Donato Faruolo (RD1)

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ACCETTURA / STUPINIGI RITO ARBOREO / ARTE RELAZIONALE

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COMUNITÀ RADICALI



ABADIR Accademia di Design e Arti Visive RELATIONAL DESIGN 2014 – 2015

tesi di Donato Faruolo relatrice Rebecca De Marchi | Eco e Narciso


Italo Calvino Il bosco sull’autostrada Marcovaldo, ovvero Le stagioni in città

«Camminavano per la città illuminata dai lampioni, e non vedevano che case: di boschi, neanche l’ombra. Incontravano qualche raro passante, ma non osavano chiedergli dov’era un bosco. Così giunsero dove finivano le case della città e la strada diventava un’autostrada. Ai lati dell’autostrada, i bambini videro il bosco: una folta vegetazione di strani alberi copriva la vista della pianura. Avevano i tronchi fini fini, diritti o obliqui; e chiome piatte e estese, dalle più strane forme e dai più strani colori, quando un’auto passando le illuminava coi fanali. Rami a forma di dentifricio, di faccia, di formaggio, di mano, di rasoio, di bottiglia, di mucca, di pneumatico, costellati da un fogliame di lettere dell’alfabeto. Evviva! – disse Michelino – questo è il bosco! E i fratelli guardavano incantati la luna spuntare tra quelle strane ombre.»


INDICE 9 17 19 29 33 37 41 47 53 59

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1. Riti arborei Studi, casi, paradigmi 2. Accettura Patrimonio, diaspora, gravitazione 3. Il Maggio di Accettura Rito, codice, comunità 4. Il Maggio ad Accettura Il caso, il culto, il simbolo 5. Riti arborei e storytelling Esperienza, eterno, autentico 6. Riti arborei e domanda culturale Economia globale, metropoli, periferia 7. Riti arborei e cultura contemporanea Performance, arte pubblica, arte relazionale 8. Forma e etica Fare, significare, coltivare 9. Emilio Fantin, Maria Lai, Bianco-Valente Immagini inadempienti, periferia, comunità 10. Agnes Denes, Claudio Abbado, Friedensreich Hundertwasser Milano, metropoli e nostalgie biologiche intorno all’Expo 2015 11. Joseph Beuys, Giuseppe Penone, Regina José Galindo Eroico, monumentale, politico 12. Marina Abramovic Antropologia, ritualizzazione, performance 13. Gabrielli e Migliora, Caretto e Spagna, Anna Scalfi Eghenter Azioni contemporanee nel parco di Stupinigi. Il poetico e il funzionale 14. Il Parco e la Palazzina di Caccia di Stupinigi Vocazioni territoriali. Arboreo, pubblico, relazionale

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Jean-Jacques Rousseau Lettera a d’Alambert sugli Spettacoli

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«Prendete un palo adorno di fiori in mezzo a una piazza, riunitevi intorno il popolo e avrete una festa. Ancor meglio: offrite gli spettatori come spettacolo, fateli attori essi stessi, fate che ciascuno si veda e si ami negli altri, affinché tutti siano più uniti.»


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L’interesse per lo studio dei culti arborei comincia sul finire del xix secolo con la definizione dell’antropologia come disciplina di studio sistematico. La ragione di questi interessi è generalmente messa in connessione con due fattori: la problematizzazione del fenomeno del colonialismo, con il tentativo di ripensare la posizione dell’uomo occidentale nell’ambito delle culture mondiali, e il massiccio inurbamento conseguente alle rivoluzioni industriali, con la nascita della metropoli e il sorgere di una spaccatura insanabile tra vita delle città e biologia naturale. Di qui l’interesse per lo studio delle nicchie culturali non ancora coattivamente sincronizzate dalle macchine, quindi l’interesse per lo studio di quelle comunità la cui aggregazione sia legata alla celebrazione in varia forma dei ritmi naturali. Imprescindibile in tal senso è l’opera di Edward Burnett Taylor. Considerato uno dei padri dell’antropologia moderna, nell’Inghilterra vittoriana del 1871 pubblica Primitive Culture 1, delineando già chiaramente alcuni concetti chiave fondamentali per la lettura dei riti arborei. Per Burnett Taylor il sentimento religioso primordiale sorge dalla necessità dell’uomo di elaborare una spiegazione per fenomeni come il sonno, il sogno o la morte. Il concetto di anima è il naturale approdo cognitivo che ne consegue: l’uomo elabora l’idea di una sorta di dispositivo aereo in grado di trasmigrare di corpo in corpo – dall’umano all’animale, dal vegetale all’inorganico – conferendo vita a un’entità che si lascia abitare dallo spirito. Di pochi anni successivi è l’opera di Wilhelm Mannhardt che nel 1877 pubblica Antichi culti dei boschi e dei campi 2. Mannhardt, impegnato negli studi delle religiosità primordiali in ambito germanico, applica il concetto di animismo alle pratiche e ai rituali dell’agricoltura. In questa attività posta a fondamento delle comunità, l’uomo acquisisce il ruolo di custode dello spirito della natura, di quel fattore, cioè, che è in grado di attraversare le stagioni invernali in latenza per poi rigenerare la vegetazione al successivo ciclo germinativo. Tale auspicio si verifica, però, solo a patto che l’uomo osservi quella serie di prescrizioni e di riti che consentono al patrimonio genetico di attraversare indenne l’intero ciclo tra una semina e l’altra. L’agricoltura quindi, perpetuando per artificio, per costruzione culturale, 9

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1. RITI ARBOREI STUDI, CASI, PARADIGMI


il rinnovarsi della vita, assicura la sopravvivenza dell’uomo. Tramandare il rito vuol dire entrare in sintonia con le forze che animano la natura, ma anche – in senso tecnico – assicurare la continuità della propria comunità. La posta in ballo è quindi altissima. È l’antropologo James Frazer con il suo Il ramo d’oro 3, pubblicato in via definitiva nel 1922, a tracciare per primo un’anatomia dei riti arborei. La sua indagine, compiuta per ampie comparazioni, prende le mosse dal mito del re del bosco di Nemi: si tratta di una leggendaria narrazione a proposito di una figura sacerdotale proto-religiosa che impersona lo spirito della vegetazione e vive nel fitto della foresta laziale fino al momento in cui il centro della religione istituzionalizzata non si trasferisce a Roma. La carica del re del bosco era assunta attraverso un unico canale: l’uccisione del re dei boschi in carica. Frazer attribuisce al culto degli alberi un ruolo rilevante nella formulazione delle religiosità primordiali: «Nella storia religiosa della razza ariana in Europa, il culto degli alberi ha avuto un ruolo di primo piano. Nulla di più naturale. Agli albori della storia, infatti, l’Europa era ammantata di gigantesche foreste primordiali, le cui poche radure dovevano apparire come isolotti in un oceano di verde» 4. Nei lucus, le radure in mezzo a sconfinate estensioni boschive, gli alberi venivano adorati in quanto veicoli di un’anima abitante e disgiunta. La morte, come il sonno e ogni stato di incoscienza momentanea, è per l’uomo la prova di una non sovrapponibilità tra corpo e anima. Così l’albero diventa il corpo potenziale di uno spirito in transizione. Le facoltà umane di agire magicamente attraverso la natura possono passare quindi, per principio di similitudine o osmosi, attraverso la manipolazione rituale di un albero quale rappresentante semantico delle forze vitali, vegetali e non. Agire magicamente sull’albero vuol dire avere facoltà di influsso sugli eventi atmosferici, sul raccolto, sugli allevamenti, sulla fertilità delle donne. Frazer individua e compara riti arborei con estrema libertà alla ricerca di un principio fondamentale di comune ispirazione: gli Irochesi del nord America, i Wanika africani, i monaci Siam, gli Slavi in Corinzia. Questi ultimi, ad esempio, per il 23 aprile, giorno di San Giorgio, avevano la tradizione di produrre un rito in cui si confondevano i confini tra umano e vegetale. I giovani ornavano con fiori e ghirlande un albero abbattuto la sera prima, per poi portarlo in parata. Il protagonista di tale parata era un ragazzo completamente rivestito di rami di betulla: si trattava del Verde Giorgio. Terminato il corteo, si produceva un fantoccio delle sue stesse proporzioni da gettare 10


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in acqua. Prima che avesse luogo il lancio in acqua il ragazzo doveva però avere l’abilità di trarsi d’impaccio dal proprio travestimento vegetale per sostituire a se stesso il fantoccio senza che nessuno dei partecipanti al corteo se ne avvedesse. In alcune zone è il ragazzo stesso vestito di fronde a essere immerso in acqua per propiziare la pioggia e scongiurare la siccità. In altre zone ancora il Verde Giorgio è impersonato da animali portati in corteo ornati di foglie: «portiamo Verde Giorgio, accompagniamo Verde Giorgio. Che nutra bene i nostri armenti, altrimenti finisca in acqua» 4. In Sassonia e in Turingia si svolgeva un rito celebrativo della Pentecoste che veniva identificato con l’azione di stanare il Selvaggio dalle fratte, o portare fuori il Selvaggio dal bosco: un giovane rivestito di foglie e muschio si nascondeva nel bosco per poi divenire obiettivo di una ricerca da parte degli altri giovani. Scovato il Selvaggio, veniva sparato con fucili caricati a salve. Il Selvaggio schiantava al suolo, ma resuscitava allorché un medico gli produceva un salasso curativo. Veniva poi legato a un carro, portato in paese e mostrato agli abitanti in cambio di doni. A Palisse, in Francia, si impasta un omino di pane da appendere a un abete. L’albero viene poi portato a casa del sindaco, cui si lascia in custodia fino alla vendemmia. Terminato tale periodo, il sindaco distribuisce pezzi dell’omino di pane ai partecipanti perché ne mangino. In molti paesi del nord Europa è presente un rituale pentecostale legato alla rinascita primaverile in cui si congiungono due fusti: una parte maschile e una parte femminile, un re e una regina di Maggio. È questo il rito che descrive con maggiore evidenza, mediante la ritualizzazione di un atto sessuale, la volontà della comunità di produrre una fecondità indotta nella natura. Il nome stesso del Maggio deriverebbe dalla coincidenza con il mese della rinascita per eccellenza. Per altri, invece, potrebbe derivare dalla parola latina major, in riferimento al fatto che l’albero eletto re dei boschi è in ogni caso il migliore, il più grande o il più rappresentativo degli alberi della foresta. Così descritto, il rituale del Maggio del nord Europa è sorprendentemente vicino a molti rituali ancora attivi in Italia, in particolare in Basilicata, nei paesi di Oliveto Lucano, Pietrapertosa e, prima su tutte, Accettura. Prima di indagare con maggiore accuratezza il caso esemplare del Maggio di Accettura, conviene accennare ad altri rituali arborei esclusi dalle cernite di James Frazer. Per il peculiare ambito fluviale in cui avviene, citiamo un rituale riportato da Arnold val Geneep, nel suo Manuel de Folklore français contem-


porain 5. Nelle regioni dell’Alsazia, della Lorena e della Provenza esistono numerosi riti che prevedono il taglio di un albero da innalzare in paese. Il caso della Festa dei Marinai di Moissac – che invece ha luogo nel dipartimento di Tarn-et-Garonne – è testimoniato almeno fino al 1935 e si svolgeva nei giorni di sabato, domenica e lunedì di Pentecoste. Il sabato avveniva il taglio dell’albero in un bosco di querce a opera dei marinai. Veniva tagliata via la chioma e decorato con fiori, ghirlande e bandiere. Era condotto da tre coppie di buoi fino al porto, dove veniva innalzato sul molo. In Italia i riti arborei sono molteplici, da nord a sud, in località montane e costiere, di ascendenza antica o contemporanea. In Sicilia, a Terrasini, il rituale dell’albero è chiamata Antenna di mare. L’albero è insaponato e piantato in mare con dei premi legati in cima. Chi non riesce a scalarlo cade in acqua. Esiste anche il rituale degli schitti, ossia degli scapoli, che consiste in una prova di sollevamento, tra uomini celibi e sposati, di un tronco di arancio amaro addobbato e benedetto. L’esito della prova determinerà la facoltà di un pretendente di sposare una donna. In Calabria, sul Pollino, ad Alessadria del Carretto, il rito ha per scopo la congiunzione tra un abete e un cimale. In Campania il rituale è chiamato Maio, e si svolge a Baiano, a Quadrelle e a Sirigliano. Si svolge per la festività di sant’Antonio Abbate, e prevede l’abbattimento, il trasporto (talvolta meccanizzato), l’innalzamento in paese e la vendita all’asta del fusto rituale. In Lazio il Maggio coincide con la Festa della Croce, legata a miracoli di sant’Elena in protezione delle mandrie. Tra il 30 aprile e il 1 maggio un albero dritto viene sormontato da una ginestra e cosparso con una sostanza preparata con fichi d’india, sapone e brodo. A Vetralla lo sposalizio dell’albero celebra una conquista territoriale ai danni dei viterbesi. Lo sposo è chiamato Antico Carro, la sposa è la giovane quercia. Fondamentali sono una funzione religiosa da svolgere nel bosco a presidio del territorio e la celebrazione del matrimonio di fronte alla chiesa di sant’Angelo con tanto di distribuzione dei confetti. In Umbria, a Castel Giorgio, la Festa del Maggio risente molto dell’ibridazione con il Maggio giacobino, sebbene la festa sia testimoniata fin dal 1624. Si svolge in onore di san Pancrazio, e ruota sostanzialmente intorno a un albero della cuccagna. A Isola Fossara, frazione di Scheggia, la festa si svolge per sant’Antonio. L’albero è un faggio, e tra Maggio e Cima c’è un terzo elemento, la Giunta. Si è persa, invece, l’usanza della scalata al culmine della festa. In Lombardia, a Gottolengo, la festa è una riproposizione contemporanea dell’albero giacobino. Si ce12


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lebra dal 1948, in occasione dell’affermazione in paese del pci, e il nome del Maggio fa riferimento al mese della festa dei lavoratori. A Leno il rito arboreo è essenzialmente civile: gli alberi non si abbattono ma si piantano, ed è svolto in massima parte per i bambini. A Ponte Nossa il rito si chiama Ol Mas, e fa diretto riferimento ai procedurali descritti da Frazer. In Liguria, a Bajardo, l’albero è issato la domenica di Pentecoste. Si tratta di un pino intorno al quale si svolgono dei girotondi. Il giorno successivo l’albero si smantella e viene venduto all’asta. In Basilicata, oltre ai citati riti del Maggio di Pietrapertosa e di Oliveto Lucano, e oltre a quello di Accettura che tratteremo ampiamente in seguito, esiste il rituale della ’Ndenna (antenna) a Castelsaraceno, e i rituali del Pitu e della Rocca sul Pollino, a Rotonda e Viggianello.


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James George Frazer Il ramo d’oro

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«Se gli alberi sono dunque animati essi sono anche necessariamente sensibili, e il tagliarli diventa una delicata operazione chirurgica che dev’essere eseguita con i più delicati riguardi possibili per le sensazioni del paziente, che altrimenti potrebbe farla pagare al trascurato o incapace operatore. Quando si abbatte una quercia, essa emette delle strida o dei lamenti, che si possono udire lontano un miglio, come se il genio della quercia si lamentasse. Il signor E. Wyld li ha sentiti parecchie volte.»


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Lo stemma della Basilicata riporta quattro onde azzurre su campo argento a rappresentare i quattro fiumi della regione nel loro digradare verso lo Jonio: Bradano, Basento, Agri, Sinni. Tra questi quattro fiumi corrono paralleli i crinali, le spine dorsali delle relazioni territoriali su cui sorgono le civite, i primi insediamenti, i paesi dalle origini più antiche. Lungo queste direttrici si segnano percorsi nobili come la via Appia, i tratturi regi e le prime strade statali. Su per il letto di questi quattro fiumi, invece, risalgono le moderne arterie a percorrenza veloce, i cui plinti sono talvolta scalzati dal lento lavorio dei fiumi che «scorrono lenti come fiumi di polvere» 6: la Sinnica, la fondovalle dell’Agri, la Basentana, la Bradanica. Nessuna di queste vie conduce ad Accettura. Piccolo paese di meno di duemila abitanti, posto in uno dei luoghi più inaccessibili di una delle regioni più impenetrabili d’Italia, è incastrato sulla sommità di una complicata propaggine dell’Appennino, in una zona interna incrostata di boschi antichissimi, ultima memoria di quel lucus, il bosco sacro, da cui per suggestione si vuole far discendere il nome della Lucania. La valle su cui guarda, invece, è scavata da un fiume minore che suona di greco antico, il Calandra. Sfocia in mare, qualche decina di chilometri più a est, senza entrare in comunicazione con le valli maggiori. Si potrebbe pensare che si tratti di un paese refrattario alle aperture, al viaggio, alla comunicazione. Invece, come spesso accade nell’avvicendamento delle epoche, la Accettura di oggi trae valore dalle condanne di ieri. La sua impenetrabilità ha concesso, o semplicemente obbligato, l’astensione dalle più banali ricette di importazione delle modernità, costringendo la popolazione a una feroce migrazione. Fu troppo impervia per la Riforma Fondiaria, che altrove ha disgregato i latifondi senza offrire sostentamento alle famiglie contadine. Era troppo lontana dagli interessi delle città capoluogo per ricevere riflessi delle speculazioni edilizie. Era troppo distante dalle vie di comunicazione per beneficiare dell’uovo di Emilio Colombo: il metano, la strada, poi i fondi pubblici e infine l’impianto di industrie in ogni centro abitato, a partire dalla chimica. Restano oggi, di quei progetti, distese di capannoni spesso abbandonati, a volte mai 17

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2. ACCETTURA PATRIMONIO, DIASPORA, GRAVITAZIONE


avviati, viadotti marci, una pista aeroportuale tartara e inquietanti focolai di inquinamento. Resta anche, in realtà, un’ultima istanza di modernità che, scaduti i tempi della lusinga, si fa strada con il ricatto: le istanze di ricerca di idrocarburi nei territori di (a oggi) 93 comuni lucani. Accettura, questa volta, suo malgrado non scampa a modernità non ristoratrice. Ad Accettura l’emigrazione non è mai stata un’opzione. Maggiore l’isolamento, più connaturata l’idea del viaggio, non per volontà di esplorazione, ma per necessità stringente, inderogabile, di sopravvivenza. Gli accetturesi nel mondo sono più di quelli residenti in paese. Sulle pagine Facebook dedicate ad Accettura i commenti sono tutti modulati nel registro della memoria, individuale o collettiva: qualcuno riconosce uno scorcio che non vede da anni, qualcuno saluta i parenti da lontano, qualcuno esprime il desiderio di tornare, qualcun altro vorrebbe vedere per la prima volta il paese che anima i racconti dei nonni. Esiste addirittura un sito internet in cui è possibile, ventiquattr’ore su ventiquattro, dare un’occhiata a cosa accade in paese tramite due webcam. Accettura, come tutte le isole, è un paese estroflesso. Ed è tenuto al riparo dalle derive grazie a uno spillo piantato nella crosta terreste, un totem, un campanile, una radice, un’antenna, un’asse di rotazione, un palo, un albero: il Maggio.

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Per non rischiare di porre disordine muovendosi nell’ombra dei segni divini, il rituale del Maggio di Accettura necessita di una rigida codificazione cui hanno contribuito una primordiale connessione con le forze naturali, una perenne predisposizione al sincretismo culturale, il profondo timore reverenziale mischiato alla beffarda accondiscendenza esteriore per le liturgie del Cristianesimo, le irrinunciabili contingenze storiche, sociali ed economiche e non ultimi il buonsenso collettivo e le furiose liti in pubblica piazza. Resta in ogni caso uno dei più puri e complessi riti arborei ancora praticati in Italia e in Europa, accordato ogni anno da un medesimo senso della misura, del ritmo, del limite, del sacro, cui ancora oggi, pur per mutate ragioni, nessuno sente di poter derogare. Per la definizione del calendario del rituale il riferimento è offerto dalle feste cristiane successive alla Pasqua, che a loro volta non sono regolate dalla pura convenzione gregoriana – come accade per Capodanno o Natale – ma si legano al corso delle lune, delle stagioni, della natura. Si comincia la domenica in Albis, sette giorni dopo Pasqua, sette giorni dopo la resurrezione di Cristo, ossia sette giorni dopo la prima domenica successiva alla prima luna piena di primavera. È il giorno comandato per la scelta del Maggio. Dalle vie di Accettura parte la prima spedizione in direzione del bosco di Montepiano, a sette chilometri di distanza sul crinale a sud del paese. È questa la foresta di elezione in cui viene scelto ogni anno il più dritto dei fusti di cerro, che dovrà avere un’altezza di circa ventisette metri. Non si farà altro in questa giornata. Compiuta la scelta, la carovana dei delegati tornerà in paese e aspetterà il giorno del taglio. Sette giorni dopo, trascorse due settimane dalla Pasqua, la spedizione da Accettura prende di buon mattino la strada nella direzione opposta, verso il crinale a nord del paese, verso il Parco di Gallipoli Cognato. Tra questi alberi avverrà la scelta della Cima. Si tratterà di un agrifoglio di circa otto metri di altezza, dalla chioma regolare e dalla forma equilibrata. Si narra che un tempo gli agrifogli fossero disponibili a breve distanza dal paese, ma a seguito del progressivo arretramento dei boschi – una delle principali fonti di sostentamento della popolazione locale – è

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3. IL MAGGIO DI ACCETTURA RITO, CODICE, COMUNITÀ


diventato necessario percorrere anche più di dieci chilometri per approvvigionarsi di una degna Cima per la festa. Anche per quanto riguarda questa giornata, sarà sufficiente poter portare in paese la notizia che la sposa del Maggio è stata individuata. A quaranta giorni dalla Pasqua, giorno dell’Ascensione di Cristo, pacificati i dissensi e le discussioni sulla scelta del cerro e dell’agrifoglio, il paese si muove ancora una volta in direzione del bosco di Montepiano, incontro al designato “re dei boschi”. Si celebra quindi una messa all’aperto per accordarsi col divino, o forse solo per fornire una cornice liturgica alle ragioni di un sospettissimo consesso plenario nei boschi. Dopo la messa, è il solenne momento del taglio, operato con asce e funi di sicurezza e con il concorso di tutti gli uomini presenti, visitatori compresi. In questa operazione coincidono sacrificio e glorificazione. L’onore della designazione comporta la morte dell’albero, ma il suo sacrificio è ragione della sua sacralizzazione, che propizierà la rinascita primaverile dell’intero ecosistema. Racconta Giovanni Battista Bronzini che il taglio del 1971 comportò anche la morte di un cane, che rimase schiacciato sotto il tronco abbattuto. Ma nessun evento può turbare il cerimoniale, così qualsiasi cosa accada durante il suo svolgimento è destinata a cadere nell’irrilevanza o ad assurgere all’ipersignificazione rituale: così l’accidentale uccisione di un animale, essendo una manifesta turbativa delle leggi della natura su cui si sta operando, divenne immediatamente «un sacrificio, riparatore del sacrificio che si commette tagliando l’albero» 7. Essendo il bosco una risorsa demaniale, comunitaria, il cui sfruttamento e la cui preservazione sono affidati alla legge di tutti e al buonsenso di ognuno, il rituale del Maggio segna il destino di un’intera comunità, la circoscrive intorno alla condivisione di una risorsa che in alcuni frangenti della storia, più che un’opzione, è stata l’unica possibilità di sopravvivenza: l’abbattimento del Maggio e il successivo rituale tenteranno di propiziare la salvezza del bosco e dell’intero paese. Erigere l’albero in piazza significherà affermare di esserci, definirsi come comunità, contarsi, sfidarsi e provarsi come nucleo cooperante, fingere la certezza che le risorse naturali su sui si fonda l’economia del paese saranno assicurate per un anno ancora, inscenando la loro rigenerazione coatta nei segni di un magico non occulto, ma da indovinare. Per lungo tempo lo sfruttamento dei boschi è stato tra l’altro il solo sostentamento di Accettura: pascoli, legna da ardere, poi traversine delle ferrovie dall’unità d’Italia e per 20


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tutti gli anni ’70, per quelle stesse ferrovie che ad Accettura non arrivano, né tantomeno a Matera, e che molti accetturesi non avranno mai visto in vita loro. Per uno strano caso, quel rito arboreo, che una volta santificava la forza naturale, anche con il decadimento di un certo pensiero magico continua a santificare la fonte di un guadagno che viene da troppo lontano per esser compreso. Alla concitazione del momento del taglio segue una pausa: gli uomini tornano alle loro case abbandonando il corpo sacrificale del cerro a riposare per ancora dieci giorni nell’ombra della foresta. Giunge quindi il sabato della Pentecoste, quarantanovesimo giorno dopo Pasqua. Dopo esser stato sfrondato e decorticato sommariamente, è questo il momento giusto per il Maggio per dare il via all’esbosco. Solo il giorno successivo verrà trascinato in paese: per il momento è sufficiente che l’albero abbandoni il fitto della vegetazione. Il tronco, insieme ad altri tronchi più piccoli di utilità logistica, viene trascinato da coppie di buoi che ad Accettura vengono allevati al solo fine di portare a compimento questo trasporto speciale una volta l’anno. Anche l’ordine delle coppie di buoi è ragione di discussione: a capo della parata saranno collocate le bestie più grandi e in forze, procurando onore al loro proprietario. Negli slarghi erbosi ci saranno canti e balli, e le donne offriranno ristoro con taralli, vino, focacce e dolci. In serata la festa prevede lo svolgimento di alcuni spettacoli di natura puramente civile. È quindi la domenica di Pentecoste, cinquantesimo giorno dopo Pasqua. Una delegazione di giovani si muove dal paese in direzione del bosco di Gallipoli Cognato per il prelievo della Cima: il più regolare degli agrifogli, spinoso e sempreverde, “la regina” dei boschi, sarà tagliato e immediatamente portato a spalla verso il luogo dell’appuntamento con il suo re, il Maggio. Non prima, però, della celebrazione di una messa in contrada San Nicola. Dal bosco di Montepiano comincia contestualmente la marcia del Maggio verso il paese, trascinato dalle coppie di buoi. Trascinare il tronco a ritroso verso il paese per molti chilometri è un’operazione estremamente faticosa che viene compiuta come la più essenziale delle impellenze. Il reciproco controllo sociale, la necessità di conquistare una posizione di merito, la prova di forza o di ingegno sono senza dubbio tra gli elementi che convincono gli accetturesi a investirvi energie, ma è pur vero che tutte queste ragioni propulsive dell’iniziativa di ognuno hanno radice nel riconoscimento di un valore che non è collocato nella competizione, bensì nel concorso collettivo allo scopo. Non esistono spettatori passivi: anche il turista, il curioso, lo studioso, il forestiero, l’emigrante


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Giuseppe Filardi Appunti per la storia di Accettura

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«Il bosco è la principale forma di sussistenza (legna da ardere, fare travi e “spole” per le coperture delle abitazioni, fare mobili, fare “traverse” per la ferrovia, pascolo). I boschi hanno rappresentato un punto di riferimento fondamentale nella cultura tradizionale e nella economia della Basilicata. Nel bosco, luogo di lavoro, gli alberi sono quasi “allevati” come il contadino fa con il grano; niente pertanto ci impedisce di supporre dei cerimoniali esercitati su e con gli alberi prima di abbatterli.»


sono chiamati a offrire un contributo alla causa, polverizzando la distanza tra la scena e la platea. Durante la giornata si celebreranno ancora tre messe: una al bosco Tammone, altre due nella chiesa di San Nicola. Nel pomeriggio, invece, la Cima giunge in paese e viene eretta in piazzetta Sant’Antonio. In attesa del Maggio, si svolgono canti e balli, e la consueta distruzione di cibo tradizionale. Il Maggio, prima di fare il suo ingresso tra le strette vie del paese, viene girato in uno slargo per procedere con la sommità rivolta in avanti. Ancora poche centinaia di metri, e in piazzetta Sant’Antonio avviene l’incontro con la Cima. Da qui, Maggio e Cima procederanno insieme in un solenne corteo come due sposi verso l’altare. Giunti in largo San Vito, la Cima viene appesa al balcone di un palazzo, mentre il Maggio e gli altri tronchi vengono adagiati a terra. La serata termina con ulteriori spettacoli civili. È il lunedì successivo alla domenica di Pentecoste. Il climax impone un’intensificarsi della solennità delle liturgie cristiane e delle faticose operazioni di preparazione al matrimonio del Maggio. La giornata si apre con una messa in largo San Vito, che darà l’inizio alle lavorazioni sul tronco di cerro. Verrà levigato con cura, mentre altri provvederanno allo “scasso” della superficie stradale per procurare una profonda buca in cui verrà piantato. In mattinata convergono sul luogo, in processione da contrada Valdienne, le anziane con l’effige dei Santi Giovanni e Paolo portata appositamente dalla cappella fuori dal paese in cui è custodita. A loro è affidato il compito di proteggere la festa dal pericolo della pioggia. In serata invece si svolge la processione del San Giulianicchio, una miniatura della scultura di San Giuliano posizionata su una struttura di volute lignee dorate. In paese gli anziani si danno spiegazioni contrastanti sul suo ruolo. Alcuni gli attribuiscono parentele con il maggiore San Giuliano, per alcuni è un nipote, per altri è lo stesso San Giuliano in più giovane età. Nessuno sembra tributare alla questione un ruolo efficace, è sufficiente assolvere la manifestazione di rispetto, la reiterazione della liturgia. Ben più grave sarebbe, invece, contravvenire alla tradizione del Maggio per come è stata tramandata dagli antichi. Il Maggio non è ancora congiunto alla Cima né tantomeno innalzato, e la serata si conclude con fuochi pirotecnici e consueti spettacoli civili. Martedì, cinquantadue giorni dopo Pasqua. È il culmine della festa. L’intero paese è stremato dai preparativi e in fibrillazione per il giorno più importante dell’anno. Si punta tutto sull’esito di questa giornata, che sia in gioco il destino delle attività di sussistenza legate alla buona 24


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disposizione delle forze naturali – come doveva apparire in tempi ancestrali – o che sia invece in gioco lo spettacolo globale della riattualizzazione della propria identità di accetturesi. È ancora una messa, alle sette di mattina, ad aprire la giornata in largo San Vito. Il Maggio è ormai levigato, e lo scasso nello slargo è stato praticato. I tronchi minori che erano stati trasportati in paese insieme al Maggio sono fissati nella buca. Insieme a una ruota e a delle corde, costituiranno l’argano con cui il tronco di cerro verrà issato in posizione verticale. Un giovane si arrampica sul balcone del palazzo a cui è stato appeso l’agrifoglio. Lo libera dai vincoli in modo che possa essere condotto al congiungimento con il cerro. Re e Regina, Maggio e Cima verranno finalmente innestati. Principio maschile e femminile si incontrano, inscenando una fecondazione, un’attivazione delle facoltà naturali che in primavera mostrano i propri effetti rigenerativi, muovono il misterioso avvicendarsi delle stagioni e il catartico rigermogliare dei prati e dei boschi. Il tronco spoglio del cerro fiorisce in sommità grazie alla chioma del sempreverde venuto dalla foresta sul crinale opposto. Una polluzione di foglie verdi e lucide si innalzerà a breve in cielo. Tecnicamente, la congiunzione tra i due arbusti avviene tramite l’uso delle ’ndacche, bastoncini di legno la cui preparazione è affidata ai bambini del paese. Questi segmenti lignei attraverseranno trasversalmente i due fusti, lavorati per incastrarsi reciprocamente. Si portano quindi in processione le statue dell’Immacolata e dell’Addolorata, immagini del lutto e della verginità della generatrice di Dio. Scende anche la processione delle giovani donne del paese, con i cinti, costruzioni lignee adorne di ceri e nastri colorati: ogni giovane ne porta uno in equilibrio sulla testa, mentre due compagne generalmente accompagnano il percorso sorreggendo dei nastri che si dipartono sui lati della struttura. Al suono della fisarmonica, periodicamente, il corteo si ferma e le giovani accennano balli e girotondi secondo schemi tradizionali, tenendo il cinto sempre sulla sommità del cranio. Il Pantheon di Accettura è quasi al completo. Manca solo la statua di San Giuliano. È il momento della raccolta delle offerte. Gli astanti contribuiscono alla festa mettendo insieme il premio per chi offrirà lo spettacolo della scalata del Maggio eretto in piazza. Una volta si trattava di polli, conigli, perfino capretti e agnelli, appesi vivi alla sommità dell’albero e tirati giù dai coraggiosi scalatori come nello schema tipico dell’albero della cuccagna. La scena è stata poi tradotta in termini meno cruenti, sostituendo agli animali vivi alcuni polli già morti. Oggi il bottino


è simboleggiato da una serie di targhette metalliche che corrispondono ai premi in palio. Le targhette vengono legate tra le foglie, e il Maggio è finalmente pronto per essere issato. Da tre punti si controlla l’innalzamento di questo enorme compasso di 35 metri piantato nel cuore del paese. Alcuni uomini sono responsabili dell’elevazione del Maggio, tirando la corda in corrispondenza dell’argano. Gli altri partecipanti modulando l’equilibrio dell’albero tramite due corde sui lati, che vengono tenute in tensione fino al suo completo fissaggio in posizione verticale. È un momento di intenso sforzo e di reciproca fiducia. Ognuno dei coinvolti corre un reale pericolo, e l’incolumità di chi tira a destra è garantita solo dalla corretta e costante azione di chi tira a sinistra. Posto in posizione verticale, il Maggio viene fissato. I primi giovani salgono a liberare la sommità dalle corde. A questo punto il Maggio è pronto per mostrarsi a San Giuliano. A mezzogiorno, nella chiesa di San Nicola, in cima al paese, si celebra ancora una messa. Al suo termine, la scultura maggiore del santo protettore è portata in processione fin giù al cospetto del Maggio. È l’incontro tra due universi devozionali: uno immanente e l’altro trascendente; uno animista, spirituale e assiomatico, l’altro iper-rappresentato, gerarchizzato, dogmatizzato. Non si sa bene chi dei due renda omaggio all’altro. Intervistati da Bronzini negli anni ’70, alcuni accetturesi mostrano tentennamenti: qualcuno afferma che la festa è senza dubbio, «si capisce», in onore di San Giuliano, sebbene il Maggio abbia una dignità incomprimibile; qualcun altro confessa una dicotomia inconciliabile. Nell’aria c’è quel senso di disumano volgere della ruota del tempo che impone alla vita di ognuno un ritmo che le è estraneo ma che non è possibile in alcun modo patteggiare. È un’immagine di ascendenza leviana per cui le liturgie cristiane vengono accolte con la saggezza di chi ha una memoria infinita, e quindi di chi vede anche nella Chiesa un fatto transitorio, cui conviene mostrare reverenza pur restando internamente consapevoli che, come ogni altro fenomeno umano, come i governi, la Nazione o lo Stato, è costretto a subire il logorio di quell’infinito trascorrere della storia. Innalzato il Maggio, si ingaggia una gara di tiro al segno con i fucili. Le targhette che verranno colpite daranno diritto ai partecipanti di ritirare i corrispondenti premi. Terminata la competizione di tiro al segno, è il momento della scalata. Nella storia del Maggio si tramandano leggende a proposito di epici scalatori. La famiglia di uno scalatore di successo consegue una sorta di investitura nobiliare conquistata, di prestigio intergenerazionale. Oggi gli scalatori disposti o capaci di salire in cima al 26


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Maggio sono sempre più rari. Alcuni ci provano da neofiti. In paese si sa, però, che solo chi applica le raffinate tecniche tramandate nel tempo e i consigli degli anziani è in grado di giungere fino in vetta. A chi vi giunge vanno in premio le offerte corrispondenti alle targhette non raggiunte dai proiettili di fucile. Esiste anche una precisa etica dello scalatore: è necessario che non mostri avidità, che dimostri una sincera volontà di compiacere gli spettatori e l’energia del Maggio, e che quindi ottenga i premi come legittimo tributo a una partecipazione attiva e convinta alla riuscita del rito. In cima al Maggio, lo scalatore che riesca a conseguire lo scopo è tenuto a mostrare virtuosismo, a spingere ancora oltre la propria prodezza e il proprio tributo pagato in assunzione di rischio: agganciate le gambe ai pioli in legno su in cima, lo scalatore accennerà alcune acrobazie, spesso lasciandosi cadere indietro con il busto e tendendo le braccia spalancate oltre le proprie spalle. Profanazione, celebrazione e gloria concludono il rito del Maggio. Non resta che procedere con la festa borghese, in cui si diluiranno le tensioni e l’ansia accumulate durante la preparazione collettiva della festa. Il paese è cosparso di commercianti ambulanti che offrono il pretesto per una passeggiata per le vie. Ci si conta ancora una volta, si mangia, si tirano i primi bilanci. Un’ultimo spettacolo dal palco montato in piazza: generalmente si tratta di una vecchia gloria degli anni ’70 e ’80, che ricorderà ai tanti migranti tornati per la festa le loro giovinezze trascorse in paese, quando quei dischi erano la più tangibile rappresentazione del vento che viene da lontano, del desiderio di emancipazione, di modernità. Si spengono infine anche le ceneri dei fuochi d’artificio, poi non resta che spegnere le luminarie. La domenica del Corpus Domini è davvero tutto finito. Il Maggio ha esaurito la sua funzione rituale, e dopo l’ennesima messa in largo San Vito, viene abbattuto e messo all’asta. Il ricavato servirà per ripagare le spese che il comitato ha sostenuto per la festa. Un’eventuale giacenza verrà messa da parte per l’anno a seguire, certi che un’ottima ragione per compiere una volta in più questo incredibile sforzo, ad Accettura, si troverà ancora.


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La storia della scoperta internazionale del rito del Maggio di Accettura comincia con una relazione che Nicola Scarano, maestro di scuola negli anni ’60, invia a Giovanni Battista Bronzini, studioso materano che in quegli anni insegna Antropologia Culturale all’Università di Bari. Bronzini, sorpreso da un documento ben dettagliato ma soprattutto dalla straordinarietà del rito arboreo che Scarano riporta, organizza immediatamente una spedizione verso Accettura per un vero e proprio studio sul campo con una troupe televisiva, due assistenti e la propria viva partecipazione al rito. Ne viene fuori un libro dal titolo Accettura: il contadino, l’albero, il santo, 1977 8: è il resoconto dettagliato del processo di avvicinamento alla cittadina, con interviste, statistiche, testi di canti popolari, trascrizioni dell’audio e delle strategie registiche sottese alla produzione di un video documentario. Fu – ed è ancora – un libro capitale per lo studio e la diffusione del rito, ed ebbe un ruolo insperato ed efficacissimo nella sua preservazione. Le prime notizie istituzionali sul rito del Maggio ad Accettura ci conducono a un documento del 1588. In quell’anno Accettura ricevette la prima visita pastorale, e questa fu l’occasione per menzionare il rito del matrimonio degli alberi nelle carte ecclesiastiche. La storia non ci ha restituito alcuna notizia scritta precedente a tale data, seppure per i suoi caratteri e per la purezza con cui è giunto fino a noi, il rito arboreo di Accettura pare ascendere al Neolitico, cioè al periodo in cui l’uomo scopre di poter leggere e manipolare i cicli naturali tramite l’agricoltura (Vittorio Lanternari) 9. Il fatto che non se ne faccia alcuna menzione per secoli fa pensare invece a un rito svolto nel segreto dei boschi, in un ambiente in grado di tutelarne il valore magico-propiziatorio. Visto con sospetto fino a non molti decenni fa dalla classe intellettuale e borghese, etichettato come barbarica pratica di scaramanzia o paganesimo, la chiesa non ne ha però trascurato la capacità di parlare alle masse popolari. Benché fosse già formalmente legato al calendario religioso cadendo il giorno della Pentecoste, nel 1793 arriva finalmente l’occasione per fagocitare ufficialmente il rito del Maggio all’interno delle liturgie cristiane: il 29 aprile di quell’anno frate Bernardino 29

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4. IL MAGGIO AD ACCETTURA IL CASO, IL CULTO, IL SIMBOLO


torna da Sora, paese di origine del San Giuliano venerato ad Accettura, con l’autentica della reliquia in dotazione al paese. Seppur il rito mirasse originariamente a celebrare la rinascita primaverile della natura, la coincidenza appare più o meno utile allo scopo, e da quel momento il Maggio di Accettura diventa una delle strategie di glorificazione del santo. Certo appare peculiare il fatto che, se il Maggio non può essere scalato prima dell’arrivo del simulacro di San Giuliano, il paese si industri e si spenda con passione e gratificazione per alcune settimane intorno a un tronco, mentre si premuri di avere l’attenzione del santo per una brevissima frazione dell’intera celebrazione. Nella tradizione cristiana del sud Europa il santo è il simulacro che lo raffigura: la scultura è baciata, tappezzata di banconote, adornata di pegni in oro o perle e fatta toccare ai bambini. Il santo è presente quando è presente la sua immagine, ed è necessario che San Giuliano assista al rito del Maggio perché ha la facoltà esclusiva di validalo. Non c’è dubbio, però, sul fatto che la divinità cui formalmente è dedicato il rito si perda gran parte del divertimento, e che non abbia molte opzioni riguardo all’approvazione o meno delle azioni dei suoi protetti. Se le strategie sincretistiche cristiane, di ascendenza colonialista e missionaria, trattarono il Maggio come un’entità estranea da soppesare e assorbire, pochi anni più tardi i Giacobini si trovarono di fronte a un simbolo per loro assolutamente familiare, ma il cui senso mistico e ancestrale era necessario ricondurre a dinamiche di stampo puramente civile e istituzionale. L’erezione dell’albero repubblicano, adorno di bandiere e sormontato dal berretto frigio, tenta di tradurre sostanzialmente un albero della cuccagna in un albero della libertà. Fu però fugace il transito di una rivoluzione che nelle parole di Vincenzo Cuoco 11 appare esportata, comandata dagli intellettuali e dalle nobiltà dissidenti, ma generalmente non compresa dal popolo né animata da forze endogene. Al termine della stagione giacobina, quindi, non molti alberi resistettero nell’Italia meridionale. Le cronache di Lauria, paese poco più a sud di Accettura, raccontano di quali elaborazioni collettive furono necessarie per capire cosa fosse possibile fare di quell’albero, simbolo politico troppo ingombrante ma anche testimone di conquiste subodorate. Così, mentre altrove l’albero si affermò come simbolo universale delle idee repubblicane, nel paese di Lauria si pensò che dopotutto i suoi valori e la sua assertività verticale non fossero così distanti da quelli di una croce, e vi si aggiunse un tranquillizzante braccio orizzontale. 30


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Negli anni ’70 cominciò la stagione dell’attenzione internazionale su Accettura a partire dall’opera accademica di Bronzini, cui si deve la formulazione di attenti studi sul rituale, una sua corretta contestualizzazione nell’ambito europeo dei riti arborei, e infine un’opera di promozione del Maggio accetturese come caso di riferimento nel panorama internazionale. Il tutto al centro di qualche decennio di particolare attenzione alla cultura rurale, specie in Basilicata, spalancata all’attenzione nazionale da Carlo Levi: nel 1964 Pier Paolo Pasolini gira Il Vangelo secondo Matteo tra Craco e Matera; Luigi Di Gianni gira Magia Lucana ad Albano di Lucania nel 1958; negli anni ’50 a Matera si danno convegno i maggiori urbanisti, sociologi e antropologi del tempo nel tentativo di risolvere lo scandalo dei Sassi, con Piccinato, Quaroni, Aymonino, De Carlo, Olivetti; in Basilicata passano i grandissimi della fotografia del Novecento, come Koudelka, Cartier-Bresson, Saymour; a Tricarico il gruppo Il Politecnico è impegnato nel piano regolatore del paese con il sociologo Aldo Musacchio, e questo progetto porterà Mario Cresci in Basilicata fino al 1983, con una scuola di grafica e fotografia; Ernesto De Martino studierà a lungo i riti magici e le lamentazioni funebri; e poi l’attività local dei lucani Rocco Scotellaro, Albino Pierro o Leonardo Sinisgalli. In questo panorama di piccole emergenze che trovano redenzione da secoli di isolamento, il Maggio di Accettura sviluppa uno statuto del tutto contemporaneo. La festa va secolarizzandosi, gli abitanti comprendono sempre di più di avere una platea che li riconosce, li ricerca ed espande l’energia che quel loro agire è in grado di sviluppare. Afferma Angelo Labbate: «Giunta sino a noi attraverso un processo di cristallizzazione avvenuto nel XVIII secolo, mantiene tuttora integra la complessità strutturale e organizzativa, mentre ha smarrito nel corso dei secoli le motivazioni originarie e ne ha acquisito di nuove. È evidente come lo spirito religioso, o, meglio, l’offerta devozionale al protettore san Giuliano, con il quale la festa si è identificata, si sia affievolito. Negli ultimi anni la festa si è secolarizzata, acquisendo i caratteri di una kermesse, una sagra popolare che coinvolge tutti gli strati sociali»11. Così innalzare il re dei boschi diventa questione di orgoglio cittadino. È inoltre un momento fondamentale di elaborazione di un particolare senso di collettività fluida: i tanti emigranti di Accettura attendono spesso questo momento dell’anno per tornare a condividere il peso del Maggio, anche dovendo rinunciare a una tradizionale trasferta natalizia o pasquale. Chi non poteva tornare, qualche decennio fa si industriò come


poteva: la comunità accetturese di Astoria, stretta intorno alla chiesa cattolica di Santa Rita, negli anni ’70 aveva elaborato una particolare traduzione del rito, con una processione dell’albero per i parchi di New York, una scultura in cartapesta di San Giuliano, un’abbuffata di salsicce acquistate a Little Italy e un corteo capitanato dallo striscione Ladies of San Giuliano of Accettura Inc. Astoria. L’associazione risulta formalmente ancora attiva, ma ad Accettura nessuno ne sa più nulla. Gli intervistati da Bronzini quarant’anni fa riferiscono del tentativo di esportare la festa anche in Germania e a Londra, la qual cosa testimonia l’incredibile sentimento nostalgico che un emigrante dell’epoca poteva sviluppare nei confronti di un costituito atto identitario di tale portata. Pierre Huyghe sosteneva che la parade fosse una reinterpretazione del tema della migrazione. Riporta anche che a New York la maggior parte delle parate annuali sono organizzate da comunità di immigrati. Una parata è l’equivalente simbolico dell’esodo, e la marcia collettiva acquisisce i caratteri di un monumento. Pur nella sostanziale immobilità delle forme e delle ragioni, quindi, il Maggio di Accettura ha mutato radicalmente la propria funzione per più volte durante il corso della storia. Questo a testimonianza di un rituale vivo e di una comunità mobile che è stata in grado di cogliere le mutevoli opportunità di un simbolo talmente primordiale da sconfinare nell’universalità. Il Maggio è stato animismo, trascendenza, governo, totem e oggi antenna di trasmissione: per una volta all’anno la festa sospende ancora la norma – la disoccupazione, gli stenti, il futuro incerto – e catalizza l’attenzione di ogni accetturese del mondo, che a sua volta, tramite mass e social media diventa esso stesso ripetitore in una rete globale che pone idealmente la cittadina di Accettura al proprio centro.

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Che senso ha un rito arboreo nel xxi secolo? Quello del Maggio di Accettura è un rito fossile, ma non fossilizzato. La sua ininterrotta reiterazione dal Neolitico a oggi, liquida nei sensi contestuali e nelle motivazioni ma solidissima nei suoi effetti sociali, lo fa uscire dal novero degli anacronismi e lo proietta in una dimensione degna di essere guardata con nuova attenzione. Non con uno sguardo archeologico, quindi, ma con l’aspettativa di rinvenire attraverso di esso inesplorati canoni di socialità, inesplorate prospettive contemporanee, inesplorate costanti di umanità. Perché una comunità dovrebbe ancora raccogliersi e spendersi, oggi, intorno alla faticosa edificazione di un simbolo? Ogni anno grazie al Maggio si ricostituisce un’ideale, potenziale e poi concreta comunità mondiale di Accettura. Esistono accetturesi che non sono mai stati ad Accettura, e che comunque ravvisano nell’idea di essere tali un’opportunità di connotazione per le proprie esistenze, un’opportunità di gettare un’àncora, di dare peso a una condizione latentemente ansiogena di sradicamento. Il rito del Maggio diventa quindi un orizzonte per conquistare questo status. La dinamica sociale urbana delle aggregazioni in comunità per scampare al terrore quotidiano di un vicino di casa dal volto incognito si esplica spesso nell’adesione a gruppi religiosi, sportivi, di volontariato, a circoli di burraco o tifoserie calcistiche, a combriccole di fotoamatori o a comitati di contestazione politica. Si tratta di aggregazioni di individui sulla base di un interesse condiviso, per cui spesso l’individuo che vi aderisce non è un uomo che partecipa ai raduni di automobili a marchio Alfa Romeo, ma è un Alfista; non tifa per l’Inter, è un Interista; non fa, non svolge funzioni, non è prestato a un’attività: è ciò che ha scelto di fare. Scoprire di essere un accetturese in potenza significa radicarsi a qualcosa di meno arbitrario di un hobbie o di un marchio per ricongiungersi al massimo comune denominatore che rende l’individuo membro di una comunità per diritto ancestrale. Così, nei giorni del Maggio, gli accetturesi in potenza di ogni angolo del mondo possono partecipare al rito di iniziazione che li renderà parte di un nucleo di nobile irrilevanza. Tutto sommato non è nemmeno necessario essere emigranti o figli di emigranti

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5. RITI ARBOREI E STORYTELLING ESPERIENZA, ETERNO, AUTENTICO


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George Simmel Le metropoli e la vita dello spirito c om u n i t à

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«(...) lo sviluppo della cultura moderna si caratterizza per la preponderanza di ciò che si può chiamare lo spirito oggettivo sullo spirito soggettivo; in altre parole, nel linguaggio come nel diritto, nella tecnica della produzione come nell’arte, nella scienza come negli oggetti di uso domestico, è incorporata una quantità di spirito al cui quotidiano aumentare lo sviluppo spirituale dei soggetti può tener dietro solo in modo incompleto, e con distacco sempre crescente. Se consideriamo l’immensa quantità di cultura che si è incorporata negli ultimi cent’anni in cose e conoscenze, in istituzioni e in comodità, e la paragoniamo con il progresso culturale degli individui nel medesimo lasso di tempo – anche solo nei ceti più elevati – fra i due processi si mostra una terrificante differenza di crescita, e addirittura, per certi versi, un regresso della cultura degli individui in termini di spiritualità, delicatezza, idealismo.»


accetturesi per entrare nella comunità: chi mette in scena il rito, oggi, lo fa con la consapevolezza di parlare indirettamente a una platea globale, di mettere in scena il cerimoniale della propria identità territoriale e culturale a favore di una audience tutt’altro che trascendente, magica o divina, che dimostra permeabilità ai valori espressi dal rito. È quanto nota a esempio Ferdinando Mirizzi in Patrimoni culturali e turismo: «Questa dimensione dal grande effetto scenografico, che in passato rispondeva a precise e rigide regole d’azione e partecipazione ed era coerente alle finalità rituali dell’evento, oggi sembra piuttosto il risultato della consapevolezza da parte degli accetturesi di offrire uno spettacolo a spettatori esterni alla loro comunità, e non solo a coloro che raggiungono ogni anno a Pentecoste i boschi di Gallipoli e di Montepiano, ma anche ad un pubblico virtuale e presumibilmente molto vasto, raggiungibile attraverso i mezzi di comunicazione di massa. E gli spettatori fisicamente presenti possono non solo assistere all’evento, ma prendervi direttamente parte, coadiuvando per quanto possibile al trasporto della “Cima” o cantando e ballando lungo il percorso seguito dal corteo processionale. Ecco, dunque, che turisti sempre più numerosi, provenienti a piccoli gruppi o in affollate comitive dalle congestionate aree urbane, possono variamente soddisfare esigenze di natura ecologica, un insopprimibile bisogno di autenticità e una consapevole aspirazione a vivere l’evento in maniera partecipativa; mentre la comunità è stimolata ogni anno di più a curare lo spettacolo per gli altri, e non solo per San Giuliano e in nome della tradizione, a riconoscere nel “Maggio” il segno distintivo della propria identità, a ritenerlo un fenomeno unico nella sua portata e irripetibile nelle sue forme, a farne il nucleo identificativo di un patrimonio culturale universalmente riconosciuto e doverosamente rispettato ed apprezzato» 12. Il visitatore offre così una conferma dell’efficacia contemporanea del rito, e la sua volontà di partecipazione è facilmente assecondata. Il cittadino di Accettura offre un pezzo di tronco, di corda o di tarallo al pellegrino culturale, in segno di un reciproco scambio di autenticità: essere accetturesi il giorno del Maggio è un prezioso frammento di esperienza con uno storytelling piantato nell’eterno.

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Se nonostante la connotazione di assurdo contemporaneo il rito del Maggio di Accettura è ancora reiterato in modo puntuale e convincente, è forse perché, volatilizzatesi le più antiche istanze di carattere apotropaico, continua a rispondere a esigenze meno conclamate, di una grana che sfugge a gran parte dei paradigmi che utilizziamo per rappresentarci come abitanti del nostro tempo. Alfonso Maria Di Nola afferma che quello del Maggio di Accettura «costituisce la risposta ritualizzata allo squallore della vita cittadina» 13: questa, per l’antropologo, è la ragione della sua attualità anche in tempi in cui il senso del magico e del trascendente ha perso di centralità. Da sempre i rituali sociali – e il Maggio in ciò non fa eccezione – si configurano come tempo di sospensione della regola. Sono una valvola di sicurezza che, nella gabbia delle reciproche costrizioni sociali, consente di esplicare esigenze fondamentali che la dimensione collettiva reprime. La catarsi del rito libera quelle energie, espone per un attimo la comunità ad agenti disgreganti, la mette alla prova e infine, paradossalmente, la rinsalda. Come la democrazia ha bisogno dei momenti di contestazione per elaborare e assorbire le proprie contraddizioni interne, così le comunità che si reggono su uno stringente, reciproco controllo sociale hanno la necessità di accedere a superiori dispositivi di regolamentazione delle proprie tensioni per restare coese e continuare a beneficiare dei vantaggi che offre la cooperazione comunitaria, ieri come oggi, con mutate forme e mutati scopi. Si narra che in tempi antichi ad Accettura, durante i giorni del Maggio, si sospendesse qualsiasi legge, comprese quelle dello Stato, della religione o della morale. Nei giorni del Maggio era ad esempio concesso uccidere impunemente un componente della comunità, e avere come unico deterrente la certezza di una ritorsione al successivo ciclo del rito. Le strategie di rivalsa dai torti subiti si sono forse raffinate col tempo, per cui l’omicidio non è più uno strumento contemplato tra quelli risolutivi delle tensioni sociali. Eppure l’energia esercitata dal Maggio – la necessità

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6. RITI ARBOREI E DOMANDA CULTURALE ECONOMIA GLOBALE, METROPOLI, PERIFERIA


sociale dell’esserci – è ancora in grado di sovvertire le più coercitive forze di regolazione sociale: l’economia, ad esempio. Il Maggio sospende le attività del paese, ma anche la pausa dalle attività, proponendosi come estremo sforzo nel giorno consacrato al riposo. Le energie disperse nell’inutilità funzionale del rito si oppongono a una generale condizione di razionamento: i giorni di ferie, la benzina nel serbatoio dell’auto, l’integrità di un vestito, le risorse in denaro e in conserve di cibo di un nucleo familiare... tutto ciò che normalmente viene ponderato, per il Maggio viene dilapidato. Nei paesi montani va poi estinguendosi la tradizione dei piccoli allevamenti, decimati dalla concorrenza industriale e da modelli organizzativi e legislativi che li pongono fuori concorrenza: eppure per il Maggio si allevano ancora, appositamente, grossi buoi bianchi tradizionali, i cui costi di mantenimento sono forse paragonabili a quelli di un’auto. Cambiando scala, l’economia del rito sovverte le economie dell’impiego dei lavoratori: a dedicarsi al trasporto del Maggio e della Cima sono salumieri e manovali, professionisti e operai, impiegati e disoccupati. I giorni del Maggio stabiliscono un paradigma alternativo per cui la forza di ogni individuo vale in relazione al conseguimento dello scopo rituale: non esiste istruzione o carriera professionale che valga, né stigma sociale preso in considerazione contro i tanti esclusi dal mercato del lavoro. Allargando ancora la prospettiva, un’altra misura economica viene sovvertita, ed è quella dell’isolamento, dell’irrilevanza, della perifericità rispetto ai mercati globali: ad Accettura non si produce la nuova Jeep Renegade, né l’Amaro Lucano, i suoi abitanti non sono un bacino appetibile per Auchan, e per Fastweb quella del paese è un’area “a fallimento di mercato”. Non solo Accettura non impone dei trend, ma fatica anche solo a venirne a conoscenza, generando nei giovani il desiderio di connettersi ai fenomeni culturali di massa che coinvolgono la loro generazione, quindi generando prima il senso di inferiorità, poi l’emigrazione, quindi lo spopolamento. Il Maggio è il giorno del protagonismo assoluto di Accettura. Bruciano in un’istante frustrazioni e aspettative di un anno intero, esaltando l’unica arma che il paese ha potuto opporre al logorio del tempo e all’incedere della modernità: la resilienza. Oggi Accettura trova il proprio obiettivo, la propria definizione e il proprio senso in un valore residuale, conservato non perché dimenticato in un angolo – come molto di ciò che si è salvato dagli ultimi sessant’anni di ideologia della modernità in Italia –, ma per immutata determinazione alla sua reiterazione. 38


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Il paese non ricaverebbe alcuna gratificazione sulla scena del Maggio, però, se non avesse la precisa percezione che, per quel giorno, il disinteresse globale verso la sua irrilevanza non abbia qualcosa da riconoscergli, e anzi da chiedere a chi, quasi proprio malgrado, ha resistito per tanto tempo fuori dalla scena economica: quella «risposta ritualizzata allo squallore della vita cittadina» ribalta il rito del Maggio in un’ottica inedita. Il Maggio dismette la divina autoreferenzialità del rito che poteva svolgersi nel segreto delle radure, acquisisce un indispensabile pubblico attivo e si estroverte per offrirsi a chi è in cerca di merci rare, immateriali, autentiche. Il fenomeno della coda lunga 14 ha sdoganato Accettura e il suo Maggio.

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Per la capacità di coniugare i terrori più antichi e le più irrinunciabili aspirazioni umane, l’ineluttabilità di un codice naturale e l’autodeterminazione più ostinata, uno spirito locale e una proiezione universale, il rito del Maggio di Accettura è il prototipo del rito arboreo. Ma è anche un prototipo di atto performativo: l’azione di un gruppo di personaggi, astratti dalle reciproche vite efficienti, si muove intorno ad un’azione codificata il cui scopo è produrre indirettamente degli effetti non meccanicamente determinati, simbolici. Tra modalità di esercizio dell’azione e scopo dell’azione si interpone una tale distanza che il rapporto tra loro non potrà che essere di carattere semantico: coniugare il cerro e l’agrifoglio significa costringere il sistema naturale a produrre i suoi frutti – cosa che non corrisponde all’automatico ottenimento del risultato –. La congiunzione è mimata, stilizzata, significata attraverso una serie di segni naturali, utilizzati come termini di un codice magico. Il tempo e lo spazio in cui si svolgono queste azioni di carattere assolutamente non pratico sono anch’essi codificati e significativi: veri spazi scenici in cui tutto ciò che accade ha un influsso sul significato globale del rito. Un lapsus, pur involontario, modificherebbe il senso della frase in cui accade, così come il cane che morì sotto lo schianto del cerro del Maggio del 1971, ad esempio, non poté esimersi dal diventare esso stesso segno, dal significare qualcosa, dall’esser degno di lettura interpretativa. Il Maggio è anche prototipo di arte pubblica. È un’edificazione semantica collettiva e per il collettivo, estremamente radicata nelle dinamiche sociali e nella struttura del territorio antropizzato. Il rito del Maggio, ancor più nelle sue secolarizzate manifestazioni contemporanee, conferma una vocazione civile e una capacità di attivare energie collaborative, di sollevare temi rilevanti per la comunità. È un rito che nasce di per sé privo di autorialità ed è estremamente condiviso nel suo impianto morale, simbolico, tecnico. È un monumento civile, a tratti di estrema rarefazione – nei suoi significati più profondi e linguisticamente più articolari – a tratti concreto – nell’erezione dell’albero nello slargo

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7. RITI ARBOREI E CULTURA CONTEMPORANEA PERFORMANCE, ARTE PUBBLICA, ARTE RELAZIONALE


cittadino, nella liturgia del suo corteo in paese, nel suo congiungimento –. Pierre Huyghe, a proposito della riproposizione del dispositivo della parade nelle pratiche artistiche, sostiene che esso sia una trasposizione della migrazione: a New York la maggior parte delle parate annuali sono organizzate da comunità di immigrati, e attraverso il corteo producono una rappresentazione dell’esodo, un’azione equivalente all’erezione di monumento 15. Anche gli accetturesi presenti a New York, con un San Giuliano di cartapesta portato in corteo in un parco di Astoria, tentavano di conquistare il proprio Maggio. Ratificare il Maggio degli accetturesi d’America voleva dire aspirare ad un’esperienza di vita completa, coronare con una celebrazione la faticosa e incerta traversata in un’altro continente, fingere o rappresentare – poco importa – un radicamento della comunità nel territorio. E la celebrazione delle conquiste incerte mediante l’erezione di un manufatto che è frutto di sforzo eccedente la conquista della sussistenza, è un monumento, l’evidenza solida di un valore collettivamente riconosciuto ma spesso incerto, quindi una delle più chiare manifestazioni di arte pubblica. Il rito del Maggio è, infine, prototipo di arte relazionale, essendo il più alto dei suoi scopi impliciti la fondazione stessa dell’immagine di comunità. Il procedurale del rito mobilita e sintetizza gruppi di persone anche eterogenei sotto una comune spontanea aspirazione di partecipazione. L’intero rito è permeato di un’etica del collettivo: le offerte pubbliche per l’allestimento del premio per lo scalatore da collocare in cima al Maggio, ad esempio, sono da una parte un contributo ultra-simbolico alle fatiche di chi coronerà il rito assumendosi il rischio della propria incolumità – e non una tentazione, una lusinga, un’istigazione – e dall’altra, sono il pretesto per segnare il traguardo di una scalata che deve essere effettuata con animo dimesso, dissimulando la cupidigia, evitando di mettere in ombra la reciprocità del rapporto tra comunità e scalatore, contro il rischio che scivoli nella dinamica della lotteria, dei tanti concorrenti sacrificati per un solo vincitore, a danno di tutti. Il rito del Maggio è una pura celebrazione delle relazioni umane. Nonostante il ricorso ai medesimi strumenti linguistici, però, il salto da un oscuro dispositivo rituale incarnato nello spirito di un popolo al progetto artistico è tutt’altro che semplice, e si nutre necessariamente di un frainteso, di un repentino cambio di scala, di una vertigine semantica feconda di immagini. Il rito parla un linguaggio interiorizzato dai partecipanti e ha una voce al di sopra dei singoli: in nessun caso i 42


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partecipanti ne metterebbero in discussione la struttura, sovraordinata e omnicomprensiva. Nel rito, per questa ragione, l’autore, il fondatore, l’iniziatore, il formulatore scompare nella profondità del tempo, lasciando che le azioni rituali si connaturino alle strutture cognitive di chi si spende per la loro ciclica riattualizzazione. Che un’opera performativa di arte pubblica e relazionale possa ambire a questo medesimo status è utopico: l’interiorizzazione del rito nell’opera d’arte si traduce in un laboratorio dall’esterno, che interpreta e sollecita le energie proprie di una comunità per orientarle verso un’azione. Pur non presupponendo autorialità, produzione di opere-feticcio o progettualità aprioristica, difficilmente la partecipazione ad un progetto artistico è in grado di restituire la profondità di un’esperienza di scrittura della propria storia sociale. D’altro canto le pratiche sperimentate nel laboratorio privilegiato dell’arte negli ultimi cinquanta-sessanta anni sempre più spesso trovano applicazioni concrete in ambiti che influenzano notevolmente gli orizzonti cognitivi delle comunità culturali. Basti pensare a come l’advertising tenda per propria natura, ciclicamente, a far propri gli strumenti performativi e le pratiche tipiche dell’happening per scovare nuove modalità di penetrazione negli immaginari, sempre più scettici e insofferenti alle imboscate pubblicitarie: la candid camera, Carosello, le proposte di scambio dei fustini Dash, il flash mob, la Fun Theory di Volkswagen, le avventure estreme prodotte da Red Bull, l’incarto rainbow con messaggio a sorpresa del Pride Whopper di Burger King o la colazione gratis al McDonald’s per chi si presenta in pigiama sono tutte azioni che seguono strategie di sfondamento della saturazione da pubblicità attraverso metodi mutuati dai linguaggi artistici basati su sceneggiature aperte, provocazioni di reazioni nel pubblico, eventi di pura alterazione di un contesto in cui ciò che conta è mostrare la partecipazione di una audience attivata. Oppure, si può far riferimento all’emblematica parabola di Vito Acconci dalla performance all’architettura: la progettazione dello spazio è la progettazione di un dispositivo sociale, attivo, responsivo, dinamico, con valenze esplicitamente simboliche oltre che funzionali, in cui l’architettura diventa un naturale sviluppo del linguaggio performativo e dell’happening. Oggi le pratiche performative o di arte pubblica e relazionale sono strumenti pienamente padroneggiati da chi si occupa di innovazione sociale: in contesti di riscoperta delle dimensioni locali e di metodologie bottom up, il designer è sempre meno un elaboratore di output e sempre


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Cecilia Gatto Trocchi Le muse in azione. Ricerche di antropologia

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«Nel mondo dei primitivi l’arte è sempre “astratta”: non ritrae il visibile (non ve ne sarebbe bisogno) ma l’invisibile, dando forma alle potenze divine, agli antenati, ai sacri animali totemici e agli ammaestramenti misterici e morali. I popoli non occidentali sono convinti che un’opera d’arte bella richiami sulla terra le potenze misteriose che regolano il cosmo. Ogni opera d’arte è un incantesimo o una preghiera.»


più uno sviluppatore di piattaforme, regie, algoritmi che si animano della partecipazione e dei contributi, più o meno consapevoli, degli utenti. Non è un caso che la stessa Commissione Europea abbia messo al centro del programma di iniziative Europa Creativa 16 il superamento di un pubblico come audience, come passivo consumatore di prodotti culturali sovraordinati. Nell’ottobre 2012 Androulla Vassiliou, Commissaria europea responsabile per l’Istruzione e la cultura, ha dichiarato: «Dobbiamo fare di più per interessare il pubblico alla cultura europea e per tutelare la diversità. Per farlo in modo efficace, dobbiamo sostenere gli artisti e gli altri operatori nello sviluppo di nuovi pubblici sia in patria che all’estero, aiutandoli a rivedere il rapporto con le attuali tipologie di pubblico e a diversificare il pubblico di riferimento. Se vogliamo iniziare alla cultura un pubblico più giovane, dobbiamo riflettere in modo nuovo su quale sia la strada migliore da seguire. Se non affrontiamo seriamente questo problema, rischiamo di compromettere la nostra diversità culturale e i vantaggi che essa rappresenta per l’economia e l’inclusione sociale.» È quindi esplicitamente riconosciuto come importante capitolo dell’azione culturale nell’Unione Europea lo sviluppo di un pubblico partecipante, consapevole, riflessivo, entro un panorama di produzione culturale che si apra oltre una granitica autorialità da rapporto duale. In questo panorama, l’esperienza culturale offerta dal rito arboreo non può che essere un eccellente modello per le forme della cultura del contemporaneo più aperte alla partecipazione e all’elaborazione collettiva.

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La ricerca di corrispondenze tra i riti arborei e le estetiche relazionali contemporanee è dettata dalla necessità di individuare le ragioni della riscoperta e dell’efficacia odierna dei riti basati sui ritmi e i patrimoni genetici della natura. Di converso, è anche una ricerca guidata dalla volontà di offrire una visione delle pratiche performative, pubbliche e relazionali dotata di una profondità metastorica che le tragga dalla gabbia intellettuale che le vorrebbe leggere come una tappa obbligata lungo il percorso di destrutturazione dei linguaggi artistici a partire dalle Avanguardie storiche. Vi è un rapporto di reciprocità tra le due sfere che meriterebbe forse di essere considerato con attenzione: solo individuando una continuità e una organica affinità tra rito e performance d’arte pubblica e relazionale è possibile evitare di leggere nella scomparsa dell’aura magico-religiosa del Maggio di Accettura una volgarizzazione di banale marketing territoriale e nella performance un atto di autoreferenziale ricerca linguistica nelle arti, e, ancora, evitare che le pratiche partecipative mirate all’innovazione sociale vadano alla deriva verso un esercizio di utopia contemporaneista, slegate da un principio di efficacia della dimensione simbolica. Questo reciproco tributarsi sostanza tra rito e performance è sintetizzato dalle parole e dalle azioni di Gianfranco Baruchello. In attività per un decennio – dal 1973 al 1983 – la sua Agricola Cornelia s.p.a. partì per l’aspirazione ad un generico ritorno alla naturalità rurale. Nella definizione del proprio avversario dialettico, però, preannunciava già un carattere di esemplarità: si trattò infatti dell’acquisto di un terreno nelle estreme periferie romane che era già nelle mire della roboante speculazione edilizia di quegli anni. Baruchello, per contrappasso, era intenzionato a farne uno spazio di mera produzione agricola. Il percorso di trasposizione di tale esperienza nelle gallerie d’arte era tutt’altro che lineare, ma ben presto divenne tale da richiedere di diventare oggetto di una riflessione particolare, nell’idea che solo il prodotto dell’agricoltura porta con sé un valore intrinseco quale prodotto di lavoro e sostentamento vitale, azzerando idealmente le facoltà del mercato di influire sulla percezione del valore delle merci. Ne derivò un certo impegno editoriale e una serie di minime opere grafiche dal titolo Questio de aqua et terra. Ma il prodotto fondamentale

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8. FORMA E ETICA FARE, SIGNIFICARE, COLTIVARE


di questa attività fu la mera produzione agricola in sé: l’azienda aveva lo scopo di produrre azione politica tramite la propria attività agricola entro i normali meccanismi di mercato allora vigenti. Non si trattava quindi un’attività di critica militante, arroccata in una posizione privilegiata di elevazione, ma di un’esperienza di coinvolgimento nella materia tale da consentire la dematerializzazione dell’oggetto artistico e la penetrazione di istanze estetiche nella rete delle relazioni economiche. In How to imagine. A narrative of art and agriculture, libro scritto a quattro mani con Henry Martin, Baruchello afferma: «The artist’s problem is to find a way of relating to a place where everything moral finds contact with everything formal. What’s important about aesthetics is the line where its field confuses itself with field of ethics; the way that Plato had of seeing Beautiful as it meshed into the God» 17. Si tratta di un puro elogio della cultura materiale come unico ambito in cui è possibile fare esercizio di attività intellettuale ottenendo una coincidenza tra forma ed etica, tra estetica e agire politico. Fare è l’unica opportunità a disposizione per significare: una sorta di ri-fondazione del mondo a partire dalla ri-fondazione delle modalità dell’antropizzazione, quindi a partire dall’alfabeto minimo dell’agricoltura. È lo stesso Baruchello a citare poi Marcel Duchamp: «To live is to belive... or at least that’s what I belive». Offre quindi un tributo al padre delle rifondazioni semantiche dell’universo con un collegamento ideale tra la possibilità di un’agricoltura nella periferia di Roma e le strategie Dada di riformulazione globale del sapere attraverso un’esperienzialità rivoluzionaria. L’Agricola Cornelia è in grado di spiegarci quale possa essere il ruolo dell’artista in un contesto di urgenza di significazioni collettive. Il rito arboreo è intrinsecamente partecipato, in senso fisico, emotivo e intellettuale, costituendo di per sé una straordinaria identità tra forma ed etica e conservando in sé quella carica di atavico e radicale cui per vie intellettuali tenta di giungere ogni spirito Dada. Perché oggi la congiuntura possa ripetersi in un’azione artistica progettata, perché possa esistere la regia di un soggetto senza l’appiattimento della comunità in una audience, offrendo ad ogni partecipante all’azione il vigore e lo slancio di chi è convinto di produrre un’azione culturale, allora è necessario che questa figura registica incarni in sé l’identità di forma ed etica, che conferisca all’operazione quel carattere di universalità che il Maggio di Accettura ha per merito di carriera. Tale compito non può che spettare ad un artista, il quale, in un organismo sociale in cui vige una separazione collaborante delle funzioni, 48


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è il depositario della facoltà di elaborazione estetica. È all’artista che si richiede l’innesco di un’iniziativa, la tessitura delle relazioni propedeutiche, la stesura del sottotesto narrativo. Insomma, la preparazione dello spazio della scena in cui ogni performer sarà mosso dall’idea di produrre un gesto estetico e politico insieme, non secondo un copione, ma secondo uno spirito condiviso dall’esito incerto. È il gesto stesso che produrrà un significato non subordinato a nessuna scrittura intellettuale. Infondo l’ansia di una scena che produce mondi invece di rappresentarli, la naturale incertezza del risultato in un’azione che accade, è vicina a quell’assetata attesa di segni naturali che avrebbero consentito all’ accetturese antico di comprendere se il rito del Maggio avrebbe prodotto i suoi effetti, avrebbe agito sulla fecondità della natura, sarebbe entrato in connessione con lo spirito che alimenta gli alberi nella penombra dei boschi.

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«La modernità politica, nata con la filosofia dell’Illuminismo, si basava sulla volontà di emancipazione degli individui e dei popoli: il progresso delle tecniche e della libertà, il declino dell’ignoranza, il miglioramento delle condizioni di lavoro dovevano affrancare l’umanità e permettere l’instaurazione di una società migliore. Ma esistono diverse versioni della modernità. Il xx secolo fu così teatro di una lotta tra visioni del mondo: una concezione razionalista modernista scaturita dal xvii secolo, una filosofia della spontaneità e della liberazione tramite l’irrazionale (Dada, il surrealismo, i situazionisti). Entrambe si opposero alle forze autoritarie o utilitaristiche, desiderose di formattare le relazioni umane e di asservire gli individui. Invece di sfociare nell’auspicata emancipazione, il progresso delle tecniche e della “Ragione” permise (...) lo sfruttamento del sud del pianeta, la cieca sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine, così come l’installazione di tecniche di asservimento sempre più sofisticate. Al progetto di emancipazione moderna si sono sostituite così innumerevoli forme di malinconia.»


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Nel 2010 il Museo della Civiltà Contadina di San Marino di Bentivoglio, minuscola frazione alle porte di Bologna, offre un incarico a Emilio Fantin per la realizzazione di un’opera nel parco della villa Smeraldi, sede dell’istituzione museale. Fantin, che da sempre predilige un metodo di ecologia della visione, elude in più occasioni la commissione di immagini, producendo invece dispositivi di cesura, di pausa, di inadempienza visiva. Alla data della commissione ha già compiuto un solido percorso nel campo dell’arte pubblica e relazionale, tanto da essere incluso nel 2003 nella mostra Arte Pubblica in Italia a cura di Anna Detheridge: per l’Italia un caposaldo dell’ambito del pubblico e relazionale. Ciò che propone Fantin per l’occasione è quindi un workshop nel parco con un gruppo di giovani artisti, una sorta di Scuola d’Atene che invece di filosofare ha l’obiettivo di costruire un pollaio: il Pollaio Smeraldi. La relazionalità, il patteggiamento, la discussione, i processi di aggregazione, sintesi e dibattito divengono materiale di lavoro per l’arte. Seguendo una linea evolutiva si potrebbe dire che l’arte, dopo aver invaso lo spazio fuori dalla cornice per poi farsi ambiente, tempo, gesto, virtualità, si voglia ora occupare banalmente del successivo grado di complessità da conquistare, cioè gli interstizi tra le persone, gli spazi lasciati vuoti da una serie di atrofie sociali o semplicemente gli spazi inesplorati dalle ricerche estetiche condotte fino ai nostri tempi. Probabilmente però si rischierebbe di trascurare alcune delle questioni che un’operazione come questa intende sollevare, se non si valutassero, oltre alle ragioni di contesto, le specifiche aspirazioni poetiche del progetto. Con materiali di recupero Fantin e il gruppo coinvolto costruiscono una serie di dispositivi a misura di animale da cortile: palafitte, recinti, giacigli basculanti, ripari e altre architectures révolutionnaires per l’avicoltura. Il lavoro è basato sulla pregnanza per la comunità dei segni elaborati collettivamente, in connessione con i ritmi, le modalità e il linguaggio della natura. Il processo condiviso e deautorializzato della costruzione di un pollaio è un modo per allontanare – didatticamente –

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9. EMILIO FANTIN, MARIA LAI, BIANCO-VALENTE IMMAGINI INADEMPIENTI, PERIFERIA, COMUNITÀ


gli artisti dalle convenzioni autoreferenzialistiche del sistema artistico. Si pone l’attenzione al processo del fare, alla comunanza dell’obiettivo, all’approfondimento delle relazioni. Ritorna potente l’idea baruchelliana che fare sia l’unico modo per procurare dei sensi: una sorta di sentimento post-catastrofe semantica, dove gli unici vocaboli con cui è possibile articolare una sintassi che non sia preda dell’arbitrario è in ciò che rimane quando ogni cosa perde di valore. Quello che si elabora è quindi un segno tracciato affidandosi alla natura come sistema linguistico. Secondo Laugier, teorico illuminista dell’architettura, la classicità dell’architettura è la pietrificazione di un sistema di costruzione elementare in cui ogni funzione architettonica è assolta nella sua purezza più autoevidente. Un tempio greco è un segno potente e condiviso perché le sue colonne, ad esempio, assolvono sinteticamente il bisogno primario di soprelevazione di un riparo, rappresentando l’elemento primario “tronco d’albero”. Fantin usa la stessa visione simbolica ed emblematica dei segni architettonici, ma l’irrilevanza del tema del pollaio rispetto alla cattedrale, al tempio o all’arca è curiosamente un accrescitivo del valore del costruire, invece che una sua ridicolizzazione. Fantin sembra cercare, quindi, più che l’ultima variante nel linguaggio artistico, l’ultimo linguaggio artistico in grado di cogliere un’invariante umana. Senza alcuna suggestione archeologica, ma piuttosto con una fulmineità prelogica, dadaista, Fantin interpreta il ruolo dell’artista in grado di congiungere forma ed etica e di giungere oggi, con un progetto, alla medesima fonte di autenticità esperienziale del Maggio di Accettura. Uno dei più significativi e illustri precedenti tra le azioni artistiche mirate alla definizione di un senso di comunità è senza dubbio Legarsi alla montagna di Maria Lai. Anche in questo caso tutto comincia dall’inadempienza di un’immagine: l’artista sarda agli inizi degli anni ’80 rifiutò una commissione per un monumento ai caduti in guerra offertagli dall’allora sindaco di Ulassai, riconvertendo l’opportunità in un’azione che avesse una valenza per i vivi piuttosto che per i morti. Partì dalla reinterpretazione di un’antica leggenda del paese. Sa rutta de is’antigus è il racconto orale che elabora collettivamente un fatto reale avvenuto nel paese nel 1861: il distaccamento di un costone della montagna sovrastante il paese travolse una casa sulla sua sommità, e nel rovinare della frana morirono tre bambine. Una quarta invece si salvò e nelle sue mani venne ritrovato un nastro celeste. Tale particolare colpì talmente l’immaginario locale che da allora si attribuisce a quel nastro il miracoloso salvataggio della bambina. 54


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Lai fece di questo elemento l’occasione per raccogliere insieme l’intero paese, di porta in porta, di casa in casa, così come il paese si è raccolto sotto il medesimo racconto di epica minima. Furono necessarie tre giornate del settembre del 1981 e ventisette chilometri di stoffa celeste per completare l’operazione. Alle famiglie venne affidata la stoffa ridotta in tranci con la richiesta di ricongiungerne i lembi, uno con l’altro, di famiglia in famiglia, in modo da ricreare una rappresentazione tangibile della rete di relazioni che teneva insieme il paese. L’intera rete venne poi congiunta alla sommità del monte Gedili grazie all’aiuto di alcuni scalatori, legando così, letteralmente, l’intero paese di Ulassai alla montagna. La rappresentazione delle relazioni tra i vicoli fu così efficace che furono necessari mesi di preparativi, diplomazia e patteggiamenti per convincere gli abitanti di Ulassai a partecipare, preoccupati dalla necessità di scendere a patti con decennali rancori e conti in sospeso tra le varie famiglie. Così si decise che tra i nuclei in buoni rapporti sarebbero stati legati su pani pintau, una tipica forma di pane locale, mentre in casi di inconciliabilità il nastro avrebbe rimarcato un confine. Guardata con sospetto e bollata come festa paesana, Legarsi alla montagna fu riscoperta dalla Storia solo due decenni più tardi 18. Anche il duo Bianco-Valente si trova di fronte all’occasione di rifiutare una commissione per l’avvio di un programma di azioni pubbliche. L’Associazione Culturale Vincenzo De Luca di Latronico, dedicata alle ambizioni artistiche di un cittadino emigrato e vissuto senza gli strumenti per coltivare la propria propensione, a partire dal 2006 comincia una collaborazione con gli artisti. Chiamati inizialmente per organizzare mostre e seminari nel paese durante l’estate, in qualche anno i due decideranno di utilizzare i fondi raccolti dai cittadini emigrati e dal comitato locale per portare in paese una serie di artisti attivi nel campo del pubblico e relazionale, con l’unico vincolo di lasciare in paese un segno tangibile della propria attività. La manifestazione diventerà un vero festival di arte pubblica a cadenza annuale dal titolo A cielo aperto. Tra le azioni prodotte si ricorda Faro, di Michele Giangrande, 2009, che stabilisce una serie di sinergie tra vari soggetti di Latronico per riattivare il campanile in cima al paese vecchio che di notte viene silenziato per favorire la quiete pubblica. Giangrande sostituisce al suono delle campane, tradizionale segno dell’adunanza e della sinergia popolare, una luce temporizzata rossa, che trasforma il campanile in un faro. La luce che segna la via, in maniera laica ed evocativa, riconosce nell’emergenza del


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Nicolas Bourriaud Estetica Relazionale p er fo r m a n c e

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«L’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale. (…) Il contesto sociale attuale limita le relazioni interpersonali quanto più crea spazi a ciò deputati. I gabinetti pubblici furono inventati affinché le strade restassero pulite: è nello stesso spirito che si sviluppano gli strumenti della comunicazione, mentre le strade della città sono ripulite da ogni scoria relazionale e i rapporti di vicinato s’impoveriscono. La meccanizzazione generale delle funzioni sociali riduce progressivamente lo spazio relazionale. Fino a non molti anni fa, il servizio di sveglia telefonica impiegava esseri umani: ormai è una voce sintetica a essere incaricata di svegliarci... Lo sportello automatico è diventato il modello di transito delle funzioni sociali più elementari, e i comportamenti professionali si modellano sull’efficacia delle macchine che li rimpiazzano, e queste ultime eseguono compiti che un tempo costituivano altrettante possibilità di scambi, piaceri o conflitti. L’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza d’investire la sfera relazionale, problematizzandola.»


campanile un elemento identitario condiviso. Del 2010 è invece l’azione di Eugenio Tibaldi, che mette su un meccanismo di studio e selezione del vessillo di Latronico. Diversi incontri con i cittadini e un questionario per una definizione fisica ed emotiva del paese hanno guidato l’artista-coordinatore Tibaldi nella definizione di Una bandiera per Latronico. Infine, una pubblica votazione ha eletto ufficialmente la bandiera del paese, ratificata poi in consiglio comunale ed eretta su un vecchio piantone svettante tra le case in concomitanza con un evento espositivo. Qualche anno più tardi gli stessi Bianco-Valente verranno contattati dall’organizzazione Arte Pollino. Sulla scorta di Arte Sella e Arte Continua, negli anni precedenti l’associazione aveva già promosso voluminosi interventi d’arte nel Parco Nazionale del Pollino con artisti come Anish Kapoor, Giuseppe Penone e Carsten Höller. Nel 2012 escogita uno strumento di azione più agile e diffuso, chiedendo a Bianco-Valente di operare a Senise. Gli artisti decidono quindi di interrogare gli abitanti di Senise e dei paesi dell’intorno che, spesso abituati a lunghi viaggi per i luoghi dell’emigrazione, conservano invece deboli ricordi e vaghi immaginari dei paesi vicini, come si trattasse di isole arroccate sulle rispettive sommità montuose. Il risultato sarà una selezione delle frasi più evocative utilizzate dalle persone per descrivere i paesi vicini. Queste frasi verranno successivamente stampate su manifesti affissi nel paese cui le parole sono riferite. Il progetto si chiamerà Qui lontano, Geografia emozionale del Parco Nazionale del Pollino. In ognuna di queste azioni la riemersione del relazionale è un’emergenza che sovrasta l’ufficialità delle liturgie artistiche, verso l’individuazione di narrazioni, procedure e pretesti partecipativi in cui possano leggersi e riconoscersi le comunità. Non è poi un caso che queste azioni di rielaborazione identitaria abbiano luogo in Italia e in piccoli paesi: la dimensione del campanile, che una volta era emblema di interesse ristretto, di visione limitata, di settarismo suicida, è oggi aspirazione di riscoperta, di recupero, di immediatezza esperienziale. La dimensione stessa della provincia è percepita oggi come un rimosso carico di possibilità. Il paese non è un semplice attrattore turistico, ma è uno spazio di libertà di espressione e di iniziativa, contro l’insignificanza dei rituali metropolitani di cui sempre più spesso gli individui si sentono succubi piuttosto che beneficiari.

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Nel 1982 due acri di terra a Battery Park, nei settori di Manhattan sottratti alle acque spostando avanti la linea di costa a colpi di rifiuti spianati, valgono 4,5 miliardi di dollari. E ciò basterebbe di per sé come immagine paradossale. È Agnes Denes, un anno prima che chiudesse l’Agricola Cornelia di Baruchello, a esplicare questo paradosso in tutta la sua potenzialità immaginifica, ancora una volta utilizzando la semina, gli strumenti dell’agricoltura e la capacità di coinvolgere un gruppo di persone intorno a un’azione emblematica. Si chiama Wheatfield, un rettangolo di grano in una propaggine di New York, con sullo sfondo il World Trade Center e oltre l’Hudson la Statua della Libertà. Lo stesso gruppo di persone semina e poi raccoglie il grano newyorkese: una sorta di ideale valore assoluto al riparo dalle fluttuazioni di valore di un mercato biologicamente irrilevante, in un sodalizio con i ritmi della natura ripagato da una generosa moltiplicazione dell’investimento vitale. Lo stesso gruppo di persone è poi incaricato dal Minnesota Museum of Arts di portare il raccolto in giro per il mondo in ventotto città in una mostra itinerante dal titolo The International Art Show for the End of World Hunger. L’azione è politica e catartica insieme. Nel centro del mercato globale, dove si vive di terziario, servizi, pubblicità, industria culturale e speculazioni finanziarie, Agnes Denes coltiva il grano come monito, prospettiva e apertura inaspettata verso i bisogni primari, nell’aspirazione di ristabilire una scala di valori intorno alla dimensione biologica dell’uomo. Il seme è un patrimonio fruttifero in grado di conservare valore e alimentare la vita, in opposizione ad un caveau newyorkese fatto di preziosità instabili e bisogni indotti. A New York un’enorme concentrazione di potere economico non è in grado di risolvere il problema degli squilibri alimentari nel mondo. Così Agnes Danes ricerca la catarsi seminando simbolicamente del grano sulle macerie di un mondo opulento 19. Trentatre anni dopo l’azione di Agnes Danes riprende vita a Milano per l’Expo 2015 dedicato al tema Nutrire il pianeta, Energia per la vita. Dalla prima azione newyorkese molte cose sono cambiate negli equilibri 59

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10. AGNES DENES, CLAUDIO ABBADO, FRIEDENSREICH HUNDERTWASSER MILANO, METROPOLI E NOSTALGIE BIOLOGICHE INTORNO ALL’EXPO 2015


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mondiali e nella consapevolezza dell’opinione pubblica rispetto ai temi dell’alimentazione e della sostenibilità ambientale, ma sostanzialmente nulla è cambiato rispetto all’urgenza primaria sollevata dall’artista. A Milano si ergono nel giro di un decennio grattacieli a manciate, un compendio di architettura contemporanea per tentare di portare spasmodicamente la più mitteleuropea delle città italiane al confronto con le grandi capitali. Anche il progetto ecologico dell’Expo sembra arenarsi su più punti. Per molti tradisce il suo spirito originario ispirato alla sostenibilità e alle dimensioni locali per preferire grandi sponsorizzazioni, speculazioni edilizie e la vecchia pratica delle grandi opere pubbliche incompiute. La riattualizzazione di Wheatfield tra i grattacieli milanesi fatica così a conquistare lo spirito dell’originale. Il nemico grigio, che era impersonato da una cieca idea di progresso, è qui stato sostituito, nella percezione comune, da una grottesca agonia dell’immagine della Milano da bere, una rappresentazione di una città che, investita di una responsabilità mondiale, è incapace di affermare un nuovo paradigma di sviluppo. Così il campo di grano di Porta Nuova non sembra esser seminato sul più fertile dei terreni. Qui etica e forma non riescono a trovare il modo di coincidere. Eppure normalmente chi avrebbe da ridire sull’idea di seminare del grano in un quartiere piantumato a grattacieli? Quando un uomo delle metropoli aspira alle condizioni della ruralità seminando grano tra i grattacieli (o dedicando qualche giorno al ritiro in una sperduta località che pratica riti arborei), non è in cerca di un generico antidoto alla città, ma in cerca di una smarrita modalità di significazione delle cose e delle esperienze, sfera che ha molto da condividere con quell’area della cognizione umana in cui si forma lo spirito collettivo di una città che converge verso uno scopo. Sono molti i tentativi fatti da Milano per entrare in contatto con una propria anima verde, e si tratta spesso di operazioni compiute attraverso gli strumenti del progetto, del design come cardine della mitologia cittadina, per la costruzione di fatti urbani che ambiscono ad avere rilevanza ideologica. Nella dimensione della città acquisiscono anche essi una valenza in qualche modo rituale, perché sono fatti di cui tutti i milanesi devono parlare e di cui tutti devono farsi un’opinione, che vanno elaborati collettivamente e che sono ponderati nei tempi e nei luoghi per incidere politicamente sull’immaginario cittadino. Un caso rilevante, sempre nell’ambito dell’area di Porta Nuova, è il Bosco Verticale progettato dallo Studio Boeri: due torri in una selva di


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landmark in competizione l’uno con l’altro sono colte come occasione di inserimento irrituale di verde in città, secondo un’immagine onirica di convivenza tra alberi e uomini. Le torri infatti sono avvolte lungo tutto il perimetro da terrazze che ospitano circa novecento esemplari arborei. L’idea è di farne un “polmone verde” per contribuire all’assorbimento delle polveri sottili e alla produzione di ossigeno. Un’operazione di carattere esemplare, che vuole porsi come concept di un diverso modo di concepire l’integrazione tra verde ed edilizia urbana, ma che certamente non aspira a diventare modello applicabile in modo estensivo, come invece sarebbe stato per un’operazione di impronta modernista. È chiaro l’influsso del clima Expo, in cui ogni atto diviene dispositivo da esposizione di un concetto, un’idea, una modalità, un messaggio, in cui nessuna parola parla per sé stessa ma acquisisce significati più generali, più assertivi, più declamatori. È chiaro anche, però, il carattere tecnicamente non universalista dell’operazione: Bosco Verticale non è un’Unité d’Habitation, è un’immagine di sostenibilità non sostenibile dai più. Ma nella Milano di oggi anche l’esclusività può essere un incentivo alla propagazione di un’idea. In tenore meno Realpolitik fu il desiderio di Claudio Abbado di tornare a dirigere alla Scala in cambio di novantamila alberi piantati a Milano: era il 2008 e lo chiamò «un cachet in natura». Null’altro che quei novantamila alberi lo avrebbero convinto a lasciare Berlino. Un chiaro atto di spiazzamento, un ricatto gentile impossibile da eludere, vero terrorismo per gli uffici della burocrazia e per gli automobilisti incalliti. Renzo Piano sviluppò un piano di piantumazione di cento carpini, a partire dal perimetro del terzo palazzo porticato su Piazza Duomo, mai realizzato da Mengoni, per poi proseguire fino al Castello Sforzesco. Altre essenze fino al raggiungimento del cachet erano previste nei vialoni delle periferie, nelle piazze divenute parcheggi, in ogni occasione di riconversione che la città potesse offrire. Si trattava di un cambiamento radicale per la città, dell’assunzione di rischi e di oneri non indispensabili in cambio di un collettivo impegno a mutare la propria visione e il proprio modo di vivere la città, e in definitiva il suo destino in vista dell’appuntamento dell’Expo 2015. Un atto di fondazione civile di un nuovo immaginario cittadino ispirato da un sentimento non troppo distante dallo slancio titanico di Joseph Beuys a Kassel per Documenta 7, quando nel 1982 avviò l’azione che in cinque anni comportò l’impianto di settemila querce in città. Ad un passo dall’utopia, gli auspici non ebbero buoni riscontri. Nel 2012 Abbado torna alla Scala, ma il suo sogno, che nel frattempo


era diventato progetto, è accantonato definitivamente dal 2010, dopo che l’amministrazione aveva tentato di stipare senza successo e senza visioni qualche centinaio di alberi nelle estreme periferie della città o in grossi vasi bianchi sui viali. Rammaricato, Renzo Piano commenta: «Mi hanno fatto notare che alcuni alberi provocano allergie, e abbiamo selezionato piante che non emettono pollini. E poi che perdono le foglie, e bisogna raccoglierle: giusto. E poi che coprono le insegne dei negozi: vedete voi. E infine, che rubano spazio ai parcheggi per le automobili. E su questo hanno ragione: gli alberi prendono inevitabilmente il posto dei parcheggi e del traffico automobilistico. Ma è proprio quello che ci vuole: questo è l’aspetto più importante, nella visione umanisticamente corretta delle nostre città nel futuro» 20. Milano sembra quindi depositaria di una pulsione verso il verde che non è un burocratico richiamo agli indici urbanistici, né un impeto di natura civica o ambientalista. L’avvicinarsi dell’Expo ci ha fornito l’opportunità di notare alcuni eventi chiave che hanno reso evidente un sentimento simile ad un desiderio di ricongiungimento con una parte biologica percepita come perduta, a una ricerca di una vocazione identitaria diversa. Il profeta ideale della Milano di oggi, con il suo rapporto spiritualmente insoluto con il verde, è Friedensreich Hundertwasser. Artista e architetto austriaco, colui che odiava i pavimenti piani perché facevano perdere la suggestione del suolo naturale, fervente sostenitore di battaglie ecologiste in chiave poetica, nel 1981 scrisse Il manifesto dell’albero inquilino, pamphlet in cui auspicava che gli alberi diventassero un simbolo di cambiamento, verso un’epoca in cui l’uomo potesse imparare a riservare uno spazio rilevante agli alberi come compagni di vita simbiotica. Stefano Boeri, che da lui coglie l’idea di mischiare alberi e architettura, narra di un episodio accaduto nel 1972 21 in cui Hundertwasser girava per Milano portando con sé un albero e predicando questa dottrina di un tempo in perpetuo “a venire” .

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Gli ultimi quindici anni della vita di Joseph Beuys sono dedicati a un’operazione di carattere universalista: la Difesa della natura. Quando Beuys parla in termini ecologisti non lo fa nel tentativo di mitigare gli effetti di un’azione umana che si suppone innegoziabile: la categoria della sostenibilità come compromesso non è contemplata. Quando pianta un albero non ha la minima intenzione di porsi il problema di un’insegna coperta, delle foglie che cadono o di un parcheggio in meno, come le miriadi di inezie che sfinirono la visione dei novantamila alberi di Abbado per Milano. L’azione di Beuys è olimpica, imperturbabilmente volta alla rivoluzione del contingente aprendo alla spiazzante possibilità di una sinergia minima e panica tra uomo e natura. L’agricoltura per Beuys è la più originale delle opere d’arte, il primo atto di artificio dell’uomo sulla natura. È un atto creativo, di rottura e di legame, la cui straordinarietà sta nell’accordo con cui i gesti umani sono in grado di muoversi rispetto ai cicli vitali, incanalandole e potenziandone le naturali funzioni. Azzerare le sovrastrutture ideologiche per riportare l’uomo all’agricoltura vuol dire restituirgli la misura della propria limitatezza, ma anche l’incredibile potere di agire su quelle energie, quindi la più grande e la più indispensabile delle facoltà creative. E la creatività è un’energia di convergenza intorno a cui si raccoglie una comunità mondiale, non l’energia disgregativa dell’individuo contro le masse. Lo scopo non è opporre uno ai molti, se mai la rottura è lo strumento per una rifondazione umanistica e naturalistica, collettiva e universalistica. Anche per Beuys, come per Baruchello, estetica e agire sociale coincidono nella pratica dell’agricoltura. Dall’Agricola Cornelia Baruchello estraeva ortaggi e astraeva agire artistico, lasciando che fosse il fare a confermare la tesi estetica e stando in guardia rispetto ai “misticismi logici”: ai giovani artisti consigliava di coltivare patate così da debellare la carenza di cibo nel mondo e da agire concretamente sui meccanismi del mercato alimentare. Per lo sciamano Beuys invece la pratica dei multipli consentiva di considerare prodotto artistico una serie di oggetti che idealmente condensassero l’energia di tali operazioni: vanghe, macchine agricole,

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11. JOSEPH BEUYS, GIUSEPPE PENONE, REGINA JOSÉ GALINDO EROICO, MONUMENTALE, POLITICO


manifesti, sequenze fotografiche, abiti, bottiglie d’olio o fusti di metallo per il trasporto di liquidi alimentari. L’artista ha una consapevolezza superiore, pur proponendo non sé stesso come guida, ma proponendo ad ognuno di riprendere il controllo delle proprie facoltà di azione. Ecco una delle occasioni di azione che Beuys offre ai suoi seguaci. Anno 1982 (ancora una volta): per Documenta 7 Beuys disegna di fronte al Federicianum un enorme vettore triangolare fatto di pietre di basalto. Propone quindi l’avvio di una vendita in cui ogni aderente acquistandone un blocco finanzierà l’impianto di una quercia a Kassel. Comincia il ciclo vitale di un’opera colossale, che vedrà, nel giro di cinque anni, la piantumazione di settemila querce. Ognuna di queste avrà ai piedi la corrispondente colonna di basalto, a memoria fossile dell’operazione. Cinque anni dopo, 1987, Beuys è ormai morto, e a Documenta 8 si adotta l’ultima quercia di questa ideale foresta a estensione potenzialmente infinita, un cielo di foglie sotto cui raccogliere l’intera umanità. C’è chi invece intende abitare gli alberi riconducendoli per artificio alle forme della cultura antropica sfruttando il senso di vertigine offerto dalla scissione ontologica tra astrazione intellettuale e natura – come sarebbe stato per un giardino all’italiana – ma anche volendo ottenere un effetto di ricongiungimento del linguaggio architettonico alle intime ragioni della biologia: la cattedrale o il teatro, piuttosto che la casa sull’albero o la casa nell’albero, sono due temi interessanti, perché in essi la comunità biologica di cui l’albero è icona si coniuga con l’idea dei luoghi di elezione e celebrazione della comunità civile. L’edificazione collettiva del monumento cittadino si traduce nell’attesa collettiva che il monumento vegetale si generi. La Cattedrale Vegetale di Giuliano Mauri in Val di Sella (ma riproposta in più luoghi), propone in chiave letterale la suggestione del bosco di colonne, spesso associata all’architettura gotica: fasci di colonne e tronchi d’albero; volte svettanti su archi ogivali e rami d’albero che si ricongiungono in sommità; luci filtrate dalle grisaille e luci filtrate dai fogliami; navate e filari. Mauri, il “tessitore del bosco”, predispone armature in legno che faranno da canale in cui gli alberi percorreranno la loro naturale via ascensionale. Lo schema tecnico, artistico, intellettuale, costringe lo sviluppo degli alberi entro una matrice sufficiente, da sola, a fornire la potente immagine di un edificio gotico. Il simbolo della comunità raccolta attorno al proprio tempio diventa vivo, non più fissato una volta per l’eternità. La monumentalità è la potenzialità del naturale più che la perenne attualità della pietra.

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Giuseppe Penone comincia la sua carriera artistica avvinghiando perennemente un calco in bronzo della sua mano al tronco di un albero: Continuerà a crescere tranne che in quel punto. Impone così all’albero una cicatrice, che non è il risultato di un’azione compiuta ma il prodotto in evoluzione di un’azione che non smette di compiersi. Trascorrerà gran parte della propria carriera in contemplazione degli alberi in chiave scultorea: l’albero è inteso come trascrizione perfetta di una vita non lineare, influenzata da cicli stagionali ed eventi, una sorta di storia latente della sfera biologica letta nelle spoglie funeree di alberi che hanno cessato di vivere. Si concederà un magniloquente ritorno alle prerogative della vita che scorre con il Teatro Vegetale, opera incompiuta sulla fiumara del Sarmento in bilico tra l’architettura organica e la land art. Riprende così la tradizione dimessa e insieme gloriosa dei teatri-giardino dell’Italia manierista e barocca, come nel giardino di Pojega o nel Teatro di Verzura di Villa Marlia. Qui, un cerchio di centoventicinque metri, con una cavea e un palco divisi da uno specchio d’acqua, il tutto costruito con cespugli, pietra e alberi, si affaccia naturalmente sul largo letto di sassi della fiumara, in pieno Parco del Pollino. L’operazione di carattere pubblico, osteggiata da pezzi della popolazione locale e dagli ambientalisti, si è paradossalmente arenata dopo l’espianto delle specie arboree esistenti e prima dell’impianto delle nuove congeniali al progetto. Antimonumentale e antieroica per eccellenza, ma a maggior ragione politica, è invece l’azione di Regina Josè Galindo. L’Artista guatemalteca è particolarmente legata alla performance come atto in grado di mettere in rilievo le contraddizioni insite in pratiche sociali che, pur mostrando effetti di notevole atrocità, sono comunemente accettate in alcuni contesti sociali. Nelle sue azioni il corpo della performer rappresenta, di volta in volta, tutte le donne, il popolo guatemalteca, l’intera massa dei migranti, ogni sfruttato o ogni vittima di violenza. Nel suo lavoro è spesso presente una potente suggestione organica: il suo corpo è esposto nella purezza della nudità agli eventi atmosferici, o messo in pericolo da azioni di violenza sul contesto naturale, o ancora assimilato a organismi vegetali. Nella performance Raícesm che l’artista elabora nel 2015 per l’Orto Botanico di Palermo riflette sulle etnie sradicate dalla guerra, dalla fame, dalle persecuzioni o dalla disoccupazione che tentano di ricostituirsi e di emergere come comunità nel capoluogo siciliano. Venti performer provenienti da paesi diversi, distesi sul suolo dell’Orto Botanico, abbrac-


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Rainer Maria Rilke Elegie duinesi

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«(...) Gli amanti potrebbero, se sapessero come, nell’aria della notte dire meraviglie. Perché pare che tutto ci voglia nascondere. Vedi, gli alberi sono, le case che abitiamo reggono. Noi soli passiamo via da tutto, aria che si cambia. E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace un’onta, forse, un po’ come si tace una speranza ineffabile.»


ciano le radici di un albero con le braccia piantate nella terra. L’Orto, di origine settecentesca, grazie al favore del clima ha col tempo ospitato una notevole varietà di piante allogene spesso importate sull’onda di entusiasmi cosmopolitisti, spesso illegalmente, spesso in modo incosciente. Così, ad esempio, le radici e gli apparati radicali aerei di un enorme ficus magnolioide sfrantumano il disegno illuminista del giardino sollevando muri, interrompendo percorsi, fratturando panche e fontane. In questo contesto di bellezza cosmopolita non priva di tensioni ogni performer ritrova idealmente la radice della propria comunità, disteso ai piedi di un albero originario del suo stesso paese o che con il suo paese abbia un particolare rapporto simbolico: la guerra, l’infanzia, la solitudine, il ricordo, la casa... In questa azione si evidenziano le epiche dei popoli in migrazione, ma anche una particolare epica cittadina: è come se Palermo, la città rappresentata dal Genio morso al cuore dalla serpe che accoglie in grembo, avesse coltivato in seno a se stessa le forze che un giorno ne avrebbero mandato in frantumi la struttura ideologica per prepararla ad accogliere diversità non contemplate. In tutto ciò gli alberi sono testimoni, totem, monumenti vivi, dei vessilli che non annunciano guerra o confini, ma attorno ai quali è possibile ricostruire componenti di identità comunitaria polverizzate dai trambusti del contemporaneo.

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Nel 2006 Marina Abramovic presenta in Balkan Epic, sua retrospettiva all’Hangar Bicocca di Milano, l’inedita Balkan Erotic Epic: è la riattualizzazione in video delle tradizioni balcaniche intorno alla conservazione delle energie vitali, una serie di rappresentazioni, con il concorso di alcuni performer, che scaturisce da una ricerca di carattere storico e antropologico su alcune tradizioni spiccatamente incentrate sulle funzioni sessuali. Qui l’accordo tra uomo e natura è conturbante, non esiste ingegno umano da accordare agli ordini cosmici. Le regole sono connaturate all’uomo, non c’è alcunché da indovinare. C’è solo da osservare, mimare, reiterare, comprendere con l’esercizio dei sensi e desumere una regola universale, così come farebbe un adolescente nel cammino della propria educazione sessuale: perdere l’innocenza per mischiarsi con la natura, compromettersi per consapevolizzarsi. Gli organi sessuali sono portatori di influssi positivi contro le energie negative. Sono delle frontiere di congiunzione con la terra secondo diversi procedurali che conducono alla pacificazione di situazioni degenerate, al potenziamento delle manifestazioni di debolezza o alla fertilizzazione delle opportunità di generazione. Un uomo che tocchi un bue affaticato dopo essersi masturbato, conferirà all’animale la capacità di condurre l’impresa: un performer nudo in un piano erboso, sotto la pioggia, si masturba in posizione eretta, eroica, incurante delle intemperie, anzi ristorato e rinvigorito da un segno di riconoscenza naturale. Per far crescere forte il grano, un uomo si masturba nel suolo: un performer nudo, disteso a croce sul terreno erboso, riproduce un atto sessuale con la terra, quindi il campo si allarga, e mostra tredici performer fare lo stesso, distribuiti a riempire la scena. Le donne scendono in battaglia contro un nemico difficile da sconfiggere facendo gesti osceni nel tentativo di distrarlo: donne di ogni età, sotto la pioggia, in costume tipico, corrono in ogni direzione, alzando di quanto in quanto la gonna ed esponendo la propria vagina alla pioggia. Contro l’impotenza, un uomo potrà compiere un rituale di propiziazione il giorno prima del matrimonio: scorrono immagini in disegno animato di un uomo in costume tipico che si reca presso un

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12. MARINA ABRAMOVIC ANTROPOLOGIA, RITUALIZZAZIONE, PERFORMANCE.


ponte, pratica tre fori nelle assi di legno, e li penetra uno a uno. Abramovic riferisce la formula da declamare in questa occasione: «Così come penetro i buchi di questo ponte, allo stesso modo penetrerò mia moglie». E poi canti popolari di storie di morte e ricongiunzione, di devozione e di epica popolare: dodici donne che con la camicia aperta offrono i seni al vento mentre una tredicesima intona il canto, o uomini con il pene in erezione fuori dal costume tipico che ascoltano in modo solenne un canto celebrativo dell’anima slava. Marina Abramovic, da sempre impegnata nella consapevolizzazione di ogni funzione corporale, conduce un’operazione insolita a metà tra antropologia, riattualizzazione e performance sul canovaccio offerto da una tradizione in cui l’artista stessa sembra riconoscersi a posteriori e in cui sembra trovare orgoglio e conforto per il proprio operato ormai storicizzato. Attraverso l’operazione infatti non sembra semplicemente offrire al proprio pubblico l’opportunità di conoscere le tradizioni balcaniche, ma le fa proprie, le cita, le asserisce. Marina Abramovic diviene ultima espressione dell’epica balcanica e ci conferma con estrema concisione e limpidezza il punto di contatto tra rituale – che posiziona l’uomo in un territorio di reciproche influenze naturali – e pratica artistica contemporanea – di autoriflessione e di estroflessione dell’uomo su se stesso e sull’ambiente –.

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Nel 1956 Jack Kerouac, in perenne ricerca di fonti esperienziali autentiche, si ritira per sessantatre giorni sul Desolation Peack, nello stato di stato di Washington, impiegandosi nell’avvistamento di incendi. È un pretesto per cercare solitudine forzata in un luogo isolato e per dedicarsi a forme di concentrazione mutuate dal buddismo. Un’aspirazione piuttosto occidentale di provocare esperienze di misticismo, coniugata alla volontà dell’autore di cimentarsi con la struttura dell’haiku. Ne vengono fuori delle composizioni spurie, animate da notevoli chiaroscuri e da immagini retoriche potenti, tra cui Desolation Pops, 51: «A million acres / of Bo-trees / And not one Buddha». Una sua trasposizione deviata è il titolo della performance di Francesco Gabrielli e Marzia Migliora per il parco di Stupinigi: Un milione di alberi sacri e nessun dio, 2014 22, curata da Eco e Narciso per Stupinigi ferile. Artista visiva lei, danzatore lui, decidono di assumere lo spazio del parco come spazio scenico ideale per annidare alcuni episodi performativi in diversi angoli: i pioppeti, i campi coltivati, un’antica fagianaia e una casetta di legno azzurro. Ad agire nello spazio sono i due autori insieme ad altri tre performer e la banda musicale di Nichelino con quarantacinque elementi. Il bosco diventa il luogo degli alberi consacrati, con una carica oscura e una dose di impenetrabilità ai piedi e agli intelletti umani, mentre gli spazi coltivati diventano “spazi di sconfinamento”, luoghi disponibili all’intervento, luoghi di opportunità. Per i due autori l’agricoltura rappresenta l’espressione di una facoltà creativa pari alle arti visive, alla musica, alla danza o al cinema. Ciò che rende un gesto degno di attenzione, depositario di una carica estetica, è la guida di una visione. La visione è ciò che spinge ogni giorno il contadino all’incessante opera di cura del coltivato: quella è la sua opera d’arte, il suo contributo all’avvenire. La preparazione stessa dell’intervento ha richiesto lunghe consultazioni con gli agricoltori, gli allevatori o anche i semplici avventori di Stupinigi alla ricerca degli elementi

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13. GABRIELLI E MIGLIORA, CARETTO E SPAGNA, ANNA SCALFI EGHENTER AZIONI CONTEMPORANEE NEL PARCO DI STUPINIGI. IL POETICO E IL FUNZIONALE


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culturali e d’immaginario utili alla costruzione di una scena significante. In gruppi di cinquanta persone i partecipanti sono invitati poi a seguire un percorso non lineare nel parco alla ricerca di questi congegni performativi da attivare. Le prospettive del parco diventano lo spazio protetto in cui si manifestano le infinite tensioni che si esplicano nella coltivazione della terra, la reciproca pulsione e la reciproca inconciliabilità tra uomo e natura. Sempre nell’ambito del programma artistico prodotto da Stupinigi fertile a cura di Eco e Narciso è Epiderma di Andrea Caretto e Raffaella Spagna 23. Si tratta di un’azione che ha coperto l’arco dell’estate del 2014: parte da un workshop condotto dagli artisti con gli abitanti di Stupinigi e dei comuni limitrofi consistente in una ricognizione del paesaggio del parco; culmina a settembre con un happening in cui, percorrendo il bosco, era possibile imbattersi nei partecipanti al workshop pronti a guidare i visitatori nella sperimentazione di preparati cosmetici ricavati dalle erbe locali. Tutti i preparati – creme, impacchi, pediluvi, unguenti – erano orientati ad agire sulla pelle, da cui il titolo dell’happening Epiderma. I partecipanti dovevano quindi riconoscere, selezionare, estrarre e lavorare i principi attivi dalle risorse naturali disponibili per influire sulla frontiera porosa dei corpi dei visitatori. Un’inconsueta esperienza del paesaggio attraverso la quale si tendeva a mettere in evidenza le virtù di un territorio finito ai margini del mondo produttivo preparando la pelle, metaforicamente e fenomenicamente, all’accoglienza di un’esperienza più profonda e immediata di uno specifico ambiente nascosto all’ombra delle chiome verdi. Da un’esperienza marginale e accessoria, il parco diventa un habitat ipotetico, tra l’utopico e il post-catastrofico, per una comunità che ricorda le popolazioni silvestri delle fiabe, comprese streghe, folletti, maghi ed eremiti, tipicamente depositari di una conoscenza superiore, a tutti disponibile ma smarrita dall’essere umano inurbato. Nei progetti degli artisti Caretto e Spagna c’è un’altra azione per Stupinigi, un’azione tipicamente arborea per la rilettura delle prospettive intellettuali del parco. A partire dai tronchi dei pioppi tagliati, gli artisti vorrebbero ricostruire con la logica e la materia vegetale la prospettiva centrale del parco lungo cui oggi corre una strada asfaltata che non è più in grado di sfondare nella Palazzina di Caccia. Sarebbe una sorta di rettifica di un ideale, lunghissimo ramo di legno che coinciderà con un “ramo” dei tracciati viari. L’incedere dei tronchi di legno sarà ordinato per diametro e nella realizzazione dell’opera saranno coinvolte le comunità locali, così da farne un’azione di ri-impossessamento cognitivo della monumentalità del luogo.


Anna Scalfi Eghenter, con l’opera S’il n’ont pas de cerfs, Qu’ils chassent des princesses, porta ad Artissima 2014 24 una trasposizione della Sala degli Scudieri di Stupinigi, con le Vedute di Caccia di Vittorio Amedeo Cignaroli. La stanza e gli scorci sono geometricamente riprodotti alla perfezione, ma la stanza è una riproposizione scenica di pura volumetria costruita nei padiglioni fieristici e le vedute sono fotografie contemporanee secondo le prospettive del Cignaroli. L’artista mette così in atto uno spiazzamento, una vertigine di tempo e spazio intorno all’immaginario perduto di Stupinigi: l’immagine storica di un progetto intellettuale offuscato e l’immagine mentale collettiva di un luogo finito ai margini della sfera delle relazioni umane. Al posto dei rondò e dei viali ci sono quindi impietose rappresentazioni dello stato attuale del parco, con incurie, trasformazioni e persistenze valoriali. Al posto delle vedute di caccia, invece, compare qua e là, a turbare la scena, a destare la favola storica, la figura della principessa, una performer vestita di bianco che percorre i viali su due trampoli che lasciano sul suolo impronte di cervo. Una sorta di riattualizzazione dei fini scenici del parco, un breve squarcio nella tessitura del reale che riporta al riconoscimento di Stupinigi per la propria natura di spazio della rappresentazione dei rituali sociali. Il padiglione presente ad Artissima ha anche l’intenzione di sondare la conoscenza del Parco da parte dei visitatori, e una brochure parte integrante dell’opera invita tutti i visitatori a riprendere possesso cognitivo del parco visitandolo di persona e sperimentando la performance e la scena perenne offerta dalle prospettive juvarriane.

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Il presidio del territorio di Suppunicum – da cui Stupunico, Suppunigo e infine Stupinigi – prima della costruzione della Palazzina di Caccia era assicurato dall’ancora esistente (seppur in critiche condizioni) piccolo castello medioevale costruito in funzione della difesa del paese di Moncalieri. Dal ramo morto dei Savoia-Acaia, nel 1418 passò in eredità ad Amedeo VIII di Savoia. Nel 1564 la proprietà passò invece in mano dell’Ordine Mauriziano: il Gran Maestro dell’ordine coincideva con il capo di Casa Savoia e il trasferimento di proprietà, quindi, per l’epoca non comportava sostanziali limitazioni nel suo utilizzo. Questo particolare diverrà ben più influente, però, solo tre secoli e mezzo dopo. Il territorio di Stupinigi è già da allora luogo vocazionale per lo svago, per la pausa dalla città, e per l’istituzione di rituali civili che consentissero una diversa regolazione della socialità di corte. Il più elaborato ed efficiente dei dispositivi per consentire tale elaborazione ricreativa era la battuta di caccia. A questo passatempo reale veniva tributata una tale importanza da predisporre appositamente per lo scopo più di una residenza. Dopo quella di Venaria, risalente a metà Seicento, Vittorio Amedeo II di Savoia, asceso al rango reale, decide di edificare una nuova palazzina di adeguata rappresentanza. Nel 1729 viene incaricato Filippo Juvarra. Escogiterà un perfetto dispositivo per le parate di caccia: il complesso procedurale di cerimoniosi inviti e risposte, parate, finzioni, protocolli, stupori più o meno simulati, rincorse e inseguimenti, finalmente aveva il suo spazio dedicato, disegnato come lo sarebbe il percorso di un gioco da tavola, tenendo però in considerazione i principi della spazialità teatrale barocca come gerarchie, prospettive e tranelli percettivi. Si comincia ad utilizzare stabilmente la palazzina a partire dal 1731, anno dell’inaugurazione avvenuta in occasione della festa di sant’Uberto. Verrà però realmente terminata nelle decorazioni e sarà pronta agli appuntamenti di rappresentanza solo nel 1739. Piccola palazzina dei piaceri, straordinariamente inserita in un complesso disegno paesaggistico su vasta scala territoriale, quella di Stupinigi è sempre stata concepita

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14. IL PARCO E LA PALAZZINA DI CACCIA DI STUPINIGI VOCAZIONI TERRITORIALI ARBOREO, PUBBLICO, RELAZIONALE


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Jean-Paul Sartre La nausea

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«Dunque, poco fa ero al giardino pubblico. La radice del castagno s’affondava nella terra, proprio sotto la mia panchina. Non mi ricordavo più che era una radice. Le parole erano scomparse, e con esse il significato delle cose, i modi del loro uso, i tenui segni di riconoscimento che gli uomini han tracciato sulla superficie. Ero seduto, un po’ chino, a testa bassa, solo, di fronte a quella massa nera e nodosa, del tutto bruta, che mi faceva paura. E poi ho avuto questo lampo di illuminazione. Ne ho avuto il fiato mozzo. Mai, prima di questi giorni, avevo presentito ciò che vuol dire “esistere”.»


come una deliziosa eccezione alla consueta vita di corte: né una residenza stabile, come fu in tempi alterni per Moncalieri o Venaria, né residenza temporanea che fosse inserita nel tradizionale tour delle residenze reali da Pasqua a Natale. Stupinigi è un puro apparato da divertimento, da rappresentanza e da celebrazione delle relazioni sociali che si inserisce in un contesto agricolo senza soffocarlo, ma anzi traendone energia. Dopo alterne vicende e una sequela di cerimoniali e diplomatici piaceri, la palazzina venne ceduta al demanio nel 1919. Diviene quindi Museo di Arte e Ammobiliamento, raccogliendo arredi provenienti da varie sedi reali. Resta però demaniale solo per breve tempo: nel 1925 tornò all’Ordine Mauriziano. Nel 1992 si istituisce il Parco Naturale di Stupinigi, consentendo la tutela di un valore ma avviando una disgiunzione fatale tra le funzioni del parco e quelle della palazzina. Il 1997 è l’anno in cui il parco è dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità insieme alla palazzina e alle residenze sabaude, affermando universalmente il valore dello schema intellettuale juvarriano e ponendo la necessità della sua preservazione, come bene e come funzione, nella sua integrità. Nel 2004 finalmente il parco torna pubblico, essendo acquisito dalla Regione Piemonte. Avviene però la tragica definitiva separazione tra parco pubblico e Palazzina di Caccia che rimane all’Ordine. Si interrompe a tutti gli effetti la straordinaria organicità tra edificio e territorio. Il Parco di Stupinigi oggi è un’appendice poco leggibile sul retro di una residenza sabauda mutilata, con percorsi viari talvolta asfaltati, talvolta offuscati dalla vegetazione informe, talvolta quasi cancellati. Dei rondò non rimane che una debole suggestione, né è più possibile percorrere i viali col passo certo della parata consapevole di terminare in trionfo, nel salone centrale della palazzina. La stessa percezione comune del parco è offuscata. Difficile comunicarne (e assicurarne) la fruibilità, ma anche difficile ricavarne una rappresentazione mentale che consenta l’orientamento, il possesso dello spazio, il senso di un “io sono qui”, e ancor di più il senso di un “io appartengo a questo luogo”. Nel parco permangono ancora numerose aziende agricole che si occupano a vario titolo di tutela, manutenzione o messa a frutto di settori del territorio, ottenendone una produzione di qualità alle porte di una città che ha avuto una pesante vocazione industriale. Non poco. Esse rappresentano un presidio e una opportunità di lettura privilegiata di un luogo che ha sostanzialmente dismesso la consuetudine con il tema dell’abitare. Rappresentano anche la più longeva delle funzioni di Stupinigi: aveva una 80


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vocazione agricola prima della Palazzina di Caccia; il fondo agricolo era alla base delle finanze dell’Ordine Mauriziano; conserva un’impronta agricola nel progetto juvarriano, con l’infilata di magnifici edifici in mattoni che conducono da Torino alla Palazzina; rimane agricolo oggi, dove alcune cascine divengono emergenze rilevanti nel percorso nel parco naturale. Lo stesso patrimonio immobiliare in sé rappresenta una risorsa particolarmente evocativa. Svuotato il castello, con la sua piccola solennità spiazzata dall’astronave-Stupinigi balzatagli improvvisamente accanto, i tetti sfondati e le stanze abitate, piastrellate e frazionate come un qualsiasi condominio fino a qualche anno fa, ora preda del saccheggio e del vandalismo. E svuotate gran parte delle cascine, le case e le botteghe che si allineano secondo un progetto unitario sulla via Torino, una concentrazione di mattoni che trasuda il fascino delle visioni che li hanno assemblati, e dell’avvenire tradito. Il tutto a due passi dalla città di Torino, e ad ancor meno distanza da Nichelino, cittadina di cui Stupinigi è frazione e che ha oggi l’assoluta necessità di non appiattirsi nell’immagine dell’ultima delle borgate dismesse, satelliti torinesi, dormitorio di lavoratori trasferitisi decenni fa in Piemonte per un lavoro che spesso non esiste più. Stupinigi rappresenta oggi, quindi, un luogo di valore universale che reclama il rispetto di una vocazione: uno spazio che necessita di essere rifondato in immagine per poter rientrare nell’immaginario comune per poi divenire bene comune. Cessati i clamori e le emergenze delle crescite industriali, l’eccellenza di Stupinigi ha l’opportunità e la necessità di recuperare, magari proprio attraverso la persistenza agricola, il proprio ruolo di rappresentanza, non dei protocolli di corte ma del senso dell’abitare collettivo; di recuperare la magnifica capacità scenica (la facoltà di contenere le scene), tornando a essere palco per la rappresentazione dei rituali sociali più alti e per l’elaborazione degli insoluti sociali più complessi; di recuperare l’imprescindibile capacità di sospendere il tempo del lavoro in un’idea umanistica ed elevata dell’esistenza dell’uomo che conquista a fatica la condizione post-industriale invece di subirla. Capita spesso che quando in Italia non si sa cosa fare di uno degli innumerevoli beni immobiliari storici li si proponga alle funzioni dell’arte o della musealizzazione in genere. È chiaro: ogni cosa ha storie da raccontare e l’Italia in particolare ha immensi capitali narrativi aggrappati sulla cima di montagnole o chiusi in dimore con le finestre murate. L’aspirazione alla musealizzazione è quantomeno sul fronte della rifunzionalizzazione la migliore delle alternative al ritorno di duchi e baroni. È anche


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chiaro che questa sia un’aspirazione oggi insostenibile, incapaci come siamo anche solo di reagire alle decine di croste d’intonaco che si staccano dai soffitti dei nostri musei nazionali. Ma per Stupinigi il destino dell’arte ha radici e ragioni più profonde: nulla vieta di conservare la palazzina affittandola per cerimonie ed eventi privati, convegni e cene aziendali, né c’è nulla che non vada nell’idea che il parco sia un’apprezzata pista per fare jogging. Eppure la rappresentazione, nel suo senso più ampio, è la prima delle funzioni perdute di Stupinigi, per cui l’arte non sarebbe la più – tecnicamente e intellettualmente – innocua delle alternative contemporanee al ritorno delle battute di caccia savoiarde. Sarebbe invece la sua più naturale, utile ed efficace delle rifunzionalizzazioni. In questo percorso da Accettura a Stupinigi si sono toccati alcuni dei punti fondamentali che ispirano atavici rituali arborei trasposti al contemporaneo come le più avanzate pratiche di arte relazionale. In questo frangente storico, in cui è alta e urgente la domanda di radicamento, di esperienza, di autenticità, di legittime occasioni di fuga dalla corsa all’appiattimento dei linguaggi, di condivisione, di comunità, Stupinigi è un luogo che pone gli spazi e le domande giuste perché vi si cerchino risposte adeguate attraverso le pratiche artistiche pubbliche e relazionali.

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NOTE 1 ] Taylor, E.B., Primitive culture. Researches into the development of mythology, philosophy, religion, art and custom, London, Poutledge-Thoemmes, 1994 2 ] Mannhardt, W., Antike Wald und feldkulte aus Nordeuropaischer uberlieferung erlautern, Berlino, Gebruder Borntraeger, 1877 3 ] Frazer, J.G., Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, trad. N. Rosati Bizzotto, Roma, Newton Compton, 1999 [I ed. 1992; ed. or. 1922], p. 139 4 ] ibidem, p. 157 5 ] Van Geneep, A., Manuel de Folklore français contemporain, t. I, vol. iv, Paris, Picard 1949, pp. 1657-1658 6 ] Sinisgalli, L., Lucania, in Sinisgalli, L., Poesie di Ieri: 1931 - 1956, Mondadori, Milano, 1966, p. 96 7 ] Bronzini, G.B., Accettura – Il Contadino – L’Albero – Il Santo, Galatina (Lecce), Congedo Editore, 1979 8 ] ibidem 9 ] Lanternari, V., Crisi e ricerca d’identità. Folklore e dinamica culturale, 2a ed., Napoli, Liguori, 1977 10 ] Cuoco, V., De Francesco, A., (a cura di), Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, Editori Laterza, Bari, 2014 11 ] Labbate, A., in AA.VV., Fior di Maggio. L’antico rito di piantar alberi, Accettura, Scuola Elementare Statale Aldo Moro di Accettura 1999, p. 96 12 ] Mirizzi, F., Aspetti demoantropologici, in AA.VV., Cultura nazionale e cultura regionale: il caso della Basilicata. Atti del convegno, Potenza 19-20 maggio 1997, Potenza, Edizioni Osanna, 1997, pp. 171-173 13 ] Di Nola, A., Museo dei Culti Arborei ad Accettura, in AA.VV., Lares, trimestrale di studi demoetnoantropologici, L. Olschki., 1998, vol. 64, p. 59 14 ] Anderson, C., La coda lunga, Dal mercato di massa a una massa di mercati, Codice Edizioni, Torino, 2010 15 ] Bourriaud N., Il Radicante. Per un’Estetica della globalizzazione, postmedia books, Milano 2014, p. 122 16 ] La Commissione annuncia le sue iniziative per far crescere il pubblico della cultura, Commissione Europea, http://europa.eu/rapid/press-release_IP-12-1100_it.htm 17 ] Baruchello G., Martin H., How to imagine. A narrative of art and agriculture, McPherson & Company, New York 1983 18 ] Birozzi C., Pugliese M. (a cura di), L’arte pubblica nello spazio urbano. Commitenti, artisti, fruitori, Bruno Mondadori, Milano, 2007 19 ] http://www.agnesdenesstudio.com/works7.html 20 ] Piano, R., Io, Abbado e la città. Un sogno che finisce, 22 aprile 2010: http://milano.corriere.it/ notizie/cronaca/10_aprile_22/piano-abbado-verde-1602882479089.shtml 21 ] Boeri, S., Il palazzo degli alberi ospita anche gli umani. La sfida (etica e politica) alla biodiversità, s.d.: http://lettura.corriere.it/il-palazzo-degli-alberi-ospita-anche-gli-umani/ 22 ] Francesco Gabrielli e Marzia Migliora – Un milione di alberi sacri e nessun dio, Eco e Narciso, 28 giugno 2014: http://www.stupinigifertile.it/?p=1847 23 ] Epiderma – Happening, Eco e Narciso, 20 settembre 2014: http://www.stupinigifertile.it/?p=2368 24 ] S’ils n’ont pas de cerfs, qu’ils chassent des princesses, Eco e Narciso, 8 novembre 2014: http://www.stupinigifertile.it/?p=2572

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IMMAGINI pagine 6, 12, 14, 26 ] Il Maggio di Accettura. Reportage del rito: Moro, S., Il Maggio di Accettura, Accettura, Pro Loco Accettura, 2004 pagine 4, 20, 38 ] Il Maggio di Accettura. Reportage del rito: Viggiano, A., L’albero della festa. Il Maggio di Accettura, Modugno (Bari), La nuova tecnografica, 2009 pagina 32 ] Un albero di Natale in un’illustrazione d’epoca: pastispresent.org pagina 42 ] Opera rituale di aborigeni australiani di fine ’800: sovereignunion.mobi pagina 48 ] Ernst Haeckel, L’albero della vita. Morfologia generale degli organismi: wikimedia.org pagina 54 ] Emilio Fantin, Pollaio Smeraldi: www.giovaniartisti.it pagina 58 ] Agnes Denes, Wheatfield: tumblr.com pagina 60 ] Friedensreich Hundertwasser a Milano: www.hundertwasser.at pagina 66 ] Joseph Beuys, 7000 Querce: the-universe-inside-your-mind.blogspot.it pagina 72 ] Francesco Gabrielli e Marzia Migliora, Un milione di alberi sacri e nessun dio, foto P. Monasterolo: www.stupinigifertile.it pagina 76 ] Anna Scalfi Eghenter, S’ils n’ont pas de cerfs, qu’ils chassent des princesses, foto P. Monasterolo: www.stupinigifertile.it pagina 80 ] Veduta aerea della Palazzina di Caccia di Stupinigi e del Parco Naturale, foto G. Zanetti: www.allitalianart.com

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BIBLIOGRAFIA aa.vv., Audience or communities? Between policies, marketing and true desires, Szene, Salisburgo, 2013 aa.vv., Fior di Maggio. L’antico rito di piantar alberi, Accettura, Scuola Elementare Statale Aldo Moro di Accettura 1999 Agarotti, C., L’albero di Maggio: da rito paleocristiano a tradizione popolare, in La ruralità e il territorio. Incontri di storia bresciana, Brescia, Aziende del Gruppo Cab – Credito Agrario Bresciano – Gruppo aziendale dei dipendenti, 1994 Anderson, C., La coda lunga, Dal mercato di massa a una massa di mercati, Codice Edizioni, Torino, 2010 Baruchello G., Martin H., How to imagine. A narrative of art and agriculture, McPherson & Company, New York, 1983 Birozzi C., Pugliese M. (a cura di), L’arte pubblica nello spazio urbano. Commitenti, artisti, fruitori, Bruno Mondadori, Milano, 2007 Bourriaud N., Il Radicante. Per un’Estetica della globalizzazione, postmedia books, Milano 2014 Bourriaud, N., Estetica Relazionale, postmedia books, Milano, 2010 Bronzini, G.B., Accettura – Il Contadino – L’Albero – Il Santo, Galatina (Lecce), Congedo Editore, 1979 Bronzini, G.B., Cultura popolre. Dialettica e contestualità, Bari, Dedalo Libri, 1980 Bronzini, G.B., Cultura contadina e idea meridionalistica, Bari, Edizioni Dedalo, 1982 Colucci, G., I mai del baianese, Roma, Il calamaio, 1998 Cuoco, V., De Francesco, A., (a cura di), Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli, Editori Laterza, Bari, 2014 De Luca, E., La città non rispose, da In alto a sinistra, Mondadori, Milano 1991 Dei, F., La discesa agli inferi. James G. Frazer e la cultura del Novecento, Lecce, Argo, 1998 Di Nola, A., Museo dei Culti Arborei ad Accettura, in aa.vv., Lares, trimestrale di studi demoetnoantropologici, L. Olschki., 1998, vol. 64, p. 59 Di Nola, A., Religiosità e misticismo, in aa.vv., Il trionfo del Privato, Roma-Bari, Laterza, 1980 Di Nola, A., Antropologia Religiosa, Newton Compton, Roma, 1984 Filardi, G., Appunti per la storia di Accettura, Perugia, Gramma, 2001 Filardi, G., Culti arborei lucani. Il Maggio di san Giuliano, Accettura, Matera, BMG s.d. Frazer, J.G., Il ramo d’oro. Studio sulla magia e la religione, trad. N. Rosati Bizzotto, Roma, Newton Compton, 1999 [I ed. 1992; ed. or. 1922]. Gatto Trocchi, C., Le Muse in azione, Ricerche di antropologia dell’arte, Franco Angeli, Milano, 2001 Lanternari, V., Crisi e ricerca d’identità. Folklore e dinamica culturale, 2a ed., Napoli, Liguori, 1977 Lanternari, V., Festa, carisma, apocalisse, Palermo, Sellerio, 1983 Larotonda, A. L., Feste lucane. Genealogia di una identità, Policoro (Matera), ediGrafema, 2014 Macaione, I., Sichenze, A., (a cura di), Urbsturismo. Dimensioni culturali, progetto e prime esperienze in Basilicata, Milano, Franco Angeli, 1997 Mannhardt, W., Antike Wald und feldkulte aus Nordeuropaischer uberlieferung erlautern, Berlino, Gebruder Borntraeger, 1877 Mirizzi, F., Aspetti demoantropologici, in aa.vv., Cultura nazionale e cultura regionale: il caso della Basilicata. Atti del convegno, Potenza 19-20 maggio 1997, Potenza, Edizioni Osanna, 1997 Moro, S., Il Maggio di Accettura, Accettura, Pro Loco Accettura, 2004 Moro, S., Il Maggio di san Giuliano, Accettura, Provincia di Matera Assessorato alla Cultura, 2006 Notarangelo, D., (a cura di), Il Maggio di Accettura, Matera, Michele Liantonio Editore, 1975 Rilke, R.M., Elegie duinesi, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1978

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Rousseau, J.J., Lettera a d’Alambert sugli spettacoli, in Balestra, D., (a cura di), Jean-Jacques Rousseau, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia, 1987 Sartre, J.P., La Nausea, Einaudi, Torino, 2014 Sinisgalli, L., Poesie di Ieri: 1931 - 1956, Mondadori, Milano, 1966 Simmel, G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 1995 Taylor, E.B., Primitive culture. Researches into the development of mythology, philosophy, religion, art and custom, London, Poutledge-Thoemmes, 1994 Thoureau, H.D., Walden, or life in the woods. On the duty of civil disobedience, New York, Holt, Rinehart and Winston, 1966 Van Geneep, A., Manuel de Folklore français contemporain, t. I, vol. IV, Paris, Picard 1949 Viggiano, A., L’albero della festa. Il Maggio di Accettura, Modugno (Bari), La nuova tecnografica, 2009

SITOGRAFIA Agnes Denes Studio: www.agnesdenesstudio.com Commissione Europea: europa.eu Corriere della Sera – Milano: milano.corriere.it Corriere della Sera – Il club de La Lettura: lettura.corriere.it Dimpflmeier, F., Nel bosco sacro. Realtà, finzione, magia e natura ne Il ramo d’oro di James G. Frazer, in Belphégor, 2014/1: belphegor.revues.org/456 Stupinigi Fertile: www.stupinigifertile.it

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Erri De Luca La città non rispose In alto a sinistra

«Erano i mesi dell’inverno ’81, la polvere del terremoto non si era ancora posata. In molti punti la città era vuota, in altri fitta di accampamenti. Ero tornato a Napoli. Ovunque ferveva il primo soccorso di una infermeria edilizia. Avevo trovato lavoro in un cantiere, facevo il manovale, fuori regola, assunto “a nera”. Sotto le volte, gli archi, i soffitti di palazzi antichi issavamo a puntello una foresta di pini ancora freschi di taglio. Fornivamo stampelle a pietre scosse più dal tempo che dai colpi del sottosuolo. Per fare in fretta i camion scaricavano il bosco di tronchi con la ribalta: cadevano in un tuono brusco e cupo, sussultava il suolo, qualcuno scendeva di cosa per le scale, pronto com’era ad abbandonare casa ad ogni scossa. Seguivano bestemmie. Segavamo a mano facendo a occhio sia i tagli netti che quelli a quarantacinque gradi. Scendevamo a montare i puntelli negli scantinati, finivamo l’opera nelle soffitte. I topi scappavano tra le gambe su e giù per le scale. Il ribrezzo dei primi giorni si chetò e ridemmo della commissione comunale che scese negli scantinati a controllare il lavoro e ne uscì di corsa buttando i fogli all’aria. Restava nelle mani l’essenza tenace di resina, faceva pensare alle montagne. Un albero è vivo come un popolo più che come un individuo, abbatterlo dovrebbe essere compito solo del fulmine.»




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