QUEL CHE CARLOTTA DISSE Ol… Tre racconti Ho conosciuto Lady Carlotta esattamente due settimane fa. Me ne stavo accasciato sul mio divano con una tazza di caffè fumante, e una parte del mio cervello si stava arrovellando sul tema: cosa scrivo per quest’edizione di Giornalisti nell’Erba? Un’altra parte del mio cervello stava ascoltando, provandone un immenso godimento, la musica che veniva dallo stereo poggiato sul caminetto. Si trattava – sia detto per inciso – di Freak out!, il primo folle album di Frank Zappa. Per essere ancor più precisi stava scorrendo l’ultima traccia, i dodici minuti di The return of son of monster magnet; una marea di percussioni battute a casaccio accompagnate da grugniti, orgasmi, ululati e grida che suonavano come AHAHHAH! o wywywywywywy… Una goduria; e a un tratto – il silenzio; la voce di Zappa si stagliò nel vuoto: “AMERICA IS WONDERFUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUUL!!!” In quel momento suonò il campanello. Scattai in preda al panico schizzando caffè dappertutto. Campanello! Chi era che faceva irruzione nel mio placido quotidiano far-niente? “Chi è?” “Signor Toscani?” “Uhm…” “Toscani Francesco intendo…” “Sono io ma…” “Cosa sono i rumori? Ho interrotto un assassinio?” “È Frank Zappa…” “Pardon?” “Nulla, è un assassinio. Ehm, con chi avrei piacere di parlare?” “L’agenzia che rappresento ha bisogno dei suoi servigi.” “Sta scherzando?” “In realtà no. Ma mi servirebbe entrare.” “Non si offenda, ma di solito non faccio salire gli sconosciuti.” “Mi chiamo Lady Carlotta.” “Non smette di essere una sconosciuta perché mi dice il suo nome.” Dallo stereo una voce urlò “SUZY CREEMCHEASE!!!” in falsetto. “Sembra durar tanto, questo assassinio.” “Dodici minuti.” “Non quello che si dice un lavoro discreto.” “Senta, non può dirmi che cosa vuole al citofono?” “Dovrei offrirle un lavoro.” “Oh cielo, no.” “Sia chiaro: non offenderei mai la sua reputazione di bohemièn offrendomi di pagarla.” “Ho una reputazione di bohemièn?”
“Al momento no. Tuttavia, le sto offrendo di scrivere per me, senza ricevere denaro in cambio; di certo il primo passo per diventare un artista squattrinato in piena regola è questo.” “Lei mi tenta.” “Mi faccia salire, su.” “E va bene. Alla peggio mi svaligierà la casa.” Proprio a quel punto Freak Out! finì. Lady Carlotta si rivelò essere una donna alta e piuttosto bella, sulla cinquantina, con dei capelli biondi che andavano sbiancando raccolti in una curiosa acconciatura riccia, e degli occhi blu molto svegli; aveva nel portamento un che di altezzoso e di snobistico, ma anche di brillante e acuto. Forse distaccata era la parola che meglio la descriveva. Era tutta vestita di azzurro. “Signor Toscani” disse sorseggiando del caffè – il mio caffè – “mi chiamo Lady Carlotta, o meglio Carlotta – ma tutti mi chiamano Lady Carlotta quindi lei può chiamarmi così – mi sono persa, stavo dicendo?” “Era arrivata a ‘signor Toscani’, a dire il vero” dissi io mentre riflettevo che era strano vederla bere del caffè: sembrava più una tipa da thè. “Signor Toscani, mi chiamo Lady Carlotta e rappresento la Zarathustra Corporation, al momento composta da, beh, me stessa, più un paio di amici immaginari e un mia corrispondente tedesca, che ha il compito di… Mi sta ascoltando?” “Sì, scusi, non sono abituato a guardare le persone che mi parlano.” “Oh, non sarà uno di quelli che fissano nel vuoto nel bel mezzo di una conversazione?” “Temo di esserlo.” “Odio quelli come lei. Dov’ero arrivata?” “Zarathustra.” “Ah, sì. Il nostro compito è… Come spiegarlo? In pratica noi vogliamo, ecco… No, aspetti. Noi non abbiamo un compito… Materiale. Il nostro scopo, direi, è di tipo… Culturale. Noi…” E si fermò. “Accidenti, non so spiegarmi.” “Pare proprio di no.” “Ecco, il fatto è che… Allora, mettiamola in questi termini. Arrivata a circa vent’anni, ho maturato la convinzione che la gente fosse irrimediabilmente stupida.” “Difficilmente confutabile” dissi, ma non lo pensavo – era lo snob che è in me a parlare. “Non nel senso che la gente abbia un quoziente intellettivo basso…” “Oh. Io intendevo proprio in quel senso.” Lo snob che è in me quel giorno era particolarmente sopra le righe. “Il fatto è che la gente – e con questo intendo ricchi e poveri, bigotti e mangiapreti, analfabeti e filologi, socialdemocratici e berlusconiani, insomma intendo tutti quelli che lei può incontrare per strada… La gente si crea delle illusioni – no. No, no. La gente vive… Come se non vivesse… Anzi, come se non fosse padrona della propria
vita. La gente vive seguendo idee che sono puramente preconcette e che non hanno nessun fondamento. Ogni uomo, ogni uomo spreca la sua ammirazione per uomini che non hanno un briciolo del carisma che lui potrebbe avere, se si impegnasse. Ogni uomo crea piedistalli per sè e ancor più per gli altri. Rincorre obiettivi, a lungo o breve termine, di cui non gli importa – e nemmeno si ferma a pensare ‘Che cosa mi rende felice? Cosa voglio fare davvero? Cosa mi rende speciale?’ E tutti, tutti fanno e rifanno giorno dopo cose che non li rendono felici. Si portano dietro delle meravigliose interiorità di cui nessuno sa niente, magari nemmeno loro; e invece di essere gli artisti, i pazzi, i geni che potrebbero essere, vivono rincorrendo un Senso che non è il loro, fanno quel che gli è stato detto – si mostrano come gli è stato detto di mostrarsi, si preoccupano di quel che può pensare la gente o di st*****te del genere… E poi, dopo aver passato una vita a correre come criceti in mezzo a una marea di preoccupazioni e pensieri che pesano tantissimo ma non sono nulla, dopo una vita oppressa da un’insignificanza terribile che pure per loro conta tantissimo, dopo una vita del genere… Muoiono. E basta. I loro figli e qualche amico se li ricordano, e poi più niente.” “Morire senza aver vissuto…” “Sì, ma il punto non è questo. Il punto è che nessuno ha mai detto a questa gente che tutte le scale di valori, i modi di vedere il reale, i punti di vista su cui si arroccano, non hanno un senso. Tu che ne pensi?” La domanda mi colse alla sprovvista, ma la mia logorrea era in agguato. “Io penso” dissi “che da un certo punto di vista nulla abbia senso, perché qualunque cosa tu faccia sarà comunque svanita nel giro di qualche generazione a meno di non essere Alessandro Magno o Omero, ma anche in quel caso tutto quel che hai fatto si estinguerà con nonchalanche assieme alla razza umana che sparirà prima o poi, o quando il Sole ingoierà la Terra o quando l’entropia si mangerà l’Universo; d’altra parte però, questo vale dal punto di vista dell’eterno, dello scorrere dei secoli. Dal punto di vista del singolo, se io non voglio sprecare la mia vita e morire come se nulla fosse importato posso, anzi devo trovarmi un senso – capire che cosa amo, che cosa mi fa sentire vivo per davvero, per cosa vorrei combattere, e, beh… Seguirlo. Sapendo, certo, che il tuo senso non sarà il Senso assoluto valido per tutti gli uomini, che la tua vita non sarà eterna e probabilmente neanche la tua memoria – ma che ti importa? Almeno a te sarà importato. Sarai vissuto per qualche cosa.” “Sono drammaticamente d’accordo.” “Si, ma tutto questo come si ricollega al darmi un lavoro?” “Stavo pensando una cosa.” “Dimmi.” “Io non amo molto il caffè.” “Sei più una tipa da thè?” “Chi ti ha dato il permesso di darmi del tu?” “Mi scusi.” “Comunque apprezzerei molto un thè.” Mi alzai a farlo.
“In ogni caso” continuò lei nel frattempo “quando compresi questa cosa, capii che volevo cambiare la situazione.” “Tanti auguri.” “Far capire alle persone che solo loro potevano decidere delle loro vite. Mi vennero un sacco di idee su come fare, ma alla fine decisi per questa: sarei andata di città in città, avrei messo in moto dozzine di persone, una rete di informazioni vera e propria, e avrei cercato persone… Persone insoddisfatte, che vanno oltre il punto di vista che è stato loro imposto, che cambiano la loro vita… Le avrei unite tutte in un’associazione e avremmo cambiato il mondo.” “Concreto. Facilmente realizzabile.” “Alla fine ho raccolto centinaia di storie. Da tutta Italia, da Parigi, dal bacino del Mediterraneo. E ho deciso che forse potevo rimandare la parte del cambiamo il mondo, anche perché nel frattempo erano passati dieci anni e avevo intuito che forse il mondo non è così facile da cambiare, e io sono pigra.” “A chi lo dice.” “In compenso, avevo davvero messo su un’organizzazione.” “Il thè è pronto.” “Grazie mille. Comunque, moltissimi uomini – anche ricchi, anche potenti – ammiravano il mio lavoro.” “Posso farle una domanda?” “Certo.” “Forse sarò indiscreto.” “Non si preoccupi.” “Lei ha passato più di dieci anni a raccogliere storie.” “Sì.” “Immagino abbia dovuto viaggiare molto…” “Moltissimo.” “In treno, in aereo…” “Sì.” “Quasi un lavoro a tempo pieno.” “Era un lavoro a tempo pieno!” “Ok. E da un punto di vista… Diciamo… Economico…” “Nessun guadagno.” “La mia domanda è questa: come ha trovato i soldi? Perché, e mi scusi se la anticipo, io credo che lei non li abbia trovati – io immagino, forse a torto, che lei sia nata ricca. Ricca sfondata, se ha viaggiato per dieci anni in lungo e in largo senza lavorare. E, vede, io credo che la gente che lei vuole salvare, quelli di cui lei parla, non siano persone che possono fare una cosa del genere – penso che siano persone che devono anche pensare, tra le altre cose, a come portare a casa del cibo. Io temo che lei stia osservando dall’alto in basso quelli che vorrebbe salvare.” “Ti sbagli. Non sono nata ricca.” “E come ha trovato i soldi?” “Ho sposato un uomo ricchissimo e dopo un anno ho divorziato.” “Oh.”
Tacemmo per alcuni istanti. “Solo che, e questo ci riporta a te, ormai i miei soldi sono finiti. Ho parecchi amici che mi ospitano, mi danno passaggi da una città all’altra, mi aiutano in tutti i modi, ma temo che tra non molto anch’io dovrò cercarmi – ahimè – un lavoro.” “Capisco”. “Nel frattempo, ho pensato che si potesse far qualcosa delle storie che avevo raccolto.” “Ad esempio?” “Ad esempio raccontarle – e raccontandole, dire alla gente: guardate che le cose possano essere diverse. Potete cambiare le vostre vite.” “E?” “E ho deciso di contattare qualcuno che fosse disposto ad aiutarmi. Un narratore. Uno che potesse raccontare queste storie per me.” “Perché non le racconta lei?” “Perché scrivo come una capra.” “Capisco.” “Ma il fatto, appunto, è che non ho soldi. E non posso pagare un grande scrittore perché mi aiuti. Mi serve una tipologia particolare di scrittore. Mi serve, nello specifico, uno che sappia mettere in ordine due belle frasi, ma che non sia ancora conosciuto da nessuno. Che abbia poche idee in testa, poca inventiva, poca fantasia, e che sia pigro; così magari, e dico magari, invece di darsi alla creazione di racconti propri, preferirà rinarrare storie che altri abbiano già narrato – storie che altri abbiano già vissuto. Mi serve, inoltre, uno scrittore che nessuno pagherebbe per pubblicare qualcosa; così accetterà di lavorare gratis, o per una miseria.” “E siete arrivati a me.” “Non essere ridicolo. Abbiamo selezionato quasi novecento autori tra ignorabili emergenti, scrittori falliti, cinquantenni con la narrativa come sogno nel cassetto…” “Ignorabili emergenti? Lei mi lusinga.” “Allora, accetti?” “E tra questi novecento avete selezionato me?” “Ovviamente no. Stiamo facendo questa proposta a tutti e novecento. Circa quattrocentosettanta hanno già rifiutato, ma almeno altri centodieci hanno accettato. Avrai un sacco di concorrenti.” “Ah. E… Nella pratica, come funziona questa cosa? Cioè, da dove le recupero le storie?” Lady Carlotta sorrise, e disse: “A casa mia, in Toscana, ci sono dodici bauli stipati fino all’orlo di fogli di ogni tipo – appunti miei, interviste, ritagli di giornale, ma anche hard-disk pieni di vieoregistrazioni… Un sacco di cose. Direi che puoi iniziare da qui.” E tirò fuori dalla borsetta (ah, aveva una borsetta) una cartella rossa rilegata. La presi in mano; era pesante, e sembrava piena. “Ci sono dentro, credo, centinaia di fogli di tutti i tipi. Non sono tutte le storie che ho raccolto, non sono neanche un decimo. Ma puoi iniziare da queste.”
Aprii la scatola. Era ricolma di fogli A4; il primo riportava in grassetto il titolo LA STORIA DEL FOLLE E DEL RE. “Quella è una storia che riassume bene il senso di questo progetto; è l’unica che ho fatto leggere a tutti quelli a cui ho proposto il lavoro. È… Mi piace considerarla una storia vera, ma penso sia più accettabile per tutti considerarla una semplice fiaba. Una fiaba efficace, però. Accetti o no?” “Aspetti un attimo… Una volta scritte, o meglio riscritte queste storie, che dovrei farci?” “Essenzialmente quello che vuoi; mi basta che dici da dove le hai prese, e che le fai conoscere a più gente possibile.” “Queste sono tutte storie di persone che superano – che oltrepassano la loro mediocrità, le visioni del mondo più tristi e superate, giusto?” “Sì, essenzialmente sì.” “Perché vedi, tra due settimane scade un concorso per cui vorrei scrivere un racconto…” “Ah-ah.” “Il tema è Oltre, e mi chiedevo se…” “Attingi pure da queste storie. Basta che dici da dove vengono.” Annuii. “Mi pare equo.” “Insomma, accetti?” “Direi di sì.” E così, riflettevo dopo la partenza di Lady Carlotta, quest’anno forse non dovrò inventare l’ennesima, drammatica storia di caduta e rinascita di un qualche personaggio lacerato e drammatico. Per alcuni istanti pensai di ascoltare il secondo album di Zappa o di farmi un altro caffè, ma non ne avevo voglia. Fissai la cartella che tenevo ancora in mano. Mah. Guardiamo un po’ in cosa mi sono cacciato. Aprii la cartella e incominciai a leggere.
LA STORIA DEL FOLLE E DEL RE fiaba anarchica con tratti di surrealtà Non molto tempo fa, dalle parti della Campania o forse del Piemonte, viveva un re. Siccome viveva in tempi di democrazia nessuno lo chiamava re; si preferiva dire che era ricco, o che era potente. Nei fatti, però, era proprio un re. Non un re di quelli che governano sul mondo intero, il cui nome rimbalza da un continente all’altro come una pallina da ping-pong, che sorridono in televisione, alzano o abbassano i prezzi di questo e quello e dichiarano guerra all’Iraq. Piuttosto, si trattava di un re locale, che se vuole fa costruire un albergo lì o chiudere un centro di ricerca là. Aveva una moglie bellissima e un po’ più vecchia di lui, di nome Camilla, che sorrideva poco e guardava lontano, come se i suoi occhi oltrepassassero l’orizzonte; lei era sempre stata abituata a comandare e aveva imparato che quando sei al potere
non conta tanto l’intelligenza e l’abitudine ad ascoltare, quanto la decisione e la capacità di alzare la voce al momento giusto. Aveva anche due figli; il primo si chiamava Matteo ed era un donnaiolo. Aveva un corpo atletico e muscoloso, capelli morbidi e biondi, e gli occhi blu; le sue mani erano forti e gentili. Ma lui non era gentile, e passava con scioltezza e sorridendo da una conquista all’altra, lasciandosi dietro una marea di cuori spezzati. Invece il secondo figlio, Emanuele, non era mai stato un dongiovanni; piuttosto un piccolo Einstein, uno di quei ragazzi belli, ma un po’ timidi, che vanno benissimo in matematica. Lo stereotipo vuole che i matematici non abbiano emozioni; nel suo caso non era così. Lui aveva delle emozioni, come tutti, ma non gli sembrava il caso di dar loro troppo importanza – ma non perché credesse che la ragione è superiore al sentimento o cose del genere. Semplicemente, Emanuele credeva nell’efficienza; credeva nell’efficienza più che in molte altre cose. Era sicuro che finiti gli studi (non mancava poi molto) sarebbe diventato direttore di una banca. Alle ragazze non pensava troppo. Questa storia ebbe inizio un martedì pomeriggio, intorno alle quattro, quando il tuttofare del re – che si chiamava Ludovico – venne a bussare alla porta del suo appartamento. Ludovico era pelato e quando si agitava, sulla sua testa si vedevano un sacco di goccioline di sudore. Al re questa cosa faceva un po’ schifo, però gli era anche utile – grazie a quelle goccioline capiva subito se Ludovico era teso. Quel giorno lo era. “Cosa c’è, Ludovico?” gli chiese appena lo vide. “Si tratta della strada” ansimò l’altro. Bisogna sapere infatti che in quei giorni il re stava facendo costruire una gigantesca circonvallazione d’asfalto che avrebbe reso più facile a tutti l’accesso al paese, portando al contempo una ventata di progresso, danaro e felicità. “Abbiamo visto i progetti e tutto sembra indicare che debba passare per il parco del folle.” “Il folle ha un parco?” “Sì, ce l’ha; praticamente ha solo quello, ormai, ma ce l’ha.” “E dunque?” “E lui” disse l’altro ancora ansimante “ha detto chiaramente che non vuole cederlo, in nessun modo.” “E allora non facciamola passare dal suo parco. Giriamoci attorno.” “Ma non possiamo, è troppo grande; i costi aumenterebbero tantissimo e gli sponsor non ci stanno.” “Va beh, non c’è problema. Di sicuro esiste un modo per convincere il folle a cambiare idea.” “Devo chiamare l’avvocato?” Il re rifletté un attimo, poi disse “No. Ero molto amico del folle quando eravamo bambini. Forse posso convincerlo con le buone.” “Ne dubito.” “Tentare non costa niente. Fai preparare la macchina.” “Vuoi andare da lui?”
“Certamente. Andiamo ora.” “Tu lo sottovaluti. Ha praticamente cacciato a calci il ragionier Petruzzi.” “Ho detto ora, Ludovico.” “Va bene, va bene…” A questo punto vale la pena spiegare chi fosse il folle. Il suo nome si è perso, però sappiamo che era di famiglia nobile, colta, aristocratica ed elegante; suo nonno era stato tanto reazionario e antidemocratico, quanto profondamente, dignitosamente antifascista. Il papà del folle, di nome Vincenzo, aveva investito saggiamente tutto quel che gli rimaneva del patrimonio di famiglia e l’aveva decuplicato. Si era sposato a una donna bellissima di nome Elisa, leggendaria per i suoi grandi occhi tristi che forse contenevano già il seme della tragedia e della pazzia. Vincenzo era morto a soli trentacinque anni, investito da un ippopotamo disgraziatamente fuggito da uno zoo, che aveva anche divorato il suo adorato cagnolino Friedrich; Elisa era diventata folle poco dopo, e si era lasciata deperire nel delirio. Il patrimonio era andato ai loro due figli. Il primo, di nome Alessandro, si era precocemente convertito al pensiero di Schopenhauer e, certo che ogni cosa nella vita non fosse altro che dolore, aveva abbandonato tutti i suoi averi per andare a vivere in un monastero tibetano, dove era stato disgraziatamente ucciso a colpi di pallottola dalle forze del governo cinese; il secondo, il folle della nostra storia, aveva mostrato sin da piccolo un eccezionale talento per le scienze esatte unito a una fervida attrazione per ogni forma di pensiero mistico, esoterico, parareligioso. Avviato a una brillante carriera di fisico, si era dovuto ritirare all’insorgere in lui di una lieve forma di schizofrenia. Dopo dieci anni di reclusione era tornato, apparentemente guarito, e nel giro di altri dieci anni aveva dissipato il suo patrimonio fra eccessi di varia natura. Oberato dai debiti, si era ritirato nella sua villa, nel cuore di un vasto parco in cui ogni tanto, la notte, era possibile vederlo passeggiare, mentre fissava il cielo con una certa tristezza. La macchina del re attraversò pigra il cancello, scivolò lungo il viale bagnato e coperto di foglie policrome, e arrivò davanti al portone del folle. Il re scese e Ludovico, borbottando scontento, lo seguì. Bussarono. Prima che il folle aprisse, passarono lunghi istanti. Poi la porta si aprì pian piano e il vecchio compagno di scuola del re mise fuori la testa. Aveva uno sguardo assonnato e un po’ perso, una barba incolta e lunghi capelli neri bagnati – si vede che si stava facendo la doccia; ciononostante, puzzava un po’. Li guardò per alcuni istanti, poi parve illuminarsi. “Entrate, carissimi! Quanto tempo. Volete un succo d’arancia?” “Allora” disse il re qualche minuto dopo “ora sai come stanno le cose. Davvero non daresti il permesso di edificare nel tuo parco? Si tratta solo di un breve tratto.” Il folle rifletté un istante, poi disse, un po’ abbattuto: “Mi spiace, ma non è proprio possibile. Mi serve, questo parco.” Con un sospiro, il re posò le mani sul tavolo. “Caro, è a me che spiace. Temo che tu non abbia compreso la situazione. Sei oberato di debiti. Sei in miseria. Se i tuoi
creditori fossero lasciati liberi, non ti toglierebbero una fettina di parco. Ti toglierebbero tutto. Rimarresti in mutande. Riesci a sopravvivere qui dentro, solo e soltanto perché il giudice che si è occupato del tuo caso era un vecchio amico di famiglia e perché tuo cugino ha abbastanza soldi per tenerlo buono. Davvero, cerca di capire. Io non voglio intervenire, ma se non mi dai tu il parco, lo otterrò da solo. Normalmente non sarebbe un problema ma tu sei un vecchio amico. Su, forza.” L’altro stette a lungo zitto, poi disse: “Non hai capito. Il fatto è che a me serve questo parco. Non posso venderlo.” “E perché, scusa? A che ti serve un parco?” “Non penso che capiresti.” “Prova a spiegarmi.” “No, sul serio. La gente pensa che io sia pazzo quando parlo… Del mio progetto.” “Io non sono ‘La gente’.” “E va bene. Vieni.” “Dove?” “Dobbiamo salire.” Salirono le strette e scomode scale della casa del folle. Nel bel mezzo dell’ultima sala, una scala a pioli portava in soffitta. Per alcuni istanti, il re e Ludovico si trovarono al buio. Poi il folle accese la luce e loro si guardarono attorno perplessi. “Ecco. Ecco il mio segreto.” “Non sono sicuro di capire. Cosa sto guardando?” “Oh, non saprei… Dimmi un po’ tu quel che ti vedi davanti.” “Vedo… Beh, vedo un certo numero di telescopi…” “Esatto…” “Otto enormi computer…” “Enormi? Sono quanto di più maneggevole ci sia in circolazione.” Il re lo guardò perplesso. “Davvero?” “Sì.” “Da quanto tempo non esci?” “Da un po’ di anni, direi.” “Sai che hanno inventato dei computer portatili?” “Come?” “Portatili. Computer che puoi mettere in borsa e portare al lavoro. Senza collegamenti al muro.” “Starai scherzando.” “No, tu starai scherzando! Da quanto tempo non esci da qui?” “Va beh, ma che importa? Comunque, cosa vedi?” “Enormi computer. Telescopi. Enormi casse stereo. Un sacco di fili a collegare il tutto. Non credo di capire.” “Tutto è iniziato” spiegò il folle con calma “quando ho incontrato per la prima volta il Maestro. Non mi ricordo come si chiamasse, ma lo sapevo. Solo che l’ho
dimenticato. Ho anche dimenticato che faccia avesse. Comunque mi è apparso in sogno, e mi ha spiegato che l’universo non è un quadro, ma un pentagramma.” “Capisco.” “In pratica, la questione è questa. Dio ha organi di senso molto diversi dai nostri. Lui riceve come tutti informazioni attraverso gli occhi – o attraverso organi che per noi sarebbero gli occhi. In ogni caso, a questi organi arrivano informazioni attraverso la luce – come negli occhi degli umani. Solo che sulla retina di Dio non si forma un’immagine, ma quello che noi percepiremmo come un suono. Praticamente, gli occhi di Dio fan quello che farebbero le orecchie umane. Ora, Dio ha creato l’Universo con uno scopo estetico ben preciso – ha disposto le stelle con cura, ha lanciato nel vuoto le galassie, le supernove, le quasar, le pulsar. Il tutto, effettivamente, è molto bello. Ma guardando questo meraviglioso spettacolo Dio non vede alcunché perché i Suoi occhi non sono fatti per vedere. Dio guarda l’Universo e sente – una sorta di stupenda sinfonia composta da milioni di melodie. Ogni atomo che vibra è una nota, ogni molecola un’altra, ogni pianeta un’altra ancora; il percorso di un pianeta è un’aria se lo guardi singolarmente, è parte di un grande coro se gli accosti il moto dei pianeti circostanti, è solo una nota se guardi tutta la galassia in cui si muove, è lui stesso un coro se ascolti ogni atomo che lo compone.” “Chiaro.” “Certo, è anche strano pensare che Dio abbia organi di senso. Forse l’Universo non è per Lui, ma per coloro che vivono con Lui. Un’orchestra per gli angeli. Chissà? Come ho detto, non ricordo i dettagli. L’essenziale è che tu capisca quel che stai guardando ora. Quello che vedi è un meccanismo semplice; il telescopio cattura le immagini, il computer le traduce in musica, le casse lo trasmettono. Quello che sto facendo è tradurre l’Universo – trasformare le immagini che vediamo nella musica che sono realmente. La mia speranza è che quando trasmetterò quel che ho tradotto, allora chi sentirà la melodia capirà chi è veramente, qual è il suo posto nel mondo. Da anni sto filmando e fotografando spezzoni del moto degli astri – ma anche dei nostri concittadini, sai? Anche di te. Non voglio catturare tutta la melodia, figuriamoci. Mi basta un frammento. Ma il fatto è che le misurazioni non sono finite. Mi serve ancora qualche giorno – e quel che devo filmare è il parco, il mio parco. Capisci, altrimenti il frammento sarà incompleto.” “Ma certo, ma certo. Certo, ora è chiarissimo. Non preoccuparti, ora non toccherò più il tuo parco. Farò deviare la strada. Scusaci se ti abbiamo interrotto, immagino che tu sia molto impegnato. Anzi, ora leviamo il disturbo. Vieni, Ludovico.” Arrivato alla porta il re si voltò. Il folle lo guardava smarrito. “Grazie dell’ospitalità” gli disse il re, e uscì. “Diosanto” commentò Ludovico come furono in auto. “È completamente uscito di testa.” “Già” commentò cupo il re mentre telefonava. Il cugino del folle e il giudice che lo aveva appoggiato erano uomini ragionevoli. Il re non ebbe difficoltà; dopo qualche giorno, il folle fu messo fuori casa con delicatezza.
Il cugino, gentilmente, lo sistemò in un appartamento non molto distante – piccolo, ma confortevole, situato al terzo piano di una grande, vecchia casa. Per quanto confusa fosse la mentre del folle, intuiva che cosa gli era successo. Non era molto difficile, per la verità. Il re l’aveva tradito; ora avrebbero distrutto il suo parco – il suo parco! Quei grandi alberi coi quali si era intrattenuto per ore, coi quali aveva parlato a lungo, che lo avevano supportato e consigliato! I loro grandi corpi sarebbero rimasti a terra, sradicati e morti. Non era giusto. Il folle si trovava bene nel suo nuovo appartamento, ma capiva che per lui era una prigione. Volevano che restasse lì dentro mentre distruggevano il suo parco e tutto il suo lavoro. Doveva fermarli. Si alzò dal letto (aveva l’abitudine di passare le giornate sdraiato fissando il soffitto) e con decisione si diresse verso la porta. Ma suo cugino, che non era stupido, aveva pagato un donnone gigantesco e bonario, di nome Irene, perché badasse al folle e gli impedisse di fuggire. Appena lo vide dirigersi verso la porta, Irene saltò in piedi, lo brancò per un braccio e lo respinse a forza nella sua stanza. “Ma io devo uscire” spiegò il folle con voce tremula, prima di essere rimesso a letto. E così passarono i giorni. Una notte, il folle si svegliò con un discreto mal di pancia. Doveva andare in bagno. Si alzò, fece per avvisare Irene… E si fermò. Dall’altra stanza non veniva nessun rumore. Lanciò un’occhiata in soggiorno. Irene giaceva abbandonata su una poltrona; si era addormentata. Addormentata! Ma allora dormiva anche lei! Piano piano, con molta prudenza, il folle le scivolò davanti, trattenendo il respiro. Scese le scale continuando a respirare pochissimo, timoroso che si svegliasse e lo rincorresse, e poi… Libero! All’aria aperta, con un sospiro di sollievo, corse in pigiama per le strade della città. Raggiunse il parco di casa sua, scavalcò il cancello e, quatto quatto, iniziò a percorrere il viottolo che portava alla villa. Non aveva più le chiavi quindi, con un certo dolore, fu costretto a rompere una finestra. Finalmente era a casa. Qualcuno aveva portato via i mobili, ma la cosa non gli dava troppo fastidio. Andò in bagno con un sospiro di soddisfazione.
Quando ebbe finito, iniziò a salir le scale finché arrivò alla soffitta. Lì era rimasto tutto intatto e – incredibilmente – non avevano ancora tagliato la corrente. Si fregò le mani. Era il momento di mettersi al lavoro. I telescopi cigolavano piano piano. Sorrise mentre i computer cominciavano a scaldarsi e a elaborare dati. Ma dopo qualche ora, sentì un grande fragore provenire da fuori. Tremando lievemente, guardò da una finestra. Nel parco stava sciamando una fila di ruspe e di operai. Li guardò, orripilato. Erano lì per tagliare il bosco! Guardò i computer. Mancavano ancora un paio di minuti prima che la trascrizione fosse completata. Disperato, scese le scale. Davanti a tutti gli operai c’erano Ludovico e il re. Il re amava mostrarsi presente, farsi vedere sul campo, a fianco dei suoi uomini. Quel giorno si sentiva soddisfatto e fiero di sé. Amava le inaugurazioni. Respirò a pieni polmoni… E all’improvviso, ancora in pigiama e pantofole, il folle sbucò davanti a loro. “TUTTI FERMI!” tuonò agitando il dito. Avanzò verso il re che lo guardava schifato. “Non vorrete farlo davvero? Abbattere degli alberi così giovani? Innocenti alberi verdi e giallastri?” “Temo proprio che vogliamo farlo, mio caro.” “No, ma non potete! Non vedete come sono belli?” “Cosa c’entra, scusa?” Il folle si umettò le labbra. Non sembrava che funzionasse. Doveva inventarsi qualcosa, molto velocemente. In soffitta, intanto, i computer iniziarono a lampeggiare. Sullo schermo di uno di loro apparve la scritta: INIZIO TRASCRIZIONE IN CORSO. PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 11 % Alzando l’indice con fare inquisitorio, tenendo la voce bassa e roca, il folle sibilò: “Se fate un altro passo, dovrò maledirvi.” “Ma non mi dire” commentò il re, mentre gli operai iniziavano ad inveire. “Chi è quell’idiota?” “Fateci passare!” PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 25 % “Sappiate che se passate” ringhiò il folle “tutti i miei poteri più oscuri si scateneranno su di voi… I vostri bambini si trasformeranno in tortelli! Le vostri mogli partoriranno criceti e scarafaggi! Le vostre amanti odoreranno di gorgonzola!”
“Cosa sta dicendo?” chiese Ludovico a bassa voce, mentre il folle allargava le braccia e iniziava a improvvisare in ottonari: “Operaio, se ora tenti di passar, per le ore venti su te pioveranno rane che ti ammazzeranno il cane, sarai oppresso dai pidocchi che ti caveranno gli occhi, irascibile un pinguino calerà dal tuo camino e di colpo, a tarda notte, ti massacrerà di botte, un canguro molto irato sporcherà tutto il tuo prato per tagliare poi i tuoi baffi con la forza, a suon di schiaffi…” PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 52 % “…e tua moglie, mi rincresce, si trasformerà in un pesce, poi più tardi, mesta e mosta, cambierà in un’aragosta, e che dire dei tuoi figli che vomiteran conigli (in omaggio a Cortazàr che leggevo spesso al bar), sul tuo argento e sui tuoi ori cresceranno cavolfiori…” “BASTA!” tuonò il re. PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 64 % “Ci hai fatto perdere fin troppo tempo. Io non sono come te. Io non posso rifugiarmi nella mia pazzia e vivere di filatrocche e teorie sulla retina di Dio. Io sono un uomo d’affari. Io devo mandare avanti un impero. Io non ho tempo da perdere. Quelli come te sai che fine fanno di solito? Ospizi! Manicomi! Carceri! Via dalla gente normale, via dalla gente per bene – via. Lasciaci lavorare. Vattene via.” “Temo” rispose il folle, fattosi a un tratto serio “di non essere d’accordo con te. E sospetto che non ubbedirò.” “Lo farai.” “Non serviam! Nothung!” “Prima Cortazàr, adesso Joyce” mormorò Ludovico con tono ammirato. “Oh, state zitti” sbuffò il re alzando gli occhi al cielo.
PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 72 % Il re avanzò pian piano verso il folle. “Non capisci che ti ho fatto un favore? Non capisci che potrei radere al suolo tutto il tuo parco, la tua casa, la tua intera vita senza batter ciglio?” “Allora perché non lo fai?” ribattè sprezzante il folle. “Vediamo se indovino. Un uomo si crede re, si crede potente. Come sempre ‘potente’ significa ‘capace di distruggere’, perché più uno distrugge meno si sente mortale, sa Dio perché. Però meno ti senti mortale meno ti senti umano, più distruggi, più sei potente, più ti allontani da te stesso e sei solo.” PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 78 % “E allora quando incontri uno come me, un pezzetto della tua infanzia, uno che si ricorda di quando eri ancora umano… Beh, ci pensi due volte prima di distruggerlo, no? Vorrebbe dire distruggere un altro pezzetto di te.” “Non dire idiozie, tu non sai niente di me!” “E naturalmente un po’ vorresti, essere me…” “Cosa?” “‘In ogni anrchico sta dentro un dittatore fallito’, diceva il pelatone, ma è vero più che altro il contrario, no?” “No, non credo. Credo che avesse ragione il pelato in questione. Perché se no voialtri sbandati stareste sempre lì a giudicare? Da dove viene tutta questa vostra bile?” PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 85 % In quel momento gli operai ripresero a rumoreggiare. “Levatecelo di torno!” Qualcun altro, più rilassato, tirò fuori dalla borsa qualche panino che si era portato da casa e iniziò a far colazione bofonchiando “Si sta proprio bene, qui.” Ma i più rumoreggiavano e il re si fermò. Si rese conto di aver fatto un errore; stava per perdere la calma. Ma un re deve sempre saper tenere tutto sotto controllo. PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 89 % “Fatti da parte” sussurrò al folle. “Mi dispiace, ma non può andare in nessun altro modo. Non c’è nulla di personale. Ti aiuterò a trovarti un’altra casa se vorrai. Terrò buoni i creditori. Li pagherò io, magari. Nessuno ti vuol fare del male. Forza.” “Mi dispiace, ma non posso.” “Non ti capisco. Un istante sei lucido, un istante dopo inventi filastrocche per maledirmi o parli di strane teorie esoteriche. A volte mi sembra che tu abbia scelto di impazzire.” “Non erano ‘strane teorie’, era vera quella roba. A breve sentirai la musica del cosmo uscire dalle casse. Ma non è quello il punto.”
“E qual è?” “Non posso lasciarti abbattere gli alberi. Loro sono stati buoni con me.” “Mi dispiace.” Si girò e fece un cenno a due operai. “Levatemelo di torno.” PERCENTUALE COMPLETAMENTO OPERAZIONE: 96 % “Indietro! Indietro!” ringhiò il folle contro i due che si avvicinavano. “Non sapete che sono pazzo? Pazzo percioloso! Grrr…” I due avanzarono spediti e lo afferrarono per le braccia. “Ehi! Lasciatemi! Non potete toccarmi! Sono infettivo! Idrofobo! Sieropo…” E in quell’istante nell’aria rieccheggiò una nota. OPERAZIONE COMPLETATA. Tutti si fermarono, come impauriti – e ognuno sentì, istintivamente, che quella nota era lui. Poi iniziò la musica – archi. Sembravano archi. Si diffuse nell’aria, rombando, e ognuno sentì che quella musica era lui, che quella musica lo attraversava, che lo avvolgeva – e uno dopo l’altro, ogni operaio sentì tutti i ricordi della sua vita da adulto che scivolavano via – sentirono scivolar via e dissolversi il rimorso per aver tradito le loro mogli, l’impazienza per il salario del mese prossimo, la rabbia per la maleducazione dei figli, le loro grida, i loro litigi, i “Che cazzo guardi”, la noia e uno dopo l’altro caddero come birilli e scoppiarono a piangere. “La prima volta che mi sono arrampicato su un albero…” “Dio, quel bacio sulla spiaggia…” “Avevo paura di tuffarmi…” “I fratelli Karamazov, perché non ho finito I fratelli Karamazov?” “Le uova a colazione, da quanto non mangio uova a colazione?” “I grilli fuori dalla finestra, i grilli…” “Sara, che fine avrà fatto Sara? Perché non l’hi più chiamata?” “Io avevo paura che mi rubassero i cucchiai…” Il re e Ludovico indietreggiarono, sconvolti, e si voltarono verso il folle. “Che cosa hai fatto?” “È la musica” disse con un sorriso. “Sembra si siano accorti di cosa gli importava veramente nella vita.” “Oh Dio mio…” E la musica si riversò fuori dal parco e svegliò Irene, ancora addormentata, che non si sentì particolarmente male perché evidentemente sapeva già quel che le serviva sapere su se stessa. Dall’altra parte della città investì Camilla, la moglie del re, e le apparvero tutte le vite che aveva distrutto nella sua carriera da imprenditrice e tutti i colpi che aveva dato e capì quanto grottesca fosse stata la sua determinazione, quanto poco fosse stata forte
e quanto, semplicemente, fosse stata brutta. Mentre poco distante suo figlio Matteo capiva quant’era ridicola la sua pretesa di essere un dongiovanni e intuiva finalmente di essere stato omosessuale fin dall’età di tredici anni, ed Emanule al suo fianco cadeva a terra e si rendeva conto di quanto piccolo fosse il posto dell’uomo nell’Universo e di quanto ridicolo fosse, avendo una vita breve come una scintilla, sprecarla cercando di gestire il tempo in modo efficiente invece di godersi quello che aveva con tutta calma. E fuori dalla casa del folle Ludovico a un trattò capì che aveva sempre avuto paura di decidere del suo destino, che aveva sempre avuto bisogno di qualcuno da servire, da accompagnare. Afferrò il braccio del re e disse “Sai, credo di essere stato al tuo fianco perché temevo di fare qualcosa di mio, perché pensavo di essere troppo brutto per esser padrone della mia vita – penso di dover dare le dimissioni. Devo realizzare il mio potenziale.” Il re lo guardò sconvolto, poi, furioso, si girò verso il folle… E il quel momento la musica lo investì come un’onda, e lui lo sentì. Sentì che tutto quel che aveva attorno – prati alberi fiori sassi nubi casa operai – tutto conduceva la propria esistenza per se stesso; unicamente per se stesso; che quando se ne sarebbe andato il mondo sarebbe rimasto e avrebbe continuato per la sua strada; che a nessun fiore, a nessun albero sarebbe mai importato di lui; che anche gli uomini avrebbero continuato a vivere le loro vite senza di lui; che il suo stesso corpo avrebbe portato a termine il suo ciclo fregandosene di quel che lui pensava. Che lui non era re di un bel niente, perché al mondo esistevano moltissime cose ma non esistevano re. Davanti a lui il folle sorrise mentre la musica lo investiva e gli mostrava la verità. Oh, com’era stata stupida e vana anche la sua, di esistenza! Ora capiva che la follia gli era solo servita a scappare dal mondo, e che aveva sprecato la sua vita, fino a qual momento. Ma in quel momento aveva mostrato al mondo qualcosa di vero e quella gente non l’avrebbe mai dimenticato. Lui, però, era stanco. Aveva fatto bene a rivolgere le sue ultime forze verso quell’impresa. Quell’impresa era il suo canto del cigno. Ora che altro aveva da dire? E così il folle si buttò a terra, guardò il cielo con un sorrisone a trentadue denti, e morì. Per il resto non sappiamo cosa successe a tutti gli altri personaggi – se le loro epifanie siano durate solo per qualche minuto o se abbiano cambiato la loro vita. Si sarà ricordato, il re, di non essere un re, ma solo un uomo come tutti gli altri? Forse non lo sapremo mai, ma ci piace molto credere di sì. – FINE – Smisi di leggere un poco perplesso. Bizzara favola. Cioè, fiaba. Un po’ troppo moralistica, forse, ma pazienza. La trascrissi a computer in un paio di giorni – qua e là inventando, aggiungendo particolari scoppiettanti. Il risultato l’avete appena letto – non ne son troppo fiero a dire la verità; mi sembra che in più punti la scrittura si faccia sfilacciata e noiosetta, priva dell’incisività che dovrebbe avere; in altri punti
non sono riuscito a dare corpo ai personaggi; ma manca troppo poco alla scadenza per riscriverla, e per di più l’ho scritta quando avevo la febbre, quindi pazienza. Alla peggio vi sarete annoiati. Il secondo racconto che tirai fuori era questo qui:
UNA STORIA DELLA VIGILIA o: Non sempre conviene uccidere per una buona pasta al ragù Con un ‘pof!’ a malapena udibile il ketchup uscì dal tubetto, schizzò nell’aria e si adagiò sugli strati di verdure impilati sulla fetta di hamburger calda e rosolata. Le mani esperte di Barbara, che da quasi un anno lavorava al ristorante, chiusero il panino e lo appoggiarono sul vassoio accanto alle patatine e al bicchiere ricolmo di Coca-Cola. “Grazie” commentò il ragazzo a cui il pranzo era destinato prima di muoversi verso il suo tavolo. Si chiamava Andrea, il cognome non serve ricordarlo, e aveva diciotto anni. Avanzò verso il gruppetto dei suoi amici, da cui si levò un coro di “Ehi”, “Eccolo qui”, “Bella” e similaglie. Taciturno, Andrea si sedette e iniziò a mangiare. Tutti lo guardavano. Andrea non ci faceva più caso; si era ormai abituato a essere un punto di riferimento per chi lo circondava. Non ricambiò gli sguardi dei suoi amici e si chinò a mangiare. A grandi tocchi il pane gli scivolava nella gola. Dopo pochi morsi ne aveva mangiato quasi metà. Portò alle labbra la Coca-Cola e la sentì mentre gli scivolava ghiacciata lungo la gola, poi mordicchiò le patatine. Era ormai notte e la serata era stata lunga, ma arrivati alle tre si erano resi conto di avere ancora fame. Certo, a quell’ora non c’era un granché di aperto. Ma si poteva sempre contare su [una nota catena di fast-food il cui nome preferisco non riportare]. Finito che ebbe di mangiare si rese conto di avere ormai sonno. La serata si faceva spenta. “Allora” chiese a bassa voce il suo amico Pete, che portava gli stessi pantaloni larghi da almeno tre settimane, “che si fa?” Alzò le spalle. “Niente” commentò con calma. “Si va a casa”. Il giorno dopo la luce del sole che pioveva dalla finestra lo svegliò. Bofonchiò qualcosa. “Andrea?” gridò sua madre dall’altra stanza. “È ora di alzarsi…” “Ma, fammi dormire…” “Devi andare a scuola…” “La scuola è per i borghesi, mamma…” “Alzati, su, ho già messo su il caffè…” “Arrivo, mamma…” E si tirò in piedi. “Sei tornato tardi, stanotte?” “Sì.” “Hai mangiato?” “Sì, da [nota catena di fast-food di cui sopra]” “Ancora? Sarà la quarta volta questa settimana! Non sai che ti fa male?” “Mamma, non urlare di primo mattino, ho mal di testa…”
“Ma sei proprio poco sveglio! Devi mangiar sano, tu!” “Mamma, ti prego…” “Sei proprio uno che non farà strada nella vita, tu. Non che non sia intelligente, ma non sei niente furbo.” “Oh, perché mangiar bene sarebbe da furbi? Almeno da [catena di fast-food solita] non spendo troppo.” “Certo che è da furbi. Hai mai visto qualcuno di ricco da [come sopra]?” “Ma cosa te ne frega di quel che fanno i ricchi?” “Pensa che i de Pascale staranno preparando il ragù di perviciotti…” “Perviciotti?” “Non lo sai? Ogni anno i de Pascale si ritrovano tutti assieme, la vigilia di Natale, e la signora de Pascale prepara il ragù di perviciotto.” “Mamma, non credo che esista un animale che si chiama perviciotto.” “Beh, si chiamerà in un altro modo. Fatto sta che la sua carne è tra le più pregiate al mondo e il sugo in cui lo intingono è ottenuto facendo bollire per tre giorni i più freschi pomodori della Pianura Padana, e viene preparato una sola volta l’anno perché costa tantissimo.” “Beh” disse lui mentre si preparava il caffelatte “che t’importa di quel che fanno i de Pascale? Che se ne restino nella loro villa a mangiare ragù di perviciotti, io mangio quel che si mangia in strada.” Effettivamente i de Pascale erano veramente, veramente ricchi e potenti. Andrea e sua madre, invece… No. “Beh, io esco. Buona giornata, ma.” A scuola non era molto brillante e si annoiava, però aveva abbastanza buonsenso da seguire quanto gli serviva. Già aveva perso un anno, voleva uscire al più presto – e poi andare all’Università, magari. L’idea di lavorare per tutta la vita non gli piaceva molto. Fuori da scuola lo aspettava la sua ragazza, che era alta e bionda. Era anche più intelligente di lui e andava meglio a scuola. Andrea a volte pensava di averla conquistata solo perché aveva un bel fisico. Si baciarono velocemente. “Vieni da me?” gli chiese. “Nel pomeriggio” disse lui. “Devo dormire, prima”. “D’accordo.” Andrea non era particolarmente felice. Non amava molto né la sua scuola né i suoi compagni, che si credevano molto svegli ma a parer suo non capivano granché della vita. D’altronde la scuola gli era servita un po’. La sua ragazza e i suoi insegnanti gli avevano spiegato che i suoi compagni di vita, con il loro rap, il loro gergo e la loro droga, sbagliavano, che sbagliavano a passare in strada la loro vita, che sbagliavano coi loro furtarelli e le loro risse. Andrea non credeva che sbagliassero, ma capiva che non sarebbero andati molto lontano. Il mondo, a quanto pareva, era di chi parlava la lingua dei padroni.
D’altronde, Andrea non era un padrone né gli interessava esserlo. Solo che non voleva passare tutta la vita a fare l’operaio o l’idraulico o il giardiniere. Ma a scuola si annoiava molto. No, non si può dire che Andrea fosse molto felice. Però bisogna dire almeno una cosa su di lui; chiunque lo vedesse, ne riconosceva subito la dignità. I suoi compagni di classe ne erano intimoriti tanto quanto i suoi amici ne erano ammirati; sua madre, sotto sotto, ne era fiera. Andrea non avrebbe mai tradito se stesso, e questa è una cosa che a questo mondo diventa sempre più rara e preziosa. Forse fu quello stesso pomeriggio che nella testa di Andrea nacque il sentimento della ribellione. Quel pomeriggio, dopo che ebbero fatto all’amore, la sua ragazza lo aiutò a studiare e gli spiegò il concetto di sovrastruttura: l’idea che i prodotti culturali di una civiltà siano espressione più o meno diretta di elementi economici, sociali. Aggrottò la fronte mentre lei gli spiegava che per Marx le immagini che pervadevano la sua cultura, le idee correnti, i modelli di ogni genere erano espressioni della classe dominante. Quel pomeriggio, forse, davanti agli occhi di Andrea balenò la prima scintilla del suo piano. Ma come questo si sviluppò, non è facile da raccontare. Un racconto, lo saprete meglio di me, necessita di fatti, di eventi ben precisi. Ma l’anima di un uomo non funziona così. Non c’è un Prima pensò questo, Poi ebbe quest’intuizione, Poi quest’altra. I cambiamenti sono lenti, continui, fluidi. Ma in quel mese cambiò qualche cosa nell’anima di Andrea. Non se ne accorse nessuno, nemmeno lui, perché era un tipo silenzioso e non parlava di tutto quel che gli passava per la testa. Ma piano piano, giorno dopo giorno, nella sua testa succedevano delle cose. Lui sapeva che al mondo ci sono i ricchi e ci sono i poveri. Non aveva mai pensato, però, che anche i vestiti che mettiamo, la musica che ascoltiamo, il cibo che mangiamo fanno parte del conflitto (o del dialogo) fra ricchi e poveri. Iniziò a vedere le tonnellate di televisione che i suoi amici guardavano come una gabbia. La TV spazzatura, intuì, serviva a tenerli al loro posto. Il cibo spazzatura, anche. Si era sempre sentito arrabbiato. La rabbia si era depositata in lui uno strato per volta, come polvere. Non era felice di quanto sua madre dovesse lavorare per lui; non era felice di quanto piccolo e triste fosse il suo appartamento. Cominciò a non essere felice di altre cose. A non essere felice dei film che guardava, dei vestiti che comprava. Delle idee che aveva. Non ne parlò con nessuno quindi non sappiamo come avvenne esattamente la trasformazione di Andrea, come nacque in lui il suo progetto. Però un giorno, passato quasi un mese da quel dialogo mattutino con sua madre, mentre stava per addentare un ennesimo sandwich da [si, di nuovo la catena di fast-food di cui sopra], si fermò; guardò il suo panino e, con molta calma, lo gettò nella spazzatura sotto gli sguardi allibiti dei suoi amici. “Ho la nausea” disse loro, “vado a casa” e andò. “Già di ritorno?” gli chiese la madre. “Mamma” disse con calma “quando hai detto che i de Pascale si ritovano a mangiare quel famoso ragù?”
E mentre lo diceva sentì che ormai qualcosa in lui era cambiato, e non si sarebbe più accontentato di quel che gli davano e gli dicevano. Il 24 dicembre in casa de Pascale il fermento scoppiettava nell’aria. I gatti, intuendo che la loro quiete sarebbe stata disturbata, se ne fuggivano sotto i divani e persino la gigantesca, bianca e aristocratica Miss Elettra, leggendaria per la sua opulenta pigrizia, accettava a malincuore di scendere dal suo sofà. I cugini Tommaso, Veronica, Alessandro, Matteo, e tutti gli altri che erano già arrivati da qualche giorno uscirono dalla stanza degli ospiti con gli occhi pesti; chissà fino a che ora erano stati a chiacchierare la sera prima, a bassa voce per non svegliare gli zii. Di tutti solo Tommaso sembrava sempre a suo agio, sempre rilassato. Della nuova generazione, probabilmente era il più ricco e ammirato dai cugini, nonostante fosse abbastanza brutto, col suo naso storto e le occhiaie scavate. Lavorava in banca. Alle otto il campanello cominciava a suonare. Arrivava Giulia che veniva da New York, dove dirigeva una rivista delle più prestigiose assieme al marito Philip, arrivava Giacomo che solo due giorni prima era stato in Parlamento, arrivavano dall’Australia Alessandra e i suoi cinque figli, arrivavano dalla Sicilia il ricchissimo cugino Vincenzo sempre vestito di azzurro, i suoi nove fratelli e le rispettive famiglie, arrivava da Bruxelles lo sbarazzino e minuto zio Lorenzo coi suoi baffetti sempre perfettamente curati, e subito era afferrato e abbracciato da suo fratello Claudio che tornava dai Caraibi, era sempre abbronzato e teneva la voce troppo alta, arrivava l’eccentrico Davide col suo completo di lillà, che faceva battute pungenti, ricordava la sua omosessualità alle zie bigotte divertendosi alle loro reazioni fintamente scandalizzate e lanciava occhiate maliziose verso il suo compagno, il robusto e altissimo Conrad dai riccioli neri, arrivava Monsignor de Pascale dai Palazzi Vaticani, arrivava Ludovico che era grassissimo e aveva una ridicola voce squillante ma era molto temuto nel mondo del mercato dell’arte, arrivavano il cupo Mattew sempre elegante e vestito di nero che veniva dagli Emirati Arabi, Roberta la cui compagnia aveva vinto da poco l’ennesimo appalto, il gracile Federico che dirigeva un aeroporto, Domenico che aveva un enorme studio legale, Paolo che gestiva una casa editrice, Michele che in Europa possedeva quasi mille fabbriche, Emanuela e suo marito che parlavano troppo dei loro enormi allevamenti, Francesco che gestiva una compagnia telefonica, Innocenzo che era immerso nella produzione di software, Elettra e Paola che erano a capo di una catena di ristoranti, Simone che gestiva benissimo un’industria automibilistica, Sebastiano che era estremamente simpatico ed era un conduttore televisivo, Costantino che era meno simpatico ed era un produttore, e tutti gli altri. Non erano tutti così ricchi e potenti, naturalmente, ma tutti vivevano una vita quantomento agiata, anche i meno intraprendenti; e questo grazie ai patriarchi, a quella dozzina di vecchi che stavano a capotavola con un’aria divertita e dolce, ma che sapevano benissimo – nonostante la loro età – di essere tra gli uomini più ricchi e potenti della loro nazione. Loro sì, avevano costruito da zero la loro fortuna, quando la Guerra era finita da poco. A capotavola stava Guglielmo de Pascale, che a marzo avrebbe compiuto cento anni, vispo eppure così vecchio, che conservava ancora la forza d’animo, la lucidità e, dicevano maliziosi i più giovani, la
virilità di un tempo. Lui che nel corso di quasi un secolo di vita aveva visto due Guerre Mondiali, la lotta dell’India per l’indipendenza, la nascita della Prima Repubblica, le contestazioni studentesche, la Guerra del Vietnam, la costruzione e la caduta del Muro di Berlino, la nascita dell’Unione Europea e il passaggio da un millennio all’altro, lui che si diceva avesse di persona sparato a un partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale, lui che nel corso di quei novantanove anni aveva costruito la sua fortuna un passo dopo l’altro, un mattone alla volta e ora, probabilmente arrivato alla fine della sua vita, se ne stava lì seduto ridacchiando, sorseggiando un succo di limone. Per tutti i de Pascale quello era un giorno di festa, tranne che per due; • lo zio Jack, il vecchio pazzo anarcoide e sieropositivo che viveva a spese della famiglia in una bellissima villa sul Lago di Como, la pecora nera dei de Pascale, che non si faceva più vedere dai parenti e ogni anno si limitava a spedire un bigliettino di ringraziamento su cui di solito scarabocchiava un paio di haiku metricamente scorretti, • e il giovane Antonio. Antonio de Pascale aveva quindici anni e percepiva le cose in maniera molto acuta. Quel giorno guardava la sua famiglia con gli occhi sbarrati; tutti gridavano, ridevano, bevevano, scherzavano, si tiravano frecciatine, pacche sulla schiena, mangiavano di gusto e rumorosamente. Ma Antonio sentiva che c’era un che di innaturale nella disposizione dei rumori. Era la moquette. Tutti gridavano e ridevano; ma sotto i loro piedi la moquette rossa attutiva lo scalpiccio dei piedi, il rumore delle sedie, dei tavoli spostati. Tutti gridavano e ridevano, sopra il tavolo, ma da sotto il tavolo non veniva nessun rumore. E così ad Antonio sembrava che la stanza fosse innaturalmente divisa, con una fascia di rumore sopra un tappeto di silenzio, di vuoto, di morte forse. Dall’altra parte della casa Andrea spiccò uno dei migliori salti della sua vita e restò appeso al muro; le sua braccia tremarono per lo sforzo quandò si issò oltre. Lanciò una rapida occhiata; nel giardino non c’era nessuno. Si umettò la labbra e si lasciò cadere tra i cespugli. Poco distante vide due uomini uscire da una porticina sul retro e accendersi una sigaretta. Non ascoltò quel che dicevano ma fissò i loro movimenti e le loro posture. Rientrarono dopo un paio di minuti. Andrea scivolò fuori dal suo nascondiglio. La porticina era rimasta aperta e dava su una stanzetta vuota. Da poco lontano giungevano i rumori del pranzo. Con prudenza, muovendosi da una stanza all’altra, arrivò vicino a una grande porta bianca. Dall’altro lato giungevano voci, risate, grida; i de Pascale dovevano essere tutti lì. Lanciò una rapidissima occhiata cercando di capire da dove arrivasse il cibo, e a un tratto sulla destra vide una porta semi aperta attraverso cui si intravedevano le donne indaffarate ai fornelli, e al loro fianco vassoi colmi di vettovaglie. La cucina. “Antonio! Svegliati!” esclamò secca una voce squillante che irruppe nel mondo dei suoi pensieri. Si girò stupito. Davanti a lui c’era sua madre, Maria Rosa, la padrona di casa. “Vieni in cucina, dammi una mano. È ora di servire il ragù.”
“Arrivo.” Andrea, nella stanza a fianco, scivolò a sua volta verso la cucina. Speriamo che il ragù non sia finito. Come Maria Rosa scoperchiò il tegame, dal fondo della pentola sorse un odore intensissimo e squisito di pomodori, spezie e selvaggina. Qualcuno gemette tenendosi lo stomaco. Uniti, Antonio e sua sorella Giorgia rovesciarono gli spaghetti nel ragù e cominciarono a mescolare. Poi, con un sospiro, Antonio si staccò dalla pentola e si avvicinò alla madre. “Mamma, senti…” disse a bassa voce. “Sì?” “Non mi trovo molto bene coi miei cugini…” “Oh Dio, ti prego, ancora con questa storia. Antonio, non è il momento di far scenate…” “Mamma, te l’ho detto che io non volevo mangiare qui.” “Senti, ne abbiamo già discusso, sai come la penso. Non ho il tempo materiale di gestirmi un altro tuo piagnisteo. Se mangiare con la tua famiglia ti riesce insopportabile, riempiti un piatto e vai in camera tua.” “Penso che lo farò, mamma.” Andrea aveva un piano semplice. In tasca aveva una pistola giocattolo. Avrebbe fatto irruzione in cucina dopo essersi coperto il volto, avrebbe preteso un piatto di spaghetti al ragù, l’avrebbe mangiato velocemente e sarebbe scappato. Poggiò l’orecchio sulla porta della cucina… E si tirò indietro, di scatto, scivolando velocissimo nella stanza da cui era venuto. Un istante dopo, la porta si aprì e Andrea vide un ragazzo, un po’ più giovane di lui, che gli passava davanti senza notarlo. Teneva in mano un piatto di spaghetti. Andrea si irrigidì. Chi era quello? Dove li stava portando? Doveva essere uno dei rampolli della famiglia. Ma perché non andava nel salotto con tutti gli altri? Esitò un attimo, poi decise di seguirlo. Antonio non era felice della sua vita. Era sempre stato abituato a essere il rampollo di una famiglia ricca; gli avevano mostrato quanto radioso era il futuro che lo aspettava, quali successi avrebbe avuto. Sospirò. Sì, era ricco, sì, sarebbe stato potente… Ma quando ancora andava alla scuola media aveva visto come vivevano i suoi coetantei nelle strade, con il loro gergo e la loro musica, e aveva intuito confusamente che qualcosa di grande e triste si stava abbattendo sul paese, e già a tredici anni gli era sembrato che il futuro dei suoi compagni fosse precario e vuoto. Proprio in quegli anni, avrebbe poi scoperto, era arrivata in Europa la Grande Recessione, anzi proprio nell’anno della sua terza media, il 2007. Ma poi basta; come si era iscritto al Liceo, un linguistico privato della zona, non aveva più avvertito i segni del malessere. A un tratto tutti i suoi compagni gli erano apparsi ricchi quanto lui (beh, forse meno, ma benestanti in ogni caso), fortunati quanto lui, avviati a un promettente futuro quanto
lui, insomma: felici quanto lui. Poi però continuava a vedere ragazzi per strada, che parlavano un italiano diverso dal suo, con vestiti e posture diverse dalla sua, che non sapevano, né mai avrebbero saputo nulla del suo mondo, e pensava che una felicità che si basa sulla rimozione non era quello che voleva. Questo era uno dei due motivi per cui Antonio non era più soddisfatto della sua vita. L’altro era che più tempo passava coi suoi amici e i suoi parenti, con la loro brillantezza rifritta e la loro ricchezza ostentata o suggerita, più si annoiava. In camera sua si sedette sul letto e iniziò a mangiare, di mala voglia. A un tratto sentì chiudersi la porta della camera; alzò gli occhi dal piatto, e sulla porta vide uno sconosciuto. Per alcuni istanti si spremette le meningi, cercando di ricordare chi fosse; il cugino Alberto? o Luca? Poi vide la pistola. Sbucava fuori dalla tasca dell’altro. Si tirò indietro istintivamente… “Calmo” disse Andrea, “non voglio farti del male.” “Sei qui per uccidermi?” chiese sconvolto. “No, io…” inziò Andrea, e a un tratto Antonio scoppiò a piangere. A dirotto, senza contenersi. Andrea si guardò intorno allarmato. Non ci voleva. Attirerà qui tutti. “Senti” disse “io sono qui per…” ma si rese conto subito che l’altro non lo stava a sentire; bastava lanciargli un’occhiata per capire che era tesissimo, come una corda. Per alcuni istanti restò indeciso, poi agì d’istinto. Si avvicinò al ragazzo, gli tolse il piatto dalle gambe, lo abbracciò e gli disse, pian piano, all’orecchio: “No, no… Va tutto bene…” Antonio d’istinto si aggrappoò all’altro e pianse a dirotto. Poi si staccò e lo guardò in faccia. “Io gliel’ho detto, che non si poteva tener fuori il mondo, ma loro pensano che il mondo sia quello lì… Tutte le loro azioni e la loro ricchezza…” “Ma di che parli?” “Gliel’ho detto” disse, triste. “A me quel mondo non piaceva. Ma loro no. ‘Cosa dici, la vita è questa, nessuno ti guarda in faccia’.” “Beh, non è vero.” “No?” “No, gente che ti guarda in faccia la trovi. Una mano ce la si dà. Per tirare avanti. Non sono venuto a uccidere nessuno, comunque.” “Oh. Scusa, allora.” “Figurati.” “Perché sei qui da solo?” “Te l’ho detto, io non sto più bene, là con loro. Mi sembra sempre di esser lo scemo di famiglia.” “Beh, vattene, allora, no?” “E dove?” “Fuori.” “Ma sei matto?” “Cosa sei, un priginiero?”
“I miei amici sono come loro.” “Fattene di nuovi.” “E come?” “Cammina. Parla con la gente. Usa Facebook se sei timido.” “Oh.” Sembrò riflettere un attimo. “Sai… Non è così facile.” “Parlare alla gente è facile.” “No, intendo… Dire ‘basta’, mandare a ******* tutto quello che ti circonda. Dire ‘Voglio dell’altro’, sfidare… Quello che sei. Che ti avevan detto che eri.” “Neanche questo è difficile, basta un po’ di volontà.” “Tu l’hai mai fatto?” “Sono qui perché l’ho fatto.” “Davvero?” “L’altro giorno ho deciso che ero stanco di andar sempre a mangiare da [una certa catena di fast-food cui mi pare di aver già accennato]. “E che hai fatto?” “Sono venuto qui per rubare un po’ del vostro leggendario ragù.” “Non credo sia la stessa cosa. Cioè, tu hai solo deciso che non volevi più mangiare da [va beh, lo sapete]. Io voglio cambiare la mia vita.” “Se da che hai dieci anni quando sei in giro con gli amici vai da [ancora!!!] a pranzo e lì fai i progetti per la giornata, allora credimi, [solito posto] fa parte della tua vita, dopo un po’.” “Capisco” disse Antonio, e lo guardò affascinato. Sì, lui era uno che non avrebbe accettato in maniera supina quel che gli veniva dato; era uno che non avrebbe creduto ai limiti che gli imponevano. “Sono curiso” ammise. “Credo che a me manchi, la tua forza di volontà.” Si tirò indietro sul letto. “Chi sei? Parlami di te.” “Si raffreddano” fece l’altro, indicando gli spaghetti. “Mangiali pure, a me non vanno.” Oh, sì. “Sicuro?” “Sì.” Andrea si sedette e raccolse il piatto e la forchetta. “Allora”, disse con calma, tirando via il fazzoletto dalla bocca “mi chiamo Andrea e ho diciotto anni…” E cominciò a mangiare. –FINE– E così si concludeva il secondo dei racconti che mi aveva dato Carlotta. Trascriverlo fu abbastanza divertente, ma anche spossante, perché nella sua forma originale era costituito da appunti di Antonio e Andrea e credetemi, scrivevano malissimo, e se state pensando ‘Ma non è che tu scriva un granché bene’ beh, fidatevi, in confronto a loro sono una specie di incrocio tra Shakespeare e Dante presi nei momenti buoni. [Antonio e Andrea, se mi state leggendo, non abbiatevene a male]
Dal terzo blocco di fogli che presi cadde un biglietto. Lo aprii, perplesso, e lessi: Il 14 giugno 2008, il signor Davide Grimaldi si mise in macchina e iniziò il suo quotidiano tragitto di lavoro lungo le rive del Lago di Como. Partito da poco, sentì urgente il bisogno di urinare. Adocchiato che ebbe uno spiazzo sulle rive del Lago, vi si fermò, scese dalla macchina e liberò la sua vescica all’aperto. Ma arrivato a metà dell’operazione sobbalzò, sconvolto da un tremendo, improvviso frastuono alle sue spalle. Si girò e, con un miscuglio di orrore e sconcerto che mai avrebbe dimenticato, vide la propria macchina squarciata a metà; nel suo cofano era infissa una sedia a rotelle frantumata, caduta, a quanto pareva, dal cielo. Il racconto che segue permetterà forse di far luce sull’apparentemente inesplicabile fenomeno. Incuriosito, mi misi a leggere.
Di fulmini, uomini e sedie a rotelle Urlavano tutti. “Oh Dio mio” gridava una vecchia signora cicciona. “Le gambe, guardategli le gambe, guardategli le gambe” continuava a ripetere un bambino. “Spostatevi! Lasciatelo respirare!” urlava un uomo grosso con una divisa blu. “Aiuuuuuto” si sgolava una ragazza. “Sangue” biascicava un vecchietto. Un gruppo di ragazzi mormorava parolacce. “Fatti forza” sussurava una bella signora bionda rivolta non si sa bene a chi. “Non l’ho visto! Io non l’ho visto!” piangeva il macchinista. Più o meno tutti guardavano verso di lui. Lui, che si chiamava Luca, stranamente non sentiva dolore – però aveva freddo, la testa gli girava, la visuale gli si riempiva di macchie nere, era coperto di sudore e tremava. Non pensava a nulla in particolare. Se stava per morire, non sentiva paura, il che non era poi male. “Fatemi passare, sono un medico” gridò qualcuno. Sirene suonavano in lontananza. Pian piano tutto diventava nero. A questo punto si svegliò. Dio mio. Tremava ancora. Come tutte le notti, aveva inzuppato di sudore freddo le proprie coperte. Sempre tremando, allungò la mano verso il proprio comodino e si prese una sigaretta. Dall’incidente erano passati quasi tre mesi, e continuava a sognarlo. Tutte le notti, attorno alle quattro, si svegliava tremando, allungava una mano verso il comodino e prendeva una sigaretta. Il tabacco scese nella sua gola, aspro, pastoso e buono. Tossicchiò [Luca, non il tabacco].
Quando aveva accennato a un suo amico dall’animo sensibile che tutte le notti si svegliava, quello aveva annuito con uno sguardo pieno di comprensione e gli aveva detto “È normale, ma passerà”. Sua mamma, quando l’aveva saputo, gli aveva chiesto se voleva stare per un po’ da lei. “Così quando ti svegli puoi chiamarmi, e comunque non sei da solo”. Si era sentito incompreso da tutti e due. Tre mesi prima, ormai avviato a una brillantissima carriera da ingegnere, fidanzato, circondato da amici, Luca era felice. Aveva da poco compiuto trentotto anni. La cosa che gli dava più fastidio, se ripensava all’incidente, era la sua stupidità. Si era concesso di ascoltare per intero un disco dei Pink Floyd che aveva amato molto da ragazzo – ma non ricordava che fosse così lungo; arrivato alla fine, si era reso conto che mancavano solo pochi minuti all’arrivo del treno per Milano. Si era lanciato fuori di casa senza nemmeno chiudere la porta e aveva corso come un pazzo sotto il sole cocente di agosto e la testa aveva iniziato a girare – ricordava la vista che si annebbiava, le gambe che tremavano, il fiato che diminuiva… Aveva visto la stazione, il treno che arrivava, si era lanciato nell’ultimo scatto travolgendo una signora, si era fatto spazio nella calca mentre la locomotiva rallentava... E a quel punto era inciampato. Sul momento non aveva sentito dolore. Si era svegliato con la febbre, in ospedale, senza più le gambe. In realtà era stato un risveglio molto lungo, progressivo – aveva acquisito coscienza della sua condizione piano piano. Non ricordava nessun momento di chock, nessun’epifania improvvisa, nessun “Oh-mio-Dio-non-ho-più-le-gambe” – sicuramente c’era stato un preciso momento in cui se n’era accorto, ma lui non se lo ricordava. E subito tutti, attorno a lui, gli avevano mostrato la loro partecipazione, il loro conforto, gli avevano spedito fiori, avevano – a dozzine – circondato il suo capezzale. L’avevano guardato con occhi su cui lui leggeva dolore e… E qualcos’altro. Un’aspettativa. Loro – tutti loro – aspettavano le lacrime; aspettavano il suo dolore. Si aspettavano di vederlo piangere, di sentire la sua voce rotta parlare con dolore di tutte le cose che non avrebbe potuto più fare. Si aspettavano di vederlo maledire la sua sorte; e poi, piano piano, di vederlo tornare sereno, accettare la sua condizione, trovare la forza per rialzarsi, per combattere ancora, per sperare nel futuro. Nessuno di loro in verità sembrava troppo interessato a quello che lui aveva da dire. La verità era che non sentiva un grandissimo struggimento, né un dolore dei più intensi. Sentiva più che altro un grandissimo senso di vuoto. Non aveva molto da dire sulla sua condizione. In realtà – si era reso conto – quello che voleva non era parlare del suo dolore con gente disposta a piangere con lui. Voleva che tutti la smettessero di contrarre le guance quando lo vedevano; che la smettessero di pensare a che cosa dire e stessero zitti – o che parlassero davvero spontaneamente. Probabilmente, riflettè un giorno, era troppo cinico. Probabilmente il dolore dei suoi cari era profondo, sincero, sentito. Fu quel giorno, forse, che iniziò ad avere dei dubbi
sulla sua vita – e fu nei giorni successivi che si accorse di una cosa; che il senso di vuoto lancinante che provava non derivava dalla perdita delle gambe. Fu in quei giorni che si accorse che quasi tutto quel che dicevano i suoi amici gli sembrava noioso e grigio. Ma forse la colpa non era dei suoi amici – forse non erano i suoi amici a essere grigi e noiosi; forse era lui. Tornò a lovorare (perlopiù da casa, naturalmente) e il suo lavoro andava anche bene – ma man mano che lavorava si rendeva pian piano conto di una cosa – il suo lavoro lo annoiava. In tanti anni non si era mai annoiato a lavorare, mai. “Sai” confessò un giorno a un suo amico (lo stesso di cui sopra) “in realtà non è che mi faccia star molto male aver perso le gambe”. Quello assunse una faccia corrucciata e taque per alcuni istanti – ma con l’aria di chi sta per dir qualcosa. E infatti: “Luca” disse “mi sento in dovere di dirtelo, come tuo amico – magari mi manderai a quel paese, ma è comunque mio dovere dirtelo; se neghi il tuo dolore, ti farai solo del male. Ho visto in questi giorni il tuo modo di fare – ti comporti come se non ti importasse di quel che ti è successo (non ne parli mai); eppure hai sempre la testa altrove. Tu hai bisogno di riprenderti, di veder gente - di ammettere che stai male, di tirar fuori quello che tieni dentro. È naturale stare male, Luca, nessuno ti giudicherà per questo. Non aver paura.” E lo guardò con affetto. Cosa poteva ribattere a tanta saggezza? “Penso che tu abbia ragione” disse Luca con finta mestizia. Provò anche con un altro amico. “Sai, in realtà non è che mi faccia star molto male aver perso le gambe”. “Luca, ti prego. Non devi tenerti sempre addosso questa maschera da uomo imperturbabile. Io sono tuo amico, non il tuo capo – non ti giudicherò se ti vedrò soffrire. Sii te stesso, Luca. Puoi essere sincero con me.” “Grazie, Matteo, lo apprezzo molto. Dio mio, sono fortunato ad avere attorno amici del genere. Siete tutti molto comprensivi con me.” “Sai che puoi contare su di noi.” “Lo so, lo so.” Provò anche con sua mamma e la cosa andò così: “Sai, in realtà non è che mi faccia star molto male aver perso le gambe”. “Figlio mio, ti prego, non puoi dire una cosa del genere, è ovvio che…” “Okay, okay, ho capito…” “…e come potrebbe essere altrimenti, dopotutto una cosa del genere, e poi come se io non fossi capace di capire quando stai male, Luca sono tua madre cielo santissimo…” “…che bello l’ascolto del prossimo…” “…riprendere a mangiare, sei così pallido in questo periodo, e quelle occhiaie…” “…sono dovute all’AIDS, non lo sai?”
“…e poi quella ragazza così carina, e sei proprio sicuro di non voler venire a stare da me? Perché secondo me in questo periodo…” “…penso che dirò cose a caso nel frattempo…” “…e naturalmente c’è tutta la questione dell’assicurazione su cui anche tuo padre, Dio l’abbia in gloria…” “…cocomeri, criceti, fotolisi dell’acqua…” “…per non parlare – oh, ti ho raccontato di cosa mi ha detto Giacomo sabato scorso?” “Solo sei volte, tranquilla…” “…e a quel punto si è messo a ridere e…” “…perché non sono stato zitto?” “Come hai detto, scusa?” “Niente.” Ma perlopiù non aveva voglia di scherzare. Quando aveva accennato al suo amico dall’animo sensibile che tutte le notti si svegliava, quello aveva annuito con uno sguardo pieno di comprensione e gli aveva detto “È normale, ma passerà”. Sua mamma, quando l’aveva saputo, gli aveva chiesto se voleva stare per un po’ da lei. “Così quando ti svegli puoi chiamarmi, e comunque non sei da solo”. Si era sentito incompreso da tutti e due. Come poteva far capire che quelle scariche di adrenalina notturna le aspettava con angoscia? Come poteva far capire che quei momenti, in cui il sudore gli scendeva lungo la schiena e lui si abbandonava contro il cuscino inspirando fumo e fissava la stanza buia e pian piano smetteva di tremare mentre fuori dalle sue persiane qualche uccellino inziava a cantare, erano i soli momenti della giornata in cui si sentiva davvero vivo? Un giorno suonarono alla sua porta e lui, spingendosi sulla sedia a rotelle, andò ad aprire. Sulla soglia, tutta vestita di bianco, c’era Lady Carlotta. Il titolo di Lady in realtà era stato aggiunto dai suoi amici – che riconoscevano un che di signorile, di altero, nel suo portamento – nella sua schiena sempre eretta, eppure sempre rilassata… Lei gli sorrise; lui non ricambiò. “Allora, mi fai entrare?” Lui sospirò, poi si tirò indietro. “Entra”. “Stavi lavorando?” “Sì, ma non preoccuparti.” “Carino qui.” “Ti va un thé?” “Sì, certo.”
Dalle tazze larghe, ricolme di thé fumante salivano pian piano spirali di fumo carico di odori. Le guance di Carlotta si incurvarono in un accenno di sorriso, mentre beveva e lo guardava. “Allora, come stai?” “Non un granché.” “Immagino sia dura.” “Lo è, credimi.” “Mi spiace esserti piombata in casa senza preavviso, ma quando ho provato a chiamarti non hai risposto...” “Scusa, io…” “Solo che poi ho sentito un po’ di tuoi amici – Massimo, Simon, il buon Pera, e un po’ di altri – e mi han detto che ormai sei chiuso qui dentro da un paio di mesi e che non rispondi praticamente a nessuno, allora ho pensato fosse il caso di scuoterti dal letargo.” Si fissarono, poi lui sospirò. “Beh, lo apprezzo. Sto cercando di vedere meno persone possibile di questi tempi.” “Non ti fa bene.” “Lo so.” “Ti va di parlare un po’ con me?” “D’accordo.” Corrugò la fronte mentre pensava a cosa dire. Oh, tanto vale provare a essere onesti. “Sai, in realtà non è che mi faccia star molto male aver perso le gambe”. Ci fu un istante di silenzio. “Beh? Vai avanti.” “La gente sembra aver sempre qualcosa da dire quando arrivo a questo punto.” “La gente è scema, Luca.” “Mi sa di sì. In ogni caso quello che davvero mi fa stare male non è la perdita delle gambe, che per carità non è che mi riempia di gioia, è quel che è venuto dopo.” “Nostalgia? Senso di vuoto?” “No, anzi sì, ma non per le gambe. No, è che… È solo che nient’altro di quel che faccio mi pare avere molto senso. Voglio dire, il lavoro mi piace, ma… Ma neanche troppo. Cioè, mi annoio. No, anzi, non è il lavoro il problema.” “Hai le idee chiare, vedo.” “Il fatto è che anche i miei amici… Non so…” “Cristalline.” “Non prendermi in giro.” “Beh, forse dovresti raccogliere le idee e dirmi davvero cosa c’è che non va, invece che girarci attorno e balbettare.” “Io non balbetto.” “Ora che me lo fai notare no, non balbetti, ma non è questo il punto.” “Va bene, allora… Allora, il problema è questo: quando mi sono svegliato senza le gambe ho avuto la sensazione che tutti i miei amici fossero stupidi a che anch’io fossi stupido e soprattutto che stupido, terribilmente stupido fosse quel che facevo – voglio
dire, impegnarmi, piacere alla gente, al capo – mi è sembrato di essermi accorto all’improvviso che vivevo in un mondo di vetro.” “Vetro.” “Sì, voglio dire… Che tutto fosse trasparente. Effimero. Più sottile della luce.” “Un miraggio.” “Sì, e che nascondesse solo… Vuoto.” “E questo vuoto… Ti angoscia?” “Più che altro, mi annoia.” “Mh.” “Carlotta…” “Sì?” “Tu cambi mai espressione?” “Raramente.” “Cioè, spesso sorridi…” “Mh-mh.” “Altrimenti hai un accenno di sorriso sulle guance, se non niente… Cioè, ci sono molte emozioni che si possono esprimere, e non è che uno possa sempre avere un’aria di distacco e superiorità…” “Vai a quel paese, Luca.” “Chi dice ‘A quel paese’ oggigiorno? Che ne è stato delle parolacce?” “Vai a ******, Luca.” “Molto meglio.” “Anyway, se posso esser franca, temevo ci fosse qualcosa di molto più grave.” “Ah sì?” “Vuoi sentire la mia diagnosi?” “Spara.” “Penso che tu abbia intuito quanto fosse in realtà futile la vita che conducevi.” “È quel che ho detto io.” “Sì, ma Luca, avresti dovuto capirlo un po’ prima, sai? Ora, fermami se sbaglio, ma tu hai detto che ora ti sembra inutile piacere ai capi. Perché tu sei sempre stato uno che vuole piacere ai capi, non è vero? Sei sempre stato uno così – uno che va alle feste per farsi vedere. Uno che pensa a ingrossare il suo portafoglio, uno che pensa a guadagnare – e anche a far vedere che ha guadagnato. Uno che si mostra in compagnia di ragazze giovani e belle e le bacia in pubblico come a dire: guardate, sto baciando una ragazza giovane e bella!” “Sento una punta di gelosia?” “Nei tuoi sogni, fanciullo mio. Sei anche sempre stato uno che fa citazioni colte per far vedere che è colto, che ripete cose che ha letto su libri difficili per mostrare che è intelligente.” “Insomma, uno schifo.” “E adesso hai capito che tutte queste cose sono inutili. E vorrei ben vedere! Tu eri uno che pensava al denaro, santo cielo. Ma non sai che la vita fugge dalle tue dita in un attimo? Che siamo tutti sospesi nel vuoto? Che il mondo è totalmente al di fuori del nostro controllo e in ogni momento possono capitare cose come…”
“Un treno che ti trancia le gambe di netto?” “Esatto, e tu non puoi farci niente, mai. Ecco perché, denaro, potere e bei vestiti dopotutto non contano niente, mentre contano la creatività, la gioia, la tristezza, l’inventiva e la pazzia necessaria a inventarci un senso per il mondo. Denaro, potere e bei vestiti servono a darci dei punti stabili, un po’ come lo Stato e le Chiese, ma sono solo muffa ai bordi della vita, servono a farti distoglier lo sguardo dalla realtà e a rifugiarti in un piccolo comodo mondo prefabbricato.” “Potresti avere ragione.” “Devi andare un po’ oltre queste logiche, mio caro.” “Beh, a quanto pare ci sono andato.” “Ah sì? Pensi di esser libero perché ti sei chiuso in casa e non sei più soddisfatto del lavoro che fai?” “Sinceramente…” “Non è libertà piangersi addosso. In tutto questo tempo potevi comporre una sinfonia…” “La musica non fa per me…” “…imparare il francese…” “…lo so già…” “…costruire una mongolfiera…” “Questo potrei farlo.” “Sul serio?” “Ehi, ho costruito cose più complesse.” “Ma scommetto che poi non ci hai volato sopra. Lo vedi? Potresti far qualcosa della tua vita. Ma qualcosa di vero, qualcosa di tuo. Ma no, troppo comodo star qui a deprimersi. Ovvio che la tua vita ti par vuota se la sprechi. Il vuoto si può riempire.” “Capisco.” “No, mi sa di no. Di solito questi discorsi non servono a nulla. Io dico FAIQUALCOSA-DELLA-TUA-VITA ma raramente la gente segue il consiglio. Va beh, è il caso che io vada.” “Non finisci il thé?” “Ovvio che finisco il thé!” Da quel giorno Luca ricominciò a lavorare con passione e impegno. I suoi capi ne furono impressionati e le sue finanze crebbero. Dopo un paio di settimane, Luca reclutò un gruppetto di ragazzi di quartiere che in cambio di pochi soldi lo aiutarono a togliere dalla sala degli ospiti tutti i libri, il tappeto, la lampada e i mobili, che ammassò alla rinfusa in cucina lasciandosi giusto lo spazio per cucinare. “Non è un po’ disordinato così?” “Non preoccupatevi, ragazzi…” Una volta sgomberata la stanza farla insonorizzare non richiese molto tempo. Ora quella sala era sempre vuota, e silenziosa, a tutte le ore del giorno.
Ma qualche giorno dopo iniziarono ad arrivare gli attrezzi per la saldatura e la sala degli ospiti di Luca iniziò ad assomigliare a un’officina. Telefonò a un paio di vecchi conoscenti. Si chiamavano Nicola e Antonio, facevano i meccanici ed erano stati molto amici di suo papà. Erano due personaggi incredibili e romantici, altissimi e robusti, cresciuti affondando le mani nei motori, abituati a tenere rapporti stretti coi clienti, abituati anche a considerare ogni macchina, ogni motore come qualcosa di speciale – di unico. La passione per la manualità Luca l’aveva presa in buona parte da loro. I due vennero in automobile portando tutto il necessario e lui li portò nella sala insonorizzata. “Lavoreremo qui” annunciò. Io, che di queste cose me ne intendo pochissimo, non saprei descrivervi tutto il processo nei dettagli – ma posso immaginare che dovettero scaldare l’acciaio e lavorarlo, avvitare un gran numero di bulloni, bere parecchio caffè mentre si davano il cambio. Il nylon e il poluretano arrivarono pochi giorni dopo e anche quelli furono lavorati sotto la stretta supervisione di Luca, a casa sua. Driiin… Driiin… “Pronto?” “Ciao Carlotta, come stai?” “Innanzitutto mi chiamo Lady Carlotta, poi malissimo, perché mi hai svegliato, viscido frammento di…” “Svegliato, non dire sciocchezze, tu non dormi mai. Volevo chiederti, ti va di passare da me sabato? Per cena? E stare a dormire magari? Mi ha fatto piacere l’ultima volta.” “Oddio, non ti starai innamorando di me?” “E come potrei evitarlo? Ma non è questo il motivo.” “Allora c’è un motivo.” “Non dire sciocchezze, non ho secondi fini. Alors… Vieni?” “Perché no?” “Bene.” Arrivò rilassata ed elegante come al solito. Quel giorno era vestita di blu. “Ciao Carlotta.” “Ciao Luke, mi fai entrare?” “Dopo… Prima ti faccio vedere una cosa.” “Ah sì? E che cosa?” “Vieni”, e si spinse giù dal pianerottolo. Ormai si era abituato alla sedia a rotelle, e si muoveva spedito, sciolto. Arrivarono alla porta del suo garage e lui estrasse il telecomando.
“Cielo, non vorrai regalarmi la tua auto.” “Già venduta. Cosa me ne facevo, scusa? No, guarda.” Premette il telecomando e la saracinesca si alzò. Si voltò, a guardare la rezione di Carlotta. Non ne fu deluso. Era rimasta a bocca aperta – gli occhi verdi sbarrati e le dita contratte. Fissava sbalordita la mongolfiera davanti a lei. “Oh Dio mio.” “Eh già.” “L’hai fatto davvero.” “Eh già.” “Tu sei un pazzo.” “Lo so.” “L’hai costruita tu?” “Non proprio” replicò mentre si spingeva verso di lei. “La gondola l’ho…” “La gondola?” “La parte su cui devono mettersi i passeggeri. L’ho disegnata, in modo da farci stare una sedia a rotelle – poi di fatto l’ha costruita un falegname. Il pallone non l’ho fatto io, ma ho sorvegliato molto da vicino come veniva.” “Il motore?” “Bruciatore, si chiama bruciatore. Il bruciatore è mio, anche se due vecchi amici mi hanno aiutato.” “Hai una mongolfiera in garage. Dio mio, quanto ti invidio.” La guardò e sorrise. “Ti va un giro?” Il bruciatore soffiava aria calda e il pallone si gonfiava sopra le loro teste. Lady Carlotta si guardava attorno inquieta. “Sei sicuro che questa cosa volerà?” “Questa cosa, mia cara, l’ho costruita io.” “Appunto.” “È ovvio che volerà.” “Sarà.” “Fidati.” “Sono un po’ scettica.” “Strano. Ecco!” “Ecco cosa?” e poi, con un sobbalzo, la mongolfiera si innalzò da terra. Lady Carlotta sbiancò d’un tratto e strinse le dita. Il pallone traballò… E volò. Con un ghigno animalesco, Luca rovesciò la testa all’indietro e scoppiò in una risata viscerale. “Posso volare!” Poi vide una sua vicina che stupefatta li guardava dal balcone. La salutò fingendo un ampio inchino. Prendevano quota velocemente; vide i tetti delle case diventare sempre più piccoli, e poi una folata di vento li tracinò lontani. Luca rise di nuovo.
“Luca…” “Sì?” “Sono certa che tu sia un eccellente ingegnere, ma sai pilotare uno di questi cosi?” “Non essere sciocca, Lady Carlotta, non c’è nulla da pilotare. Si può solo modificare la quota, poi saranno i venti a portarci di qua e di là.” “E… Come torniamo a casa?” “Beh, chiaramente con l’esperienza imparerò a identificare le correnti migliori e a capire dove farmi portare… Ma al momento, temo che atterreremo in un punto qualunque dell’entroterra lombardo.” “E da lì come torneremo a casa?” “Pago un uomo perché mi recuperi con un furgoncino.” “Sei serio?” “Temo di essere drammaticamente serio.” “Spenderai un sacco di soldi.” “Nulla che non possa recuperare lavorando tanto e bene.” “Sei un pazzo.” “Mi sembra che tu l’abbia già detto.” “Probabilmente è vero.” “Posso darti un consiglio?” “Taci e goditi il panorama?” “Taci e goditi il panorama.” “Sei prevedibile, a volte” disse, ma poi tacque. Sotto di loro si estendeva il Lago. Sulla sua superficie attraversata dalle scie dei battelli la luce del Sole si spandeva in spesse pennellate. Nei punti dove le Prealpi proiettavano la loro ombra l’acqua sembrava verde scura, dove il Sole riusciva a battere direttamente era di un azzurro cristallino. “Che bello.” “Sì.” Vagarono a lungo, trascinati dalle correnti. A un certo punto oltrepassarono il confine con la Svizzera e per un po’ fecero battute sul fatto che a breve li avrebbero fucilati, poi una corrente li risospinse in Italia. Verso sera mangiarono i panini che Luca aveva portato, e lui scaldò il thé nel fornellino. “Sei adorabile” lei gli disse sorseggiando, poi alzò gli occhi e si immobilizzò. “Luca” disse. “Quelle erano previste?” Lui si girò e tremò. “Oh, no.” Una massa di nubi nere correva verso di loro. Non fece in tempo a toccare la leva della quota, che il temporale li investì. Lampi. Il vento si fece gelido. La pioggia sferzò il voltò di Lady Carlotta e poi…
Poi un’indata di vento afferrò la mongolfiera e Luca si trovò sbattuto a terra mentre le ruote della sua sedia giravano all’impazzata. D’istinto Lady Carlotta si attaccò alle corde e urlò, ma la sua voce fu coperta da un tuono. La pioggia era sempre più fitta. “Perdi quota! Torniamo a terra!” urlò, ma non sentì la risposta di Luca. Si sdraiò a fianco dell’amico. “Torniamo a terra!” “Non possiamo! C’è il Lago sotto di noi!” E poi il vento li afferrò, fece roteare su se stessa la mongolfiera come una trottola, la alzò di scattò e poi sembrò ributtarli verso il basso – e poi non videro più nulla e si sentirono bagnati fino alle ossa. Erano entrati in una nube. Carlotta si guardò intorno, cercando di distinguere qualcosa nell’oscurità… E a un tratto a pochi metri da loro esplose un fulmine, e per alcuni istanti tutto fu perfettamente visibile; lei, Luca, la mongolfiera, e quel serpente di elettricità che passò accanto al pallone così vicino che ne sentirono il calore, accompagnato da un ruggito primordiale… Carlotta scoppiò a piangere. “Moriremo! Dio! Moriremo!” E poi Luca la afferrò. Si era avvicinato a lei strisciando. “Calma” disse, e la abbracciò. “Tranquilla, tranquilla, ora sistemo tutto, guarda…” Lei continuò a singhiozzare mentre lui scivolava verso la manopola della pressione. Un altro lampo esplose sopra di lui. Sogghignò. Prometeico. Un uomo contro il cielo. Solo che Prometeo era un titano e non era storpio. Sogghignò più forte. “E sia!” urlò mentre avanzava, afferrava la manovella e iniziava a girarla. Non potevano scendere, certo… Ma sarebbero saliti. Il vento urlava più forte mano a mano che si innalzavano. Carlotta gridava. La pioggia prese a battere più forte sul suo viso. Le sue dita si contrassero e si fecero livide mentre girava la manovella. La pioggia batteva più forte, sempre più forte, così forte da accecarlo, ora… E poi non ci fu più pioggia né rumore. Carlotta alzò la testa stupefatta, mentre Luca si abbandonava contro la gondola, senza più fiato. Erano al di sopra delle nubi. Sotto di loro il temporale rumoreggiava minaccioso, la sua massa nera attraversata dai lampi. Ma loro erano sospesi nell’aria fresca, pulita, e sopra di loro il cielo era punteggiato di stelle. Ovviamente le coperte erano intirizzite, quindi dormirono male e al freddo. Ma quando si svegliarono l’aurora aveva tinto di una marea di colori il cielo attorno a loro, e respirarono a pieni polmoni l’aria di lassù. “Grazie di avermi salvato la vita ieri sera” disse Carlotta “ma la prossima volta guarda prima le previsioni del tempo, ok?” “Ok” disse lui mentre si issava sulla sedia a rotelle. “Speriamo che non si sia danneggiat…” E in quel momento una delle ruote scivolò sul tessuto bagnato e lui si trovò sbalzato all’indietro, attaccato alla sua sedia, e urlò mentre sfondava il parapetto e volava nel vuoto. Per alcuni istanti si trovò a testa in giù e non capì più nulla di ciò che aveva
attorno – e quando si riprese, era aggrappato alla mongolfiera con tutta la sua forza, e la sua sedia stava precipitando verso il suolo. Di lì a poco, presumibilmente, avrebbe distrutto la macchina di Davide Grimaldi. Furono a casa di lì a qualche ora. “Beh” disse Lady Carlotta “vorrei rimanere, a cena, ma…” “Tranquilla” disse lui. Si guardarono. Poi, del tutto inaspettatamente, il mezzo sorriso di Carlotta si sciolse e si aprì in un grande sorriso infantile, e lei si piegò e lo baciò. Si staccarono dopo un censurabile minuto in cui l’uomo che li aveva riportati si guardò i piedi con tutta l’innocenza di cui era capace. “Stammi bene” disse poi lei salendo in macchina. Lui le fece l’occhiolino. Da allora Luca iniziò a prendere lezioni da un pilota, e per pagare il tutto lavorò parecchio. Una notte, si svegliò alle quattro, tremante. Gli capitava sempre meno spesso, però gli capitava ancora. Ripensò a quella nottata con Carlotta – non tanto al momento del bacio, quanto a quello in cui aveva sfidato la tempesta. Non quello in cui erano usciti dalle nubi, no, proprio quello in cui aveva intuito cosa fare – quello in cui il fulmine gli era passato accanto… Sovrappensiero, salì sulla sedia a rotelle, e uscì. In giardino ripensò ancora a quel momento. Come si era sentito vivo, in quel momento. Molto più di ora. Ovvio si disse l’adrenalina. Ma non era stato solo quello. Era stato, piuttosto, il senso… Il senso di essere di fronte alla morte. E all’improvviso gli tornò addosso il pensiero di quanto pesante e stupida gli paresse la sua vita. Cosa aveva creduto? Che un paio di giorni d’avventura fossero bastati a ridare un senso alla sua esistenza? Che idiota. E senza sapere bene perché, salì, ancora in pigiama, sulla sua mongolfiera. Volò un po’ nei dintorni, poi iniziò a perdere quota. Si sentiva stranamente calmo. Che senso aveva tutto? Ancora non lo sapeva. Gli tornarono in mente le parole di Carlotta, devi andare un po’ oltre queste logiche, mio caro. Certo, era vero, se c’era una felicità, un senso, sicuramente… …la mongolfiera toccò terra… …sicuramente stava al di là di tutto il piccolo mondo che si era costruito, però… Però c’era davvero qualcosa al di là della sua mediocrità? Si accorse che la terra vibrava leggermente. Forse non c’era nulla. Forse… Forse se tutti, come diceva Carlotta, rincorrevano obiettivi stupidi, e futili, e limitanti, forse era solo per nascondersi la verità. E forse la
verità non era che ‘contano la creatività, la gioia, la tristezza, l’inventiva e la pazzia necessaria a inventarci un senso per il mondo’, ma era solo… …il vuoto? Il non senso, il nulla… Pensò a quali abissi vuoti stavano attorno alla Terra, appena fuori dalla sua atmosfera. Immensi, anzi, infiniti abissi di nulla, di nulla… E in quel momento capiì dov’era atterrato. Era atterrato sui binari del treno. E il terreno tremava perché un treno stava arrivando. Guardò le luci che si avvicinavano. Il nulla… Non c’è niente che abbia senso, forse… Ma se sopravvivo ci sarà sempre la possibilità di vedere un altro tramonto un’altra aurora di respirare ancora l’aria di lassù di ubriacarmi un’altra volta… Si però cosa vuol dire la mia vita… Il treno avanzava verso di lui… Beh magari lo scoprirò magari no… Si però probabilmente non vuol dire niente… Magari mi bacerà di nuovo… Si, come no… Ah, al diavolo. E si mosse di scatto, afferrò la leva e spinse. Con un sussulto si staccò da terra e sorrise mentre il treno gli passava sotto. Sorrise principalmente perché pensava alla faccia che doveva aver fatto il macchinista, vedendosi passare davanti un uomo senza gambe in mongolfiera. Che cosa poi ne sia stato di Luca, sinceramente non lo so, ma immagino sia compito del lettore immaginarlo, dato che le storie hanno questa sgradevole abitudine di non dir mai che fine han poi fatto i loro protagonisti, oppure di farli morire. Lady Carlotta in ogni caso non lo baciò più. -FINEConclusi la lettura e mi gettai subito a scrivere. Caduta e rinascita! Proprio il tipo di storia che piaceva a me. Quand’ebbi finito di scrivere, cioè tre minuti fa, mi sentivo soddisfatto e svuotato, e un po’ triste, come sempre dopo un lungo lavoro. Beh, non so se sia venuto bene o no; immagino valuterete voi. Io, nel frattempo, ho una cartella piena di storie da sviscerare.
NOTE A MARGINE DI LADY CARLOTTA:
tutto bello, tutto bene, ma IO DI ANNI NE HO TRENTOTTO! Come si permette quest’idiota di definirmi come ‘Sulla cinquantina’? Per l’amor del cielo, qualcuno lo sopprima.