuotare.
ATTO TERZO LA STRADA Nuotò per quelle che gli sembrarono delle ore costeggiando la riva. Ogni tanto, quando la costa gli pareva più abbordabile, usciva e si sdraiava sulla spiaggia, o sulle rocce, o sui pontili, e prendeva fiato. Quando si fu stancato, certo di essere ormai al di fuori della portata di Marcus, uscì dall’acqua lungo una spiaggetta isolata, sotto la costiera, si lasciò cadere a terra e restò lì, immobile, al sole. E così sono scappato davvero. Sorrise, e si lasciò cullare dal rumore delle onde. I raggi del sole battevano tiepidamente sulla sua pelle. Da molto più in alto sentì scendere i rumori delle automobili in corsa sulla strada. Dopo poco più di mezz’ora era completamente asciutto. Si risollevò e aprì la borsa. All’interno l’acqua non era entrata. Con un sorriso, estrasse uno dei tre enormi panini che si era portato dietro. Lo mangiò a larghi morsi. Si alzò e si guardò attorno. Dietro di lui, il pendio era ripido – ma non troppo. Ed era pieno di appigli. Avanzò verso la parete e iniziò ad arrampicarsi, calmo, sicuro di sé, con pochi gesti lenti e capaci. Dieci minuti dopo, aveva oltrepassato il costone e si stava inerpicando sulla strada stretta e asfaltata. Inizò a costeggiarla, col pollice teso nel segnale dell’autostop. Sentì uno strano senso di timore attraversargli il petto. Speriamo che Marcus non mi trovi. Certo, non potevano riportarlo indietro a forza. Eppure… Sentiva istintivamente che Marcus non doveva trovarlo. Un’automobile bianca stava arrivando nella sua direzione. Accostò lì, al suo fianco, e abbassò i finestrini. Dentro c’era un uomo coi capelli scuri, ben vestito. “Ciao, ragazzo” gli disse. “Vai verso Como?” “Sì” mormorò lui. “Como va benissimo.” Arrivarono che era quasi sera. “Grazie” disse lui all’uomo, che aveva scoperto chiamarsi Harold, e scese dall’auto. Como era semivuota. Camminò per le sue larghe strade, poi si infilò in un bancomat e prelevò una cinquantina di euro. Ora di cena. Mangiò un kebab seduto ai margini di una piazzetta, mentre il Sole tramontava. Meglio mantenere un basso profilo. Si stupì del suo stesso pensiero. In teoria, Marcus il giorno prima aveva avuto una reazione assurda, quasi isterica – impedirgli di andarsene, farlo praticamente picchiare… Ma era anche uno degli uomini che gli avevano dato di più, in tutta la sua vita. Forse la sua reazione era dovuta a qualcosa come un crisi di mezz’età? Di certo non era nulla di pericoloso. Eppure il suo istinto gli suggeriva di nascondersi. E io mi fido del mio istinto. Arrivando, aveva visto un hotel poco fuori dal centro, e vi si incamminò. Passerò lì una notte, in camera singola, poi me andrò all’alba. Lo raggiunse in due minuti. Guardò la sua figura ingrandirsi nella sua visuale… E si fermò. Davanti all’albergo, poggiato a una parete con fare disinvolto, c’era uno degli uomini che l’avevano picchiato il giorno prima. Antonio, il biondo. Lo guardò perplesso. Poteva essere una coincidenza…
Oppure no. Si girò verso una ragazza che passava al suo fianco. “Scusi, signora….” “Sì?” “Sa dov’è la stazione dei treni più vicina?” La stazione era brutta e sporca ma, come tutte le stazioni di sera, aveva una sua specie di squallida poesia. Sorrise fra sé e sé. Sono DAVVERO fuori da San Paolo. Finalmente. Poi una mano gli toccò la spalla. Si girò di scatto. Davanti a lui c’era un uomo alto, occhi neri, la fronte corrucciata. “Jacopo?” gli chiese. “No” rispose lui. “Marcus ti vuole parlare.” Restarono zitti per qualche secondo. Poi Jacopo scattò contro di lui investendolo con tutto il suo peso. Vide l’uomo barcollare mentre lui saltava indietro e caricava il pugno. Lo colpì all’orecchio destro e l’uomo piombò a terra, gambe all’aria; saltò oltre il suo corpo, atterrò piegato sulle ginocchia, si lanciò in avanti e iniziò a correre. Si fermò esausto dopo solo una paio di isolati. Devo dormire. Era vero, era stanco. Ma non poteva stare a Como. Devo lasciare questa città. Devo arrivare a Milano! C’era sicuramente un modo. Ci sarà qualche autobus che mi porti fuori da Como. Sì, ma non so niente della geografia di questo posto. Rischio di finire in qualche paesino isolato senza posto per dormire. Per non parlar del rischio di tornare indietro… No, devo arrivare a Milano. Là non mi troveranno mai. Ma come ci arrivo se non… Il corso dei suoi pensieri si arrestò per un istante… … a piedi? No, è impossibile, non posso camminare così tanto… Però magari posso fare un po’ di strada. Anche un paio d’ore. Mi vien male solo al pensiero… Ma non è impossibile. E sicuramente Marcus non avrà pensato che io possa fare una cosa del genere. Anche perché è un suicidio… Eppure… Eppure potrei camminare qualche ora lungo la strada per Milano, e magari quando proprio sono allo stremo delle forze addormentarmi in un qualche paesino… Mal che vada dormo in un parco… E finisco di dormire di giorno. Sì, poteva farlo. Prese un respiro profondo, e si rimise in cammino. Siano benedetti i telefoni cellulari capaci di accedere a Internet. Sia benedetto Google Maps… rifletteva qualche ora dopo, mentre camminava al buio costeggiando una strada. Si sarebbe perso moltissimo tempo prima se non avesse avuto le mappe sul telefono. Dopo un po’ che camminava la stanchezza aveva iniziato a passare. Gli dolevano un po’ le gambe, però. Non c’era in giro anima viva. La notte era stellata, però.
Al prossimo paesino mi fermo. Se proprio non trovo un hotel mi addormento su una panchina. Fu allora che le udì. Erano grida maschili, furiose e risonanti. Cercò di individuarne la fonte e vide un grosso edificio, senza luci – un palazzone industriale? O degli uffici stranamente fuori città? – a un cinquantina di metri da lui. Le urla erano altissime. “BALDRACCA!!” sentì urlare – e poi, di colpo, un grido di dolore. Femminile. Strinse i pugni. Non ci voleva. Placida, un’automobile gli passò accanto. Le urla continuavano. Sono l’unico che possa sentirle. O se c’è qualcun altro, non gli interessa. Ah, al diavolo. Iniziò a correre nella notte. Le urla crescevano in intensità. La borsa gli batteva contro la schiena. Ora sentì una terza voce, maschile anche quella. Rideva. Un uomo picchia una donna e un altro guarda. Magnifico. Davanti a lui si stagliava il palazzo. Il parcheggio… Le urla vengono dal parcheggio. Poggiò una mano sul guard-rail e lo scavalcò con un salto. Atterrò nell’erba e riprese a correre. Vai. Vai. Ora era nel parcheggio. Le mura dell’edificio gli incombevano attorno. Rallentò la sua corsa. In fondo al parcheggio un’auto, ferma, aveva i fari accesi… E alla luce del faro, un uomo stava picchiando una ragazza. “Baldracca!” urlò di nuovo, mentre la calciava. Era grosso e muscoloso, il viso rosso, largo e tozzo. Lei, a giudicare dagli abiti, doveva essere una prostituta. Un secondo uomo con una coda di cavallo rideva a piena bocca, appoggiato al cofano dell’auto. Jacopo si avvicinò. L’uomo con la coda lo adocchiò. Smise di ridere. “Ehi” disse “c’è qualcuno”… E Jacopo attaccò. Piombò sull’uomo con la coda a peso morto, afferrandolo; lottarono l’un contro l’alto in equilibrio precario, spingendosi, poi Jacopo gli fece uno sgambetto. Quello volò per terra di schianto, gridando per il dolore, e Jacopo lo calciò nei testicoli, velocissimo, poi vide il primo uomo, che era veramente enorme, scattargli contro a pugni chiusi. Saltò di lato schivandolo, quello si girò e lo caricò di nuovo; Jacopo lo aspettò di nuovo per poi gettarsi a sinistra all’ultimo e investire l’uomo con la coda, che si stava rialzando, con tutto il proprio peso. La prostituta si tirò indietro stupefatta, le labbra aperte in un’espressione di meraviglia, mentre il primo uomo si lanciava per la terza volta contro Jacopo, a peso morto. Jacopo rotolò di lato, velocissimo, e l’uomo andò a sbattere contro il cofano dell’auto. “Lento e stupido, eh?” commentò Jacopo sarcastico. Avanti, perdi le staffe, avanti bisonte, sbrocca del tutto… L’uomo urlò “Ti ammazzo!” mentre si buttava verso Jacopo… …che se lo vide correre contro, i movimenti scomposti, ruggendo… …ora… …e Jacopo si buttò in avanti a sua volta; il corpo dell’uomo gli fu addosso mentre il ragazzo, sfuttando la spinta del salto, gli bloccava le braccia; ruotarono uno addosso all’altro, vicinissimi… …e poi Jacopo gli tirò una testata. L’uomo ruggì mentre il suo naso si spaccava, poi Jacopo tirò indietro la testa e colpì di nuovo, lasciando andare l’avversario che piombò a terra sanguinando e piangendo.
Vide con la coda dell’occhio la prostituta che iniziava a urlare, e l’uomo dai capelli legati rialzarsi. Ora aveva un coltello in mano. I loro sguardi si incrociarono per una frazione di secondo… Poi Jacopo scattò contro l’avversario. Lo colpì alla mascella, le nocche rigide, quello barcollò e in quell’attimo Jacopo lo colpì di nuovo, stavolta alla bocca dello stomaco, poi strinse ancora il pugno e colpì per la terza volta, sull’orecchio. L’uomo ricadde, lasciando il coltello, e Jacopo lo calciò via. La prostituta urlava. L’uomo grosso cercò di rialzarsi e poi si vide balenare l’immagine del ragazzo davanti agli occhi, la gamba alzata a sferrare il calcio. Una nuova botta lo colpì in faccia e lui volò all’indietro mentre con il dolore cresceva la paura. Non voleva più esser picchiato. Voleva andare a casa. Chi era quel ragazzo? Perché lo stava picchiando? La sua visuale si annebbiò – e poi arrivarono i pugni del suo avversario, che continuava a saltargli attorno; un colpo alla tempia destra, uno alla sinistra, uno al naso, di nuovo, sempre più male… Barcollò all’indietro, sbigottito, e il ragazzo si tuffò verso di lui a peso morto. Lo investì in petto e lui perse l’equilibrio. Con un fragore allucinante andò a sbattere di schiena contro l’automobile – che male, che male – e urlò. La prostituta urlava. L’uomo grosso urlava. L’uomo con la coda urlava. Jacopo si tirò indietro e poi saltò di nuovo contro il suo avversario. Urtarono di nuovo contro l’auto. Ancora una volta… Si buttò indietro, in una posa da scattista pronto a partire, e poi si lanciò di nuovo. Sentì la massa di muscoli del suo avversario perdere ogni punto d’appoggio, e poi quella torre umana cadde lunga distesa e alzò uno sguardo stupido e terrorizzato verso di lui. Jacopo colpì ancora, poi si indietreggiò. Il viso dell’uomo era massacrato, coperto di sangue e lacrime. L’altro si dibatteva poco più in là, ansimando e cercando di riprendere fiato. E più in là ancora c’era la prostituta, terrorizzata. “Sai guidare?” le chiese camminando verso di lei. Lei annuì. “Allora andiamo.” Si girò e salì sulla macchina, al posto del passeggero. Al suo fianco salì la donna, che ancora singhiozzava debolmente. Le chiavi, come Jacopo aveva previsto, erano nel cruscotto. L’uomo grosso si sollevò davanti a loro e bofonchiò con voce rotta “La mia macchina”. Poi, più forte: “La mia macchina!” E la ragazza partì. Si faceva chiamare Bunny, ma il suo vero nome era Lucia, gli disse più tardi, mentre entrambi sedevano in automobile, lungo una stradina secondaria. “Io mi chiamo Jacopo.” “Mi hai salvato.” “Volevano ammazzarti?”
Lei lo guardò, sorpresa. “No” disse poi. “Non credo proprio.” “E perché ti hanno attaccato?” “Non lo so”, rispose lei. “Sono impazziti all’improvviso.” Tacquero. Lei guardò fuori dall’auto, con uno sguardo assente. Lui guardò lei. Una prostituta! Ne aveva viste solo da lontano. Non aveva mai parlato con una di loro. La curiosità lo morsicava. Ma cosa poteva chiederle? ‘Ehi, come hai iniziato?’ ‘Come si entra in questo giro?’ ‘Ma tu pensi che il corpo sia vendibile?’ No, naturalmente. Così si limitò a guardarla ancora un istante e le chiese: “Conosci per caso un posto per dormire?” Viveva in un bilocale nel paesino lì accanto. “Puoi dormire sul divano” gli disse “se non ti scoccia.” Esausto com’era, si lasciò cadere sui cuscini e si addormentò di colpo. Non avrebbe saputo dire se a svegliarlo fossero state le voci, o la luce, o il profumo del caffè. A un certo punto era sveglio, e dalle finestre aperte entrava la luce del giorno. Si sollevò. Lucia era seduta lì accanto e parlava con un uomo dall’aria sgradevole – grosso, spettinato, piuttosto sporco, e con gli occhi azzurri che la guardavano intensi da sopra gli zigomi sporgenti. Si girò verso di lui. “E così il nostro eroe si è svegliato” commentò, la voce rauca. “Buongiorno” mormorò lui. “Bunny mi ha detto quello che hai fatto. Sei stato grande.” “No, no.” “Due contro uno… Come hai fatto?” “Bisogna picchiarli uno alla volta. Se riescono ad attaccarti assieme…” “Ma sentilo!” esclamò ridendo a piena voce. “Sei un combattente, eh?” Ripensò a come, due giorni prima, gli uomini di Marcus l’avessero abbattuto, e sorrise amareggiato. “Senti” gli fece l’uomo “ti sono grato. Bunny dice che puoi restare qua finché serve. Ce l’hai un lavoro?” e gli sorrise. No, stava per rispondere, e poi si fermò. Se gli rispondeva di no, quello gliene avrebbe offerto uno. E lui avrebbe dovuto rifiutare, perché glielo diceva il suo istinto. Così rispose “Si, ce l’ho”, e non disse altro. L’uomo sorrise. “Beh, io mi chiamo Pat. Posso fare qualcosa per ripagarti?” “No, davvero” fece lui. “Non desidero nulla. Volevo solo aiutare.” Pat annuì, guardandolo. “Beh, a questo punto penso che l’unica cosa da fare sia lasciar sola la ragazza col suo cavaliere!” “Ciao, Pat”, fece Bunny. Quando se ne fu andato, Jacopo disse “Devo chiamare mio padre.” “Ciao, Jacopo”, fece la voce all’altro capo del telefono. “Ehi, papà.”
“Ho sentito della tua bravata.” “Cosa?” “Buttarti dalla cascate! Sei pazzo?” “Ah… Ma no, papà. È stato facile. Come va lassù?” “Mah… Marcus mi evita, a quanto pare.” “Ma davvero? Che idiota.” “Già. Ma per il resto tutto bene. Tu? Sei a Como o Lecco?” “A Milano, papà.” “Dove hai dormito?” “In un ostello. Mi son fatto degli amici, sai?” “Davvero? Fantastico. Fantastico.” “Si. Ehi, senti, devo andare.” “Va bene.” “Ciao, eh.” “Ciao.” “Perché hai mentito?” gli chiese Lucia. Scrollò le spalle. “Non volevo farlo preoccupare.” Lei annuì. “Non hai un posto dove andare, vero?” “No, direi proprio di no.” “Non hai un lavoro. Perché hai rifiutato l’offerta di Pat?” “Non mi serve un lavoro. Voglio viaggiare.” Lei annuì. “Stai scappando?” “Io? Sì, più o meno. Sto andandomene di casa, pian piano.” “Vuoi stare qui da me per un po’?” “Pat non si offenderà se saprà che gli ho mentito?” “Non deve saperlo. Non lo saprà. Questa è casa mia, non sua.” Lui annuì. “Senti” le disse poi. “Io mi fermo volentieri qua per un po’. Ma non voglio disturbare o…” “Non preoccuparti. Ieri mi avrebbero picchiata. E tu sei un bravo ragazzo, si vede. E poi…” e parve sul punto di dire qualcosa, ma si fermò. “E poi non mi importa molto se stai una settimana o due” disse poi. Così iniziarono i suoi giorni con Lucia/Bunny. A suo padre, Jacopo disse che si era fatto degli amici a Milano, aveva trovato un lavoretto che gli fruttava un po’ di soldi, e sarebbe presto partito per un viaggio in Centro Italia, e poi al Sud, magari. Non che gli piacesse mentire; ma suo padre aveva già abbastanza pensieri per la testa senza sapere che abitava con una prostituta che aveva salvato da un’aggressione. Il suo rapporto con Bunny era fatto soprattutto di silenzi. Lui era taciturno e lei era sempre con la testa altrove. Aveva un segreto, lui ne era sicuro, o perlomeno un pensiero ricorrente. Spesso la vedeva fissare nel vuoto, muovendosi leggermente, pensando a chissà cosa. Se avesse voluto, avrebbe potuto chiederle di che si trattasse. Ma era troppo riservato per affrontare un argomento del genere. E poi, lo sapeva, anche stando zitti si può comunicare…
Pian piano, nei loro silenzi iniziò a trapelare una certa complicità, un certo affetto. A volte si guardavano e iniziavano a sorridere in contemporanea, altre volte passando per la cucina lui le sfiorava il palmo della mano con le dita. Lei poi si sdraiava sul divano pigra e un po’ voluttuosa, guardandolo di sottecchi mentre faceva gli addominali. Qualche volta lo prendeva un po’ in giro, perché le sembrava un po’ troppo timido, un poco rigido; quando lei andava in bagno, per esempio, lasciava sempre la porta aperta e rideva di lui, che si girava verso la parete in evidente imbarazzo. In quei momenti, però, non era tanto la nudità di lei a disturbarlo, quanto la sua voce. Sì, quando stavano zitti c’era un sorta di intimità tra di loro. Ma quando lei parlava cadeva tutto miseramente. Lei era volgare, greve, nutrita di trash massmediatico e TV spazzatura. Inizialmente gli dava molto fastidio. Ma dopo pochissimo tempo, si era reso conto che, per molti versi, non era colpa sua. Nel paesino in cui viveva (e di cui non riporterò il nome) tutti erano come lei. Più di sei anni prima il suo maestro di italiano alle scuole medie aveva detto (se lo ricordava con precisione e nitidezza) “La bruttezza non è nel panorama, la bruttezza è il panorama”. Ora capiva cosa volesse dire. Come doveva essere, si chiese più di una volta, uscire di casa e trovarsi di fronte quei palazzoni di cemento? Quelle forme quadrate e grezze, tozze, crivellate di balconi e porticati, dipinte con colori accesi e sgargianti – rosso, arancio, giallo, verde – in stridente contrasto con il cupo color grigio delle strade e del cielo? Quelle strade piatte e asfaltate dove le macchine continuavano a scorrere indolenti sputacchiando gasolio qua e là? E i barettini stretti dove le persone sciamavano con gli occhi vuoti, e i televisori sempre accesi. Quanto – si chiese – tutto questo doveva aver influito sull’anima di Lucia/Bunny? E quanto avrebbe influito sulla sua? Cosa ci faccio qui, io? si chiese cupo più di una volta. Già, cosa? Era intelligente e forte, con un po’ di soldi sul conto corrente, e aveva tutta l’estate a disposizione per girare l’Italia. Certo non prevedeva di spingersi molto in là… Ma poteva andare almeno fino a Roma! Perché se ne stava lì, arenato in un piccolo paese di merda in cima a quella grigia pianura infinita? Ma no, non se ne sarebbe andato. Era vero, là fuori c’erano una marea di cose stupende. Ma lui aveva deciso di andarsene là fuori perché voleva conoscere la bruttezza contro cui a San Paolo dicevano di combattere. Quello, soprattutto, voleva capire. Una volta intrapreso un sentiero si disse meglio intraprenderlo con costanza. Meglio continuare a starsene lì, in quel paesino di pianura, e guardarsi attorno, e apprendere… A suo padre aveva mentito su tutto meno che su una cosa. Un lavoro, in effetti, l’aveva trovato. Lavorò come cameriere per due settimane e non gli piaque per nulla; per la prima volta nella sua vita arrivava alla serata stanco, e spossato. In qui giorni lui e Bunny, pur dividendo l’appartamento, si vedevano relativamente poco. Al mattino facevano colazione assieme (lui non sapeva a che ora lei rientrasse) e prendevano il caffè seduti al tavolino. In quei momenti silenziosi, assonnati,
stavano l’uno davanti all’altro guardandosi con gli occhi pesti, e magari scambiavano quattro chiacchiere. Poi c’era un’oretta in cui lei si sdraiava sul divano e lui rammendava la casa, o faceva esercizio, o leggeva i libri che si era portato via da San Paolo (le Ricerche filosofiche di Wittgenstein, un’antologia di brani da Aristotele, due libri di matematica e un grosso volume sulle aperture nel gioco degli scacchi). Poi lui usciva. A volta tornava per pranzo, a volte no; usciva di nuovo e rientrava verso sera. Se gli capitava di passare da casa nel pomeriggio, quasi sempre la trovava addormentata profondamente. Un giorno, tornato con un po’ di anticipo, aprì distratto la porta del loro appartamento… E un muro di suono gli investì le orecchie; era un pezzo famosissimo e trascinante dei primi anni ’70, e qualcuno lo aveva messo a tutto volume in cucina. Basso tastiera e chitarra ripetevano i loro pochi accordi con un entusiasmo febbrile, mentre la batteria teneva il ritmo. It’s only tenage wastelaaaaand, gridava la voce di un cantante di cui proprio non riusciva a ricordare il nome. In mezzo all’appartamento Bunny ballava, esaltata, con gli occhi chiusi, in mutande e maglietta, lanciandosi in lunghe piroette disordinate; poi la ragazza aprì la bocca e, estatica, gridò WASTELAAAAND completamente fuori tempo, spiccò un balzo immenso e andò a sbattere con violenza contro la parete. Aprì gli occhi, imprecando addolorata. “Ciao” disse Jacopo, tentando di superare la musica con la voce. Scoprì così che Lucia/Bunny era una di quelle persone che vivono nella nostalgia della musica degli anni ’60 e ’70. Il suo tesoro (si capiva da come la stringeva) era una vecchia cassetta su cui erano incise, oltre a Baba O’Riley, anche Immigrant Song, Satisfaction, Break on Trough (to the other side), White rabbit e Bohemian Rhapsody. A Jacopo, in realtà, la musica era sempre stata abbastanza indifferente, e l’hard rock gli era sempre sembrato un po’ sopravvalutato. Ma in una ragazza come Bunny questo dettaglio lo colpiva. A cosa pensava quando ballava sulle note degli Who o degli Zeppelin? Forse pensava di fuggire? Forse immaginava un tempo in cui non si sarebbe dovuta vendere o un’innocenza che non aveva più. Sempre ammesso, naturalmente, che fosse pentita di esser diventata una prostituta. Come faceva lui a saperlo? Forse aveva fatto la cosa migliore per se stessa… Però non era una persona serena, si capiva. Chissà chi le aveva inciso quella cassetta? Lei sicuramente avrebbe usato Internet per farsi una playlist. O una chiavetta. Magari è un ricordo dei suoi genitori. Magari pensa a loro quando balla. O magari non pensava a niente. Dopo due settimane trovò lavoro come commesso nella libreria del paese accanto. Finalmente un impiego che gli sarebbe piaciuto! Tornato a casa lo disse a Bunny, e a lei si illuminarono gli occhi. “Dobbiamo festeggiare”, annunciò, e sparì in bagno. La sentì che armeggiava col telefono. Chi stava chiamando? Si avvicinò alla porta con fare circospetto.
“Bunny?” Da dentro giunse la voce di lei. “Ti prego, Pat… Lavorerò questo venerdì!” Ci fu silenzio per alcuni istanti, poi lei esclamò “Grazie!” e corse fuori, entusiasta. “Festa?” chiese lui, perplesso. “Beh” disse lei ridendo “in realtà, pensavo che potremmo ubriacarci e ballare tutta la notte. Cosa ne dici?” “Non mi fa impazzire l’alcool” mormorò lui. “Però…” “Scommetto che preferisci fumare.” “Beh, sì.” Lei rovesciò gli occhi, sbuffando. “Come sei noioso!” “Fumare non è noioso.” “Fai solo cose buddhiste.” “Cosa? Non è buddhista!” “Ma sì. Fai tutte cose meditative, tipo, non so, meditazione, o yoga o tutte quelle cagate zen.” “Non c’è nulla di male nello yoga, sai?” “Scommetto che è noiosissimo.” “Ma no! E neanche fumare.” “Sì, sì. È una delle tue cose da guru hippie.” E si mise a occhi chiusi, le mani giunte, gridando “Ohmmmmmmm…” con voce esageratamente acuta. Lui rise. “Oh, andiamo! Tu ascolti i Led Zeppelin. Chi c’è di più hippie di quelli?” “Non contraddirmi, sai? Stasera ti ubriacherai e ballerai. Cosa beviamo? Io adoro il Gin Lemon.” “Passi per l’ubriacarmi, ma odio ballare.” Lei lo guardò orripilata. “Starai scherzando.” “No, io…” “No, no, no! Tu ballerai. Sai che ti dico? Visto che ti piacciono tanto quelle cose orientali, niente pizza. Ordiniamo del sushi.” “È la prima cosa intelligente che dici.” “E ci ubriachiamo di saké!” “Cosa? No!” Di quella serata ebbe pochi ricordi confusi. Il sapore del pesce freddo e Bunny che non sapeva usare le bacchette e spargeva riso dappertutto bestemmiando come una turca. La nausea dell’alcool che gli scorreva dentro la gola mentre Bunny lo prendeva in giro. Poi loro due che ballavano esaltati, frenetici, saltellando di qua e di là. A un certo punto lei gli si buttò addosso e lui perse miseramente l’equilibrio, caracollò per la stanza e rimase in piedi per miracolo. Ora lei gli stava ballando più vicina, e rideva di cuore. Ballarono al centro della stanza caracollando, goffi come due papere. Poi si staccarono di nuovo mentre lei metteva la canzone di Pulp Fiction – ma sì, quella famosa, dai! – dalla chiavetta. Lui si lanciò nella più scontata imitazione di John Travolta per poi cadere sul tappeto. Lei gli diede dello scemo. “Non sono scemo” bofonchiò. Lei lo prese per le braccia e ballarono senza più saltare, ondeggiando a
destra e sinistra. Ora si stavano praticamente ballando addosso. I capelli di lei le coprivano il viso mentre ruotava la testa. Jacopo rise e a un tratto, cristallina, ebbe la sensazione di come dovessero apparire squallidi, di come tutto dovesse apparire squallido in quel momento. Ma bello. Sorrise abbandonasi alla danza – e poi di colpo gli sembrò che la stanza iniziasse a girare. Nauseato si allontanò da Bunny e crollò sul divano. Lei continuò a ballare e riprese a saltare, facendo piroette avanti e indietro. Lui si versò ancora del saké e lei saltò al suo fianco esclamando “Anche io!”. Finirono il sakè. Poi ballarono di nuovo, separati, scatenati, girando su loro stessi, a testa bassa, finché andarono praticamente a sbattere l’uno contro l’altra. “ABBASSATE QUELLA MUSICA!” urlò qualcuno dalla tromba delle scale. Loro lo ignorarono. Lei si staccò da lui e fece una nuova piroetta. Lui ballò ancora un po’ da solo poi i suoi pensieri diventarono ancora più indistinti. Grazie a Dio aveva puntato la sveglia. Squillò fortissimo accanto al suo orecchio e lui saltò a sedere, con la testa attraversata da fitte. Gemette. “Bunny?” Si era addormentato sul divano, ancora vestito. “Bunny?” Nessuna risposta. “Bunny?” La trovò nella stanza accanto, addormentata profondamente. La guardò. Come gli pareva bella in quel momento. Peccato che si sentisse malissimo, e quello fosse il primo giorno del suo nuovo impiego. Gemendo, si preparò un caffè e, senza lavarsi né cambiarsi, uscì. Il suo primo giorno di lavoro fu disastroso. Ma i giorni successivi andò sempre meglio. Gli piaceva, e lui piaceva ai clienti; la paga non era granché, d’accordo, ma bastava per comprarsi da mangiare; e quando i clienti scarseggiavano poteva piazzarsi in un angolo, scegliersi un libro o una rivista, e leggere. Con Bunny, dopo la sera della festa, i rapporti migliorarono. Parlavano di più, soprattutto per prendersi in giro o per ricordare la loro serata. Ora capitava più spesso che lui fosse a casa di pomeriggio. Presero l’abitudine di passeggiare assieme, magari di prendere un gelato… Di pomeriggio, però, Bunny non era molto reattiva; sembrava sempre stremata, e nel suo sorriso si leggeva come una certa fatica. A un certo punto iniziò a sospettare che al mattino, mentre lui non c’era, prendesse delle droghe o, forse, dei tranquillanti. La sera, invece, era molto reattiva e a volte dopo cena, prima che lei uscisse, passavano anche un paio d’ore sul divano a scherzare l’un con l’altro, guardando la televisione. Si guardavano spesso; a volte bastava che incrociassero lo sguardo per sorridersi, altre volte lei faceva un’aria triste, chissà per cosa, e lui faceva spallucce come a dire “Che ci vuoi fare?”. E altre volte si lanciavano sguardi più maliziosi, come a dire; Entrambi ci troviamo attraenti; io trovo attraente te, tu trovi attraente me. E se magari fossimo in un’altra vita, se non avessimo entrambi bisogno di mantenere le distanze,
se tutti e due non fossimo in fuga da qualcosa di cui non ci va di parlare, magari faremmo all’amore, un giorno di questi. Magari anche tutti i giorni. E anche se non è così, è bello che questo aleggi tra noi. Ballarono un altro paio di volte, sempre divertendosi e facendo infuriare il condominio. Siccome lei gli aveva insegnato a ballare, lui le insegnò un po’ di meditazione zen. Lei dichiarava di annoiarsi, naturalmente, e lo prendeva in giro – ma le piaceva sedersi a gambe incrociate e controllare il suo respiro, e sciogliere ogni suo tensione nella distensione dei muscoli. Un giorno, tornato per pranzo, la trovò che meditava, concentratissima, e restò a guardarla per qualche minuto prima di dire “Ehi, Bunny!” Provò anche a insegnarle a giocare a scacchi, ma lei era davvero negata. Un giorno lei lo abbracciò, di colpo, e gli disse: “Sai, ti voglio proprio bene, Jacopo.” “Anch’io ti voglio bene, Lu!” (che stava per Lucia, naturalmente). “Sai…” “Sì?” “Niente… Niente.” E non gli disse più nulla. Due giorni dopo ricevette la telefonata di suo padre. “Ciao, Jacopo”. “Ciao, pà.” “Come stai?” “Tutto bene… Tu?” “Dove sei adesso di bello?” “Ancora a Siena, fino a domani.” “I tuoi amici son simpatici?” “Sì, sì. Tu invece? Come va?” Poi sospirò. “Oh, Jacopo…” “Cosa c’è, papà?” “Perché ci mentiamo?” Jacopo restò fermo un istante, raggelato. Cosa… Come ha fatto a scoprirmi? “Papà, non capisco…” “Scusa, scusa. Hai ragione. Ma senti… Jacopo, è giusto che tu lo sappia.” “Papà… Di che stai parlando?” “Jacopo, io ti ho mentito.” “Cosa?” “Nelle ultime settimane…” “Ma cosa dici?” “Non volevo farti preoccupare, capisci? Tu sei in giro per l’Italia – devi godertela…” “Cosa dici, papà? Dall’inizio. Ti prego.” “Jacopo, io ti ho mentito.” “E questo l’ho capito.”
“Non va tutto bene, affatto. Ho dovuto… Ho lasciato San Paolo.” “Cosa? Perché?” “Dopo che tu te ne sei andato, la comunità ha reagito in modo… Strano.” “Strano in che senso, papà?” “Male, Jacopo. Hanno reagito male. Alcuni mi hanno tolto il saluto, il mio capo ha iniziato a non rispondere alle mie mail… Addirittura un bambino mi ha dato del traditore.” “Cosa? Ma perché?” “Marcus ha detto a tutti che avevamo tradito la sua fiducia.” “Perché me ne sono voluto andare? Ma è pazzo?” “Mi son detto ‘Fa niente, Paolo, tira avanti, sarà una fase.’ Poi mi hanno rigato la macchina.” “Ma può essere stato un vandalo.” “Non ci sono vandali a San Paolo. Poi… Poi le scritte…” “Che scritte?” “Sulla porta di casa. ‘Traditore!’” “Oh mio Dio. Ma magari è stato un idiota, no? Uno che vede Marcus come un Dio, ce ne son tanti lì a San Paolo…” “Sì, ma vedi… È stato fatto di giorno. Sono tornato a casa dopo pranzo e… E c’erano quelle scritte…” “Ma se è stato fatto di giorno… Possibile che nessuno abbia visto?” “Hanno visto tutti, Jacopo. Ma nessuno mi ha detto nulla.” “Gesù.” “Poi…” “Poi?” Suo padre tacque. “Poi, papà?” “Poi hanno… Hanno…” e mormorò qualcosa pianissimo. “Non capisco, papà! Cos’hanno…” “…hanno preso la casa a sassate, Jacopo! Con me dentro. Hanno sfondato le finestre, urlando! ‘Traditore’, ‘porco’…” “Dio mio. Ma… Non hai visto chi è stato?” “Sono stati tutti.” “Cosa vuoi dire?” “Marco, Honey, Andrea, Paul… C’era la signora Ada, c’era Pertini…” “Cosa… Pertini l’insegnante?” “Lui… E c’era Luca… Dopo anni che lavoriamo nello stesso ufficio, Jacopo! C’erano due poliziotti, Jacopo… Mancava solo il reverendo…” “Almeno lui…” “Sì, ma lui ha fatto un sermone furioso contro chi tradisce la fiducia degli altri… Credo che avrebbe voluto esserci, sai?” “Dio mio…”
“E poi, il giorno dopo… Tutti – tutti – si sono limitati a guardare da un’altra parte se mi incontravano. Oh, come distoglievano gli sguardi. In fretta. Seccati. Imbarazzati. È stato orribile…” “Dio mio, che pazzi.” “Ho traslocato due giorni dopo.” “Hai fatto bene. Dove sei, ora?” “Da mia sorella, a Milano.” “Vengo da te.” “No! Finisci pure con calma il tuo… Il tuo giro.” “Papà, no. Devo risalire.” “No! Davvero, preferisco di no. Tra… Tra un po’. Adesso devo anche cercare un nuovo lavoro, un nuovo appartamento…” “Gesù.” “Non preoccuparti. Non preoccuparti. Dai, scusa lo sfogo. Ciao, Jacopo.” “Ciao, papà…” “Ciao. Ciao.” Poi non sentì più la voce di suo padre. Aveva riattaccato. Strinse il cellulare tra le nocche. I battiti del suo cuore accelerarono. Il suo respiro si fece affannoso. Poi chiuse gli occhi, respirò profondamente... Calmo, non perdere la calma… I suoi battiti tornarono normali. Rientrò a casa sconfortato. Bunny era seduta sul divano, con la sua antologia di Aristotele in mano, la fronte corrucciata. “Come stai, Bun?” “È proprio noioso, questo libro!” “Beh, a me interessa.” “Sei giù?” “Sì… Un po’ sì.” Lei gli fece cenno di sedersi. Con un sospiro, lui si lasciò cadere al suo fianco. “Che succede?” Jacopo di morse il labbro. Che posso dirle? “Jacopo?” Sospirò. E va bene. “Devi sapere, Bun” iniziò a dire, con aria riflessiva “che quando avevo tredici anni, per motivi di salute mia mamma si dovette trasferire…” E le raccontò tutto; i suoi anni a San Paolo, la sua scelta di andarsene, la fuga… Lei annuì, pensosa. “Mi dispiace per tuo padre. È terribile…” Si guardarono. Poi lei disse “Te ne andrai?” “Sì… Penso di andare. Ma tornerò… A trovarti.” “No, non lo farai.” “Ti giuro che lo farò! Sei… Sei la mia migliore amica.” Lei scosse la testa, triste. “Non è quello il problema, Jacopo.” “Ah no? E qual è?” “Che…” poi scosse la testa. “Non fa niente.” La guardò. “Bunny… Lucia…”
“Cosa vuoi?” Le strinse la mano. “Cosa c’è… Che ti intristisce? A cosa pensi? Perché sei…” “Ho il cancro, Jacopo.” Taquero tutti e due per alcuni secondi. “Hai… Hai che cosa?” “Sei scemo?” “Bunny, ma…” “Ti prego, non… Non metterti a piagniucolare. Non penso che lo sopporterei.” “Ma perché… Perché non vai mai in ospedale?” “Certo che ci vado, idiota. Dopo che tu te ne sei uscito, vado praticamente tutte le mattine.” “Ma non… Ma stai facendo…” “Ho fatto un po’ di chemio, ma non… Ma l’hanno preso troppo tardi. Ormai prendo soprattutto gli antidolorifici.” “Per questo eri così stravolta durante i pomeriggi…” “Sì.” Taquero alcuni istanti. “Naturalmente” sospirò Bunny “non ho… Molto tempo.” “Quanto?” “Una settimana? Un mese? Due giorni? Cosa ne so?” Lui annuì. Poi disse: “Non andrò via.” Lei gli strinse la mano. Non era la prima, gli disse, triste. Era già successo a tre sue amiche, e tutte e tre avevano coperto la stessa strada. “Coperto”, così diceva. Per le prime due si era pensato a una coincidenza. Poi era successo anche alla terza e allora Pat le aveva fatte spostare – ma troppo tardi. “Capisci” disse, triste, “quando l’ho saputo ho odiato la mia terra… Perché è ovvio che non sia un caso. Qualcuno deve… Deve aver scaricato nel fiume qualcosa, o ai bordi del fiume – dev’esserci stato qualcosa che ha avvelenato la terra, no? Un’azienda, una discarica abusiva, chi lo sa?” E quindi mi ero arrabbiata, disse poi – ma Jacopo ricordò sempre le sue parole in maniera confusa – mi ero arrabbiata ma quando Pat ha giurato vendetta, quando Pat mi ha detto che avrebbe punito i responsabili, li avrebbe trovati e puniti, allora la rabbia è passata tutta, perché ho capito che non cambiava niente. Sarei morta lo stesso. “E tutto queste cose io non le vedrò più…” Perché, le chiese Jacopo, aveva continuato a… A coprire le strade, dopo aver saputo della malattia? “Volevo un po’ di soldi ancora per mamma e papà e poi” gli disse, guardandolo “e poi questa è la mia vita… Smettere per fare cosa?” “Dovresti venire con me a San Paolo” mormorò lui. “Ti piacerebbe”. Lei rise, all’improvviso sinceramente divertita. “San Paolo, dove tutti respirano aria pulita e leggono Aristotele! Non credo farebbe per me.”
Lui le sorrise a sua volta. “No, hai ragione. Non credo neanch’io.” Lui smise di andare a lavorare, e anche lei. Stettero molto in casa; parlarono del più e del meno oppure stettero zitti abbracciati, con lui che le accarezzava i capelli o lei che li accarezzava a lui. Uscivano tutti i giorni, al mattino per la colazione, al pomeriggio per una passeggiata al parchetto. Lei si stancava in fretta, e tornata a casa dormiva molto. La sera, adesso che la notte non andava più a coprire le strade, lei aveva paura al momento di addormentarsi. Così tenevano la luce accesa e lui sedeva sul bordo del letto. Un po’ le parlava, un po’ guardavano la televisione, un po’ ascoltavano la musica. Alla fine lei si addormentava e lui dormiva sulla poltroncina accanto a lei, dopo aver spento la luce. Dopo qualche giorno lei annunciò che era ora di pulire il pavimento – “Non ho nessuna intenzione di crepare circondata da ’sta fogna!” Lui si rannicchiò sul divano e la guardò mentre passava l’aspirapolvere, dandogli la schiena. Lei canticchiò muovendosi avanti e indietro. Poi si fermò, irrigidita – lui iniziò a muoversi istintivamente – e la afferrò mentre piombava a terra, gemendo. L’aspirapolvere sbattè sul pavimento e continuò a fischiare mentre lui la spingeva sul divano. “Chiamo l’ambulanza”, gridò, e incominciò a digitare il numero sulla tastiera. “Un po’ d’acqua” la sentì dire flebilmente, corse al rubinetto afferrando il primo bicchiere che trovò, beep, beep, faceva il telefono, l’acqua eruppe dal rubinetto e cascò contro il vetro, l’aspirapolvere continuava a ululare, beep, beep, i gemiti di Bunny, le porse il bicchiere pieno, “Pronto?” fece l’operatore, “Ho una ragazza che sta male, l’indirizzo è…”, Bunny bevve a fatica mentre lui spiegava affannosamente quel che accadeva, “Arriviamo”, “Presto, vi prego…”, poi le strinse la mano… “Ti prego” ansimò lei, indicando l’aspirapolvere “spegni quell’affare…” In ospedale lei, a quanto pare, disse ai medici di dirgli tutto, anche se non era un parente, e forse fu quello, forse fu la sua aria afflitta, forse fu il fatto che non c’era davvero nessun altro, o forse fu che ai medici non importava così tanto, fatto sta che a tarda notte vennero da lui che sedeva muto su una di quelle orribili seggioline che mettono nelle sale d’aspetto e gli dissero che lei era morta, e lui li ringraziò e fece per andarsene, poi un’infermiera che faceva il turno di notte gli chiese se non voleva un thé, e il medico, che era un uomo alto e coi capelli brizzolati, annuì, e bevvero un thé silenziosamente sotto un santino di Padre Pio che qualcuno aveva lasciato lì, avvolti dallo strano silenzio gremito di fremiti degli ospedali notturni, e poi lui scese le scale e uscì, e quando uscì il cielo era schiarito, lui non aveva ancora pianto, ma a minuti l’avrebbe fatto, uccellini cantavano di qua e di là e stava per sorgere l’alba. Poco lontano le automobili correvano lungo la strada, tranquille e silenziose.
Pat aprì la serratura di casa sua e entrò nel bilocale. Come faceva sempre proseguì per qualche metro al buio, afferrò la bottiglia di Coca Cola che aveva lasciato sul tavolo e bevve a grandi sorsate. Solo allora avanzò verso l’interruttore e accese la luce. Quando si girò Jacopo era in piedi davanti a lui e aveva in mano una pistola. “Ciao, ragazzo” mormorò. “Come mi hai trovato?” Indicò l’arma. “Come hai trovato quella?” “Le tenevi sotto al letto.” “È la mia pistola? Oddio, è vero.” “Ti ho trovato perché ho parlato con le colleghe di Bunny e mi hanno dato il tuo indirizzo.” “Come sei entrato?” “Dovresti chiudere la finestra del bagno.” “Potevi parlarmi domani” esitò un istante “al funerale.” Lo sguardo di Jacopo era vitreo. Sconvolto si disse Pat, e nervoso. Sospirò. “Ragazzo…” “Chi l’ha uccisa, Pat?” Deglutì. “Cosa l’ha uccisa?” “Non lo so.” “Menti un’altra volta, Pat, e ti sparo.” Lo farà. “D’accordo” disse “d’accordo. So chi l’ha uccisa.” “Il nome.” “Non ho un nome. È stata una compagnia. Si occupava del riciclaggio dei rifiuti. Hanno scaricato da qualche parte qualcosa di illegale. La zona è abbastanza lontana da qui, vicina all’Adda. Non credo sapessero che avrebbero ucciso della gente. Forse sì, però, perché non è la prima volta che sono coinvolti in una causa per un disastro ambientale.” “Perché sono ancora vivi?” “Come sei sanguinario, ragazzo.” “Perché, Pat?” “Vuoi che li uccida tutti? Non riporterà in vita Bunny. Sai, io ho ucciso della gente, prima d’ora. Non è la gran figata che tutti credono e non è una cosa che puoi fare a cuor leggero.” “Hanno ucciso una delle tue ragazze…” “No, ne hanno uccise quattro.” Taquero, poi Pat disse: “Bunny non voleva vendetta, voleva che mi prendessi cura della sua famiglia.” “Ma le hai promesso vendetta…” “Perché mi prenda cura della sua famiglia, mi servono dei soldi e per avere dei soldi, devo avere la protezione della Innovazione e Libertà.” “La cosa?” “Innovazione e Libertà. Una grande e vasta industria accusata più volte di traffici con la mafia. Ebbene, le accuse sono vere, io lo so. Fanno da prestanome per i miei soldi, i soldi dei miei colleghi, i soldi del mio giro, i soldi di dozzine, se non centinaia di
altre persone. Io sono furbo e ho la pelle dura ma per loro sono solo una piccolissima parte dell’ingranaggio – se mi metto contro di loro e mi va di fortuna, magari non perdo la vita. Ma i soldi sì; i soldi, di sicuro, sì. E la famigliola della tua Bunny…” “La Innovazione e Libertà… Sono loro che hanno ucciso Bunny?” “Loro? No.” “E allora perché…” “Perché l’azienda di cui ti dicevo prima, quella già accusata di disastri ambientali, quella che ha rovesciato i propri rifiuti presso l’Adda, quella che ha ucciso Bunny, quell’azienda è nel bel mezzo di un’ampia e fruttuosa trattativa con la Innovazione e Libertà. E se noi colpiamo loro, loro colpiscono noi. Duramente.” “Non è esatto” disse Jacopo, calmo. “Loro colpiscono te. Ma non sanno chi sono io.” “Oh, davvero? Allora ti dico io cosa succede. Tu vai dai dirigenti della ditta. Li uccidi tutti. La polizia rintraccia l’arma che ha sparato. L’azienda risale a me. E pensi che io faccia il martire e mi faccia ritrovare con un buco in testa per proteggerti? Dico il tuo nome, la tua età, e loro ti scoprono, prima o poi.” “D’accordo” disse Jacopo “allora facciamo così. Tu mi dici un modo per vendicare Bunny, o io ti sparo in testa con la tua pistola adesso.” Per alcuni istanti nessuno dei due parlò. Al novanta per cento è un bluff. Ma è sconvolto. D’altra parte non posso fargli fare una strage. Però se dice sul serio… Capirà che sto bluffando? Sì, di sicuro. Dannazione, che piano di mer… “D’accordo” disse Pat con un sospiro. “Posso darti una pistola non rintracciabile, con non più di tre proiettili.” “Perché tre?” “Perché non voglio che tu faccia una strage e vada ad ammazzare ogni singolo operaio che ha contribuito alla discarica abusiva.” “Va bene.” “Domani, alle sei, dietro casa mia.” “Solo io e te, in un posto che conosci solo tu? Mi credi scemo? Domani al funerale.” “D’accordo.” “E… A chi sparo?” “Non sparerai a nessuno. Oh, sei coraggioso e sveglio. Ma uccidere è una cosa orribile, ragazzo, irrimediabile.” “Tu quante persone hai ucciso?” “Undici, ragazzo, undici. Alcuni per difendermi, altri… No. E lo rifarei se servisse. Ma uccidere ti cambia. O impazzisci, e diventi un sadico, uno psicotico, o semplicemente ti logori. La tua anima diventa… Dura, pesante.” Lo guardò più intensamente che potè. “Non sei una persona cattiva… Non come me. Non ucciderai.” “Voglio il nome, Pat.” L’uomo sospirò. “Certo. Certo. L’uomo che si è occupato della transizione, l’unico – penso – che sapeva tutto, si chiama Giacomo Ambrosini. Quelli sopra di lui, quelli sotto di lui, chi sapeva, chi non sapeva… Queste sono cose intricate. È come andare a sparare ai fantasmi.”
Jacopo annuì. “La compagnia, invece” continuò Pat “è la Bluesky.” Jacopo allargò gli occhi di scatto. “Cosa?” “La conosci?” Dovevi vedere com’erano entusiasti quando hanno visto il tuo profilo… ‘Questa è la persona che cerchiamo!’ “Sì… Ne ho sentito parlare.” Rannicchiato dietro un cespuglio come un idiota, guardò la macchina accostare e l’uomo scendere. Era piuttosto grosso e indossava una giacca blu. Non era particolarmente bello, a occhio. Jacopo emerse dall’ombra e avanzò verso di lui. “Ambrosini” disse, mentre quello iniziava ad armeggiare con la chiave, e quando l’uomo si girò gli puntò la pistola alla fronte. “Fammi entrare.” L’uomo lo guardò e, senza dire una parola, si girò e aprì la porta. Jacopo gli scivolò alle spalle. Attraversarono il pianerottolo e entrarono dentro la sua casa. “Non chiudere” disse Jacopo. Non devo lasciare impronte, poi, al momento di uscire. L’uomo lasciò la porta aperta. “Sai chi sono?” Ambrosini lo guardò con fare interrogativo, poi disse “No.” “Sai chi era Bunny?” “Coniglio?” “Sai chi era?” “No.” “Era una mia amica, ed è morta per via di una vostra discarica.” “E quindi ora vuoi uccidermi?” “Se ne avrò il coraggio… Sì.” “Non ci vuole un gran coraggio.” “Tu di sicuro non ti fai problemi a uccidere, eh?” “Intendo dire a sparare a una persona disarmata. Non mi sembra un atto eroico?” “Uccidere una ragazza avvelenandola, invece…” “Non sapevamo che sarebbe passata di lì” disse lui, secco. “Doveva essere una zona privata.” “Privata, ma abbandonata.” “E chi è che va in un parchetto privato e abbandonato, scusa? A parte barboni, drogati e puttane, naturalmente.” “Anche barboni, drogati e puttane hanno degli amici.” “Sì, ma non puoi dare la colpa a me della morte della tua amica. Era… Si prostituiva?” “Sì.” “Mi dispiace” disse lui “ma se non avesse fatto quel mestiere non sarebbe mai venuta fin lì. E facendo il suo mestiere avrebbe potuto benissimo finire a battere vicino a una discarica a norma.” Parlava con tono tranquillo, sicuro.
“Inoltre, c’è un’altra cosa che non consideri.” “E cioè?” “La mia volontà conta ben poco in certe faccende.” “Cosa vuoi dire?” “Ragazzo… Io posso decidere poco o niente.” “Avevi le mani legate?” “Pressappoco.” “Allora dammi un nome. Chi ti ha ordinato di…” “Non hai capito” disse lui, secco. “Non stiamo parlando di una persona.” “E di cosa, allora?” “Stiamo parlando del flusso” disse lui, con tono di voce a un tratto più deciso. “Del fiume. Il grande scorrere.” “Cosa?” “Capitali in crescita, capitali potenziali, moneta ipotetica, moneta presente, flusso in entrata, flusso in uscita, energia grezza, informazione.” Jacopo lo guardò stupito. “I soldi, ragazzo mio, il denaro!” Sorrise. “Cosa pensi che siamo, noi? Materialisti ossessionati dal denaro? Ragazzo, noi siamo mossi dal denaro. Il denaro è molto, molto più vivo di noi. E deve muoversi – crescere, decrescere, essere investito, perso o moltiplicato, deve fluttuare e muoversi, muoversi.” Il suo sguardo si era fatto intenso, sempre più intenso, mentre la sua voce diventava più intensa. “Se io non avessi ordinato di fondare quella discarica, qualcun altro l’avrebbe fatto. Io sono solo mosso da un sistema di relazioni di cui nessuno può vedere la portata.” “Il denaro è una cosa umana.” L’altro scoppiò a ridere – una risata bonaria ed estesa. “Oh, come non puoi capire. Già, ma perché dovresti? Capisci solo quando ci affoghi dentro. Ragazzo, i moti dell’economia sono molto più ampi di me, o di te, o di chiunque. Io ho messo una firma ma quella discarica andava costruita – perché il flusso deve scorrere, e scorrerà indipendentemente da quello che facciamo io o te.” Lo guardò. “Se io non avessi messo quella firma, qualcun altro l’avrebbe fatto.” “Ma” disse calmo Jacopo “tu l’hai messa.” L’uomo annuì. “Già. E ora mi ucciderai.” “Non lo so. Ma voglio sapere una cosa, prima di decidere. Dimmi… Sai qualcosa della Fondazione San Paolo?” “Oh mio Dio” mormorò l’altro “ma tu sei Jacopo.” “Mi conosci?” “Ma certo! Certo. Ci hanno tanto parlato di te. Il prodigio che se n’è fuggito!” “Te ne ha parlato Marcus?” “Marcus? Lo chiamate davvero così?” Jacopo aggrottò la fronte. “Che intendi?” “Oh, Gesù. Vi ha proprio incantati, eh?” “Parla chiaro!” “In, quanto, sedici anni, nessuno si è mai accorto che il vostro presunto ‘Marcus Wallace’ non ha un accento irlandese?”
“Si… Si è trasferito in Italia da giovane…” “No, ci è nato. Si chiamo Alessandro Pertinelli ed è un grande affabulatore nato da una famiglia ricca sfondata – ed è comunque quasi riuscito a distruggere il patrimonio di papà.” “Che… Che legami ha con voi?” “È amico di Andrea Veragni. Lo conosci? È un politico molto brillante che per poco non è entrato in Parlamento qualche anno fa. Doveva dei favori al padre di Alessandro… Di Marcus, se preferisci… E ci ha chiesto di prestargli qualche soldo per costruire la sua isola felice sulle nostre proprietà.” “Le vostre…” “Proprietà, sì. Non ripetere tutto quel che dico, ragazzo.” “San Paolo è vostra?” “Da sempre. Nostri i mulini, le case, le serre, i pannelli. Abbiamo ottenuto degli enormi finanziamenti per aver costruito quel piccolo Paradiso – e una certa popolarità nelle ali più progressiste del governo.” “Te ne sei occupato tu?” “Certo che no! Se ne sono occupate dozzine di persone, su livelli molto più alti del mio. Ma cosa c’entra? Lo sanno tutti com’è andata, non è mica un segreto…” Jacopo annuì, lentamente. “E Marcus…” “Alessandro…” “E Alessandro a cosa vi serviva?” “Per quello che ne so, credo l’idea sia stata sua. E si dev’essere divertito a governare la sua cittadina. Probabilmente dentro di sé pensa di esserne davvero il capo. Ma si ricrederà a breve.” Sorrise. “Pronto per una rivelazione sconvolgente?” “Come, un’altra?” Ambrosini rise un’altra volta. “Hai ragione, povero. Beh, questa è la rivelazione più sconvolgente. Sai… Ormai in termini economici e pubblicitari abbiamo avuto tutto quel che potevamo avere da San Paolo. In compenso il fondo che le avevamo dedicato è finito, e nessuno pare più disposto a finanziarci. Quindi chiuderemo la Fondazione.” “Cosa?” “Entro il 2016 la comunità sarà smantellata. Magari faremo qualcos’altro al suo posto – un albergo? Una strada? Magari solo un parco. Nemmeno Alessandro lo sa – lo saprà a giorni, credo.” “Dimmi un’altra cosa.” “Ancora?” “È l’ultima. Al momento di accettare i vostri soldi, Marcus sapeva da dove venivano? Sapeva dei vostri scandali, delle politiche legate all’ambiente?” “Certamente. Allora… Mi uccidi o no?” Jacopo esistò. Guardò quel volto sorridente davanti a lui. “Sei responsabile della morte di una mia amica.” “Altri avrebbero fondato quella discarica.” “Ma l’hai fatto tu.”
“Giusto. Allora?” Jacopo strinse i denti. Guardò quel volto. Se lo uccido mi porterò per sempre dentro questa responsabilità. Non tornerà mai vivo. Non farò mai ammenda… Ripensò a Bunny. Guardò quel volto… Ruggì, sollevò la pistola, e fece fuoco. Svuotò il caricatore nel petto di Ambrosini che allargò di scattò le braccia, e barcollò all’indietro, con un grido di dolore, fissandosi il petto, sconvolto... …poi alzò lo sguardo, e sorrise, il petto perfettamente intatto. “Complimenti. La prossima volta mettiamo dei proiettili veri, eh?” Jacopo lo guardò sconvolto. Sentì appena un movimento alle sue spalle – poi Pat entrò dalla porta e gli puntò la pistola alla tempia. “Ora la situazione è cambiata, eh, ragazzo?” “Bastardo.” “Perché non dovrei spararti alla fronte, dì un po’?” “Pat, ha ucciso Bunny. E tu mi avevi detto…” “Lo so cosa ti avevo detto. E sai che ti dico? Volevo bene a Bunny. Più di te, credo. E so che anche lei te ne voleva e questo è il motivo per cui uscirai vivo da questa casa.” “Siamo uomini d’affari” aggiunse Ambrosini, divertito. “E sappiamo apprezzare le giovani menti.” “Tu eri amico di Bunny e per questo ti lasceremo in vita.” “Non ti metterai più sulla nostra strada, e magari tra qualche anno verrai a lavorare da noi.” “Questo” disse Jacopo, calmo “non lo credo.” “Ma proverai ancora a vendicare la tua amica?” Sì, appena ne avrò l’occasione. E non per forza coi proiettili. Se appena appena potrò, voi cadrete tutti. “No” disse. “Molto bene. Ora… Credo che tu abbia delle cose da fare. Andare da tuo padre, magari?” “Sì. D’accordo.” Li guardò. “Ragazzo…” disse Ambrosini “dispiace a tutti per la tua amica. È stato un errore. Ma non accadrà più a nessuno, te lo prometto. Non conviene nemmeno a noi. Faremo recintare quella zona, e ci assicureremo che la famiglia della ragazza abbia il miglior trattamento possibile.” Gli mise una mano sulla spalla. “So che mi odi e non puoi capire. Ma è così che va il mondo.” E poi, di colpo, lo abbracciò. Jacopo non rispose all’abbraccio. “Su, su. Vai.” Lentamente, il ragazzo uscì. Fuori, camminò per un quarto d’ora buono, poi crollò; si lasciò cadere al bordo della strada e pianse tantissimo, il corpo rotto dai singhiozzi, rannicchiato in posizione fetale, come un bambino piccolo.
Il giorno dopo esattamente alle due suonò al campanello di suo padre. Gli aprì la porta e restò lì, stupito, a guardarlo. “Jacopo”. “Papà. Devo raccontarti… Parecchie cose.” Parlò per quasi un’ora, raccontando in maniera stanca, frastagliata e confusa tutto quello che era successo. “Jacopo… Ma… Perché non mi hai detto niente?” Scosse la testa, poi disse “Scusa, pà.” “Hai rischiato la vita.” “Sì.” “Adesso resterai qua?” “No… Non credo. Devo parlare con alcune persone.” “Non vorrai di nuovo vendicare la ragazza?” “No… Per ora. Contro la Bluesky non posso fare nulla. Ma ci sono delle persone con cui voglio parlare.” “Marcus, vero?” “Non si chiama così… Ma sì, con lui.” Alzò lo sguardo. “Devo tornare a casa, papà. Devo tornare a San Paolo.”
ATTO QUARTO LA FINE Il cielo si fece pian piano più chiaro, poi sorse il Sole. I suoi raggi dapprima colpirono la riva opposta, inondarono delicati Cernobbio, Moltrasio, Brienno. Poi, centinaia di metri più in basso, inondarono il Lago di Como, le sue onde che correvano fitte fitte, ammassate l’una sull’altro, increspando appena quella superficie scura. Poi illuminarono la strada. Si inerpicava in alto, serpeggiava, si incuneava, scorreva tra gli alberi e il vuoto… L’automobile imboccò la strada di buon mattino. Dopo pochi minuti fu nel centro di Blevio, e passò oltre. Oltre Blevio, fino a Torno, sempre col Lago alla propria sinistra, e poi ancora oltre, correndo sull’asfalto, i finestrini abbassati, immersa nella prima luce dell’alba. Sul fianco dell’automobile era scritto il nome dell’azienda. Bluesky enterprises. Al volante c’era Aldo Invernizzi, concentrato e silenzioso come al solito, che una volta il direttore aveva definito ‘l’uomo più affidabile della terra’. Il direttore, invece, era l’uomo alla sua destra, il geniale imprenditore Amedeo Assorini; un uomo vecchio, la faccia arrossata dal sole, grinzosa come una prugna secca, gli occhietti vispi e furbi che spuntavano sopra le guance cascanti. Il Lago risplendeva come uno specchio mentre i raggi argentati del Sole si riflettevano su di lui; ora più che una distesa d’acqua sembrava un mare di luce e di fuoco. Gli pneumatici dell’auto aderirono silenziosi al terreno, ancorando l’auto che via via più veloce volava oltre Torno e accelerava, per poi rallentare poco dopo, mentre oltrepassava Riva, e poi via, seguendo la strada, raggiungeva Pognana, Carena, Nesso e uno dopo l’altro se li lasciava alla spalle, correndo verso le cascate. Sui posti dietro stavano altri tre uomini. Quello bello a destra (salvo che per il colorito un po’ pallido) era Paolo Saverio il contabile, uno dei più talentuosi uomini della Bluesky, biondo e sempre sorridente; quello a sinistra, appoggiato contro il finestrino e assonnato, cicciottello e basso, era uno dei creativi – Giorgio qualcosa, doveva chiamarsi. Tra loro due c’era Giacomo Ambrosini, che si era aggiunto al viaggio all’ultimo dopo aver ricevuto, nientemeno!, delle minacce di morte da un membro della comunità, tal Jacopo Tambellini. Nessuno parlava mentre correvano verso il successo. Il telefono squillò nell’ufficio e Alessandro Cortellesi, che stava battendo sulla tastiera con velocità incredibile, lo afferrò distrattamente e se lo portò all’orecchio senza smettere di scrivere. “Pronto?” chiese, e quando la voce profonda e risonante di Marcus Wallace arrivò alle sue orecchie, smise di scrivere. “Ma dici sul serio?” Tacque al sentire la risposta. “D’accordo… D’accordo.” Chiuse la telefonata e aprì la sua mail. Era vero, c’era un messaggio ricevuto dall’indirizzo di Marcus Wallace – lo aprì e vide il file allegato. Con un sospiro, cliccò sul link… …e sul suo computer apparvero pagine e pagine fitte di simboli, cifre, date, nomi…
…tutti gli affari sporchi della Bluesky da vent’anni a questa parte. Guardò i nomi, gli indirizzi dei conti… Poi si alzò e corse dal direttore. Oltre Nesso l’auto incrociò la deviazione e la imboccò. Ora gli alberi si facevano stretti attorno ai cinque uomini, mentre salivano rapidamente, metro dopo metro, con l’auto che traballava nella scalata, poi gli alberi finirono ed erano di nuovo su una strada pianeggiante, in mezzo a un pascolo, la strada che avevano percorso ridotta a una strisciolina grigia sotto di loro… E là, distante, c’erano le cascate, che fragorose piombavano nel vuoto, e la comunità di San Paolo arroccata in fondo alla valle. “Che bella” mormorò Giorgio il creativo. “L’abbiamo costruita noi, ricordalo” gracchiò il direttore, poi alzò un dito e disse “Comitato di accoglienza…” Marcus Wallace stava in piedi in mezzo alla strada, di fronte a loro, lo sguardo intenso. Dietro di lui c’erano cinque braccianti, tutti con le mani dietro la schiena. L’automobile rallentò e si fermò davanti a Marcus. “Ciao, Alessandro” fece Amedeo. “Mi chiamo Marcus” rispose quello, sprezzante “e voi non siete i benvenuti.” Il direttore sorrise e si portò una mano al mento. “Ma davvero? Interessante, perché a noi pare che questo posto sia nostro.” “Balle” tagliò corto l’altro “è da anni che vivo qui. Voi chi siete? I tizi che hanno messo i soldi qualche anno fa. Non vi siete mai fatti vivi – non vi importa nulla di questo posto. E dovrei lasciarvelo distruggere? Aria, aria. Fuori dai piedi.” “Sei molto arrogante” rise il direttore “ma vedi, tu hai costruito e diretto questo posto coi nostri soldi. Senza di noi neanche esisterebbe. Ogni singolo pannello solare è stato pagato dalla Bluesky. Ti abbiamo dato San Paolo – e ora la riprendiamo. Semplice.” “La Bluesky, la Bluesky… Alla Bluesky non resta molto da vivere.” “Ci minacci?” “Da diversi anni avevo un dossier su di voi – tutte le vostre transazioni più oscure, gli indirizzi dei conti segreti, gli scambi di denaro coi comuni, gli appalti truccati… Tutto. Stamattina questo dossier è arrivato nelle mani di quarantasette giornalisti.” “Cosa?” “Hai capito bene. È tutto pubblico, ora. A breve San Paolo sarà l’ultimo dei vostri pensieri.” “Marcus” ringhiò il direttore “prima che congelino i nostri beni passeranno almeno quattro mesi e io ti giuro, ti giuro, che avrò trasformato questo posto in un luna park entro tre giorni!” Marcus annuì, con fare mogio, guardando per terra. “Sì” disse triste “lo immaginavo.” Alzò gli occhi. “È tempo di passare al boicottaggio pesante, ragazzi.” Aldo si irrigidì – qualcosa non andava – e poi gli uomini dietro Marcus scoprirono le mani e ognuno in mano aveva una pistola. “Sei pazzo” disse il direttore. “Conto fino a tre” ringhiò Marcus – e Aldo premette di scatto la retromarcia, e partì all’indietro, mentre Marcus urlava “FUGGITE, IDIOTI!” e rideva di loro a gran voce.
Ignaro di tutto questo, Jacopo intanto si posizionava oltre Como, al bordo della strada, e iniziava a chiedere l’autostop. Si erano radunati spontaneamente, ammassati nella piazza davanti alla chiesa, sotto il palchetto di legno che alcuni uomini di Marcus avevano fondato in tutta fretta. Gli abitanti di San Paolo erano terrorizzati – c’era chi gridava, chi parlava sottovoce, chi si lamentava e chi faceva le prime ipotesi. “Saranno solo voci…” “Se ci tolgono le case?” “Non possono toccare la nostra terra…” “Noi ci abitiamo, qui!” “Ah, quando decidono, non c’è più niente da fare.” “Governo di merda…” “Ma cosa c’entra la Bluesky?” E poi, all’improvviso, Marcus salì sul palco e alzò un braccio a chiedere il silenzio. Le voci nella piazza si fecere a un tratto più sommesse. “Fratelli miei” iniziò allora a dire nel microfono “concittadini miei. Per gli ultimi dieci e passa anni della mia vita, ho vissuto con voi. Ci siamo alzati assieme, abbiamo festeggiato assieme, abbiamo pranzato assieme. Ma non è tutto. Per quasi vent’anni, io e voi abbiamo condiviso un ideale – anzi, noi abbiamo vissuto un ideale. L’ideale di un mondo dove l’uomo vive in armonia con chi gli sta accanto. Dove a chiunque è data una seconda chance! Dove il progresso tecnologico permette a tutti una vita confortevole senza distruggere l’ambiente. Dove il progresso tecnologico e la natura sono in armonia! Dove a chiunque viene data un’istruzione completa, una sanità funzionante, indipendemente da chi sia o da dove venga. Un mondo dove parole come ‘bellezza’, ‘cultura’, ‘rispetto’, ‘apertura’ significhino qualcosa! ” Guardò i suoi compaesani con uno sguardo ardente. “Questo ideale al di fuori di queste mura non è realizzabile. Ma qui sì. Qui potevamo cambiare le regole del gioco. Ma ora vogliono impedircelo. La Bluesky, un’azienda di corrotti, di ladri, un’azienda di cui tutti conoscono il passato sporco, di intrighi, corruzione, scandali ambientali, un’azienda che si è sempre finta nostra amica, ora vuole portarci via tutto!” Fece una minuscola pausa, per lasciare che le sua parole acquistassero il giusto peso nella mente dei compaesani, poi tuonò: “Costruiranno un albergo al posto delle nostre case!” Mormorii percorsero la folla. “Ma noi non glielo permetteremo.” Sorrise. “Questa mattina alle redazioni di quarantasette giornali, riviste e testate online è arrivato un dossier contenente tutte le transazioni segrete della Bluesky. Tempo un mese e saranno sotto processo. Allora non potranno più fare niente… Ma a noi non resta un mese.” Fece ancora una pausa, l’ultima, prima di tuffarsi nell’arringa finale. “No, a noi non resta un mese… A meno che non li rallentiamo. A meno di non barricarci. A meno di non rallentare la loro avanzata con la forza… A meno di non picchettarli, di non danneggiare le loro strutture.” “Illegalmente?” fece qualcuno. “Che razza di legge vorresti seguire con questa gente? Sì, illegalmente! Questa gente va fermata.” Molti tra i cittadini annuirono. “Permetterete a questa gente di
distruggere tutto quel che abbiamo costruito? O sarete con me e combatterete contro di loro? La scelta” allargò le braccia, come a cingerli tutti “sta a voi.” Gli applausi esplosero e si innalzarono come ondate. “Grazie, puoi lasciarmi qui” fece Jacopo. Annuendo, l’uomo rallentò e accostò. Scese dall’auto e la guardò allontanarsi rumorosa. Il sole era alto in cielo. Si sedette al bordo della strada, affondò le mani nello zaino e ne estrasse un panino e la borraccia. Morsicò piano, masticando lentamente, un pezzo di pane dopo l’altro, apprezzando il vivido contrasto tra il sapore della farina e quello del prosciutto, per poi ingoiare tutto con un unico gesto lento; quindi, la bocca impastata, bevve a piccoli sorsi e la frescura dell’acqua lo rincuorò. Si sentiva lo stomaco leggero e le mani leggermente sudate. Stava per tornare a casa. Non finì il pane. Rimise tutto nella borsa e si incamminò fino al punto in cui il sentiero deviava dalla strada e affondava nella foresta. Lì c’era il posto di blocco. I poliziotti (quattro) lo guardarono perplessi e lui guardò loro. “Salve” fece. “Potrei passare?” “Putroppo no.” “Che succede?” I poliziotti si guardarono tra loro, preoccupati. “Andiamo, a San Paolo ci son cresciuto. C’è la mia casa, lì. Non ci torno da due mesi… Ditemi almeno che succede!” Con un sospiro, il primo poliziotto si accinse a parlare. Alcune ore prima, avevano allontanato gli uomini della Bluesky minacciandoli con delle pistole; ora non concedevano l’accesso al paese. Non glielo dissero, ma Jacopo capiva che non volevano attaccare la città. Quello era il genere di manovra impopolare che nessun poliziotto vorrebbe fare – o almeno, non per proteggere la proprietà di un’azienda che quella stessa mattina era finita sui giornali di tutta la nazione e su cui era appena piovuto uno scandalo talmente grosso che presto avrebbe dovuto chiudere. Per ora, quindi, si limitavano a circondare la città – e a prendere tempo, nella speranza che saltasse fuori una qualche scappatoia per cui San Paolo fosse tutelabile. Ma gli avvocati della Bluesky premevano. Tempo qualche ora e la polizia avrebbe caricato. Jacopo annuì, rigraziò, e disse: “Allora… Provo a tornare a Como.” “Se vuoi aspettare qualche ora ti diamo noi un passaggio.” “No, grazie. Fa nulla. Grazie davvero.” Si tirò indietro e fu sulla strada. Iniziò a incamminarsi finché fu certo di essere arrivato fuori dalla portata del loro sguardo, poi si voltò e fissò il bosco. Me ne sono andato da San Paolo in modo rocambolesco, è giusto che ci torni allo stesso modo. Prese un respiro profondo ed entrò tra gli alberi.
Si inerpicò nella boscaglia, arrancando, per una buona mezz’ora, e quando uscì era ricoperto di graffi e si trovava fra l’erba alta dei pascoli. Un fortissimo odore di cacca di mucca gli colpì le orecchie. Lontana, sulla sua destra, c’era San Paolo. Con gli occhi distinse un paio di camionette della polizia. Strinse il labbro. Ora arriva la parte difficile. Si incamminò verso la parete rocciosa che stava davanti a lui e, quando le fu arrivato davanti, la saggiò con le mani. D’accordo… Andiamo. Inizò ad arrampicarsi, a mani nude. Fortunatamente la parete che sovrastava San Paolo era abbordabile da chiunque, e lui la conosceva praticamente a memoria. Dopo alcuni minuti fu in cima. Senza guardarsi attorno, iniziò a percorrere il costone di roccia, con gesti piccoli, sicuri, senza esitare, finché fu esattamente sopra la sua città. Dall’altra parte del Lago, il Sole iniziava la sua discesa. Si ricordò allora che era seduto esattamente su quella roccia quando, mesi prima, aveva preso definitivamente la decisione di andarsene. Rannicchiati alla porta della città, gli abitanti si stringevano. Poi… “Si muovono” mormorò una donna. Tutti strinsero la propria arma – pietre, bastoni, bottiglie, persino un poco di bombe carta. “Sei sicura?” chiese Paul, con la sua voce rauca – ma sì, si muovevano. Avanzavano verso la città, gli scudi alzati, i manganelli in pugno. Si avvicinavano… Sempre più vicini, sempre più vicini… Ora erano a pochi metri, meno di una decina… “E daje!” esclamò Paolo, muovendosi di scatto in avanti, e lanciò il sacchettino; la bomba carta colpì uno scudo ed esplose, sollevando una nube di fumo, e la polizia caricò. Jacopo scese rapidamente, muovendosi via via più in fretta, e quando fu a un paio di metri dal suolo si lasciò andare a atterrò rannicchiato come un gatto. Li investirono come dei tori. Honey piombò a terra subito e uno di loro le fu sopra, il manganello alzato, e poi lo calò sulla sua bocca; Paul ruggì infuriato, prendendo a spallate lo scudo che gli premeva addosso; i cittadini indietreggiarono, scagliando pietre contro gli avversari, e le videro rimbalzare contro i caschi e gli scudi; poi i poliziotti gli furono addosso e roteando i manganelli. Paul rantolò quando quello con cui stava lottando lo colpì allo stomaco e poi in faccia, e poi, caricando il colpo, un’ultima volta sulle tempie. Prima di svenire vide, e per anni si sarebbe chiesto se non fosse stato solo un sogno, il reverendo che caricava a testa bassa, sollevando il breviario come se fosse un’arma, e si gettava contro gli scudi urlando “SBIRRI DI MERDAAAAA!” Poi ci fu solo il caos; chi correva terrorizzato, chi si lanciava contro gli agenti, chi restava a terra sanguinante, mentre i poliziotti si muovevano come fantocci, indistinti nel fumo delle bombe carta, menando colpi pesanti nell’aria attorno.
Eccolo. Marcus camminava esattamente al centro della città – in cerchio, silenzioso, nella piazzetta davanti alla chiesa. “Marcus” disse Jacopo, uscendo dall’ombra. Quello si girò, e si fermò, mentre Jacopo gli veniva incontro. “Ciao, ragazzo.” “Quanto tempo, eh?” “Già.” “Stanno arrivando.” “Chi?” “La polizia.” “Che macellai.” “Già.” Taquero. Poi Jacopo disse: “Speravo potessimo parlare un po’, prima che… Prima che arrivino.” Marcus annuì, disse “Vieni con me”, e si incamminò verso i giardini. Camminarono per le strade vuote e silenziose. “Hai costruito una bella cosa, qui” disse ad un tratto Jacopo. “Davvero?” “Sì. Ma hai sbagliato tutto.” “È facile giudicare” rispose Marcus alzando le spalle. “Sai, se tutti quelli che giudicano il lavoro degli altri facessero qualcosa a loro volta…” “Marcus… Hai usato i soldi della Bluesky. Che è come dire…” “I soldi della mafia. Lo so. Lo so.” Erano arrivati ai giardini. Entrarono e camminarono fra gli alberi. Attorno a loro, gorgogliando, le fontane zampillavano piano. Jacopo arricciò il naso. “Che schifo, Marcus! Perché c’è odore di benzina?” “Perché voglio bruciare tutto, naturalmente.” Jacopo lo guardò sgranando gli occhi, e Marcus scoppiò a ridere. “Scherzo. Si è rotta l’auto del custode.” “Senti” disse Jacopo a bassa voce “ti ricordi Andreas?” “Livingstone? Sì.” “Alcuni anni fa mi disse una cosa come ‘Non terrete fuori il mondo a lungo’. Aveva ragione, Marcus. Abbiamo provato a tenere fuori il mondo, e ora entra a riprendersi ciò che è suo.” Si guardò attorno, triste. “Hai costruito un Paradiso, ma l’hai fondato su una bugia.” Marcus lo guardò, cupo, e disse: “Ragazzo…” “Cosa c’è?” “Non so cosa tu abbia visto, fuori di qui. Qualche bella città, immagino.” “Sono andato a vivere con una prostituta che poco dopo è morta di cancro, ho cercato di uccidere il responsabile e per poco non ammazzavano me.” “…oh.” “Era Ambrosini della Bluesky, per inciso.”
“E vieni qui a dirmi che ho sbagliato? Il mondo la fuori è questo, Jacopo, gente che muore per denaro, per profitto, e tutto ciò che è bello distrutto, il nostro pianeta trasformato in un immondezzaio, la cultura in una puttana. Questa è la verità e se questa è la verità, allora io non la accetto, e scelgo di costruirmi una menzogna e viverla, e lottare per questa e sputare, scalciare, schiaffeggiarla in faccia al mondo!” Taquero, poi Jacopo disse: “Ed essere Marcus Wallace…” “Marcus Wallace, grande uomo, fondatore di città, e non Alessandro Pertinelli, fallito di buona famiglia.” Jacopo strinse le labbra e per la prima volta vide l’uomo che gli stava davanti per quello che forse era davvero. Non un trafficante di menzogne né un grande leader carismatico… È solo un uomo, tutto qui. Prigioniero dei suoi errori da chissà quanto… Come Bunny… Come Pat… Come tutti. Si guardarono a lungo, poi Jacopo, a bassa voce, disse: “Mi dispiace, Marcus. Non posso giudicare la tua vita. Ma io credo che tu abbia fatto un errore.” Si fermò un istante, cercò le parole, e poi, con calma, le trovò. “Io credo che sia giusto lottare per certe cose. Forse non proprio giusto, ma… Siamo fragili e deboli, ed è meglio passare la nostra vita, che dura poco… Tu credi nell’Aldilà, Marcus?” “No… Non penso. Non lo so.” “Io non ci credo. Per nulla. E visto che siamo… Che duriamo poco… Forse è meglio usare il nostro tempo per lottare per cose come la bellezza che non facendo niente e lasciandoci trascinare. Forse. Non lo so.” “Strana cosa detta da un mezzo buddhista, sai?” “Il buddhismo non è una cosa così semplice, Marcus. Credo nell’allontanamento dalla passione, ma nessuno vive senza emozioni. Non è quella, l’idea. E comunque non c’entra niente. Io credo… Che tutto sommato… Ci convenga lottare per la bellezza. Ma credo anche che la lotta, la guerra, la battaglia per le emozioni, le persone, il nostro pianeta, la cultura, la bellezza… Credo che vada fatta sul campo. Vivendo tra ciò che è brutto e scoprendoci dentro quel che vogliamo salvare.” “Sì, c’è quel passo famoso di Calvino…” “Non me ne frega niente se qualcuno l’ha già detto prima, Marcus, lo so che non è una cosa originale, ma è quello in cui credo. Tu… Tu hai creato una bugia, Marcus… Alessandro. E adesso il sogno è finito. Io non posso ‘assolverti’ dai tuoi errori o dirti perché li hai commessi… Ma erano errori. E tu hai una vita lunga davanti. Non scappare più. Vai via da questo posto – scopri cosa c’è fuori.” Alessandro sospirò. “Hai ragione, il sogno è finito.” Mise le mani in tasca, frugò un istante e ne estrasse un pacchetto di sigarette, e un accendino. Con movimenti leggermente tremanti, se la accese. Poi guardò Jacopo negli occhi e disse: “Non penso che gli sopravvivrò. Ricordi la battuta di prima sul bruciare tutto?” E prima che Jacopo potesse scattare lanciò di lato la sigaretta. La vide innalzarsi, descrivere una curva nell’aria e atterrare sul prato… E sulla benzina. “No!” urlò Jacopo – e un istante dopo, ruggendo, le fiamme si propagavano per il parco. “Ho detto ai miei uomini di appiccare l’incendio in altri tre punti” commentò
malinconico. “Pensò attecchirà velocemente.” Con un mezzo sorriso guardò Jacopo negli occhi. “Fossi in te io scapperei.” Jacopo lo guardò, gli occhi larghi e l’espressione ferita. “Vai” sibilò Marcus “vai.” Il ragazzo si girò e iniziò a correre. Il Sole iniziò a tramontare lentamente. Corse per le strade, senza fermarsi, senza prendere fiato, verso l’uscita della città, e poi un muro di fuoco gli sbarrò la strada. Sopra di lui il fumo saliva in lente, spesse volute. Si voltò verso la parete rocciosa da cui era venuto… E il fuoco la lambiva già, ruggendo e contorcendo le sue lingue. Dannazione. Dannazione! Si girò e corse verso le cascate. Marcus camminò ansimando, a larghi passi – il fumo lo soffocava, la pelle gli doleva per il calore. Ansimò. Faticava a pensare. La porta della serra si stagliò davanti a lui. Entrò… E il fuoco lo avvolse. Rantolò – non vedeva nulla – non respirava, fumo maledetto… Continuò a camminare dentro la serra e un rombo minaccioso lo sovrastò. Aprì le braccia. Crepitando, i lembi del suo abito iniziarono a bruciare. “È stato bello” rantolò “è stata una bella vita”. Le braccia tese come ad abbracciare il volto, Marcus Wallace iniziò a ridere, sputacchiando e ansimando. Con un fragore colossale, la serra si coprì di crepe e poi crollò. No, no… pensò Jacopo… Poi fu davanti al fiume… E il ponte era già in fiamme. L’altra sponda bruciava. Non posso andarmene, non posso andarmene. Sono bloccato da tutti i lati. Con un rombo il ponte crollò davanti a lui, e i suoi frammenti caddero giù per la cascata. Da tutti i lati… Meno che da uno… Non poteva saltare giù; anche là in fondo c’era il Lago, sarebbe stato un volo troppo lungo. Sarebbe morto… Ma poteva calarsi. Si avvicinò al baratro, alle rocce che fiancheggiavano la cascata. Le tastò con le gambe… E iniziò a scendere. Una roccia dopo l’altra, una dopo l’altra. Sopra di lui, San Paolo ardeva. Continuò a scendere, indolenzito, sconvolto, le braccia che dolevano. Sotto di lui il lago si tingeva di mille colori, riflettendo il tramonto. Al suo fianco la cascata ruggiva.
Scese ancora, via via più affaticato. Sopra di lui, ormai molte decine di metri più sopra, San Paolo ardeva, bellissima come sempre, anche mentre bruciava. Saltando e danzando, miriadi di scintille volavano al cielo. E poi mise un piede in fallo, pensò no, il suo corpo piombò verso il basso e le sue dita persero la presa; con un grido cadde nel vuoto, mentre il Sole si tuffava dietro i colli e spariva lasciandosi dietro l’ultima scia di luce contro la notte che avanzava.
EPILOGO Il Sole sorse sul Lago di Como e il vecchio barista aprì presto come tutte le mattine, quindi si sedette a leggere il giornale. Il suo primo cliente (lo sapeva) sarebbe arrivato tra una ventina di minuti. Si immerse nelle notizie sullo scandalo Bluesky… “Scusi?” Alzò la testa e vide il ragazzo, con l’aria stravolta, fradicio dalla testa ai piedi, che stava appoggiato contro la porta. Lo guardò, la fronte corrucciata. “Notte di bagordi, eh?” “Ci può scommettere. Allora, che ti preparo? Un caffè?” “No, prendo…” Cosa beviamo? Adoro il Gin Lemon. “…un Gin Lemon” disse, con un mezzo sorriso involontario. “Così presto? Dico, non vorrai piantarmi dei casini?” “No, riparto subito. Quando iniziano a passare le macchine? Vado in autostop.” “Solitamente tra mezz’ora. Ma mica ti tirano su se sei fradicio e ubriaco.” “Per il fradicio pazienza, andrò a piedi. E non voglio ubriacarmi. È… Un brindisi per una vecchia amica.” Perplesso e diffidente, glielo preparò. Strinse il bicchiere tra le mani. Ti voglio bene, Bun si disse, e poi lo disse ad alta voce, alzando il bicchiere: “Ti voglio bene, Bun.” E poi, senza sapere perché, aggiunse: “È tempo di iniziare a vivere.” Il Lago, intanto, rifletteva l’alba. Bevve il Gin Lemon tutto d’un fiato. Faceva veramente schifo.