Evelyn Leveghi e Paola Sprovieri (RD1)

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PRATICHE RELAZIONALI DEL CIBO dal convivium al social eating


ABADIR Master di primo livello in “Relational Design� a.a. 2014/2015 tesi finale

Catania, 9 maggio 2015

in copertina: Marije Vogelzang Sharing dinner Tokyo, 2008


PRATICHE RELAZIONALI DEL CIBO dal convivium al social eating

studentesse: Evelyn Leveghi Paola Sprovieri relatore: prof. Gianni Romano


INDICE

Introduzione Parte prima LE RELAZIONI COME [NUOVA] CHIAVE DI INDAGINE E PROGETTO Inquadramento d’indagine 16 26 36

IL CONCETTO DI RELAZIONE. Contributi e definizioni dalla filosofia, sociologia e antropologia IL “RELATIONAL DESIGN”. La terza generazione di Blauvelt. IL CARATTERE RELAZIONALE DEL CIBO. Da “siamo quello che mangiamo” a “l’uomo è più di ciò che mangia. Il cibo è relazione”.

Premesse storico-socio-antropologiche 44 56 66

ECOSISTEMA CIBO. Il rapporto tra uomo-cibo, tra individui attraverso il cibo e il sistema relazionale più ampio luogo-cibo-persone. IL CONVIVIUM. Le relazioni sociali del banchetto e del simposio. IL CIBO DI STRADA E IL MERCATO

Convivialità on/off-line | panorami del contemporaneo 76 86 96

NUOVE PRATICHE DI CONSUMAZIONE DEL CIBO. Tra individualità e comunità RELAZIONI CONVIVIALI NELLO SPAZIO PUBBLICO. La democratizzazione dello spazio urbano. ELECTIVE COMMUNITIES INTORNO AL CIBO. Estetizzazione e “Foodmania” degli anni Dieci.

Parte seconda PRATICHE RELAZIONALI DEL CIBO ATTRAVERSO L’ARTE Verso un’ecologia dell’arte 116 124

L’AFFERMAZIONE DEL QUOTIDIANO, IL VIRUS DELL’INFORMALE E L’INTERSOGGETTIVITÀ. Ingredienti per un’arte relazionale. LA NATURA DIALOGICA E RELAZIONALE DELL’ARTE. Tratti e traiettorie della produzione artistica contemporanea.

Produzioni relazionali. Intrecci e contaminazioni culturali, superamenti e nuovi rapporti. 130 136 146 158

EVENTI COLLETTIVI E CIBO. La manifestazione della componente relazionale del cibo nello spazio urbano. Focus #1 | “Cenaconme” e “Cenaditutti” INSTALLAZIONI TRA ARTE E ARCHITETTURA. Focus #2 | studio Raumlabor Berlin AMBIENTI E DISPOSITIVI TRA ARTE E DESIGN. Focus #3 | Martí Guixé Focus #4 | Marije Vogelzang CIBO&ARTE CONTEMPORANEA. Dalle esplorazioni oggettuali e materiche alle indagini di interazione e relazione.

Nel cuore dell’ “Arte relazionale” 170 182 192

LA CULTURA DELL’INTERAZIONE. ARTE RELAZIONALE: UN NUOVO FRONTE DI LETTURA E SCRITTURA DELL’ARTE. Coordinate estetiche. COME IL CIBO RIPROGRAMMA L’ARTE E IL SUO UNIVERSO SEMIOTICO. Ricerca di una [nuova] forma alle relazioni conviviali. Focus #5 | Rirkrit Tiravanija.


Parte terza MANUFATTI RELAZIONALI DELL’AMBIENTE CUCINA 204

L’ecosistema gastronomico. caratteri antropologici, sociologici e semantici dei rituali domestici attorno al cibo. Cibo e lavoro. I figuli e la ceramica nel Mezzogiorno Dai campi alla tavola Creatività, forma, funzione

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Il progetto Reinterpretazione e realizzazione di oggetti di tradizione lucana propri della dimensione conviviale: “a’iasca” e “u’vac’lott” e “un oggetto che racchiude un mondo di memorie, valori e relazioni, attorno ad una tavola.

Parte quarta HOME RESTAURANT ITINERANTE 238

Il simposio contemporaneo: dall’aperitivo al social eating Il nuovo e dirompente fenomeno del social eating. Il successo degli home restaurant.

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Il progetto: un home restaurant itinerante. Premesse e intenti: far conoscere e valorizzare un territorio, quello lucano, al di fuori dei suoi confini. Online: presenza su web e social network. Offline: Le cene e gli eventi culinari. Analisi ex-post e riflessioni.

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Conclusioni

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Bibliografia

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Sitografia

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Ringraziamenti


PREMESSA

Più che esporre delle intenzioni, vorrei tratteggiare qui il paesaggio di una ricerca e, circoscrivendo il luogo, indicare le coordinate entro cui si svolge un’azione. Il percorso d’indagine lascia le sue impronte, regolari e zigzaganti, su un terreno abitato da lungo tempo. Solo alcune di queste presenze sono a me conosciute. Molte altre – sicuramente più determinanti – postulati o acquisizioni stratificati in questo paesaggio che è memoria e palinsesto – restano implicite. Che dire di questa storia muta? Indicando i siti in cui è stata posta la questione delle pratiche quotidiane, già rivelo almeno i debiti e le differenze che hanno reso possibile un lavoro su questi luoghi.

Michel de Certeau in Premessa al suo testo L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, 2001, p. 3.


Tokyo ph. Hajime Nagahata Flickr


INTRODUZIONE

Dirompente ed innegabile è l’interesse diffuso di numerosi popoli del web 2.0 e di una gran parte della società degli individui¹ urbani, per l’immensa sfera di produzioni, azioni ed eventi che vedono il cibo come protagonista. Non è una novità che la gastronomia², nel senso più ampio e profondo del termine, abbia un forte ascendente sull’uomo, come individuo e come comunità. Dalla notte dei tempi siamo legati a doppio filo alla materia edibile, da quando eravamo popoli nomadi, cacciatori, ai predatori di estetica culinaria che siamo divenuti oggi. Esiste ed è osservabile però una profonda differenza tra l’atteggiamento nel passato e quello del presente: è sensibilmente cambiato il rapporto di necessità³ che ci relaziona al cibo. Se nei secoli l’uomo si è evoluto in parallelo alla natura e a bisogni legati alla sopravvivenza, quindi in termini di alimentazione e nutrizione, nel corso dell’evoluzione da un punto di vista antropologico e sociale è profondamente mutato il legame con esso. Da bisogno a fascinazione, da nutrizione per il corpo ad alimentazione per gli occhi fisici e digitali⁴. Un tratto fondamentale e fondante sempre presente nella sfera alimentare è il carattere relazionale del cibo. Dal passato ad oggi esso ha sempre avuto una sorta di affordance⁵, manifestando non solo la sua necessità come nutrimento ma anche come legante sociale, come connettore di umanità e occasione di scambio e condivisione. Questo tratto distintivo è permaso nel tempo e sta vivendo una straordinaria manifestazione sociale nel secondo decennio del Ventunesimo secolo. Il presente lavoro di tesi affronta ed indaga tale tema, osservato ed esplorato alle sue radici antropologiche, sociologiche ed etnografiche. La lettura personale prende in esame il cibo come fatto sociale e culturale, guardato attraverso secoli di storia europea, dagli antichi rituali dei banchetti sino ai recenti fenomeni di social eating, manifestando con sempre maggiore potenza la vocazione relazionale ad esso intrinseca.

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All’interno di tale scenario, si è voluto dedicare un focus particolare alla produzione artistica contemporanea, a quei lavori che contemplano l’uso di cibo in molteplici forme. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di azioni e produzioni con un approccio performativo ed installazioni nello spazio che suggeriscono interazione ed azione, ma anche talune opere realizzate con tecniche più tradizionali si offrono come occasione di rielaborazione e riflessione sul tema. Evidenziando tratti comuni a tali lavori si profila una sorta di corrente artistica – inconscia ed eterogenea, organica – che tratta la materia edibile mostrandone o favorendone, attraverso multiformi approcci, le caratteristiche relazionali e sociali latenti. La seguente dissertazione dichiara un taglio interdisciplinare, trasversale a numerosi fronti di ricerca, poiché sottesa vi è la volontà di affrontare il tema attraverso una approccio olistico. La molteplicità di punti di vista è scelta come “posizionamento dinamico” per poter cogliere al meglio quella ricchezza di aspetti che caratterizza la sfera fatta di atti alimentari, azioni, produzioni e relazioni che hanno luogo attorno al cibo. L’indagine pone le proprie fondamenta sul costrutto teorico consolidato di alcune discipline che da secoli anatomizzano tale dimensione. Tra queste si fa riferimento in particolare all’antropologia alimentare, alla sociologia dell’alimentazione e all’etnografia ma anche all’estetica gastronomica. Esiste un termine di origine anglosassone che prevede già un raggruppamento disciplinare attorno ai rituali del cibo e questo è denominato “Food Studies”⁶. A partire da questa struttura teorica consolidata, di stampo primariamente umanistico, si sono affiancate riflessioni dal mondo dell’arte e del design, e ciò costituisce e determina trama ed ordito di tale saggio. Il presente è un campo interdisciplinare ed emergente e come tale si presenta come un crossover sperimentale tra il lavoro accademico e popolare.

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“gli studi sul cibo sono un argomento così tanto radicato nell’infanzia che sarebbe sciocco cercare di definirlo o in qualsiasi modo circoscriverlo, perché l’argomento, la disciplina o il metodo che si escludono oggi potrebbero essere grande cosa un domani.”⁷

Il cibo, presente in ogni tempo e in ogni luogo, è letto in questa trattazione – quindi – come un fatto sociale, culturale e relazionale. La seguente posizione permette a qualsivoglia atto alimentare di essere identificato e incorporato all’interno di un preciso sistema culturale. Così ogni cibo ha un suo specifico status, una propria identità e un suo ruolo. In tale visione prospettica il cibo comunica, parla, crea legami, relazioni, esprime conoscenza, amicizia ed intimità e sottende solitamente atti di condivisione. L’etimologia di “compagno”, lat. cum-panis, ovvero “condividere il pane con qualcuno”⁸, non è solo la radice etimologica e base semantica da cui derivano termini, quali “companatico” e “accompagnare”, facenti parte dei rituali alimentari ma suggerisce già uno dei tratti fondamentali del tema: la solida e fondata relazione di condivisione e con-vivium che è alla base delle pratiche alimentari. LA DIMENSIONE INCROCIATA DELL’INDIVIDUO E DELLA SOCIETÀ⁹

Il rapporto individuo-società si presenta ancora una volta come un nodo complesso, che muta continuamente e in maniera “liquida” rinnovando e modellando le sue caratteristiche, sia – da una parte – in termini di problematicità, che – dall’altra – di fertili e nuovi sviluppi. Se per decenni si sono contrapposte visioni “individualiste” e “collettiviste”, che hanno rispettivamente accentuato uno dei poli del rapporto di forza, a partire dalla riscoperta del pensiero sociologico di Georg Simmel, secondo il quale “la società esiste là dove più individui entrano in rapporto di azione reciproca”, sembra sempre più farsi strada una visione che supera le prospettive dicotomiche o unilaterali, per riscoprire e indagare l’indissolubile interdipendenza e dimensione intrecciata dell’individuo e della società. Se da una parte tali fenomeni sono stati analizzati con un taglio critico e carico di nichilismo, in relazione alle evoluzioni socio-antropologiche segnate da una crescente individualizzazione della società, del “declino dell’uomo pubblico”, della perdita d’aura dell’opera artistica sino ad una incontenibile estetizzazione degli atti quotidiani dall’altra si contrappongono delle fertili teorie che propongono letture le quali individuano nelle maglie sociali della società d’oggi dei tratti di straordinaria forza e unicità, che dimostrano un’identità peculiare e interessante.

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Intersoggettività, relazionalità e reciprocità, sono tra la gamma di ingredienti che contraddistinguono la vita dell’uomo postmoderno quelli che qui maggiormente sono indagati. Questi tratti consentono un’interpretazione ed analisi – socio-antropologica, ma non solo – di alcuni fenomeni attuali e la correlazione di situazioni che appaiono sensibilmente soggetti alle mutevoli trasformazioni del divenire storico, attraverso una visione sistemica. Il tema del rapporto individuo-società si pone trasversalmente nei grandi assetti così come nei piccoli interstizi delle trame sociali, muta continuamente al mutare delle condizioni di vita, che si costruiscono e si subiscono biunivocamente, in un’incessante processualità. Di conseguenza si rinnovano gli ambiti di indagine, riflessione e produzione. Un ulteriore elemento che funge da denominatore comune alle questioni proposte nei capitoli è l’attenzione per l’affermazione del quotidiano e dell’informalità, strettamente connessi al tema della trattazione. Come de Certeau ha ampiamente teorizzato, il singolare ritorno alla vita quotidiana, la cui specificità è il risalto dato all’esperienza collettiva, consente di porre l’accento sulla vita come fonte di continui rinnovamenti e dinamismo esistenziale. La rivoluzione della vita quotidiana proposta dal noto antropologo ci esorta a considerare una cultura fatta di elementi semplici che favoriscono l’essere-insieme e il vivere-insieme. La relazione con gli altri e con il gruppo (Mitsein) è soggetta al luogo in cui si vive (Mitwelt). Lo spazio della socialità quindi è quella cultura concreta che si oppone al tempo sociale proprio della civiltà razionale¹⁰. Il fatto di mettere l’accento sul quotidiano porta ad una forma di “orizzontalità fraterna” che oggi trova un florido ambiente di collaborazione nel web 2.0 e nello sviluppo tecnologico ad esso associato e al frizzante fronte di innovazione sociale che ha portato alla attuali rivoluzioni sociali della sharing economy. Ad una società sempre più “liquida” e soggettivizzata si contrappone quindi una società che si mostra, nelle maglie della vita urbana, caratterizzata da una diffusa e crescente “voglia di comunità”¹¹.

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In un mondo di cambiamenti incontrollati, confusi, la gente tende a raggrupparsi attorno alle identità primarie: religiose, etniche, territoriali, nazionali. […] In un mondo di flussi globali di ricchezza, di potere e di immagini, la ricerca dell’identità, collettiva o individuale, conferita o costruita, diviene la fonte essenziale di senso sociale. […]

Il pensiero di Manuel Castells e quella sottesa a questa ricerca procedono in opposizione alle numerose interpretazioni di nichilismo intellettuale, scetticismo sociale e cinismo politico che costellano molti dibattiti sulla società contemporanea del 21° secolo. Castells ipotizza, sostenuto da numerose analisi sociali, che tutte le principali tendenze di cambiamento che costituiscono il nostro mondo nuovo e a tratti disorientante siano legate e che sia possibile capire il senso della loro interdipendenza. Un ulteriore punto di contatto con le teorie di Castells sta nella convinzione che l’osservazione, l’analisi e la teorizzazione contribuiscano alla costruzione di un mondo diverso, migliore, non fornendo risposte aprioristiche ma sollevando importanti questioni. Questo lavoro intende essere un modesto contributo a uno sforzo analitico avviato da numerosi professionisti e teorici afferenti a discipline vicine e lontane, attraverso teorie esplorative ed evidenze disponibili, al fine della migliore conoscenza e rappresentazione del nuovo mondo in cui viviamo. In tale direzione consideriamo la tecnologia come un punto di osservazione privilegiato e profondamente importante per l’analisi del panorama sociale attuale. È parimenti rilevante situare il processo di rivoluzionario cambiamento sociale e tecnologico all’interno di determinate coordinate che pongono in relazione i due aspetti e dimensioni. Oltre a ciò, come sottolinea Castells, “nel mappare la nuova storia, la ricerca dell’identità ha un potere pari a quello del cambiamento tecnologico” e, richiamando anche il pensiero di de Certeau, il fatto di mettere l’accento sul quotidiano rinvia alla presa in carico dei problemi del mondo moderno e contemporaneo nel cuore della comunità (delle “tribù”), ovvero nel gruppo in cui ci si riconosce. Un’orizzontalità fraterna che oggi trova un buon coadiuvante nello sviluppo tecnologico.¹²

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1 | Si fa riferimento alla teoria sociale di Norbert Elias presentata nell’omonimo testo La società degli individui, (Bologna, il Mulino, 1990). 2 | Il termine “gastronomia” deriva dal greco gastèr (= ventre) e nomìa (= legge) e sta ad indicare l’insieme delle tecniche e delle arti culinarie o il far buona cucina. Ma in senso lato, ed è il tratto che più interessa in questa sede di indagine, indica “lo studio della relazione tra cultura e cibo” delineandosi nella peculiarità quindi di essere a tutti gli effetti “una scienza interdisciplinare che coinvolge la biologia, l’agronomia, l’antropologia, la storia, la filosofia, la psicologia e la sociologia.” Fonte: it.wikipedia.org 3 | inteso nel concetto figlio del determinismo. 4 | con “occhi digitali” l’autore intende riferirsi alla percezione, visione e documentazione del mondo e degli atti culinari attraverso schermi di dispositivi digitali (smartphone, tablet, fotocamera). Si vuole sottolineare tale componente come carattere peculiare del rapporto che oggi definisce il rapporto con il cibo. La questione verrà approfondita nel capitolo 3. 5 | si fa riferimento al termine introdotto da James Jerome Gibson nel suo testo The ecological approach to visual perception

(Houghton Mifflin, Boston, 1979) inteso qui come le qualità nutritiva e relazionale che il cibo suggerisce attraverso la sua consumazione. 6 | “Food Studies” è l’esame critico del cibo e dei suoi contesti all’interno degli ambiti della scienza, dell’arte, della storia, della società e in altri campi. Si distingue da altri ambiti legati allo studio dell’alimentazione quali le scienze dell’alimentazione e della nutrizione umana, l’agricoltura, la gastronomia e le arti culinarie poiché proietto lo sguardo e l’analisi al di là del mero consumo, produzione e apprezzamento estetico del cibo e cerca di dal luce al cibo in quanto si riferisce ad un vasto numero di campi accademici. È quindi un settore che coinvolge e attrae filosofi, storici, scienziati, sociologi, storici dell’arte, antropologi e molti altri studiosi. (Wikipedia) 7 | Paul Levy 8 | fonte: taccuinistorici.it 9 | si fa qui riferimento al testo omonimo a cura di Marta Picchio. 11 | Michel Maffesoli in prefazione a L’invenzione del quotidiano, di Michel de Certeau, Edizioni Lavoro, 2001 (1990). 12 | Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2001. 13 | Michel Maffesoli, op. cit.

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LE RELAZIONI COME [NUOVA] CHIAVE DI INDAGINE E PROGETTO di Evelyn Leveghi


INQUADRAMENTO D’INDAGINE

IL CONCETTO DI RELAZIONE. Contributi e definizioni dalla filosofia, sociologia e antropologia IL “RELATIONAL DESIGN”. La terza generazione di Blauvelt. IL CARATTERE RELAZIONALE DEL CIBO. Da “siamo quello che mangiamo” a “l’uomo è più di ciò che mangia. Il cibo è relazione”.

PREMESSE STORICO-SOCIOANTROPOLOGICHE

ECOSISTEMA CIBO. Il rapporto tra uomo-cibo, tra individui attraverso il cibo e il sistema relazionale più ampio luogo-cibo-persone. IL CONVIVIUM. Le relazioni sociali del banchetto e del simposio. IL CIBO DI STRADA E IL MERCATO

CONVIVIALITÀ ON/OFF-LINE

NUOVE PRATICHE DI CONSUMAZIONE DEL CIBO. Tra individualità e comunità RELAZIONI CONVIVIALI NELLO SPAZIO PUBBLICO. La democratizzazione dello spazio urbano. ELECTIVE COMMUNITIES INTORNO AL CIBO. Estetizzazione e “Foodmania” degli anni Dieci.


IL CONCETTO DI RELAZIONE.

Contributi e definizioni dalla filosofia, sociologia e antropologia.

Quando si parla di relazioni si fa solitamente riferimento alle “relazioni sociali” o alle “relazioni interpersonali”. Ma a ben vedere il termine riporta ad un ventaglio molto ricco di interpretazioni e studi. Il concetto profondo di “relazione”, che si manifesta però, a ben osservare, anche e soprattutto nella vita quotidiana dell’uomo è qui considerato quel trait d’union che definisce gli universi semiotici in cui viviamo. In tale prospettiva quindi si vogliono evidenziare le relazioni come rapporti tra mondo oggettuale, sfera esperienziale e dimensione spaziale. Si tratta quindi di un sistema a tre componenti che ricorda e riprende il triangolo semiotico di Peirce: segno-oggetto-interpretante. Nella presente trattazione si intendono esplorare non solo le relazioni tra persone attraverso il cibo, ma nella fattispecie la sfera relazionale – triadica – che vede soggetti coinvolti ed immersi in un sistema comunicativo e sociale innescato dal cibo in un determinato ambiente. Date tali premesse è doveroso comunque approfondire i rapporti che si manifestano tra individui e che garantiscono una significazione a tutti gli altri link relazionali. Analizzando la dimensione della vita quotidiana sono sicuramente le relazioni interpersonali quelle che assumono più spazio in quanto ne sono parte integrante. Queste possono essere di diverso tipo, più o meno profonde, in base al contesto. Si trovano esempi di relazioni interpersonali in ambiti sociali molto diversi, dalla famiglia al lavoro, dall’amore all’amicizia. Per relazione si intende “quel legame che si crea tra due o più persone i cui pensieri, sentimenti e azioni si influenzano vicendevolmente.”¹ In una relazione interpersonale si genera quindi un rapporto di interdipendenza. Nel corso dei secoli tali rapporti fra individui hanno subito una profonda trasformazione. Fino alla prima metà del 20° secolo, la sfera delle relazioni era dominata da regole e schemi rigidi entro i quali conformarsi, l’autorità prevaleva sempre sulla libertà e sulla creatività, così come il ruolo e la posizione sociale sulla personalità e sull’identità personale. Anche il mondo interiore e la comunicazione erano caratterizzati dalla stessa rigidità: esisteva una netta differenza tra i tratti di personalità maschili e femminili – da una parte rappresentati da potere, forza, intraprendenza, scarsa emotività e dall’altra da obbedienza, passività, spiccata emotività – e la comunicazione con se stessi e gli altri veniva minimizzata.

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Kensuke Koike Whish - la sala del ristore 2013

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Una prima svolta avvenne alla fine del 18° secolo con la rivoluzione americana e la rivoluzione francese. Si videro affermare le prime forme di democrazia moderna, cosa che non avvenne subito in altri Paesi ma per la quale si dovette attendere il 20° secolo. A partire dall’Ottocento la sfera delle relazioni interpersonali assunse una dimensione lavorativa nei paesi industrializzati dove il rapporto datore - lavoratore rispecchiava la stessa rigidità delle relazioni all’ interno della società, rigidità tuttavia modificata nel corso degli anni anche grazie alle lotte operaie. La svolta fondamentale si ebbe negli anni ‘60 dello scorso secolo in cui il processo di democratizzazione istituzionale si diffuse anche in tutti gli altri settori della società civile quali la famiglia, la scuola e la vita quotidiana attraverso contestazioni anche violente. In pochi anni le caratteristiche delle relazioni interpersonali subirono una vera e propria rivoluzione. Si iniziò a lottare per i propri diritti individuali e non più solo in quanto membri di un gruppo, di una famiglia, di una chiesa o di un’organizzazione.² Questo cambiò per sempre il modo di relazionarsi e di comunicare. Un tratto che distingue tali rapporti oggi è invece la prevalenza di spontaneità e informalità. La rivoluzione nelle relazioni interpersonali ha rappresentato un cambiamento a segno positivo necessario per costruire una società che incarnasse e portasse la bandiera della libertà di pensiero ed azione e per favorire una vita sociale regolata da principi democratici di pari diritti e reciprocità. Tuttavia tale cambio di paradigma sociale ha portato alla nascita di nuovi problemi: sono in particolare entrati in crisi i ruoli sociali e sessuali tradizionali, la famiglia ha vissuto un momento di disgregazione e sono aumentati la solitudine, l’individualizzazione e la sfiducia nelle istituzioni. Si registrano quindi, da una parte un moto di innovazione sociale all’insegna della socialità, dell’aggregazione e della condivisione, mentre dall’altra sono in aumento le caratteristiche di individualismo, competitività e privatizzazione.

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Angelo Morbelli Asfissia! Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris 1884

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Tra gli aspetti che definiscono la peculiarità della società postmoderna si individuano e propongono i tre seguenti: - L’affermazione dell’individuo e della sua autonomia, della sua richiesta di spazio della privacy: - L’emergere del quotidiano, della dimensione corporale e temporale della città come parametri fondamentali del benessere individuale e collettivo; - La progressiva democratizzazione dello spazio in un quadro più ampio di redistribuzione dei valori e un profondo cambiamento degli immaginari del singolo individuo e della comunità. Nella seconda metà del secolo invece molte ricerche antropologiche si concentrarono sulla cultura materiale dando un’interpretazione culturale dell’emergere dei bisogni, desideri ed aspirazioni irrinunciabili: il cibo, i vestiti, il tempo libero, l’automobile, i libri, il cinema, le vacanze ecc.³ I principali tratti che hanno caratterizzato il ‘900 furono infatti la soggettività, l’emergere dell’autonomia dell’individuo e – parallelamente a ciò – lo sviluppo di alcune posizioni critiche: un rifiuto crescente nei confronti del potere istituzionale, una ribellione verso i precetti della società classista ed una profonda individualizzazione, accompagnata da una chiusura verso il mondo esterno in termini di protezione della propria privacy ed intimità. Tutto ciò non fu una novità poiché era già stato sensibilmente percepito ed anticipato nel mondo dell’arte, della musica e della letteratura. La dispersione fu totale: si assistette alla dispersione dei soggetti, dei comportamenti, degli stili di vita, delle pratiche sociali parallelamente ai fenomeni urbani di dispersione e concentrazione.4 Il quadro appena descritto sottende criticità e potenzialità, sia tendenze soggettiviste che elementi di progresso ed innovazione della società. Questa visione è importante poiché, e lo si vedrà nel corso di tutto il saggio, consente di avere uno sguardo binoculare sui fatti allontanandosi da letture di sterile critica e nichilismo. Spostando ulteriormente la lente di ingrandimento, ora verso i primi due secolo degli anni 2000, possiamo notare come la discrepanza che esiste tra queste due facce della contemporaneità sia proseguita, secondo alcuni teorici acutizzandosi, secondo altri attutendosi. Spicca

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Dan Bergeron - Fauxreel Vespa 1000 internevto urbano

il trend della sharing economy come motore propulsivo di una serie di pratiche virtuose tra cittadini ed individui, non organizzati in comunità in senso tradizionale bensì definibili piuttosto in quanto “elective communities”, nell’erogazione di servizi, nella condivisione di bisogni ed intenti e nell’incontro non mediato tra domanda e offerta. C’è un mondo in cambiamento nel sottobosco della società, mentre sistemi macroeconomici si dimostrano rigidi, obsoleti e poco democratici, un fronte di innovazione sociale assai frizzante ed interessante sta nascendo nelle trame della società. Si è cominciato a parlare di “consumo collaborativo”, in seguito appunto di “sharing economy” ed ora, nel 2015, parliamo di “crowd economy”. È un fronte in continuo e rapido cambiamento al quale non è facile far corrispondere delle analisi ragionate che seguano tali ritmi. Un capitolo è dedicato a tali fenomeni, in particolare in riferimento al food.

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DEFINIZIONE DI RELAZIONE

relazióne s. f. [dal lat. relatio -onis, der. di referre «riferire», part. pass. relatus].5 “Connessione o corrispondenza che intercorre, in modo essenziale o accidentale, tra due o più enti (oggetti e fatti, situazioni e attività, persone e gruppi, istituzioni e categorie, fenomeni, grandezze, valori, ecc.). Con riferimento a persone o a gruppi, come rapporto, legame o vincolo reciproco.”6 Con valore concreto, nell’uso comune (quasi sempre al plurale), si intendono amicizie, conoscenze utili, cui si può ricorrere in caso di bisogno. Nel linguaggio sociologico ci si riferisce invece alle “forme elementari, soggettive, coscienti e in genere limitate a piccoli gruppi (caratteri che le distinguono dai rapporti sociali) di interconnessione tra due o più soggetti, individuali o collettivi (possono avere carattere affettivo, morale o intellettuale e sono determinate da variabili di tipo emozionale, motivazionale, educativo, ecc.)”.7 Da tale àncora semantica si può rilevare come sia fondamentalmente un concetto che sottende delle connessioni tra mondi oggettuali e antropologici e che sia, per tale natura, soggetto allo studio da parte di numerose discipline. Di seguito forniamo dei focus offerti dall’approccio specifico di alcuni campi di studio quali la filosofia e la sociologia.

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Una delle categorie aristoteliche, intesa come ciò «il cui essere consiste nel comportarsi in un certo modo verso qualcosa». Essa è tuttavia, in quanto presuppone i termini che mette in relazione, la categoria più lontana dalla sostanza. Platone nella sua teoria delle idee aveva esplicitamente sostenuto l’oggettività delle relazioni, ma è controverso di che tipo di esistenza esse godessero. L’ammissione, peraltro, da parte di Aristotele di altri tipi di relazione, per esempio, di quelle legate al concetto di potenza, prospetta come plausibile una loro realtà. Gli stessi problemi si ritrovano in Plotino, in cui si tenta una conciliazione tra teoria aristotelica delle relazioni e dottrina platonica delle idee. Questa problematica fondamentale fu sviluppata nel pensiero medievale, ancora in chiave metafisica, e, nel pensiero moderno, in chiave gnoseologica: realtà cioè della relazione rispetto ai suoi termini e oggettività della stessa. Nell’ambito dell’empirismo, John Locke concepì la relazione come idea complessa e quindi come eminentemente soggettiva, mentre rimane ipotetica una conformità reale dei suoi referenti. David Hume sostenne l’assoluta soggettività delle relazioni, negando la loro universalità e necessità oggettiva. Immanuel Kant affermò – invece – la validità oggettiva delle relazioni, intendendole come categorie o forme secondo le quali l’intelletto opera a priori la sintesi in virtù della quale il molteplice, intuitivamente dato, è unificato in oggetti. La realtà delle relazioni fu di nuovo messa in questione dal neoidealismo di F.H. Bradley, che attribuì a tutta la realtà natura relazionale, considerandola per questo mera apparenza.

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LE RELAZIONI IN FILOSOFIA


LE RELAZIONI IN SOCIOLOGIA

Oggi viviamo in una fase della nostra società chiamata dai sociologi Post-Modernità dove troviamo una “Crisi dei legami” dovuta all’influenza della nostra epoca sulle dinamiche umane e relazionali. I mutamenti storici-economici e la rivoluzione tecnologica hanno portato gli individui a cambiare il loro assetto mentale, le loro mappe cognitive e il loro sistema di valori per poter adeguarsi al massiccio cambiamento in atto. La società moderna infatti, negli ultimi decenni, ha subito una rivoluzione interpersonale che ha cambiato molti aspetti nelle relazioni tra individui: si è passati da una società chiusa, patriarcale, con regole e schemi comuni ai quali dovevano conformarsi tutti, con una morale rigida ed autoritaria, ad una società dove l’umanità è libera di vivere a proprio modo le relazioni con gli altri, di scegliere le persone con le quali relazionarsi e di esplorare nuovi e diversi modi per poterlo fare. Tuttavia, con il crescere delle libertà, è cresciuto anche il disagio esistenziale: i ruoli sociali e sessuali, il senso d’identità sono entrati in crisi; sono aumentati i conflitti e le controversie e il rapporto tra istituzioni e cittadini è sempre più improntato sulla sfiducia; la famiglia è in disfacimento, come pure la solidarietà e la coesione sociale. Anche il concetto di legame è cambiato. Gli individui sono diventati poco tolleranti rispetto a numerosi tipi di legame perché questi sono visti come un vincolo ed impegno. Nella nostra epoca l’uomo subisce dalla cultura economica delle pressioni, si deve essere “manager” anche dei suoi rapporti personali e quindi continuare nella ricerca di migliori possibilità. Essere ancorati ad un legame fisso, nell’ottica del business così come in quella delle relazioni affettive, è controproducente perché se si sceglie di fermarsi ci si preclude nuove possibilità che potrebbero essere migliori. Le relazioni seguono la regola del consumo così come si fa con un oggetto rotto, anche una relazione, non vale la pena di essere riparata, visto quanto impegno costerebbe e così si fa prima a cercare qualcosa di nuovo in un mondo che offre moltissime possibilità.8 Il successo dei rapporti, di vario genere attraverso il web 2.0 è anche basato sul fatto che le relazioni possono rimanere virtuali e non toccare la vita quotidiana, permettendo agli individui di entrare ed uscire dalle relazioni con la massima facilità, senza creare legami profondi. Allo stesso tempo tali canali digitali offrono delle opportunità sociali uniche quando si incrociano interessi comuni e dallo “spazio dei flussi” si ha una ricaduta relazionale positiva nello “spazio dei luoghi” 9 e nella concretezza della propria vita quotidiana.

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La sociologia relazionale, o teoria relazionale della società, è stata inizialmente formulata dal sociologo italiano Pierpaolo Donati all’inizio degli anni ottanta del novecento nel volume “Introduzione alla sociologia relazionale”10. Questa “Introduzione” è nata come una sorta di “Manifesto della sociologia relazionale”, anche se al tempo ha destato ben poca attenzione. Secondo questa prospettiva la società è fatta di relazioni (precisamente di relazioni sociali) che devono essere concepite non come una realtà accidentale, secondaria o derivata da altre entità (individui o sistemi), bensì come realtà sui generis. Tale relazione può essere colta attraverso tre modalità di essere: - la relazione in quanto riferimento simbolico-intenzionale (refero) - la relazione in quanto connessione o legame (religo) - la relazione in quanto effetto emergente (anziché come effetto aggregato). Quando la relazione ha un’esistenza reale, e non è un mero ente astratto di ragione, tali modalità sono necessariamente compresenti fra loro.

1 | Fonte: wikipedia.org 2 | Enrico Cheli in L’epoca delle relazioni i crisi (e come uscirne). Coppia, famiglia, sanità, lavoro con riferimento al testo di Alberto Melucci, “Creatività, miti, discorsi, processi”, Feltrinelli 1994. 3 | La città inform[azion]ale. Leggere lo spazio pubblico contemporaneo. Nuovi equilibri tra città sociale e città materiale. Evelyn Leveghi, tesi di Laurea magistrale, Politecnico di Milano, Facoltà del Design, 2012.

4 | ibidem 5 | Fonte: www.treccani.it 6 | ibidem 7 | ibidem 8 | Zygmunt Bauman, Amore liquido: sulla debolezza dei legami umani. Laterza, 2003 9 | cfr. Manuel Castells, La nascita della società in rete. Università Bocconi Editore, 2002 10 | Franco Angeli, 1983.

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LA SOCIOLOGIA RELAZIONALE


IL RELATIONAL DESIGN.

La terza generazione di Blauvelt.

Il design è da sempre una disciplina che si dimostra molto ricettiva sia rispetto ad altri ambiti – scientifico, umanistico, artistico – ma anche e soprattutto alla rivoluzioni sociali e tecnologiche che rimodellano con sempre più velocità la vita dell’uomo contemporaneo. Poter assecondare e favorire tali trasformazioni rapide e profonde per una disciplina progettuale, che si conferma molto più snella rispetto alle affini pratiche architettoniche ed ingegneristiche, è un enorme potenziale che la disciplina del design possiede. Il passaggio di secolo ha visto, a partire da una nuova sensibilità e ricettività rispetto alle pratiche relazionali1, il mostrarsi di uno sviluppo anche nel design, di una nuova attitudine ed approccio. Grazie al sostanziale contributo di Andrew Blauvelt, graphic designer e curatore al Walker Art Center di Minneapolis, considerato dal London’s Design Museum una delle figure maggiormente influenti del graphic design negli States, possiamo parlare di “Relational Design” a tutti gli effetti, con un corpo teorico da questi elaborato. Cos’è quindi il “Relational Design”? Esso è stato definito dallo stesso Blauvelt attraverso alcuni punti che ne delineano caratteristiche e campo di azione2: - Non è un movimento o uno stile a sé stante ma piuttosto una maniera di comprendere, esplorare e riesaminare il ruolo del design e dei designer nel ciclo di vita degli artefatti che esso produce. - Può essere visto come un metodo o un approccio per la creazione di forma (design) - Rappresenta una gamma di pratiche attorno ad una varietà di campi del progetto e tale diversità in parallelo ad un approccio più orientato al processo significa che tratti stilistici in comune non indica tali tendenze. - Sebbene il Relational Design sia una disciplina emergente con l’avvento dell’interattività e della connettività nel mondo digitale, non si limita a 0 e 1 (ovvero a codici binari). Tuttavia esso spesso impiega metafore come procedure operazionali. - Asseconda limiti e condizioni come opportunità e non come ostacoli. Tende verso la riduzione della soggettività nel processo di design o trasferisce la soggettività ad altri nella rete delle relazioni. - È completo solo all’interno dei confini del suo immediato ambiente o contesto.

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Lust Posterwall 2008-13

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«Relational design is preoccupied with design’s effects, extending beyond the form of the object and its attendant meanings and cultural symbolism. It is concerned with performance or use, not as the natural result of some intended functionality but rather in the realm of behavior and uncontrollable consequences.» Andrew Blauvelt, Relational Design, Walker Art Center, Minneapolis, 2008

Alcuni dei lavori più interessanti oggi non sono riducibili alla stessa polemica forma e contro-forma, azione e reazione, che è diventata la base scontata della maggior parte dei dibattiti degli ultimi decenni. “Siamo invece nel bel mezzo di un cambiamento di paradigma molto più grande che attraversa tutte le discipline del design, un [paradigma] che non è uniforme nel suo sviluppo, ma che pare essere potenzialmente più trasformativo degli -ismi precedenti o delle tendenze micro-storiche. Più in particolare, credo che siamo nella terza fase importante della storia del design moderno: un’era relationally-based e di design contestually-specific.”3 La prima fase del design moderno, nato all’inizio del ventesimo secolo, era una ricerca di un linguaggio di una forma plastica o mutevole, una sintassi visiva che poteva essere appresa e quindi razionalmente disseminata e potenzialmente universale. Questa fase ha visto una successione di “ismi” – Suprematismo, Futurismo, Costruttivismo, de Stijl, ecc. – che erano inevitabilmente frutto di una fusione della nozione di avanguardia come sinonimo di innovazione formale. Infatti è questa eredità del modernismo che ci permette di parlare di un “linguaggio visivo” del design. I valori di semplificazione, riduzione ed essenzialità determinano la direzione della maggior parte dei linguaggi di progetto astratti e formali. Si può seguire questa evoluzione dalla convinzione che ebbero i primi costruttivisti russi nel credere in un linguaggio universale di forma che potrebbe trascendere le differenze sociali e di classe (alfabetizzati versus cultura orale) ai logotipi astratti degli anni ‘60 e ‘70 che potrebbero aiutare a colmare le differenze culturali delle imprese transnazionali: dal poster “Beat the Whites with the Red Wedge” di El Lissitzky al perfetto connubio tra forma sintattica e semantica in Target’s Bullseye logo.

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La seconda ondata di design, nata nel 1960, si focalizzava sul potenziale del design di creazione di senso, sul suo valore simbolico, sulla sua dimensione semantica e sul potenziale narrativo, quindi ci si preoccupava per il suo contenuto essenziale. Questa ondata continuò in diversi modi per diversi decenni, raggiungendo il suo apogeo con il graphic design negli anni ‘80 e inizio ‘90, con la rivendicazione di “paternità” da parte di designer (il controllo del contenuto e quindi della forma), con le teorie sulla semantica del prodotto, che cercavano di incarnare nella loro forma il simbolismo funzionale e culturale degli oggetti e delle loro forme. Sono emblematici la famosa analisi della striscia commerciale vernacolare di Las Vegas elaborata da architetti del calibro di Robert Venturi, Denise Scott Brown e Steven Izenour o gli esercizi di creazione di significato del lavoro di progettazione della Cranbrook Academy of Art nel 1980. È importante sottolineare che, in questa fase di progettazione, la creazione di significato era ancora del progettista, anche se molte discussioni si svolgevano sulla base di molteplici interpretazioni del lettore. Alla fine, però, il significato era ancora un “regalo” presentato da designer, come autori, al loro pubblico. Se nella prima fase la forma genera forma, poi in questa seconda, iniettando contenuto nell’equazione si produssero nuove forme. O, come ha detto una volta il filosofo Henri Lefebvre, “sicuramente c’è un momento in cui il formalismo si esaurisce ed è solo quando una nuova iniezione di contenuti nella forma può distruggerla e quindi aprire la strada per l’innovazione.” Per parafrasare Lefebvre, solo una nuova iniezione del contesto nell’equazione forma-contenuto può distruggerlo, aprendo così nuove strade per l’innovazione

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La terza ondata di progettazione è iniziata a metà degli anni ‘90 ed esplora la dimensione performativa del design: i suoi effetti sugli utenti, i suoi vincoli pragmatici e programmatici, il suo impatto retorico e la sua capacità di facilitare le interazioni sociali. Come molte cose che sono emerse negli anni Novanta, è stato strettamente legato alle tecnologie digitali, anche ispirato dalle sue metafore (per esempio, il social networking, la collaborazione open source, interattività), ma non limitato solo al mondo di codici binari. Questa fase ha sia seguito che preso le distanze da esperimenti del ‘900 in termini di forma e contenuto che hanno tradizionalmente definito gli ambiti della pratica d’avanguardia. Tuttavia, le nuove pratiche di design relazionale includono elementi performativi, pragmatici, programmatici, processoriented, aperti, esperienziali e partecipativi. Questa nuova fase si preoccupa degli effetti del design e si estende oltre il design dell’oggetto e persino oltre le sue connotazioni e simbolismo culturale. Potremmo tracciare il movimento di queste tre fasi di progettazione, in termini linguistici, come spostamento dalla forma al contenuto al contesto; o, nel gergo della semantica, dalla sintassi alla semantica alla pragmatica. Questa espansione delle idee verso l’esterno si muove come increspature su uno stagno, dalla logica formale dell’oggetto progettato alla logica simbolica o culturale dei significati che tali forme evocano ed infine alla logica di programmazione della produzione sia di progettazione sia dei siti del suo consumo - la realtà disordinata del suo contesto finale. Il design, a causa delle sue intenzioni funzionali, ha sempre avuto una dimensione relazionale. In altre parole, tutte le forme del design producono effetti, di piccola o grande portata, a seconda dei casi. Ma ciò che è diverso e nuovo in questa fase del progetto è il ruolo primario che è stato dato alle aree che una volta sembravano al di là della competenza e dei contenuti del design. La promessa che la rivista Time ha fatto quando ha nominato “you” come persona dell’anno nel 2006, anche se si evocava il dominio emergente di siti come MySpace, Facebook, Wikipedia, Ebay, Amazon, Flickr e YouTube. La partecipazione degli utenti alla creazione del design può essere vista in numerosi progetti DIY.

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You Time cover dicembre 2006 - gennaio 2007

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Anche nelle forme più strumentali del design, il pubblico è cambiato: dal cliché del focus group sequestrato in una stanza a rispondere alle domande per persone nascoste dietro a specchi a doppi per soggetti tenaci di una ricerca etnografica, osservati nel loro ambiente naturale - allontanandosi dai concetti idealizzati di uso verso la complessa realtà di comportamento. Oggi, il pubblico è pensato come un essere sociale, uno che è data-mined e geo-demograficamente inquadrato - portandoci dall’idea di un consumatore medio o composito ad un singolo acquirente tra gli altri che vivono un simile stile di vita della comunità sociale. Ma a differenza di precedenti esperimenti nel design basato sulla comunità stile anni ‘70 o il cambiamento nel comportamento, le relazioni di oggi per l’utente sono più sfumate e complesse. La gamma di pratiche varia notevolmente, dai metodi di sviluppo dei prodotti impiegati da pratiche come IDEO alle “sonde sociali” di Anthony Dunne e Fiona Raby che creano oggetti progettati, non per soddisfare funzioni prescritte ma per misurare le reazioni comportamentali agli effetti percepiti di energia elettromagnetica o dilemmi etici della sperimentazione genica e terapie rigeneranti. Non sorprende che la natura stessa del design e dei ruoli tradizionali del progettista e dei consumatori si siano drasticamente modificati. Nel 1980, la rivoluzione del desktop publishing ha minacciato di rendere ogni utente di un computer un designer, ma in realtà è servito per ampliare il ruolo del designer come autore ed editore. La vera “minaccia” è arrivata con l’avvento del Web 2.0 e del social networking e i siti collaborativi di massa. Così come il ruolo che l’utente si è ampliato e sino anche a comprendere il ruolo del progettista tradizionale talvolta, la natura del design si si è anch’esso ampliato dal dare forma a oggetti discreti alla creazione di sistemi e strutture più aperti al coinvolgimento: progetti per fare progetti. Il designer di ieri era strettamente legato alla visione e al controllo dei comandi del tecnico, ma il design di oggi è più vicino all’approccio “if-then” del programmatore. È questa logica programmatica o sociale che regna nel design relazionale, eclissando la logica culturale e simbolica di contenuti basati su design e la logica estetica e formale della fase iniziale del Modernismo. Il design relazionale è ossessionato con i processi e sistemi per generare progetti, che non seguono la stessa linea, logica cibernetica di un tempo.

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Se la prima fase del design ci ha offerto infinite forme, la seconda ci ha suggerito interpretazioni variabili - l’iniezione di contenuti a creare nuove forme – ed infine la terza fase presenta una moltitudine di soluzioni contingenti o condizionali: sistemi open piuttosto che chiusi; limiti del mondo reale e contesti che vanno oltre le utopie idealizzate; connessioni relazionali invece di sovrapposizioni riflessive; al posto del progettista solo e senza stimoli, la possibilità di avere un team composto da molti designer; l’abbandono di progetti con troppi vincoli di controllo e l’ascesa dei sistemi generativi; la scomparsa di oggetti discreti e di significati ermetici e l’inizio invece di ecologie connesse tra loro. Dopo 100 anni di esperimenti su forma e contenuto, il design ora esplora il regno del “contesto” in tutte le sue manifestazioni sociali, culturali, politiche, geografiche, tecnologiche, filosofiche, informatiche, ecc. Alla luce del fatto che i risultati di tale lavoro non convergono in un unico argomento formale e poiché sfidano modelli e processi di lavorazione tradizionali, potrebbe non essere evidente che la diversità delle forme e delle pratiche scatenate possono determinare la traiettoria del design per il prossimo secolo.4 Il Relational Design può anche essere definito attraverso livelli diversi di coinvolgimento. Esistono 3 forme di design: - “Fixed”: ci relazioniamo con gli occhi - “Interactive”: ci relazioniamo con gli occhi e con noi stessi - “Relational”: ci relazioniamo con i nostri sensi, con noi stessi e con gli altri5 L’avvento della pratica Relazionale ha in parte origine e causa dallo sviluppo dell’era digitale ed informatica, tuttavia è certamente non limitabile al campo digitale. Al contrario quasi, gran parte degli artisti inscrivibile all’interno dell’Estetica Relazionale hanno lavorato e lavorano quasi esclusivamente attraverso l’interazione fisica con il pubblico e lo spazio anche come risposta alla profonda digitalizzazione delle strutture sociali. 6

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Oggi è invece di certo lo spazio in-between, la dimensione interstiziale tra digitale e fisico, tra spazio dei flussi e spazio dei luoghi7, che offre le maggiori occasioni e migliori casi studio. Le strutture sociali digitali sono divenute parte integrante della vita moderna ma la loro manifestazione in mondo reale è soffocata da dispositivi digitali ma si sta verificando un nuovo legame ai luoghi grazie alla geolocalizzazione che riporta molti fenomeni ed eventi ad una dimensione spaziale empirica. Un altro fronte di analisi della pratica del design relazionale nasce dall’esperienza accademica diretta delle due autrici della seguente tesi, che hanno partecipato alla prima edizione del master di primo livello denominato proprio “Relational Design” – progettare un mondo in costante cambiamento. Il percorso di studio – da cui è nato anche il seguente lavoro – è stato basato alcune scelte metodologiche: - learning by doing: un metodo induttivo è ritenuto più efficace rispetto all’opposto metodo deduttivo della scuola tradizionale, poiché esso consente di sviluppare e consolidare delle conoscenze attraverso l’esperienza diretta ed empirica, progettuale, che gli studenti affrontano; - blended learning: si ritiene che lo studio diretto e tradizionale, attraverso lezioni ex cathedra, non sia più sufficiente ed esaustivo alla didattica dell’attuale periodo storico. È pressante la richiesta di formazione di figure professionali che sappiano decodificare, gestire e progettare in un mondo liquido, in cui si verificano costanti rivoluzioni e cambiamenti, che sappiano relazionarsi al meglio con una vasta compagine di figure professionali e di competenze profondamente differenti di attori privati e pubblici. A partire da tali premesse l’approccio ivi proposto suggerisce di lavorare in parallelo tra dimensione on-line ed off-line, con un’alternanza tra lavoro e studio frontale e diretto ed uno digitale, a distanza. Si definisce infatti anche come “apprendimento misto” poiché “si riferisce ad un mix di ambienti d’apprendimento diversi. Esso combina il metodo tradizionale frontale in aula con attività mediata dal computer (ad esempio e-learning, uso di DVD, ecc.) e/o da sistemi mobili (come smartphone e tablet). Secondo i suoi fautori, la strategia crea un approccio più integrato tra docenti e discenti.”8

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Tale esperienza didattica ha fornito quel terreno fertile per l’esplorazione e sperimentazione che sta alla base della riflessione teorica e pratica che costituisce il corpo di tale lavoro di tesi. Nello specifico è stato il lavoro svolto con il docente e relatore Gianni Romano ad introdurre alla questione peculiare delle pratiche relazionali, nel mondo artistico, e gli sviluppi verso il mondo del cibo sono in parte in esso presenti ed in parte consistente volontà ed attitudine delle due studentesse.

Master Relational Design evento di presentazione Trieste, 2014

1 | Con la teorizzazione della “estetica relazionale” da parte di Nicolas Bourriaud, nel suo omonimo libro, negli anni ’90 dello scorso secolo. 2 | Andrew Blauvelt, Towards Relational Design, on walkerart.org 3 | Andrew Blauvelt, Towards Relational Design, on designobserver.com (11.03.08) 4 | Ibidem

5 | Timothy Holloway, Defining Relational Design, issuu.com 6 | ibidem 7 | Manuel Castells, La città delle reti, Marsilio 2004 [“The Information Age: Economy, society and culture”, Blackwell 1997] 8 | fonte: wikipedia.org, “blended learning”

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IL CARATTERE RELAZIONALE DEL CIBO

Da “siamo quello che mangiamo” a “L’uomo è più di ciò che mangia. Il cibo è relazione”

Il cibo è spesso considerato ed analizzato come fatto sociale e culturale. All’interno degli studi attorno ad esso viene in questa trattazione analizzata anche quella attitudine che possiamo definire “relazionale” in quanto favorisce lo scambio sociale e la comunicazione tra individui, su più piani – verbale, gestuale, emozionale e culturale. Mangiare è più di nutrirsi, essendo sempre uno stabilire una relazione con se stessi, con gli altri e con gli alimenti che ci riportano a una solidarietà cosmica. Di qui nasce la categoria della “convivialità”, ossia del vivere insieme.1 Il cibo è un alimento ed elemento che non solo è necessario per vivere ma è anche costituente la prima relazione con noi e con il mondo. La convivialità, manifestazione di tale relazione, si esplica soprattutto quando le persone si incontrano – e dialogano fra loro – attorno a una tavola o, più puramente grazie alle multiverse occasioni di offerte dal cibo e dell’esperienza ad esso correlato. In essa c’è infatti l’espressione più completa della vita relazionale, della condivisione, della solidarietà. A tavola dialoga la famiglia, si incontrano gli uomini d’affari e i politici, si festeggia qualcuno. Attorno al cibo si riuniscono persone di ogni etnia, sesso, estrazione sociale e genere. Consumando assieme il cibo, la relazione diviene condivisione. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la propria individualità, con il proprio volto ed insieme condividono i beni della terra e la propria vita. Se è vero che l’uomo è tale nella misura in cui si relaziona con gli altri, il sedersi a tavola insieme è espressione di una relazione profonda. Le persone si trovano una di fronte all’altra con la propria individualità, con il proprio volto, ed insieme condividono i beni della terra e la propria vita. Non pretendono di essere uguali, come in altri momenti della vita, ma si accettano come diversi però uniti da una motivazione comune e da un condiviso interesse. “Convivialità - scrive Antonio Nanni - dice certamente più di interdipendenza, più della solidarietà, più della convivenza democratica. Convivialità è coabitazione e coesistenza pacifica, condivisione piena dei beni della terra, nel faccia a faccia dei commensali”.

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Banchetto reale Castello di Windsor aprile 2014

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È una “inclusività senza imposizione”.2 Per questo gli uomini celebrano i loro rapporti più significativi a tavola e risolvono i loro conflitti con il mangiare insieme, quale segno di riappacificazione. In tale rapporto si riesce ad accettare la diversità, anzi la si assume come stile di vita, strumento di maturazione personale. Dalla convivialità nasce la reciprocità di cui parla Paul Ricoeur, paradigma fondamentale della relazione basata sul valore della differenza. Una relazione è autentica quando realizza lo scambio, il dare-avere, l’interazione, la reciprocità: “è l’aspirazione ad una vita felice, con e per gli altri, in situazioni giuste”.3 Il primo passo rappresentato dalla convivialità, secondo Emmanuel Lèvinas è la “prossimità”. Nell’incontro non è possibile possedere l’altro: “Viviamo sempre nella tentazione di voler inglobare l’altro nel nostro orizzonte di significato, di ridurlo a parte di noi stessi, di esorcizzare la sua estremità”.4 Nasce così l’esigenza di uscire da noi stessi: “Il volto dell’altro, in quanto epifania della sua differenza da me, infrange la mia sicurezza, mette in questione la tranquilla identità dell’io”.5 Nasce così la consapevolezza di condividere con l’altro i beni della terra e la vita, superando ogni sopraffazione. Si matura così una relazione autentica. È un momento che favorisce la creazione di comunità, ma, con sguardo disincantato è importante evidenziare, al fine di una completa riflessione, che in questo tipo di relazione possono generarsi anche atti di esclusione ed differenza. L’uomo con il cibo stabilisce infine un rapporto con il cosmo al quale appartiene. Egli fa parte delle catene alimentari della natura cosmica e con l’atto di nutrirsi di vegetali o di carne animale rinnova continuamente la sua appartenenza al mondo. Può distruggere la natura o può coltivarla ed entrare in un rapporto intimo di mutualità con essa.

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L’esperienza quotidiana dell’oggi non offre più questa visione del mangiare insieme. La condivisione del cibo a tavola permane, sì, ma le abitudini ed i rituali sono profondamente cambiati, di pari passo alle evoluzioni antropologiche, sociologiche e tecnologiche che investono la vita quotidiana dell’uomo oggi. Il cibo si diversifica a seconda delle situazioni di vita e delle culture e le relazioni che nascono e si innescano sono molto diverse anche in base a tali mutamenti. Il cibo, il rapporto con esso e le esperienze collettive ad esso correlate esprimono un certo Zeitgeist, la cultura e il milieu in cui si vive. Da un fronte scientifico invece, di analisi delle scienze sociali, troviamo il pensiero di numerosi sociologi che affrontano la questione alimentare da un punto di vista dell’intersoggettività. Simmel si sofferma sulla dimensione eminentemente relazionale del pasto. Egli sottolinea come nell’attività del mangiare si condensa in modo unico il legame tra la priorità biologica del nutrimento e la socievolezza umana, la quale ne definisce ritmi, regole e rituali. Il mangiare è un’attività in cui il bisogno fisiologico viene convogliato e sottoposto a “routinizzazioni” sociali. Le stesse caratteristiche degli aspetti relazionali collegati al pasto sono un potente indicatore della fisionomia di una società: significativa in questo senso la sua analisi relativa alla crescente individualizzazione del mangiare, fenomeno acutamente colto dal sociologo tedesco nei nascenti agglomerati metropolitani dei primi del secolo scorso. In società diverse dalla nostra la scena di un uomo che mangia solo è rarissima se non introvabile: si tratta di uno specchio del crescente isolamento del soggetto moderno. Il pasto diviene attività razionale, finalizzata e veloce, funzionale alla nuova scansione dei tempi urbani. Tale analisi preannuncia con grande precisione ed anticipo quelli che si sono manifestati come tratti peculiari della consumazione di cibo, veloce ed individuale, dell’uomo contemporaneo, in particolare occidentale, che vive in un contesto urbano.

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All’interno delle logiche del lavoro appartenenti a tale scenario, sono molto indicative le osservazioni relative ai momenti riservati alla pausa pranzo: spesso scanditi da logiche di ottimizzazione dei tempi, questi giocano a sfavore della piacevolezza e del godimento del cibo stesso (anche su un piano di scarsa qualità dell’offerta culinaria, che, dovendo essere di rapida somministrazione, si tratta spesso di prodotti industriali precotti) e depauperano, quasi eliminandola, l’occasione che per nostra cultura sarebbe di contraddistinta dalla convivialità. Ciò non preclude ma anzi in parte favorisce la nascita di movimenti e fenomeni che mantengono una sorta di equilibrio sociale tali per cui, all’individualizzazione di molti momenti di consumazione del cibo si contrappongono degli eventi ed occasioni in cui il valore ricercato è proprio la condivisione del cibo e l’aggregazione che esso porta attorno ad esso. Francesco Botturi, ordinario di Filosofia morale alla Cattolica di Milano, afferma che “è venuta meno la distinzione fra disponibilità tecnica del cibo e indisponibilità simbolica del convivio. Una crisi che va di pari passo con la crisi complessiva dell’Occidente e che induce a sottovalutare il concetto di ospitalità. Penso, in concreto, alle catene industriali che oggi detengono il monopolio dell’alimentazione, in modo del tutto coerente rispetto allo stile di vita frettoloso e compresso ormai impostosi nella nostra quotidianità. Mangiare di corsa non piace a nessuno, ma tutti ci adattiamo». 6 Il cibo è quindi un’opportunità unica ed per comunicare, celebrare, godere della vita, acquisire conoscenze e cultura, comprendere culture altre. Gli artisti si sono spesso ispirati a immagini e simboli che riguardavano il rapporto tra cibo e cultura nell’evolversi delle forme storiche e artistiche del modo di alimentarsi, negli usi e costumi degli uomini nell’atto di mangiare, mostrando il bello e il meno bello di quell’aspetto della convivialità a tavola quale immagine fedele di una società in un preciso periodo storico. La storia e i significati che si nascondono dietro ai sapori, agli odori, sono tantissimi e molteplici e costituiscono il panorama della scienza culinaria.7

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«Nel momento in cui si affronta un tema così delicato, mi pare importante non perdere di vista l’intero che le varie parti esprimono. È una questione di senso, che ci invita a guardare al convivio come a un’idea estremamente complessa, che va ben al di là della mera assunzione di cibo e appartiene piuttosto al dominio degli universali antropologici». 8 Il cibo è una fonte di gioia e piacere, di cura e di dono, che va sottratto a quel meccanismo economico e sociale che lo riduce a pura merce. Il cibo ci introduce alla vita di relazione, è un modo per entrare in contatto con noi stessi e con l’altro, e in questo senso contribuisce allo sviluppo della nostra identità, dei nostri saperi e del nostro modo di percepire la realtà.9 Il rapporto tra il cibo e la vita di relazione si può analizzare secondo alcuni rapporti di valore e scambio: - Il cibo acquisisce, anche nel rapporto interpersonale il valore simbolico dell’affetto dell’amore: ai nostri amici offriamo “inviti a cena”, per la famiglia, la coppia l’essere riunita ad una tavola ben apparecchiata e il creare e mantenere un clima sereno è un segno di affetto, simbolo di sentimento di appartenenza , il momento del pranzo diventa un’occasione e un’opportunità per comunicare avvenimenti, decisioni - il momento del pasto in famiglia è uno dei momenti privilegiati attraverso il quale si trasmettono valori, tradizioni e abitudini. - Il momento del pasto in famiglia si modifica e affronta le tappe evolutive del ciclo di vita della famiglia nei suoi momenti di crescita, di conflitti e di scontri. - Il comportamento alimentare quale componente psicologica interpersonale: oltre ai valori simbolici generali, il cibo assume significati simbolici strettamente personali che scaturiscono dalle esperienze individuali.

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Le preferenze e le abitudini alimentari, proprio perché connesse a valenze identitarie e rituali radicate, sono di per sé stabili e relativamente resistenti al cambiamento, tuttavia abbiamo assistito negli ultimi 30 anni a notevoli modificazioni delle abitudini alimentari e dei significati rituali ad esse connessi. Sia per una globalizzazione e massificazione dei consumi che per una maggior differenziazione dell’offerta a discapito delle specificità locali. Questo fenomeno ha accompagnato quella che Herpin definisce “de-ritualizzazione” del cibo poiché il pasto e le sue valenze si stanno gradualmente destrutturando in favore di una sempre maggior assenza di regole, di luoghi, tempi e spazi comuni prima invarianti. In un certo senso siamo ciò che mangiamo ma, ancora meglio, si potrebbe dire che mangiando comunichiamo sempre qualcosa di noi, non solo come individui, ma come cultura cui apparteniamo.10 Questo carattere comunicativo è indagato in maniera straordinaria e interessante anche da quella che viene definita “Arte relazionale”12.

1 | La convivialità della tavola unisce ed aggrega le persone, Giuseppe Dal Ferro, Istituto Rezzara, magazine online, 2012. 2 | Nanni Antonio; Fucecchi Antonella; Curci Stefano, Progetto convivialità. Un’etica pubblica per l’Italia plurale, EMI, 2012. di Antonio Nanni, Antonella Fucecchi, Stefano Curci 3 | Paul Ricoeur, Persona, comunità, istituzioni (a cura di A. Danese), EdP, 1994. 4 | Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1990. 6 | Ibidem. 7 | Estratto dall’intervista a Francesco Botturi per l’articolo “L’uomo è più

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di ciò che mangia. Il cibo è relazione” di Alessandro Zaccuri, pubblicato il 7 marzo 2013 su Avvenire.it 8 | fonte: taccuinistorici.it, “Antropologia alimentare” 9 | Francesco Botturi, articolo sovracitato a cura di Alessandro Zaccuri. 10 | Maria Luisa Savorani, Il cibo - una via di relazione. Edizioni Fernandel, 2010. 11 | Mark Conner, Christopher J. Armitage, The Social Psychology of Food, McGraw-Hill, 2002. 12 | Per approdondimenti si vedano i capitoli 4 e 5 della presente trattazione.


“The Girl Who Ate the Apple” ph. Anton Kawasaki Flickr

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ECOSISTEMA CIBO.

Il rapporto tra uomo e cibo, tra individui attraverso il cibo e il sistema relazionale più ampio luogo-cibo-persone

Mangiare assieme è tipico della società umana e i gesti fatti assieme ad altri tendono a uscire dalla dimensione semplicemente funzionale per assumere un valore comunicativo, la vocazione conviviale degli uomini si traduce immediatamente così nell’attribuzione di un senso ai gesti che si fanno mangiando.1 Il cibo si definisce in tale prospettiva come una realtà squisitamente culturale poiché sostanza e circostanza assumono un valore significativo poiché il linguaggio del cibo non può prescindere dalla concretezza dell’oggetto, dal valore semantico intrinseco dello strumento di comunicazione.2 Roland Barthes, a proposito dei concetto di circostanza e sostanza, afferma come questa si definisca in modo talmente autonomo da confliggere con la sostanza nutritiva del cibo. Un esempio ne è il caffè, che nonostante le sue caratteristiche eccitanti assume spesso il valore sociale opposto collegandosi alla pratica della pausa e del relax. Egli sosteneva inoltre, che tali valori di circostanza e sostanza siano tipici dell’età contemporanea in quanto il cibo, nella società dell’abbondanza, tende a indebolire la sua valenza propriamente nutrizionale per enfatizzare gli atri significati, sociali e relazionali in particolare. In tutte le società il sistema alimentare si organizza come un codice linguistico portatore di valori aggiunti che la carica simbolica del cibo è ancora più percepito come strumento di sopravvivenza quotidiana.3 La tavola ed il pasto sono metafora della vita e delle relazioni sociali, a prova concreta di ciò l’etimologia della parola convivio identifica specificamente questo vivere assieme con il mangiare assieme. Ed a tutti i livelli sociali la partecipazione al cibo e al pasto è il primo segno di appartenenza a un gruppo o ad una comunità. Se la tavola è metafora di vita essa ne rappresenta in modo straordinariamente preciso non solo l’appartenenza a un gruppo sociale ma anche i rapporti che in qual gruppo si definiscono. Vi è una rappresentazione e messa in scena delle strutture sociali e rapporti di potere e prestigio che intercorrono tra gli individui che la vivono. Nella moderna società che si definisce democratica si è così particolarmente diffusa, l’abitudine al tavolo rotondo più confacente alla minimizzazione di differenze e gerarchie. Si tratta quindi di un universo semiotico meraviglioso quello all’interno del quale la pratica del mangiare assieme si inserisce e che il cibo stesso ne favorisce su un piano di ricchezza.

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La febbre dell’oro - The Gold Rush Charlie Chaplin 1925

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La sociologia dell’alimentazione, settore della disciplina sociologica che si occupa delle dimensioni sociali legate al consumo (e produzione) di cibo e di bevande, esplorò il tema già con i trattati di alcuni studiosi classici di spicco Georg Simmel, Friedrich Engels, Emile Durkheim e Norbert Elias, i quali hanno dedicato ampie pagine all’importanza dei rituali del cibo all’interno del mondo sociale. Ma è solo verso gli anni Settanta che il mondo del cibo si prospetta ed interpreta come un ambito interessante per lo studio della società. Oggi la sociologia dell’alimentazione si configura come disciplina autonoma sia nel mondo anglosassone che nella scuola francese di sociologia, di cui Alain Poulain è il massimo esponente. In Italia, accanto a vari studi di settore quali il rischio o i consumi alimentari, in campo sociologico da qualche anno si segnalano le prime ricerche sul tema alimentazione e società proposte dal sociologo Lucio Meglio, che ha presentato una nuova chiave di lettura di questo rapporto che considera l’alimentazione come un fenomeno alquanto sfaccettato e composto al suo interno di un insieme di aree funzionali che rendono il cibo un vero e proprio “fatto sociale”, estremamente ricco e corrispondente ad una forma plastica di rappresentazione collettiva. Su queste premesse lo studioso costruisce un suggestivo itinerario che esplora il mondo del cibo nei suoi aspetti sociali e culturali, mettendone in risalto da un lato le complesse relazioni con le emozioni individuali e simboliche, dall’altro le caratteristiche di bene di consumo e di elemento economico ed identitario. Nell’ambito dei classici del pensiero sociologico è di nota sul tema, insieme a Simmel, anche il pensiero di Norbert Elias, il quale costituisce un ulteriore contributo alla riflessione sulla relazione tra cibo e identità sociale. Com’è noto, nella Civiltà delle buone maniere (1982) il sociologo tedesco si sofferma sulle trasformazioni vissute dalla società occidentale nell’uscita dall’epoca medievale. Lo svilupparsi di un codice di buona educazione - corrispondente a precise trasformazioni storiche e strutturali – ha, nell’atto del mangiare e nei suoi rituali, il suo palcoscenico fondamentale. La tavola dei nuovi signori tende progressivamente a ingentilirsi: atti tecnicamente e simbolicamente violenti come il tranciare, disossare, mondare le pietanze vengono relegate nel retroscena della cucina e svolti da personale apposito; si prescrivono comportamenti di consumo più controllati e silenziosi; si

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afferma un nuovo modo di apparire e relazionarsi con i commensali. Nella crescente specializzazione delle funzioni, congruente con la nuova articolazione della società, l’educazione alimentare incarna alla perfezione il senso di un processo di civilizzazione. L’antropologia alimentare è la disciplina che più si avvicina al termine anglosassone “Food studies”. Essa studia ciò che riguarda la coltivazione, la raccolta, la conservazione e la preparazione del cibo a proposito degli aspetti sociali, psicologici e antropologici a cui “il mangiare” è collegato.4 Per questo tipo di studi il cibo è letto come un fatto sociale e culturale che permette a ogni alimento di essere identificato come parte di un macro-sistema culturale. Così ogni pietanza ha un suo specifico status, una propria identità e un suo ruolo. A partire da tali premesse si può affermare che il cibo comunica, parla, crea legami. Nella gerarchia sociale ci fa capire l’età, il genere e lo status di un individuo. L’uso di un linguaggio dedicato costruisce una modalità comunicativa con un proprio gergo, una sua sintassi (i tipi di menù o l’ordine delle portate ecc.), la cultura, le tradizioni, l’identità del gruppo sociale. Il concetto secondo cui l’uomo genera da sé (parte de) il cibo di cui si nutre, contribuisce a definire i parametri per collocare l’individuo di una comunità, che, a prescindere dalla cultura specifica, si definisce riguardo ai differenti equilibri che si creano fra cultura e natura. Un esempio appropriato può essere costituito dal pane. Esso è caricato di valenza maggiore rispetto al semplice alimento e tale valore lo porta a diventare una sorta di cartina di tornasole dell’identità culturale della persona in quanto, non esistendo in natura, esso si pone come linea di demarcazione fra lo stato selvaggio e lo stato civilizzato. A prova di ciò nel Medioevo la cultura romana si distingueva da quella germanica per l’uso alimentare del pane, esso rappresentava il mondo agricolo, laddove i “barbari” normalmente si cibavano di carne come rappresentazione del mondo della selvaggia foresta. È un principio simile rispetto a quel che avviene oggi, quando si mettono a confronto cibi preparati in modo semplice e casereccio e quelli molto elaborati di cucina ricercata.

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ANTROPOLOGIA ALIMENTARE E FOOD STUDIES.


Lo studio dell’antropologia legata all’alimentazione sta diventando sempre più un elemento importante per conoscere e capire culture e civiltà diverse. La lettura della vita quotidiana di genti e popoli attraverso le usanze alimentari è una pratica analitica assai diffusa e molto preziosa. Ma in relazione a tali studi talvolta si creano delle generalizzazioni od omogeneizzazioni non degne della grande eterogeneità di alcuni popoli, che seppur si fondino su principi di realtà, conducono talvolta a dei cliché e corrispondenze che svalutano le sfaccettature alimentari: italiani e la pizza, i giapponesi e il pesce crudo e i cinesi e il riso. Le suddivisioni in ogni caso tengono anche conto del fatto che fino a un certo punto i popoli sostanzialmente erano classificati in tre categorie: agricoltori, cacciatori e pescatori. Oltre a ciò le norme e i divieti alimentari d’ordine religioso avevano un’importanza decisiva sulla dieta di molti individui. Nei giorni nostri la nascita di un certo numero di stili alimentari ci condiziona anche in relazione agli orari e ai luoghi dove mangiamo, nonché regola il senso del gusto e il rapporto particolare con l’elemento “cibo”. Esistono delle definizioni, quali cibi considerati buoni per il corpo, per la mente o per l’anima che sono nella realtà dei fatti delle distinzioni e differenze che l’antropologia alimentare definisce come sbagliate, distorte e pericolose. Le differenze sociali e culturali non riguardano la scelta personale di un certo stile alimentare o di un altro, sebbene spesso sia proprio esibendo un particolare gusto alimentare che si creano coesioni tra gruppi che poi condividono altre scelte di tipo etico, estetico e di stile di vita. È da ciò che nasce poi quello che conosciamo come l’immagine esterna che ogni classe sociale fa di se stessa, vale a dire quello che viene assunto come canone estetico che automaticamente acquisisce il valore assoluto di salute e bellezza. Basti pensare che in Italia negli anni Cinquanta e Sessanta le classi dominanti erano orgogliose di essere le protagoniste dell’assioma “grasso è bello”; oggi invece è l’essere magri e snelli a rappresentare (anche sotto una certa pressione di moda e pubblicità) il modello di riferimento del proprio corpo, e per converso le classi meno abbienti leggono l’obesità e l’essere grassi come una valenza particolarmente negativa, non tanto per la salute quanto per l’estetica da esibire all’esterno.

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Tra i sociologi che hanno proposto i principali approcci disciplinari dal fronte dell’antropologia dell’alimentazione, Ivan Illich ci offre un’interessante riflessione sulla convivialità, da egli intesa come il contrario della produttività industriale. Nel suo saggio, intitolato proprio “La convivialità”5, scrive: Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente a un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttività alla convivialità è il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneità del dono. [...] Il rapporto industriale è riflesso condizionato, risposta stereotipa dell’individuo ai messaggi emessi da un altro utente, che egli non conoscerà mai, o da un ambiente artificiale, che mai comprenderà; il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale. Dunque il passaggio dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato. La convivialità è la libertà individuale realizzata nel rapporto di produzione in seno a una società dotata di strumenti efficaci. Quando una società, qualunque essa sia, reprime la convivialità al di sotto di un certo livello, diventa preda della carenza; infatti nessuna ipertrofia della produttività riuscirà mai a soddisfare i bisogni creati e moltiplicati a gara. L’importanza del cibo (e dell’alimentazione) nella vita e nell’immaginario umano si riflette all’educazione e alla formazione della persona e della comunità. Il cibo si offre come mediatore di relazione, virtuoso intreccio di tradizioni, ecologia e cultura del dialogo, contesto reale ed emozionale per ricercare l’armonia con gli altri e con l’ambiente. Il mangiare umano, nelle sue peculiarità antropologico-culturali, richiede un’adeguata interpretazione pedagogica per indagarne le profonde valenze educative. Una corretta educazione alimentare è essenziale per il futuro delle giovani generazioni. Essa avvalora

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IL RAPPORTO CON IL CIBO STRUTTURA LA RELAZIONE UMANA CON IL MONDO6


gli aspetti di convivialità, il rispetto della biodiversità, la scoperta delle peculiarità del territorio, per trasferire conoscenza e saper fare correlati al cibo e alla sua preparazione. Nutrirsi di cibo, ma anche di relazioni, di situazioni e di stati d’animo può aiutare a vivere in modo più armonico e positivo, in una tessitura che riguarda l’inesorabile intrecciarsi delle dinamiche interpersonali.7 L’antropologo Jack Goody sostiene che la ricerca sociale in campo alimentare non possa essere esaurita nella descrizione delle strutture che informano le pratiche culinarie; in questo modo si perderebbe infatti la dimensione diacronica del fenomeno alimentare. Le pratiche alimentari devono quindi essere analizzate all’interno di uno schema dinamico che tenga conto e che possa spiegare il cambiamento, oltre che le strutture, di tali pratiche. Goody sottolinea inoltre come il cammino sociale del cibo non sia rettilineo ed uniforme ma subisca accelerazioni e rallentamenti in funzione di diversi fattori quali l’industrializzazione, il colonialismo, le migrazioni, ecc.8 Entro questa cornice generale fornita dal rapporto cibo-identità, le parole chiave possono essere organizzate in due gruppi: quelle che riguardano in generale le relazioni tra cibo e processi sociali o istituzioni sociali (cibo e rito, cibo e commensalità, cibo e differenziazione sociale), che saranno oggetto di questo stesso capitolo, e quelle che riguardano il cibo o il mangiatore moderno - o le relazioni tra pratiche alimentari e processi di formazione o strutture delle società moderne/industriali che saranno trattate nel secondo capitolo. In entrambi i casi occorre scontare una certa eterogeneità di riferimenti, che è nella natura degli studi in questo campo. All’interno di quella che definiamo genericamente sociologia del cibo esiste una certa variabilità per ciò che riguarda gli elementi presi in considerazione: tali elementi possono essere il cibo in senso stretto9, le modalità di produzione del cibo (Braudel 1967) o quelle di consumo (Corbeau 1992), ecc. Riferimenti del discorso possono quindi essere di volta in volta il cibo, le relazioni tra i mangiatori, i luoghi in cui il cibo viene consumato, quelli in cui viene venduto ecc.10

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Daniel Spoerri Le coin du restaurant 1968

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I comportamenti, come il mangiare, vengono definiti atti consumatori e si verificano con frequenza e periodicità. Le abitudini alimentari sono collegate a fattori di ordine antropologico, culturale ed economico: - Disponibilità del cibo in rapporto alle diverse aree geografiche. - Selezione degli alimenti in base alle necessità della popolazione di soddisfare le proprie esigenze nutritive. - Modello socioculturale di bellezza e di benessere psicofisico. - Tradizioni e rituali legate al momento del pasto e simbolismo relativo a certi alimenti - Condizionamenti esterni come la pubblicità, capaci di orientare i consumi proponendo “modelli di massa”. Questo ci porta, quindi, a parlare di alimentazione non solo come fatto fisiologico, culturale, ma a metterne in luce la valenza psicosociale, gli aspetti emotivi . Il cibo è presente, come simbologia, nella vita sociale e di relazione. Il comportamento alimentare quale componente psico-sociale: Per non perdere il proprio senso di identità e la propria cultura. Oltre alla natura delle relazioni e rapporti che vengono incoraggiati dalla pratica alimentare, è interessante e significativo analizzare anche la dimensione spaziale che contribuisce a tali manifestazioni sociali. Esistono numerose occasioni e fattori dell’ambiente che possono assecondare i rapporti interpersonali attraverso il cibo: - la presenza o meno di appoggi, dispositivi e superfici di fruizione del cibo (tavoli, sedie, sgabelli) - l’interspazio che è presente tra un tavolo e l’altro (se presenti) o comunque le dimensioni dello spazio riservato al cliente - il packaging (se si tratta di cibo “take away”) o le stoviglie (nel caso di consumazione all’interno di un locale) - il servizio (self- o al tavolo) - la temperatura del cibo, la sua conformazione e struttura (sue caratteristiche più ergonomiche) - il comfort ambientale (termico in particolare)

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Tokyo street food ph. Hajime Nagahata Flickr

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Tali elementi variano e definiscono anche la gamma di possibilità di poter fruire il cibo, e queste, di conseguenza, suggeriscono un determinato tipo di relazione sociale. - Luoghi convenzionalmente dedicati alla consumazione di cibo: ristorante / pizzeria / steak house, pasticceria, caffetteria. - Luoghi che solitamente sono solo spazi di vendita e non di consumazione si trasformano, in determinate occasioni o in taluni giorni o in certe città od aree geografiche: macelleria/salumeria (come da tradizione del Sud Italia, ovvero con la possibilità di consumare il prodotto nel locale stesso, scelto dal cliente e cotto al momento dal seduti), panificio, pescheria,enoteca, altri esercizi commerciali che, quali negozi di abbigliamento, in certune occasioni scelgono, per questioni di marketing di aprire anche degli spazi temporanei o permanenti (integrati) di consumazione di cibo (e/o bevande). - Luoghi che somministrano cibo ma che prevedono l’atto della consumazione in strada o in spazi terzi privati: pizza al taglio, kebab gelateria (da asporto) / yogurteria, cicchetteria (tradizione veneziana). Ognuno di questi spazi e caratteristiche definisce universi non solo gastronomici ma relazionali che meriterebbero delle analisi ed approfondimenti specifici, che in questa sede però proponiamo solo su un piano iconografico.

1 | Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Laterza 2004, p. 129. 2 | Ibid, p. 130 3 | Roland Barthes, L’alimentazione contemporanea in “Scritti. Società, testo e comunicazioni”, Einaudi, 1998 4 | Fonte: www.taccuinistorici.it 5 | Ivan Illich, La convivialità. Red edizioni, 1993 6 | Cristina Birbes, Nutrirsi di relazione una riflessione pedagogica tra cibo e educa-

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zione. Pensa MultiMedia editore, 2012. 7 | Ibidem. 8 | Jack Goody, Cooking, Cuisine and Class – a study in Comparative Sociology, Cambridge University Press, 1982 9 | Jessica Kuper, The Anthropologist’s Cookbook, Routledge 1977. 10 | Simone Tosi, Sociologia, Cibo, Alimentazione: alcuni appunti.


Kestane Kebab, Istanbul ph. Walter Braun Flickr

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IL CONVIVIUM.

Le relazioni sociali del banchetto e del simposio

convìvio s. m. [dal lat. convivium, der. di convivēre «vivere insieme»], letter. – Convito, banchetto: “le dolci reliquie de’ convivi” (Ariosto). Il Convivio, titolo di un’opera dottrinale di Dante (quasi «banchetto di scienza» per i non letterati). La convivialità e le funzioni sociali della mensa sono considerate pratiche e caratteristiche specificamente umane, tratti che, assieme alla cucina, distinguono il comportamento alimentare dell’uomo da quello di altri esseri viventi. Se si osserva l’evoluzione della convivialità e della commensalità che hanno sempre caratterizzato gli atti alimentari dell’uomo e della sua attitudine naturale al convito si può compiere una lettura più profonda di certi usi e mode d’oggi, come gli aperitivi, i vernissage, il social eating e simili. Secondo l’autrice, questi non sono eventi o fenomeni nuovi, ma si ritiene che siano la manifestazione contemporanea di quella attitudine che attraversa la storia dell’uomo tale per cui si raccoglie in comunità in occasioni in cui c’è un banchetto o una condivisione di cibo. Il cibo viene visto quindi come come quell’ingrediente necessario e fondante il convivium come momento ed occasione relazionale. Nei banchetti e nei simposi della Grecia, della Roma Imperiale e di molti altri popoli del bacino del Mediterraneo, si pongono le radici della riflessione del tema trattato nel seguente saggio.

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famiglia Luttrell a tavola Luttrell’s Psalter Inghilterra, 1320-40

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COMUNITA CONVIVIALI 101

Insegnamenti dalle antiche pratiche quotidiane di Sumeri, Greci, Romani ed Arabi. Innumerevoli tesi confermano e testimoniano l’esistenza di banchetti – e di una ritualità specifica ad essi correlata – praticati tra i popoli sumeri e in altre regioni della Mesopotamia, tra il III e il II millennio a.c.. Vengono principalmente descritti banchetti di stampo religioso, votati agli dèi, ma allo stesso tempo si narra di pratiche popolari più private ed edonistiche. Mangiare e bere assieme serviva a rafforzare l’amicizia fra eguali e le relazioni del signore con i suoi vassalli, i suoi tributari, i suoi servitori e persino i servitori dei suoi servitori. Egualmente, a un minore livello sociale, i mercanti suggellavano i loro accordi commerciali in una bettola, davanti a un boccale. 1 Nella stessa epoca compaio pranzi serviti nei templi, ogni giorno, in onore agli dèi. Nei grandi pranzi mesopotamici era di fondamentale importanza la presenza di taluni alimenti, condimenti e bevande. La maggior parte di tali cibi si ritroverà, non a caso nelle feste di altri popoli in altri periodi storici. Tra questi si possono annoverare la carne fresca, indispensabile nei banchetti, e le bevande fermentate. Vino, cervogia, birra forte e una particolare bevanda di datteri fermentati e sono tutti elementi molto caratteristici delle feste attorno ad un banchetto e delle relazioni conviviali. Altri elementi che usualmente si impiegavano durante tali conviti si citano l’olio e il sale, il primo per la pratica di lucidare i capelli ed il secondo condiviso durante il pasto come simbolo di amicizia. Vengono a seguire molti cibi il cui carattere festivo è meno evidente ma comunque rilevante: pesci, uova, frutta, verdure, dolci guarniti con frutti o preparati con il miele, gallette, pani d’orzo e talvolta anche cereali allo stato quasi naturale, in grani o in farina, celebrati come cibi straordinari. Altri banchetti seguirono, in Egitto, dopo l’antico impero, e con essi si assistette ad una significativa evoluzione che subirono gli utensili, la tavola, le sedie e le abitudini dei commensali. Secondo Jean-Louis Flandrin, è verosimile ed importante evidenziare – e di riflesso valorizzare – un paradigma storico ed antropologico: la funzione sociale del banchetto non prende vita solo a partire dal III

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millennio e dalla costituzione dei grandi imperi orientali o, quanto meno, con l’avvento dell’agricoltura e dell’allevamento (presupposti indispensabili per tali sistemi politici). A sostegno di tale teoria, lo storico francese, cita le organizzazioni socio-economiche del Paleolitico superiore, che prevedevano il raggruppamento di molti nuclei familiari per condurre interi armenti di bestie verso le trappole, al fine della macellazione delle loro carni. Tale usanza implicò l’elaborazione di forme di organizzazione e un certo incoraggiamento alla fruizione collettiva delle carni tra le varie famiglie e persone. Prima ancora nella storia, 500 mila anni a.C., quando l’uomo cominciò ad impiegare il fuoco per la cottura del cibo procacciatosi, con l’utilizzo di un fuoco che era necessariamente condiviso, si favorirono già delle pratiche collettive, da cui si sviluppa la funzione sociale del pranzo e lo sviluppo della convivialità. Il convito rappresenta un momento importante di solidarietà e illustra al tempo stesso i piaceri della vita divina così come la concepiscono gli uomini. In genere il festino rispecchia un’organizzazione ben precisa.2 Molti esempi presenti nella letteratura mitologico-religiosa illustrano le caratteristiche preminenti del convito in Mesopotamia. Si trattava di una vera e propria festa della comunità, di un momento cruciale di una cerimonia, con precise norme di comportamento da rispettare a tavola. Alcune raffigurazioni artistiche, risalenti gli inizi dell’epoca sumerica, forniscono dei preziosi particolari riguardo ai rituali di tali banchetti e lo stretto legame tra festività religiose e divertimenti profani. Si tratta essenzialmente di scene conviviali in cui uomini e donne apparivano seduti con una coppa in mano e con servitori e musicisti tutt’intorno. La genealogia cambiava sensibilmente se si trattava di banchetti ufficiali o privati. I secondi, soprattutto in riferimento all’area mesopotamica ed alle peculiari tradizioni e cultura, rappresentano una singolare occasione per socializzare, a differenza di quelli regali i quali erano contraddistinti soprattutto dall’esigenza di ribadire un certo prestigio.

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LA FUNZIONE SOCIALE DEL BANCHETTO NELLE PRIME CIVILTÀ


IL PIACERE DEL PASTO COMUNE

Ogni accordo un po’ solenne fra individui e, soprattutto, fra gruppi di famiglie, si concretizza con la partecipazione a un pasto preso in comune. Quest’ultimo simboleggia l’accordo e la suddivisione delle bevande e del cibo che fa da contrappunto materiale alla stesura scritta del contratto; vincola i partecipanti e vieni indicato nei documenti degli inizi del II millennio mediante la formula «Abbiamo mangiato il pane, abbiamo bevuto la birra e ci siamo uniti di olio».4 Il banchetto poteva suggellare la stipula di vari tipi di contratto: matrimoni, affitto di un terreno, vendita di beni immobiliari, affitti di imbarcazioni e così via. Ma al di là delle specifiche motivazioni ed obiettivi funzionali l’essenza del pasto o del banchetto risiedeva nell’azione del dividere, nello scambio di alimenti e bevande piuttosto semplici e nel fatto di base che i partecipanti sedevano alla stessa mensa. Ciò costituiva una delle principali forme di solidarietà sia della comunità che del nucleo familiare. Il pasto, preso in compagnia, instaurava quindi un forte vincolo di solidarietà.

IL CONVIVIUM NEL MONDO CLASSICO

Noi non ci sediamo a tavola per mangiare ma per mangiare assieme Plutarco Tra gli aspetti che definiscono la cultura alimentare del ‘mondo classico’ è di grande rilevanza la volontà di auto-rappresentazione e definizione di un modello di vita civile (e strettamente connesso alla nozione di città), che ben si distingue da quello barbarico, all’interno del quale le pratiche alimentari giocano un ruolo di fondamentale importanza. I tre punti di identità e valore su cui si fondava tale modello sono i seguenti: la convivialità, il genere di cibi consumati e in ultimo la cucina e la dietetica. Nel sistema di valori elaborato dal mondo greco e romano, la convivialità ricopriva un ruolo primario e distintivo dell’uomo civilizzato rispetto ai barbari e alle bestie. L’atto del mangiare non era meramente un atto funzionale al nutrimento del proprio corpo, bensì era «un gesto dal forte contenuto sociale e di grande spessore comunicativo»5, il mangiare si trasformava in un momento unico di socialità.

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Il tema della convivialità viene percepito e interpretato come fondante e fondamentale rispetto alla costituzione ed organizzazione della civiltà umana. Il convivium diviene così l’immagine stessa della vita in comune, cum vivere. Il banchetto diviene così il segno maggiore di identità del gruppo, quale esso sia: dalla famiglia nucleare al popolo intero della città che si riunisce attorno alla mensa comune, vuoi con fisica rappresentazione di tutti, vuoi per rappresentazione simbolica.6 Al contrario, il mangiare separatamente significava e comunicava una differenza di identità. La tavola infatti funzionava come uno straordinario strumento, da una parte di aggregazione ed unità e dall’altra di separazione ed emarginazione. Farne parte od esserne esclusi aveva un grande valore di significato sociale (e anche di rappresentazione di potere, politico e non). Tale rapporto di partecipazione al banchetto e di integrazione nella comunità si ritroverà con eguale forza e rilevanza anche nella società occidentale, medievale e moderna. Oltre ad essere quindi il luogo e manifestazione per eccellenza in cui si esprimono le identità, il banchetto è anche il luogo dello scambio sociale (secondo il meccanismo antropologico dello scambio di doni). Il banchetto è altresì espressione della comunità e ne rappresenta gerarchie e rapporti di forza endogeni. Altro importante elemento di coesione sociale della cultura dell’epoca e dell’identità civile era il simposio. Esso celebrava la sacralità del vino ed oltre a favorire il contatto con il divino, trattandosi di un momento rituale in cui si beveva collettivamente, assecondava e stimolava i rapporti sociali e relazionali. La commensalità del popolo greco è sempre stata regolata da codici complessi e da un legame stretto con le divinità, tanto che per i Greci non ci poteva essere banchetto senza il consenso degli dèi e che un convito che eventualmente ignorasse le norme che regolavano i rapporti tra uomini e dèi era addirittura votato al fallimento. I legami indissolubili che esistevano tra il sacro, il sociale e il politico erano messi in scena e manifestati attorno a uno dei principali rituali sociali dell’alimentazione greca, il pasto.

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I PASTI GRECI: UN RITUALE COLLETTIVO E UN MODELLO CIVICO


L’alimentazione mette in gioco una serie di rituali sociali, da quelli della solidarietà del lavoro agricolo nei campi fino a quelli degli scambi nelle piazze dei villaggi e nel mercato del centro urbano. 7 Sia il sacrificio che il simposio evidenziano quali siano i valori essenziali del convivium: la spartizione, spesso egualitaria, e la comunione, dei generi di vita, dei discorsi, della cultura propri dei greci; di tutto ciò troviamo testimonianza sulle scene raffigurate diffusamente sui vasi antichi greci. I banchetti comuni sono in questo scenario però, il tratto della cultura e dei rituali alimentari dei greci, che più ci interessa in tale trattazione. Di attenzione particolare è quindi il posto occupato dal banchetto nel processo globale di riproduzione del corpo sociale delle città greche, il convivium come pratica culturale infinitamente ricca. In Grecia la comparsa dei pasti comuni è legata all’istituzione di regole che conferiscono una reale coerenza alla comunità. L’invenzione dei banchetti definì una collocazione precisa ed affermata dei pasti nella storia della cultura greca e la loro costituzione segnò l’ingresso di un popolo nei rapporti di comunità (che in parte coincidono con la costituzione dell’identità politica). Da tale prospettiva i greci, attraverso la padronanza di questa usanza comunitaria, si differenziano nettamente sia dai loro predecessori che dagli altri popoli del bacino del Mediterraneo (e non solo). Il pasto comune quotidiano era possibile solo nelle comunità poco numerose e nella Grecia antica si verificava solo nelle città oligarchiche che limitavano rigidamente l’accesso alla cittadinanza. Il sistema nel tempo si evolse e i pasti comuni fecero la loro apparizione in diverse occasioni pur senza conservare l’obbligo quotidiano per l’insieme dei cittadini. Nel tempo, la timida apertura dei pasti pubblici agli abitanti liberi di una città si tradusse nella nascita di un nuovo sentimento della comunità, che non si fondava più solo sui diritti politici ma faceva posto anche alla solidarietà che nasceva dal lavoro comune e dalla contiguità quotidiana. Oltre ai banchetti nell’antica Grecia si usavano organizzare anche i sissizi. Si trattava di pasti comuni fatti all’interno di gruppi sociali o religiosi (formati da uomini adulti e da ragazzi), la partecipazione ai quali era (salvo eccezioni) obbligatoria. Essi, diffusi in special modo a

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Creta e Sparta, erano anche noti come hetairia, pheiditia o andreia, e funzionavano sia da club aristocratici sia da mense militari. Così come i banchetti, i sissizi erano riservati esclusivamente agli uomini; anche se vi sono fonti che danno notizia di sissizi esclusivamente femminili. Inoltre, a differenza dei banchetti, tali pasti si segnalavano per la loro semplicità e sobrietà. Nel Medioevo il convivium, inteso come il pasto e il banchetto, era il segno per eccellenza con il quale si manifestava un rapporto fondato sulla pace e sulla concordia. Mangiando e bevendo assieme, infatti, si mostrava di essere legati in modo particolare a un determinato commensale e si dichiarava con ciò di assoggettarsi alle esigenze che tale relazione comportava. Dimostrare la ritrovata unità attraverso il mangiare assieme, dopo un atto di sottomissione e il gesto di riconciliazione era dunque più importante delle trattative politiche stesse.8 Nelle variegate forme di comunicazione non verbale del Medioevo, il pranzo (convivium) era uno dei modi e segni principali con i quali si manifestavano e dichiaravano decisioni, novità, cambiamenti e accordi. Questi pranzi venivano organizzati in molteplici occasioni e avevano luogo quando singoli personaggi o gruppi di persone stipulavano una pace oppure un’alleanza. Il pranzo, come segno di principio o di mantenimento di un rapporto legato ad una specifica funzione o scambio, i conosceva e si impiegava in circostanze connesse a rapporti di potere, sociali e parentali e in tutti quegli ambiti di essenziale importanza dell’organizzazione della società medievale. Nell’Alto Medioevo si tenevano pranzi e banchetti principalmente caratterizzati dalla diffusione di legami amichevoli ed associativi e questi legami si incontrano a tutti i livelli della società medievale. Le due forme principali di tali rapporti erano l’amicitia e l’associazione in coniuratio. La prima era spesso giurata e utilizzata nella sfera politica, con essa re e potenti potevano accrescere la cerchia di persone fidate. La seconda, connessa con l’amicizia giurata, si osserva sia negli strati sociali elevati della nobiltà sia negli ambiti delle città, dei villaggi o delle signorie rurali da gruppi di ceti sociali popolari al fine dell’organizzazione di certi problemi. Per tali gruppi pranzi e banchetti fungevano in un qualche modo da rituali atti a creare fiducia e confidenza nel momento in cui si stabiliva il legame.

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CONVIVIALITÀ NELLA VITA SOCIALE DEL MEDIOEVO

IL PRANZO AL CENTRO DELLA VITA SOCIALE


Il lato invece più mondano del convivium, funzionale a creare un’atmosfera di fiducia, non caratterizzava soltanto l’avvio dei rapporti ma forme diverse di divertimento contrassegnavano anche i conviti con obiettivo il rafforzamento e proseguimento di legami già instaurati. In tale atmosfera serena e gioviale si ponevano comunque le condizioni per trattare argomenti più seri. Questa particolare commistione di festa ed affari sembra risalire ad una più antica tradizione poiché si ritrova in alcune tribù germaniche l’usanza di prendere decisioni durante i banchetti.9 Tacito a tal proposito affermava «si consultano mentre non sanno fingere» e «decidono quando non possono sbagliare».10 Se dunque il mangiare e il bere assieme era di fondamentale importanza per la vita dei gruppi sociali del medioevo e per quelli fondati su legami di cooperazione ed amicizia, è un altro tratto importante il fatto che non assumeva grande rilevanza cosa si mangiava (e si beveva) ma l’atto in sé di ritrovo, condivisione e discussione. RIVOLUZIONI ALIMENTARI E SOCIALI

Molti fatti storici e politici dell’epoca moderna hanno avuto profonde conseguenza sul sistema alimentare. La conquista degli oceani da parte degli europei e l’integrazione di altri continenti nella loro rete commerciale ha portato all’introduzione di specie alimentari esotiche, la riforma protestante ha sollecitato una diversificazione delle cucine nazionali, il progresso della stampa ha favorito lo sviluppo della cultura scritta e quindi la fruizione dei libri di gastronomia, lo sviluppo della chimica rivoluzionò il rapporto tra cucina e dietetica, l’espansione di molte città favorì un passaggio all’agricoltura di mercato e la ripresa dello sviluppo demografico di riflesso comportò un’espansione della coltura dei cereali e un loro incremento nel regime popolare. Questi e molte altre vicende hanno apportato delle micro e macro-rivoluzioni nelle vite quotidiane di moltissime persone comportando significative trasformazioni negli usi e costumi della tavola e delle pratiche relazionali attraverso il cibo. Al di là delle numerosissime mode cosmopolite che hanno influenzato in maniera massiva le abitudini alimentari, i prodotti consumati, i tempi di fruizione del cibo e le modalità di condivisione (o non) del pasto, è di fondamentale importanza ricordare ed osservare come «la funzione sociale del pasto resta importante in Europa: si continua a mangiare non solo per nutrirsi, ma anche per vedere parenti o amici e condividere con loro un piacere. Questo piacere conviviale ha bisogno dell’impegno di un tempo comune e allo stesso tempo di un po’ di cerimoniale» 11

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Watriquet de Couvin il pasto delle ‘dame di Parigi’ Dits, Francia XIV

Eat Drink Man Woman Film diretto da Ang Lee 1994

1 | Jean-Louis Flandrin, Convivialità, in “Storia dell’alimentazione” (volume primo) a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Laterza 2011, pag. 10 2 | Francis Joannès, La funzione sociale del banchetto nelle prime civiltà, in “Storia dell’alimentazione”, I, a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Laterza 2011, pag. 26. 3 | Ibid, pag. 29. 4 | Cfr. J.-M. Durand, Sumérien et Akkadien en pays amorrite, I, in “Mari.

Annales de recherches interdisciplinaires”, I, 1982, pp. 79-89. 5 | Massimo Montanari, Sistemi alimentari e modelli di civiltà, in “Storia dell’alimentazione”, I, a cura di J.-L. Flandrin e M. Montanari, Laterza 2011, p.73. 6 | Ibid, p. 74 7 | Pauline Schmitt Pantel, I pasti greci, un rituale civico, in “Storia dell’alimentazione”, a cura di J.-L. Flandrin e M. Montanari, Laterza, 2001, p. 112.

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8 | Gerd Althoff, Obbligo mangiare: pranzi, banchetti e feste nella vita sociale del Medioevo, in “Storia dell’alimentazione”, I, a cura di J.-L. Flandrin e M. Montanari, Laterza 2011, p. 234. 9 | Ibid, p. 237. 10 | Tacito, Germania, 22. 11 | Jean-Louis Flandrin, M. Montanari (a cura di), Storia dell’alimentazione, I, Laterza 2011.


IL CIBO DI STRADA E IL MERCATO.

Un universo gastronomico e sociale, relazionale per vocazione.

La cultura alimentare ha molto a che fare con la storia delle città e delle strade in particolare. Non solo perché, da quando gli uomini hanno cominciato a viaggiare, il “cibo di strada” è stato un fondamentale capitolo del loro modo di nutrirsi, ma anche e soprattutto perché la strada è stata essa stessa un veicolo di diffusione delle abitudini alimentari. Lungo la strada non viaggiano solo gli uomini, ma le loro idee e i costumi, le pratiche e i gusti.1 “Cucina da strada”, “cucina di strada”, “street food” si riferisco a una pratica culinaria basata sulla preparazione, esposizione, consumo e vendita di prodotti alimentari in strade, mercati e simili, attuata da venditori ambulanti2 ma, come nelle parole che seguono spiegheremo, esistono delle importanti differenze e peculiarità. Oggi si parla diffusamente di “street food” ma è importante chiarire che non coincide con il termine e concetto di “cibo di strada”. Considerarli sinonimi o indicanti lo stesso fenomeno sarebbe un’errata interpretazione poiché ignorerebbe e non terrebbe conto della storia e non renderebbe assolutamente merito di quelle connotazioni – culturali e sociali – che caratterizzano il “cibo di strada” (e non lo “street food”). È fondamentale capirne le differenze. Lo street food è innanzitutto una modalità di consumo di stampo anglosassone e una tendenza cosmopolita, non una vera e propria cultura; è una tipologia commerciale, un’offerta alimentare – fast e cheap – che non sottende una cultura gastronomica ma che riflette degli stili di vita frenetici e pratiche individualizzanti. Chiamatelo come vi pare: “mangiari” di strada, spuntino al volo, boccone del baracchino. Ma per piacere non chiamatelo street food.3 La terminologia inglese, sempre più diffusa anche da noi, non traduce in modo adeguato l’espressione “cibo di strada”, perché si rifà a modelli alimentari anglosassoni, profondamente diversi: pasti rapidi ed economici come del fast food. In comune, di certo, c’è il richiamo alla strada come luogo deputato alla somministrazione e alla preparazione e cottura del cibo.

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Tokyo street food ph. Hajime Nagahata Flickr

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Ma il cibo di strada, italiano e di molti Paesi dell’area mediterranea, non può essere messo sullo stesso piano di hamburger, patatine fritte e hot dog, poiché si tratta di un patrimonio di una cultura materiale consolidata nei secoli e, in parte, in via di estinzione. Un percorso gustativo fra i luoghi della memoria, straordinario retaggio della nostra storia e delle nostre tradizioni. Non c’è territorio che non ne abbia, è il popolare che dai chioschetti o dai locali di porto entra nelle abitudini alimentari e sociali. Un altro elemento di sostanziale differenza è anche il carattere sociale e relazionale che appartiene al cibo di strada ma non allo street food. Se lo street food ha tendenzialmente un approccio più utilitaristico e funzionale dettato da uno stile di vita frenetico è facile comprendere che non si possano sviluppare dei fertili e floridi rapporti di relazione interpersonale tra cliente e cuoco/venditore o tra chi frequenta tale luogo. Mentre nel concetto di cibo di strada c’è, sì, una modalità piuttosto veloce di consumazione del cibo ma innanzitutto esso è preparato secondo i principi di una determinata cultura alimentare e gastronomica di un determinato Paese o regione. Veri e propri aggregatori, i luoghi del cibo di strada, del loro consumo, hanno una funzione sociale, permettono agli individui di sedere e di mangiare gomito a gomito sulle panche, in terra, ai lati dei chioschi con la possibilità di dialogare. Un’inaspettata condivisione del piacere e di un attimo sfuggente di convivialità. Si pensi al vociferare del mercato di San Lorenzo a Firenze, al caos della Vucciria o di Ballarò a Palermo, o ancora ai chioschi della vecchia Napoli. Al contrario, nel caso dello street food si tratta per lo più di un rito di consumo solitario, massificato, omologato che avviene in locali tristi, freddi e silenziosi. Nella Roma antica gran parte della popolazione consumava i pasti in piedi, velocemente, sostando in locali semi-aperti su strada, non disponendo di tutte le comodità a servizio delle famiglie ricche. Queste strutture erano chiamate “tabernae”, “thermopolia”, “popinae “ e “cauponae”, e ne esistono importanti testimonianze archeologiche a Pompei, Ercolano, Ostia Antica ed altri siti archeologici. Oltre alle cauponae e alle tabernae dove i passanti compravano o consumavano bevande fresche o vino caldo, numerosi erano i venditori ambulanti che offrivano pane, frittelle, salsicce, ecc. Le classi popolari dei centri

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cittadini conoscevano il piacere di consumare a tavola solo il pasto della sera. Lo scrittore latino Marziale in un epigramma descrive il caos delle strade dell’Urbe prima dell’editto di Domiziano che aveva regolato l’esposizione e lo stazionamento di merci per strade e marciapiedi: “Non più fiaschi appesi ai pilastri… barbiere, bettoliere, friggitore, norcino; nel proprio guscio se ne sta ciascuno. Ora c’è Roma: prima era un casino”. 4 La cucina di strada rompe molte delle regole del tradizionale pasto poiché il consumo è al tempo stesso un fatto privato, spesso ci si ciba da soli ed è un ‘evento pubblico’, perché avviene per strada o in locali aperti agli sguardi di tutti, quindi legato alla collettività. Si è da soli e insieme agli altri nello stesso tempo e ciò crea un’atmosfera di complicità tra avventori, per cui sovente si scambiano due parole, una battuta, perché la situazione induce un senso di confidenza non comune. La cucina di strada sottende anche “un’arte della comunicazione”. Le cucine di strada si sono affermate in tutto il mondo, in epoche molto diverse e con caratteristiche assai differenti, poiché spesso riflettono delle peculiarità della società e del territorio. Il cibo di strada è una pratica quotidiana per milioni di persone in Africa, Asia, America Latina. Nelle città sono accentrati due terzi degli abitanti del nostro pianeta: si calcola che almeno la metà possa consumare quotidianamente cibo da venditori ambulanti o comunque accedere alla consumazione veloce in locali adiacenti la strada. “Il Sud del pianeta sembra avere, invece, due strade davanti a sé: l’agricoltura urbana e lo street food, il cibo venduto e preparato per strada… La ristorazione di strada, di giorno e di notte, interagisce ormai con lo stile di vita cittadino. Per tanti studenti universitari di Bogor (Indonesia) il cibo venduto in strada rappresenta per esempio l’80% dell’alimentazione quotidiana. Una ricerca svolta a Bangkok (Tailandia) ha dimostrato che il 90% della popolazione consuma fuori casa la maggior parte dei pasti e si tratta principalmente di cibi venduti per strada”.5

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In Cina esistono da secoli e in tutta l’Asia, anche Paesi più industrializzati come il Giappone, si sono mantenuti la tradizione ed il commercio. Nelle strade di Tokyo per esempio, è negli yatai che si mangiano le migliori zuppe di lamen o di udon o anche le diverse componenti dell’oden bollite in una minestra di soia e accompagnate da tiepido sake. La funzione sociale di tali luoghi e di tali cucine di strada è fondamentale. Non importa di quale tipo di cucina nazionale o regionale si tratti nello specifico ma in esse vi è sempre uno straordinario fiorire di relazioni sociali, che superano ogni etichetta relativa ad estrazione sociale, sesso, età, genere. Sono luoghi in cui tendono a permanere un’informalità e una naturalezza uniche, anche grazie alle modalità di consumazione del cibo stesso. Queste le basi per lo sviluppo di relazioni interpersonali floride e spontane. Negli yatai, per esempio, è normale incontrarvi, seduti gomito a gomito, impiegati, studenti e uomini d’affari intenti a scambiare battute fra loro e con il cuoco. Questa forma di ristorazione da strada è ancora fortemente presente in America Latina, Medio Oriente ed Africa. Il cibo di strada, quello autentico, presenta odori e sapori genuini poiché non sono uniformati dalla globalizzazione dei gusti, ci obbliga a scendere nei vicoli, nelle piazze, nei crocevia per imparare a gustare. È qualcosa di sfizioso, da assaporare senza comodità, in piedi, seduti in terra, senza tavolo o sgabelli. È il piacere atavico di afferrare con le mani un cartoccio chiassoso di sapore, appena sfornato, che si offre fuori orario, senza regole, clandestino. LA CULTURA DEL CIBO D STRADA IN ITALIA

La mappa del cibo di strada italiano è una fotografia nitida e dai colori vivaci di un Paese dalla grande ricchezza e stravaganza gastronomica, di un’Italia un tempo povera che con prodotti modesti ma appetitosi ha conquistato i palati. Questa pratica si riscontra principalmente negli spazi urbani dei quartieri storici e popolari delle città italiane. Ogni città italiana ha le sue tipologie, anche a prova del fatto che non si tratta assolutamente di un fenomeno contemporaneo ma che dimostra le antiche.

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Il lampredotto servito ai carretti dei trippai fiorentini è una specialità, a Livorno è ancora possibile gustare «cinque e cinque»: torta di ceci condita con pepe servita in un panino morbido. Fra Lazio e Umbria esistono ancora i veri artigiani che preparano la porchetta con la cottura a legna. In Emilia Romagna accanto alla regina del cibo di strada, la piadina, trova posto una corte reale di tutto rispetto: il fritto misto, il tortello nella strada, il crescione, lo gnocco fritto, la torta fritta, la crescentina, la tigella, il borlengo. Se poi ci si sposta nel Meridione, e in Sicilia in particolare, si trova la vera culla del cibo di strada. Qui i profumi della terra si mescolano con quelli delle pietanze che vengono preparate all’aria aperta sui furgoncini oppure con gli odori che provengono da botteghe nascoste in vicoli stretti. Soprattutto nei mercati di Catania e di Palermo è difficile resistere alla tentazione delle varie specialità che qui come da nessun altra parte hanno antiche radici. Sia in Età medievale sia in Età moderna le classi popolari urbane vivevano gran parte della giornata per strada, dove consumavano i loro pasti comprando prodotti in botteghe, bettole, da venditori ambulanti La storica Raffaella Sarti cita un documento seicentesco relativo alla corte di Mantova dove si mette in rilievo lo scarsissimo rispetto delle classi popolari per l’etichetta: il popolo ingerisce qualsiasi cosa, mangiando quando e dove capita, senza “regula alcuna”. 6 In strada si trovava di tutto: pizze, pasta, frittelle dolci e salate, frutta e verdura. I maccheronai a Napoli cuociono per strada i maccheroni sconditi o conditi con pepe e formaggio (ed in seguito con la salsa di pomodoro), vengono venduti ai passanti che li consumano con le mani, come mostrano bene diversi dagherrotipi. Sono eloquenti le immagini ottocentesche che ritraggono degli scugnizzi napoletani mentre mangiano maccheroni per strada. Anche la pizza nasce come cibo da strada, per poi accasarsi in locali che nel tempo hanno perso il loro carattere di improvvisazione, sino a raggiungere uno status simile a quello di trattorie e bar. Questo processo dura quasi due secoli: le pizze fino al Seicento sono vendute da ambulanti con la tipica ”stufa” in testa (un contenitore di rame e ottone per tenerle in caldo), poi agli inizi del Settecento aprono le

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pizzerie-laboratorio dove le pizze si comprano e si consumano altrove, infine le prime pizzerie, con tavolini di marmo per la consumazione in loco, ma siamo già a metà secolo.7 L’immagine opulenta della società ottocentesca seduta a tavola per lauti banchetti interminabili va contestualizzata nell’ambito delle pratiche borghesi e nobiliari, in una parola delle élites, piuttosto che dei ceti popolari, che costituivano comunque la stragrande maggioranza della popolazione urbana. Il banchetto per le classi popolari fa parte del momento festivo, non della quotidianità, dove il tempo di cucinare e mangiare per chi viveva nelle città (e nelle campagne) era limitato e anche le vettovaglie sovente scarseggiavano. Tornando ai nostri tempi, specie nell’Italia meridionale, ma non solo, i mercati dei piccoli e grandi centri urbani sono un trionfo di cibi, sapori, odori, colori. Nella strada si realizza, come ha ben sintetizzato l’antropologo Vito Teti: “una cucina che vede come protagonisti principali, spesso esclusivi, gli uomini e una “liberazione” di comportamenti non possibili e non praticabili nelle case. È una mescolanza-confusione-integrazione delle persone con animali, prodotti, piante”. 8 Il cibo in strada, forse più che altrove, è decorativo, estetico, teatrale, esibito, e vede gli attori sociali impegnati nella messa in scena di un consumo alimentare apparentemente senza regole, che in realtà è antitesi del consumo domestico, ordinato nei tempi, nei modi, nei luoghi (gli orari della colazione, del pranzo della cena, le posate, la tavola) e perciò a suo modo strutturato, in quanto si pone in contrapposizione della cucina e civiltà delle buone maniere, per dirla con Norbert Elias.9 Tale processo di civilizzazione delle maniere e a tavola viene compiuto a partire dall’Età moderna in seno alle Corti europee, e poi fatto proprio dalla borghesia e da quanti ad essa aspirano. Il corpus di queste regole comprende il divieto di tagliare il pane con il coltello a tavola, e l’obbligo di spezzarlo con le mani, il divieto di mangiare con le mani, di mangiare in piedi, il rispetto degli orari per desinare, le regole di assunzione di caffè, the ed altre bevande.

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La cucina di strada è insomma un’arte della comunicazione, attraverso il cibo, ed il messaggio - si potrebbe dire - è nel piatto; i diversi gusti producono distinzione, differenziazione, demarcazione; gli alimenti creano e riproducono a livello simbolico differenze di classe, genere, appartenenze etniche, religiose, socio- culturali. 10 Nello scontro tra la cosiddetta cucina del territorio (o del cosiddetto mangiar lento) ed il fast food della globalizzazione culinaria, secondo Piero Ricci e Simona Ceccarelli conviene optare per una terza via, interrogandosi su di una pratica radicata nella nostra cultura, il cibo di strada, che associa ad una cucina “tradizionale” la velocità del consumo dei suoi piatti. Ricci e Ceccarelli scrivono: “i posticini abruzzesi, i frutti di mare crudi pugliesi, le ostriche di Ancona, le spuntature marchigiane, le piadine romagnole, le mele cotte e i castagnacci emiliani, i roventini senesi, i lampredotti fiorentini, le porchette romane, i polpi di Napoli e Palermo, i bolliti di maiale triestini. Il cibo di strada offre la propria sintassi, la leggerezza del gesto, il tempo breve del frammento, la battuta veloce e scherzosa al prossimo futuro culinario, così da dimenticare l’attuale rete discorsiva tanto ossessiva quanto indigesta”. 11 A Firenze ancor oggi i panini imbottiti di lampredotto vengono venduti per strada; a Palermo il “pane ca meusa” è un alimento caratteristico venduto nei quartieri popolari ed i mercati e mercatini della città. A Cagliari mangiare ricci di mare è un vero e proprio rito, soprattutto maschile, e un po’ ovunque fioriscono chioschi all’aperto dove gustare in piedi questo frutto di mare. Gli esempi potrebbero continuare toccando un po’ tutte le regioni della penisola. In modo particolare la cucina di strada in Sicilia è stata ampiamente indagata da Fatima Giallombardo; le sue osservazioni sono in qualche misura applicabili all’ambito della cucina da strada genovese che ci siamo proposti di analizzare. Giallombardo ad esempio sottolinea alcune caratteristiche fondamentali di tale cucina tra cui il fatto che le regole e la ritualità sociale sono decodificabili secondo un asse di lettura fondato sul maschile: “Opposta alla cucina domestica declinabile al femminile, il cui segno è la tavola, luogo privilegiato dell’ordine e dell’alternanza, la cucina di strada delimita i contorni di un universo alimentare che si propone piuttosto come una sorta di grande buffet, dove si può estrinsecare la libera, sregolata e quindi anomica scelta del boccone più gradito”.12

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Se un tempo friggitorie, pizzerie, carretti, mercati e luoghi tipici che preparavano cibo in strada, erano frequentate soprattutto da lavoratori e operai, oggigiorno commercianti, studenti, impiegati e uomini d’affari abbracciano senza distinzione di estrazione sociale la scelta del cibo di strada con convinzione e gusto, aderendo ad una tradizione culinaria che è anche fortemente connotata in senso identitario. Esistono poi, a fianco dei luoghi tradizionali italiani, i cosiddetti ristoranti e locali “etnici”, i quali, specie quelli che vantano una tradizione più antica, offrono pasti veloci a base di kebab, hummus, ed altre specialità mediorientali che sono di grande presa e successo sui palati italiani, molto aperti a provare cibi “altri”, soprattutto di legame mediterraneo. La forte presenza di tali luoghi e della tradizione di consumare il cibo in strada ha dato un nuovo slancio vitale alle strade di molte città italiane. In conclusione si delinea sempre più chiaramente uno scenario in cui si afferma uno stile di vita urbano, che tende a ridimensionare l’importanza del pranzo, ormai spesso consumato fuori casa, a vantaggio della cena, che viene ancora tradizionalmente consumata in famiglia. Ciò pare abbia consentito il recupero del cibo di strada nelle città italiane. Se fino ad una cinquantina d’anni fa il cibo di strada era una necessità, oggi si è fatto anche moda, e resistenza più o meno consapevole all’omologazione alimentare; l’identità si costruisce anche mangiando: così chi oggi si compra per strada un cartoccio di frittelle di baccalà o un pezzo di focaccia con le cipolle, ci sembra essere lucidamente cosciente di essere quel che mangia, e di mangiare quel che è. 13

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Kebab community ph. Yansen Sugiarto Flickr

1 | La storia del cibo di strada, dall’Antica Roma ad oggi, taccuinistorici.it 2 | Alessandra Guigoni, La cucina di strada. Dipartimento di Storia e Geografia dell’Università di Rio Grande. 3 | Davide Paolini, Miniera di gusti nel cibo di strada, apparso su il Sole 24 Ore (divisione web) il 22 agosto 2011. 4 | Jérome Carcopino, La vita quotidiana a Roma. Laterza, 1993, p. 59. 5 | Eva Benelli, Romeo Bossoli, Gli stili alimentari oggi, in “Storia d’Italia:

l’alimentazione. Einaudi, 1998. 6 | Raffaella Sarti. Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna. Laterza, 2003, p. 201. 7 | Cfr. Franco La Cecla, La pasta e la pizza, Il Mulino 1998. 8 | Vito Teti. Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea. Meltemi, 1998, p. 80. 9 | Cfr. Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere. Il Mulino. 1982 (1969). 10 | Alessandra Guigoni, Il messaggio è

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nel piatto: antropologia dell’alimentazione, in AA.VV., “Nello stato delle cose. La luce era buona”, Gramma, 2003. 11 | Piero Ricci, Simona Ceccarelli, Frammenti di un discorso culinario, Guerini e Associati. 2000, p.16. 12 | Fatima Giallombardo. La tavola l’altare la strada. Scenari del cibo in Sicilia. Sellerio, 2003, p.127. 13 | Alessandra Guigoni, La cucina di strada. Dipartimento di Storia e Geografia dell’Università di Rio Grande.


NUOVE PRATICHE DI CONSUMAZIONE DEL CIBO.

Tra individualità e comunità. Dai ristoranti per single al social dining, passando per il food sharing.

Cibo e rituali sociali sono sempre stati legati in tutte le epoche e le culture, dalle valenze religiose a quelle più conviviali delle azioni umane, il cibo e le abitudini alimentari non si rivelano mai atti dall’essenza “neutra” ma sapientemente connotate di accezioni simboliche, emozionali e collettive che fanno del cibo e della tavola il teatro di costruzione e ricostruzione dei rapporti, delle identità e dei valori che fondano una cultura attraverso le varie epoche che la attraversano. Il cibo – riassumendo in sé significati simbolici e relazionali – è leggibile trasversalmente ai periodi storici e alle culture, in riferimento ai rituali sociali, di epoca in epoca diversi, nel costruire e tramandare identità, ruoli, significati e istituzioni collettive. Il rito, e i rituali, in antropologia, sono intesi come quegli insiemi organizzati di pratiche sociali ripetute nel tempo che provvedono a costruire modelli culturali atti a trasmettere valori e norme sociali, costruire e consolidare ruoli sociali, identità e coesione.1 In psicologia si sottolinea il valore simbolico del rito e la sua rilevanza nello scandire momenti significativi dell’esistenza e della quotidianità riconnettendo l’individuo a dimensioni di significato collettive e sovra-personali. Uno degli aspetti principali dei rituali sociali connessi al cibo è quello della commensalità là dove condividere il cibo secondo gesti e scambi ripetuti nel tempo fonda il senso di appartenenza e di inclusione in un determinato gruppo, la gerarchia e la tipologia dei ruoli e dei rapporti reciproci fra i commensali. I rituali sociali connessi alla commensalità sono presenti universalmente, seppur con delle differenze, in tutti i gruppi umani, mangiare e bere insieme è una forma di scambio e condivisione utilizzata per creare e mantenere legami assumendo una funzione socializzante che istituisce i rapporti fra i commensali.

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Een Maal “one-person restaurant� Amsterdam

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Anche nelle società post-moderne e post- industriali, dove per molti aspetti la dimensione del rito si è fortemente contratta (si pensi ai riti religiosi, matrimoniali e ai riti di passaggio), sono diffuse pratiche ritualizzate riguardanti cibo e commensalismo. Basti pensare ai significati connessi all’uso di bevande alcoliche, della preparazione di certi piatti in occasioni di festa fino ad usi tipiche dei nostri tempi come quella dell’aperitivo. Tali “rituali” tuttavia hanno oggi più spesso un valore laico e individualizzato rispetto a un tempo. Corbeau parla in tal senso di “nomadismo alimentare” là dove il consumo dei pasti avviene sempre più fuori casa e secondo tempi, luoghi e modi individuali e prescindenti da pratiche comuni. 2 Le preferenze e le abitudini in rapporto al cibo, proprio perché connesse a valenze identitarie e rituali radicate, sono di per sé stabili e relativamente resistenti al cambiamento, tuttavia abbiamo assistito negli ultimi trent’anni a notevoli modificazioni delle abitudini alimentari e dei significati rituali ad esse connessi. Sia per una globalizzazione e massificazione dei consumi che per una maggior differenziazione dell’offerta a discapito delle specificità locali. Questo fenomeno ha accompagnato quella che Nicolas Herpin3 definisce “de-ritualizzazione” del cibo poiché il pasto e le sue valenze si stanno gradualmente destrutturando in favore di una sempre maggior assenza di regole, di luoghi, tempi e spazi comuni prima invarianti. In un certo senso siamo quindi ciò che mangiamo, o meglio, si potrebbe dire che mangiando comunichiamo sempre qualcosa di noi, non solo come individui, ma come cultura cui apparteniamo.4 Partendo dall’osservazione delle caratteristiche che identificano il pasto come “fatto sociale”, Herpin ritiene che tale istituzione stia subendo un processo di destrutturazione e destabilizzazione, e che tale processo possa assumere diverse forme: - la “de-concentrazione”: l’assunzione di cibi non avviene più in due o tre momenti della giornata, i pasti ufficiali, ma piccoli e frequenti spuntini consumati durante tutto l’arco della giornata; - la “de-impiantazione”: gli orari in cui si consumano i pasti non sono più contenuti in una precisa fascia oraria ma variano ampiamente; - la “de-sincronizzazione”: anche all’interno dello stesso gruppo (famiglia o gruppo di lavoro) gli orari del pasto non coincidono più,

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si perde così una delle funzioni tradizionali e caratterizzanti il pasto, ovvero di incontro e di scambio; - la “de-localizzazione”: il pasto non viene più consumato in un luogo preciso ma sempre più spesso dove capita (sul posto di lavoro, nella propria camera da letto, in macchina, ecc.); - la “de-ritualizzazione”: il pasto quotidiano nei giorni feriali diviene sempre meno sottoposto a regole; al contrario si rinforzano le norme e i rituali osservati durante il pasto domenicale o nelle occasioni speciali (compleanni, anniversari, ecc.). Il quadro attuale secondo un punto di osservazione riguardo alla sfera degli atti alimentari presenta quindi un’ampia campionatura di situazioni ed esperienze ma si delinea una sorta di equilibrio. Da una parte i rituali del cibo mantengono caratteristiche del rito ma si denaturalizzano e svincolano dalla carica religiosa, familiare e paternalistica, che era dettata da rigidi schemi e regole di buone maniere, e che ora si dimostra libera e dinamica, liquida poiché cambia a seconda del contesto, delle esigenze. Dall’altra l’individualizzazione del consumo del pasto e la globalizzazione dei sapori hanno portato nuovo interesse e linfa vitale alla ricerca di momenti identitari di condivisione e alla domanda di cibi locali e genuini. Lo scenario d’oggi lo dimostra: sono egualmente di successo i casi come Een Maal, il one-person restaurant di Amsterdam, dove si mangia rigorosamente da soli e dove tutto è concepito intorno a tale modello, e le cene collettive tra sconosciuti del social eating. Non esiste più un giusto o un sbagliato, un consueto o un desueto, un tradizionale o un . Viviamo in una “modernità fluida”, per dirla alla Bauman, e in un “mondo nuovo”, per definirlo come Stefano Mirti suggerisce, che vedono una tale eterogeneità ed imprevedibilità dei comportamenti sociali e delle esigenze di vita che sono necessari modelli adattabili e scelte molto diversificate tra loro. La scelta è un elemento fondamentale del nostro vivere, nulla può esser più incasellato e chiuso in compartimenti stagni, molto può e dovrebbe essere aperto e reso disponibile. Così anche nella consumazione del cibo e della sua esperienza5, nella condivisione del momento in cui si vive ciò, si dovrebbe poter avere un diritto di scelta, a seconda del momento, di fattori personali, tempi, disponibilità economica,

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socievolezza e così via, per decidere con spontaneità e libertà cosa mangiare, dove, quando, per quanto e soprattutto con chi farlo. Non solo, si rompe ancor più quella maglia di regole che definiscono gli spazi di competenza di un’azione o funzione. Per trovare un’offerta gastronomica interessante non è scontato che si debba andare per forza al ristorante o in pizzeria, si può andare a casa di altri privati (home restaurant); per rimediare a sprechi ed eccedenze alimentari che possiamo avere in casa, da smaltire prima di una partenza o perché viviamo da soli, l’unica soluzione non è buttare tutto nella spazzatura, basta segnalarlo e postarlo su una piattaforma di food sharing; insomma, per una multiforme serie di possibilità e vincoli quotidiani esiste una gamma altrettanto ampia e ricca di servizi e prodotti adatti a soddisfare necessità e desideri. Nello specifico i fenomeni che in relazione a tema qui indagato si ritengono più interessanti, all’interno del panorama contemporaneo, sono quelli che si inscrivono nella sharing economy (o collaborative economy), al centro di un cambiamento sociale ed economico epocale. Li presentiamo brevemente qui di seguito: IL SOCIAL EATING

Il Social eating (o più raramente social dining) è un fenomeno basato sul concetto dell’home restaurant 6, ovvero cene tra sconosciuti in casa, a pagamento. Da una parte ci sono i padroni di casa, solitamente degli appassionati di gastronomia, che cucinano per un numero definito di persone che siederanno alla loro tavola e con i quali mangeranno, insieme, condividendo cibo ed esperienza. Si pubblica l’evento su una delle piattaforme di servizio dedicate (ce ne sono moltissime), definendo menù, numero di posti disponibili, orario, luogo e prezzo. Chi è interessato, dall’altra parte, spesso si tratta di persone che vogliono provare un’esperienza diversa, un qualcosa di diverso rispetto alla classica cena al ristorante, più social, se interessati alla cena specifica, definita da un menù e dettagli della casa, si prenotano dal sito e pagano. Giunta la data dell’evento, padroni di casa ed invitati si ritrovano a tavola, quasi come in una cena tra amici, e attraverso questa dimensione conviviale nascono spesso dei piacevolissimi rapporti di amicizia e talvolta anche di lavoro o di amore. Socializzazione e networking sono allo stesso tempo sia obiettivi di alcuni individui che organizzano tali cene (oltre al guadagno possibile, se ben realizzata)

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e di chi ci partecipa, sia piacevoli esiti imprevisti per chi vi partecipa con semplice curiosità. Il fenomeno, nato ufficialmente a Londra nel 2009, e molto in uso ancor prima negli Stati Uniti, è in continuo aumento, e ciò dimostra la forza di tali nuove direzioni dell’innovazione sociale e delle nuove economie collaborative, di cui, secondo alcuni teorici, è più corretto ora definire il macro-fenomeno in cui si inscrive, come crowd economy. Un cambio di paradigma che sta modificando profondamente molti asset sia sociali che micro- e macro-economici. Il One-person restaurant (definito spesso in italiano come “ristorante per single) è una tipologia di ristorante di recentissima nascita, che offre unicamente tavoli con un solo coperto, quindi solo per persone che mangiano da sole. Non si tratta di un locale per single, come spesso viene definito su molte testate italiane, tristi e soli al mondo, bensì una tipologia di ristorante che risponde in maniera molto ricettiva e dinamica alla crescente presenza di persone che, per questioni di lavoro, di tempi o di pura tranquillità e piacere, mangiano al ristorante da soli. L’atteggiamento ti tali persone è sempre molto diverso a seconda della cultura del Paese: in Italia molti si sentono a disagio mentre in Paesi quale l’Olanda, dove è nato il primo caso, Een Maal, è una pratica del tutto vissuta con tranquillità e rilassatezza. L’ idea è piaciuta così tanto, con il ristorante, temporary, aperto ad Amsterdam, che sarà presto esportata in altre città. A Londra, per esempio, dove tali idee trovano terreno fertile, ne è già stato aperto uno e dovrebbe rimanere in modo permanente. Le prossime aperture sono previste a New York, dato che non stupisce affatto, e in molte capitali europee. Lanciato da due agenzie olandesi di design Eenmaal offre ai suoi clienti un ambiente molto gradevole, ben progettato e di qualità (dal menù allo spazio) dove non sentirsi a disagio, ma godere col massimo piacere del pasto. La cosa interessante di questo caso è che tale modalità, che sarebbe stata impensabile nello scorso secolo, e di impossibile concezione – ai limiti dell’ingiuria – in epoche ancora precedenti, non conduce a una morte della socialità e della condivisione, bensì ad una sua diversa configurazione e manifestazione. A parte alcuni clienti che hanno il piacere di rimanere in pace a leggersi un libro o a contemplare e degustare il cibo, molti clienti si trovano a scambiare due chiacchiere, o c’è chi tra i passanti riconosce

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ONE-PERSON RESTAURANT


un volto amico e questi entra per un saluto, c’è anche un bel rapporto che si instaura con i gestori del locale, pronti, qualora un cliente fosse predisposto al dialogo ad instaurare una piacevole conversazione. Ecco quindi come le dicotomie secondo le quali si etichettava e definiva ogni luogo o pratica alimentare ora sono giunte ad una palese fine causa la loro aridità e rigidità. Siamo chiaramente in un’epoca che su più piani dimostra ibridazione, compresenza e stratificazione di senso e relazione, questo anche, in particolar modo, nelle pratiche che si svolgono attorno al cibo. FLASH MOB CONVIVIALI E CENE NELLO SPAZIO PUBBLICO

Negli ultimi 10 anni sono numerosi i casi che si possono contare – ed osservare – di eventi collettivi che proponevano delle occasioni conviviali nello spazio urbano. Si tratta essenzialmente di cene, con modalità, stili e intenti diversi ma che presentano un denominatore comune: la volontà di aggregare un gran numero di persone, cittadini – temporanei o permanenti7 – attorno al cibo, spesso raccolti in lunghe tavolate, in spazi pubblici significativi8 della città. Esiste una buona casistica di questo fenomeno, anche sul territorio nazionale, in particolare a Milano, di cui segnaliamo due esempi pregnanti e rappresentativi. Le cene a location segreta di “Cenaconme”, l’iniziativa della gallerista Rossana Ciocca, su modello delle diner en blanc francesi, che, proposte sulla base di una suggestione culturale sempre diversa e di un dettaglio richiesto ai partecipanti (un cappello, abiti bianchi, o neri) . Di stile differente ma con punti di contatto “Cena di tutti”, un’iniziativa del collettivo e studio milanese di design pubblico, “esterni”, nella quale si sono riuniti un numero altissimo di persone per una cena collettiva ospitata in una piazza pubblica nel centro cittadino, un’occasione di convivialità pura, che ha riscosso un grande successo. Un ulteriore elemento interessante, trasversale a questi casi studio, è la viralità con cui si diffonde la notizia di tali iniziative, tra persone interessate, peer-to-peer, e la stretta relazione tra alcune forme di aggregazione e comunicazione online – social network e in generale sul web 2.0, e offline, negli spazi fisici della città.

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Parlando di tali relazioni che si instaurano tra spazio dei luoghi e spazio dei flussi, tra il mondo dei network sociali e degli spazi di aggregazione della città, possiamo delineare le coordinate di un quadro attuale in merito al tema delle pratiche relazionali attorno al cibo. Le principali piattaforme e forme di aggregazione e condivisione online sono: - Instagram: condivisione foto di piatti, mostre o installazioni con cibo, creazioni personali; - Facebook: partecipazione ad eventi legati al food, pubblicazione di foto, condivisione link, segnalazione progetti o articoli relativi a tendenze; - Pinterest: archiviazione e condivisione di immagini e foto su/con il cibo; - blog di cucina (o di viaggio). Mentre quelli che avvengono nello spazio dei luoghi della città sono: - vernissage: inaugurazioni di mostre e simili si offrono come occasioni culturali di aggregazione, con una presenza costante di qualche assaggio di cibo oltre a vino, spumanti e simili; - aperitivi: momento conviviale molto in voga da anni per la possibilità di socializzare mangiando e bevendo a prezzi molto più accessibili che in un ristorante e venendo a contatto con un numero nettamente maggiore di persone; il cibo, nonostante spesso non sia di qualità eccelsa (fatti alcuni casi specifici che presentano delle selezioni gourmet) - live cooking: dimostrazioni di cucina tenute da chef, pasticceri o figure professionali di tal genere che si prestano per occasioni aperte al pubblico o su invito, spesso facenti parte di manifestazioni più grandi, di eventi fieristici o simili. Nonostante ci sia solo una partecipazione visiva e non attiva manuale a tali - masterclass: lezioni impartite da un esperto, rivolte a studenti (e interessati) di una particolare disciplina, generalmente tenute da professionisti di alto livello, in cui le tecniche vengono trasmesse personalmente da un individuo ad un altro.

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COMUNITÀ DALL’INDENTITÀ IBRIDA A CAVALLO TRA SOCIAL NETWORK E SPAZI URBANI


- workshop: seminario di studio e/o approfondimento su un tema specifico nel quale c’è una forte componente laboratoriale e di interazione sia con la materia che tra partecipanti, solitamente persone interessate, o appassionate, talvolta professionisti del settore; - degustazioni: nonostante esistano poche occasioni di tal genere che siano aperte al pubblico, ma più private, su invito, solo per operatori dei settori del campo alimentare e dintorni, si mostrano caratterizzati da un interessante grado di confronto e scambio, professionale, culturale e di pensiero, attorno alla degustazione di un determinato prodotto. Ognuno di questi spazi sociali non vive puramente solo nella dimensione digitale o urbana, a seconda che siano primariamente definiti come iniziative online o offline, poiché mostrano sempre che una parte della loro manifestazione e soprattutto comunicazione e diffusione, avviene tramite canali che appartengono al mondo opposto. È così che un flash mob di danza in una stazione ferroviaria non avrà mai così successo, forza e partecipazione se prima non ci sia una virale diffusione e comunicazione dell’iniziativa tramite canali digitali e network sociali. Allo stesso modo, la partecipazione a una piattaforma online, che mettiamo il caso organizzi un contest di cucina attraverso il mezzo della fotografia, non avrà mai una grande partecipazione senza l’efficacia del passaparola che le persone diffondono attraverso una chiacchierata per strada o attraverso mezzi di comunicazione più tradizionale come il telefono. Al di là di tale considerazione, i fenomeni che stanno nascendo o che si stanno sviluppando in questo particolare periodo storico, e qui ci riferiamo nello specifico alle varie sfaccettature di servizi propri della sharing economy, come sopra si descriveva, esiste una terza possibile famiglia di eventi. Un raggruppamento eterogeneo di iniziative che, distinte da una natura collaborativa e conviviale, hanno egual rilevanza nella loro presenza e vita sul web e nei luoghi della vita urbana. A questa compagine appartengono: - social eating - food sharing.

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Infine, a completamento del quadro, sono in netto aumento anche i programmi televisivi che hanno a che fare con il cibo e la cucina in particolare. Dai cooking show, di dimostrazione da parte di esperti (o presunti tali) di ricette e piatti particolari o facilmente riproducibili a casa, ai più famosi talent show culinari di cui “Masterchef ” è il fenomeno più di successo, a livello mondiale. Cena collettiva Forum 2012 Sata

1 | Claudio Widmann, Il rito In psicologia, in patologia, in terapia, Edizioni scientifiche MaGi, 2007. 2 | Jeanne-Pierre Courbeau, Rituali alimentari e mutazioni sociali, in “I nostri riti profani”, quaderni internazionali di sociologia, volume XCII, 1992. 3 | Nicolas Herpin, Sociologie del la consommation, 2004 4 | Mark Conner, Christopher J Armitage, The Social Psychology of Food, McGraw-Hill, 2002

5 | Ha senso per l’autrice parlare ancora di “consumazione” del cibo se con il godimento degli alimenti comprende anche l’esperienza ad esso collegata e non solo una fruizione funzionale al mero nutrimento. 6 | Esistono anche altri termini che definiscono il fenomeno quali: “hidden kitchen” o “secret restaurant”, tavolta “guerrilla restaurant” e più raramente “locali clandestini” e “cucine aperte”. Si fa qui riferimento alla differenziazione tra cittadini residenti e quelli che

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vengono convenzionalmente definiti city-users, ovvero persone che lavorano o studiano in una determinata città, di cui molti hanno ivi domicilio, 7 | Si intendono qui luoghi che hanno un valore non nel senso tradizionale, non riconosciuto, ma sentito da coloro che lo vivono, seppur transitoriamente. Luoghi che sono ricchi di caratteri simbolici rispetto all’importanza e valore dello spazio pubblico per la vita quotidiana dell’uomo. 8 | Fonte: www.wikipedia.org


RELAZIONI CONVIVIALI NELLO SPAZIO PUBBLICO. La democratizzazione dello spazio urbano.

Lo spazio di competenza del cibo è stato per molto tempo confinato alle mura domestiche, come “affare” e rituale da svolgersi in casa, in cucina per la preparazione e a tavola poi per il suo godimento, in famiglia. La consumazione di cibo è sempre stata al tempo stesso un fatto privato (nell’atto del mangiare) e un evento collettivo (nella pratica della socializzazione). L’atmosfera che si crea a tavola induce a scambiare pensieri e piaceri con chi è prossimo, creando rapporti interpersonali floridi, influenzati anche dal genere di ambiente dove tali atti alimentari avvengono. In passato i luoghi deputati erano la taverna, l’osteria, il chiosco e il ristorante.1 Nel tempo poi sono nati i ristoranti, come luoghi per mangiare fuori casa, con servizio al tavolo, a pagamento. Un fatto che ha rivoluzionato il mondo delle pratiche alimentari. Questo servizio è nato con i mercati e le fiere che obbligavano contadini e artigiani a lasciare la loro casa per uno o più giorni, e a nutrirsi mentre stringevano o mantenevano relazioni sociali d’amicizia o d’affari. Il servizio dell’offerta di questo genere di cucina è cresciuto e si è diversificato allo stesso ritmo dell’urbanizzazione, a cui è rimasto strettamente legato. Il mangiare fuori casa, già diffuso presso i Romani, nelle epoche successive divenne sempre più importante presso le classi popolari urbane. Chi viveva in città aveva l’esigenza di alimentarsi comprando cibi cucinati nei locali pubblici o presso i venditori ambulanti.2 Esiste quindi una stretta relazione tra l’evoluzione delle pratiche alimentari, lo sviluppo della città e i ritmi e rituali della vita quotidiana dell’uomo contemporaneo. Nel quadro attuale c’è da tener conto che la tradizione del cibo di strada, appartenente a molti popoli dell’America latina, dell’Africa, dell’Estremo e Medio Oriente, del Sud Europa e in particolare dei Paesi del bacino del Mediterraneo, ha fortemente rafforzato ed incentivato le connessioni tra cibo e città, spazio pubblico in particolare.

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Sensitising performance by Michelle Williams Gamaker and Julia Kouneski 2009 | Brazil

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LA DEMOCRATIZZAZIONE PROGRESSIVA

Nella seconda metà del ventesimo secolo avvennero una serie di micro-rivoluzioni socio-culturali che possono condurci ad affermare un’avvenuta democratizzazione del mondo, circostanziabile attraverso alcuni punti: - La modificazione continua degli immaginari individuali e collettivi; - La creazione continua di nuovi valori e riferimenti; - La distruzione del sistema tradizionale di valori simbolici, monetari e di posizione.

ACRITICITÀ CONTEMPORANEA E LIMITAZIONE DELLE LIBERTÀ INDIVIDUALI E COLLETTIVE

Svolgendo un’analisi approfondita delle pratiche e dei riti quotidiani della società contemporanea appare che molti comportamenti siano passivi, acritici e seguano numerosi stereotipi, cliché e retoriche più che essere il frutto di una crescente autonomia del soggetto. Anche nelle società più democratiche e sviluppate l’individuo appariva meno libero ed autonomo rispetto a quello che si andava proclamando a fine secolo. Bisogna stabilire una certa distanza critica anche nella disamina delle dimensioni del quotidiano e della corporalità, cercando di non cadere in facili esemplificazioni di pratiche informali. Scendendo a livelli più profondi d’indagine del quotidiano, cogliendo aspetti più astratti e meno appariscenti, si può leggere la diversa relazione che si stabiliva tra memoria individuale, memoria collettiva e vissuto3 e tra tempo individuale, tempo collettivo e spazio.

IL VALORE SIMBOLICO DELLA CITTÀ E LA CULTURA URBANA

La struttura sociale plasma il sistema materiale, non solo in senso fisicostrutturale, ma anche attraverso un processo simbolico, attribuendogli dei valori immateriali, cioè significati altri che l’uomo dà ai propri luoghi di vita, attraverso i processi di percezione e costruzione di senso. Valore simbolico, percezione e attribuzione di significati altri possono essere soggettivi o condivisi, cioè possono essere legati alla vita di singoli individui come il senso di affezione per alcuni luoghi, oppure possono essere aggreganti simboli di identificazione e aumentare il senso di appartenenza al gruppo di riferimento, contribuendo all’affermazione di una “cultura urbana”.4 Dall’altra parte anche l’ambiente costruito agisce sulla dimensione sociale, lo si può osservare nella fase moderna ma ancor più in quella post-industriale, caratterizzata da un altissimo livello di congestione.

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La città contemporanea, infatti, invade il territorio al di fuori dei confini, non più chiaramente definiti sia in senso fisico, attraverso suburbanizzazione, peri-urbanizzazione e r-urbanizzazione, sia in senso sociale e culturale, diffondendo stili di vita, gerarchie di valori, nuovi e più aggressivi atteggiamenti. La larga diffusione e adesione dello “stile metropolitano” è da attribuire anche alla persuasiva ed invasiva azione dei mass media, che, come numerosi studi di comunicazione dimostrano, produce significativi effetti sul pubblico e sulla società contemporanea. La città ha la peculiare capacità di produrre comunicazione, divulgare la propria specifica cultura, rappresentare se stessa e creare immaginari. La città e il territorio possono essere letti come oggetto, o come soggetto o ancora come supporto di comunicazione. Se si parla di città e di territorio la lettura più comune e intuitiva porta a pensare a ricondurre tali concetti a quello di “luogo”, in senso antropologico, cioè come fonte e contenitore di conoscenza, archivio d’informazione, portatore di un’identità, di una storia, di un linguaggio.5 Una seconda via, prettamente semio-linguistica, interpreta la città come “testo”: la città e il territorio comunicano la propria immagine e influenzando l’immaginario collettivo dei suoi abitanti. Infine, si può concepire la città come laboratorio per fare cultura e per “consumare” cultura, organizzare eventi, creare episodi di socializzazione e di sviluppo. In questa interpretazione specifica si inseriscono anche tutti gli eventi ed iniziative legate al cibo. Per queste caratteristiche comunicative dell’ambiente urbano è forse opportuno affiancare alle quattro dimensioni proposte da Alfredo Mela (economica, politica, ecologica, culturale), un quinto aspetto: la dimensione comunicativa della città. Questo ulteriore connotato è stato elaborato da Angelica Costa6 ed è necessaria per attribuire la giusta rilevanza che la città ha nel produrre cultura, compresa già nella quarta dimensione di Mela, ma anche per valorizzare l’efficacia di diffusione attraverso forme sempre innovative, spontanee e multimediali, un aspetto tipicamente urbano di cui sia la sociologia urbana sia le discipline progettuali devono tenere conto. L’aspetto comunicativo racchiude anche i tratti sociali e relazionali che si manifestano nella città attraverso universi semiotici.

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La dimensione urbana contemporanea evidenzia un cambiamento sociale che si manifesta in particolar modo in conflitti nelle forme estreme dell’abitare. Esiste una forma di opposizione tra due poli della città: la metropoli informale da una parte e la città progettata dall’altra. L’una racchiude le forme spontanee che nascono dal basso, le pratiche quotidiane non progettate ed informali che gli abitanti dispiegano nella vita di ogni giorno, che presentano usi anche imprevisti dei luoghi della città, semplicemente spinti da esigenze concrete di uso dell’ambiente urbano. L’altra è la concretizzazione massima del controllo e del rigore, la “città fortezza” che scende come un modello calato dall’alto, regolato e disegnato nei dettagli da professionisti tecnici, imposto dalle istituzione e dalle amministrazioni locali e che va a inserirsi, spesso con grande rigidità, nelle trame della città esistente. Si delineano sempre più i tratti di una città che de Certeau ha definito “proteiforme” e “mutevole”7, si rivela più chiaramente che un cambiamento culturale è in atto, è un movimento non reprimibile ma interpretabile come un insieme di caratteri del contemporaneo. Si fa sempre più urgente la necessità di delineare con chiarezza come l’interazione tra gli spazi della città progettata e quelli della città non progettata abbiano un’influenza decisiva su una forma urbana globale. Gli spazi urbani stanno seguendo di riflesso due linee di sviluppo contrastanti: da una parte si creano delle enclave residenziali, forme manifeste di città inclusiva e dall’altra un’impressionante crescita informale. Il risultato è l’origine di nuove forme di differenziazione sociale, un nuovo terreno culturale sul quale città costruisce le proprie fondamenta. La città è presa come elemento specifico di analisi del cambiamento: essa mostra una mappa fisica, l’immagine concreta e prettamente fisica, volumetrica della città e una mappa simbolica che è il complesso che racchiude lo spazio urbano, un insieme maggiore e più ricco rispetto alla somma delle sue parti, dato dal costruito unitamente allo spazio aperto e allo spazi immateriale del web. L’abitare contemporaneo di delinea come un insieme di sfere interagenti: lo spazio tridimensionale dell’architettura, lo spazio simbolico delle emozioni, dell’esperienza che si fa nella città e lo spazio immateriale della comunicazione. Solo considerando assieme

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tutte queste parti e studiandole assieme si potrà cogliere il fenomeno urbano contemporaneo e solo dopo aver compreso ciò si potranno avviare dei processi progettuali di intervento nella città. L’impegno interdisciplinare è di indagare le relazioni esistenti tra gli abitanti e i luoghi sono relazioni dotate di senso, significanti di significati e orientate secondo valori. Per tal motivo occorre non tanto “guardare” le cose con gli occhi, ma “vedere” con la mente la sostanza umana vitale che le anima. Ciò comporta un ampliamento dell’interesse da altre dottrine, per esempio la psicologia della percezione e in quelle di ambito semiologico. Bourdieu afferma che tra mondo sociale e manufatto fisico esiste un rapporto di affinità e questa relazione non segue uno schema lineare e nemmeno una relazione meccanica di causa-effetto. Le due componenti vanno necessariamente considerate assieme, se si analizzassero separatamente in un’arida dicotomia si rischierebbe di cadere in visioni deterministiche. “Queste due dimensioni sono intimamente legate e intrattengono tra loro un rapporto discorsivo di mutua costituzione”. I concetti di ambiente costruito, built space, e di relazioni sociali, social relations, sono stati per molto tempo oggetto di indagine, considerati separatamente in una visione strutturalista da una parte e in una organicista dall’altra, senza comprendere che in realtà costituiscono una coppia concettuale che rimanda ad un’unica entità, la città. Il primo filone di pensiero interpretava lo spazio costruito come prodotto della società, con la funzione di mero contenitore delle relazioni sociali, mentre per il secondo è l’organizzazione dello spazio che determina le strutture sociali. Tali approcci rimangono intrappolati nella dicotomia struttura / azione non riuscendo a superare il dualismo tra la fisica oggettivistica delle strutture materiali e la fenomenologia costruttivista delle forme cognitive e dell’agire sociale. Superando le aride dicotomie di oggettivo / soggettivo, fisico / mentale, struttura / azione, Bourdieu sostiene che la forma architettonica degli spazi viene prodotta e riprodotta inconsapevolmente dalle pratiche dei soggetti e dalle logiche simboliche che sono incorporate nell’organizzazione dello spazio costruito e, al tempo stesso da esso attivamente strutturate.

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“BUILT SPACE” E “SOCIAL RELATIONS”


LO SPAZIO DELLE PRATICHE LO SPAZIO PROGETTATO E GLI SPAZI “POSSIBILI”

Nella vita quotidiana tendiamo a relazionarci allo spazio e ad agire in esso con un atteggiamento pragmatico, “cerchiamo di situare il nostro agire nello spazio costruito nel miglior modo possibile, tentando di «piegare» ai nostri bi-sogni quotidiani la durezza delle strutture fisiche nelle quali ci troviamo situati”. [Pierre Bourdieu] In sostanza non ci mettiamo in una posizione di allontanamento dalla realtà, non la guardiamo con occhio riflessivo, non cogliamo la flessibilità che può sussistere tra spazio e pratiche. Lo spazio costruito implica un costante dialogo tra la rigidità della struttura fisica della città e le esigenze - diversificate e nuove - che provengono dalla sfera sociale. Da un punto vista sociologico si parla di “relazione tra struttura e azione”. Pierre Bourdieu propone il concetto di “spazio dei possibili” con la volontà di definire lo spazio che racchiude l’insieme delle possibili pratiche da mettere in atto. Egli ci offre il concetto di “habitus”, inteso come «principio permanente generativo di improvvisazioni regolate che produce pratiche», fungendo da tramite tra progetto sociale, città progettata, progetto tout court e la sua applicazione nella vita quotidiana. Tale concetto offre delle risposte innescate dalle domande irrisolte insite nella pianificazione urbana che mostra nuovamente la propria inadeguatezza nell’avvicinare l’uomo al progetto, i corpi allo spazio. La società contemporanea ha eletto lo spazio a elemento centrale delle proprie mansioni organizzative e la città, elemento urbano vero e proprio, tende ad essere uno spazio in cui le persone sono travolte dai segni, sovraccaricate di stimoli ingestibili nella loro totalità. La dimensione metropolitana confonde chi la abita con una continua sovrapposizione di linguaggi e segni e rende difficile all’uomo la creazione di una mappa mentale della trama urbana che lo contiene. L’estetica di questa nuova forma culturale della tarda modernità è paragonabile ad una sorta di “cartografia cognitiva”. Si afferma quindi un nuovo limite della città come forma urbana proiettata simbolicamente su ampi spazi (nazionali e globali) che si lascia alle spalle il suo limite fisico e induce ad una creazione di una mappa cognitiva più complessa della città, un’immagine ad un più alto livello di rappresentazione.

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Dato il limite dell’irrappresentabilità dell’informale la mappa cognitiva ha lo scopo di dare visibilità alla vita quotidiana che scorre nella città fisica, riportando sul reale la dimensione anonima e invivibile di una sfera simbolica della città. L’immaterialità della città informale si rappresenta in una dimensione di transito tra livelli diversi (impossibili da cogliere per l’uomo e per le istituzioni) ma che si pone come “terra di mezzo” che apporta concreti contributi alla definizione della città. Qui si delineano storie di nuove identità che il tessuto urbano – in particolare lo spazio aperto di dominio pubblico – ospita ma con forze repulsive e che tenta di recludere negli interstizi di basso profilo di interesse, negli spazi dell’informalità. Lo spazio delle pratiche si configura così come spazio in cui il soggetto agisce all’interno dello spazio mondiale del tardo capitalismo e che per essere rappresentato deve trovare nuove modalità di azione nella vita quotidiana. Negli anni Novanta le città europee, di grandi e piccole dimensioni, hanno dato un nuovo valore alla piazza, riportandola al centro del dibatto e del progetto urbano. Uno stimolo importante può esser stato il successo delle iniziative condotte in Spagna, soprattutto a Barcellona, subito dopo la caduta del regime franchista e la conseguente riconquista della democrazia, le quali hanno riconosciuto e continuano a riconoscere, con sempre maggiore consapevolezza, che i cittadini non hanno mai cessato di manifestare il loro attaccamento alle piazze o si siano opposti alla realizzazione di nuove. Nonostante la forte e crescente attrazione di altre inedite centralità periferiche – centri commerciali, spazi di intrattenimento di massa, localizzati nei nodi di maggior accessibilità motorizzata – le piazze sono ancora i luoghi nei quali vecchi e nuovi abitanti delle città ritrovano e riaffermano la loro identità sociale e comunitaria. In Europa si può rilevare come le piazze siano tendenzialmente ben disegnate, accessibili, ben gestite, pulite, ben illuminate ed animate. Ma nella città contemporanea è percepibile una grande domanda di spazio, carente per la natura molto densa e fitta delle trame urbane delle città, in seguito alle trasformazioni del ventesimo secolo. A prova di questa necessità concreta di spazi per la vita urbana possiamo osservare che quando questi sono presenti e sono accoglienti e accessibili, come le piazze delle città antiche, essi

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RIAFFERMAZIONE DEGLI SPAZI PUBBLICI FISICI COME LUOGHI D’IDENTITÀ SOCIALE COMUNITARIA


divengono naturalmente poli di confluenza e di identificazione degli abitanti, luoghi della socializzazione e dei contatti diretti, luoghi della stratificazione dei simboli e della memoria, sovrapposizione delle funzioni e dell’intreccio delle attività. LA CITTÀ MULTIVERSA Cosa è successo alla città? Multistratificazione delle dimensioni urbane

LA CITTÀ DI PERSONE E SIMBOLI : LA CITTÀ SOCIALE [Sistema sociale]

LO SPAZIO DELLE RELAZIONI: LO SPAZIO APERTO PUBBLICO [Spazi aperti di relazione]

Cercare di racchiudere in un termine unico tutte le caratteristiche, tendenze e modelli che definiscono la città contemporanea si pone come una missione pressoché impossibile. Dato per assodato il carattere multi-sfaccettato e complesso della città di oggi, diviene più opportuno cercare di delineare alcuni tratti fondamentali che possono al meglio rispecchiare le peculiarità dell’oggi e connettersi in un più generale sistema di relazioni. Le pratiche sociali costruiscono, abitano, trasformano in continuazione l’uso di uno spazio urbano. Le persone e le relazioni sociali che si intrecciano tra individui e gruppi sociali appartengono ad una dimensione che sta tra la materialità e l’immaterialità. La città sociale è fatta sia di fisicità, dei corpi e degli spazi vissuti ed esperiti dalla gente, sia di immaterialità delle relazioni sociali e del volume vuoto che permea la città, insinuandosi nelle fitte trame del costruito e che è lo spazio aperto urbano (pubblico). La città può essere raccontata e osservata come contesto dove lo spazio urbano svolge essenzialmente il ruolo di spazio delle azioni, una sorta di proscenio teatrale. Oltre a ospitare la varietà di azioni quotidiane delle persone che fanno esperienza dello e nello spazio, la città ospita avvenimenti permanenti o effimeri, socio-culturali. Ciò che ha sempre segnato nella storia lo spazio pubblico e ciò che ne ha definito la manifestazione fisica e simbolica è l’esperienza che l’uomo vi ha fatto come parte di una comunità. Nel corso degli ultimi decenni il contesto fisico e sociale della città si è modificato profondamente e di conseguenza il modo vi vivere ed esperire la città. Lo spazio pubblico urbano, luogo di intersezione tra città materiale e città sociale, ha concretizzato l’inaridimento e il disagio contemporaneo: la perdita di identità e la frammentazione hanno manifestato i propri risultati proprio nello spazio aperto della città.

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Ad oggi è riscontrabile una crescente e diffusa domanda di spazio pubblico strettamente legata alla consumazione alimentare libera nello spazio urbano. L’amplificazione e differenziazione delle esigenze dell’uomo contemporaneo, in stretta relazione ai nuovi ritmi degli stili di vita, unitamente all’affermazione delle libertà individuali, al “diritto di scelta” sempre più forte in un mondo globalizzato, spingono verso una maggiore fruizione degli spazi aperti della città. Non si tratta solo di poter mangiare un gelato su una panchina, ma di poter avere la libertà, comfort e tranquillità di poter consumare anche dei pasti, per esempio molti lavoratori si preparano a casa e portano con sé a lavoro il proprio pranzo in un contenitore simil-bento.8

1 | Fonte: taccuinistorici.it, “Nascita del moderno ristorante”. 2 | Ibidem. 3 | Cfr. Maurice Halbwachs, La memoria collettiva, Unicopli, 2001 (1950). 4 | Cfr. Paolo Barberi, È successo qualcosa alla città: manuale di antropologia urbana, Donzelli, 2010. 5 | Cfr. Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, 1996. 6 | sociologa urbana e comunicatrice, dottore di ricerca in Pianificazione

Territoriale e docente presso il Corso di laurea in Urbanistica dell’Università Mediterranea. 7 | Cfr. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, 2001. 8 | Il bento è un oggetto di cultura e tradizione giapponese: un vassoio contenitore con coperchio, organizzato in più scomparti, di varie forme e materiali, adibito a servire un pasto, in singola porzione, preparato in casa e pensato per mangiare fuori.

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ELECTIVE COMMUNITIES INTORNO AL CIBO. Nuove relazioni sociali non territoriali. Estetizzazione e “Foodmania” degli anni Dieci.

Negli ultimi decenni si sono generate nuove forme di comunità, le elective communities1, gruppi di persone accomunate da interessi, idee e principi simili e condivisi, e – parallelamente – nuovi spazi pubblici, spazi condivisi, spesso territori intermedi, smagliature della città che consentono un maggiore grado di libertà e di (ri)appropriazione dello spazio in forma spontanea. “Scarti urbani”2 che evidenziano la frammentazione della città e della società, territori che si offrono come luoghi di osservazione delle trasformazioni urbane latenti che mutano in profondità le relazioni simboliche e materiali fra uomini e territorio. Questi gap di territorio non progettato sono preziosi anche per offrire un’occasione per riflettere sulle implicazioni etiche dell’abitare. «New communities combine with the old organization - the one stemming only from blood or the soil - and sometimes they will even become more important […]. From the on [such a community] can be regarded as one of the communities forming society and take the name of traditional community, differing from the new communities, the most important of which are the elective communities. [Georges Bataille, Sacred Sociology] «The elective communities that is opposes to them [traditional ones], communities of persons brought together by elective affinities, could be defined as ‘communities of value’. What value? Precisely that of the community as such: a community of those for whom the community is a value and not a fact. One’s country is only a fact: it would be stupid to deny it, it is morally inadmissible to limit oneself to it.» [Hollier, The college of Sociology]

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#food Pinteres aprile 2015

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IL SÉ NELLA SOCIETÀ INFORMAZIONALE

Gli scienziati sociali, in primis antropologi e sociologi, hanno rivolto la propria attenzione con sempre maggiore insistenza e determinazione al web e alla comunicazione mediata dal computer che lo contraddistingue; oggetto di studio sono diventati messaggi e le persone che animano forum, chat, newsgroup, mailing list e molti altri. Accade sovente che queste persone si aggreghino e diventino stabili fino a formare vere e proprie comunità, denominate “virtuali”3; una definizione di esse – ancora insuperata – è data da Howard Rheingold: «Aggregazioni sociali che emergono dalla rete quando un certo numero di persone porta avanti delle discussioni pubbliche sufficientemente a lungo, con un certo livello di emozioni umane, tanto da formare dei reticoli di relazioni sociali personali nel ciberspazio».4 Le comunità virtuali sono dunque composte da persone che condividono interessi, aspirazioni, ideali e corrispondono tra loro per mezzo di computer interconnessi, usando modalità e mezzi tipici della comunicazione mediata da computer; le comunità virtuali “vivono” nel cyberspazio, ossia nello spazio creato dalla connessione di migliaia di migliaia di computer, che formano una rete di reti, ossia Internet.5 Le comunità virtuali sono così chiamate, perciò, perché – almeno teoricamente – ripropongono sulla Rete alcune caratteristiche delle comunità “reali”, in termini di capacità di aggregazione sociale, solidarietà, risonanza morale e d’intimità di relazioni, in quanto presentano legami basati sulla contrattualità.6 Vengono definite “virtuali” anche perché la loro presenza dipende strettamente dall’esistenza del cyberspazio, il quale si caratterizza uno spazio impalpabile, elettronico, reale ma alternativo alla concezione di spazio “tradizionale”. Le nuove tecnologie dell’informazione stanno integrando il mondo di reti globali in strumentalità e ciò porta la comunicazione mediata dal computer a generare una vasta gamma di tali “comunità virtuali”. Tuttavia la tendenza sociale e politica distintiva degli anni Novanta risiede nella costruzione di politica e azione sociale intorno a identità primarie, o ereditarie, radicate nella storia e nella geografia, o create ex novo, all’ansiosa ricerca di senso e spiritualità. I primi passi storici delle “città informazionali” sembrano caratterizzarle per la prevalenza dell’identità come principio organizzativo. 7

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Per identità intendo il processo tramite il quale un soggetto sociale riconosce se stesso e costruisce significato principalmente sulla base di un dato attributo culturale o di un insieme di attributi, escludendo un riferimento più ampio ad altre strutture sociali.8 L’affermazione dell’identità significa che le relazioni sociali si stabiliscono in rapporto agli altri sulla base degli attributi culturali che specificano l’identità. 9 Si tratta, come chiarisce il noto sociologo, di un terreno che va profondamente esplorato. In merito a tale tema della manifestazione paradossale del sé nella società informazionale il testo avanza idee ed interpretazioni, non propone nette letture e conclusioni. Zygmunt Bauman, altro sociologo di grande fama internazionale, offre a tal proposito uno spaccato rappresentativo dei due lati della stessa medaglia: se da una parte sottolinea in numerosissime sue pubblicazioni come la società si è fatta sempre più “liquida” e soggettivizzata, dall’altra essa si mostra, nelle maglie della vita urbana, caratterizzata da una diffusa e crescente “voglia di comunità”. 10 I movimenti sociali tendono ad essere frammentati, a carattere locale, si mobilitano per una causa specifica e sono effimeri, confinati in mondi inferiori oppure attizzati per un istante da un simbolo mediatico. In un mondo di cambiamenti incontrollati, confusi, la gente tende a raggrupparsi attorno alle identità primarie: religiose, etniche, territoriali, nazionali. […] In un mondo di flussi globali di ricchezza, di potere e di immagini, la ricerca dell’identità, collettiva o individuale, conferita o costruita, diviene la fonte essenziale di senso sociale.11 Tuttavia essa sta diventando la principale, e talvolta l’unica, fonte di senso di un periodo storico caratterizzato da destrutturazione generalizzata delle organizzazioni, delegittimazione delle istituzioni, estinzione dei maggiori movimenti sociali e da espressioni culturali effimere. Le nostre società sono sempre più strutturate attorno a un’opposizione bipolare tra la Rete e l’Io.12

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LO SPAZIO DEI FLUSSI E LO SPAZIO DEI LUOGHI

Lo spazio dei flussi non pervade l’intero campo dell’esperienza umana della società in rete.13 Infatti la netta società urbane avanzate come in quelle tradizionali, vive in luoghi14, e pertanto percepisce il proprio spazio come uno spazio basato su di essi, come sistema urbano fisico di riferimento e vita. Le culture e le storie, in un’urbanità veramente plurale, interagiscono nello spazio, dandogli senso e mettendo in relazione con la “città della memoria collettiva”15. La forma del paesaggio fagocita e assimila le modifiche fisiche sostanziali attraverso l’integrazione di tali cambiamenti negli usi eterogenei dell’attiva vita di strada. Le relazioni tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi, tra globalizzazione e localizzazione simultanee, non hanno esiti predeterminati.16 Pertanto si può affermare che le persone vivono ancora in luoghi. Tuttavia, poiché funzione e potere nelle nostre società sono organizzati nello spazio dei flussi, il dominio strutturale della sua logica altera in modo fondamentale il significato e la dinamica di questi spazi. L’esperienza, essendo legata ai luoghi, si astrae dal potere e il significato si separa sempre di più dalla conoscenza; ne deriva una “schizofrenia strutturale” tra due logiche spaziali che minaccia di interrompere i canali di comunicazione della società. La tendenza dominante è orientata verso l’orizzonte astorico dello spazio in rete, che aspira a imporre la propria logica a luoghi segmentati, dispersi, sempre più spesso non correlati gli uni agli altri, sempre meno capaci di condividere codici culturali. A meno che non vengano deliberatamente costruiti ponti culturali, politici e fisici tra queste due forme dello spazio, potremmo andare incontro a una vita scissa in universi paralleli i cui tempi non possono coincidere perché distorti in dimensioni diverse dell’iperspazio sociale. 17

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All’inizio degli anni Ottanta del Novecento vengono formulati alcuni neologismi, tra i quali spicca per efficacia la “città informazionale”, che cercano di dare concretezza, almeno sul piano teorico, al rapporto tra città e nuovi mezzi di comunicazione. Si tratta di una relazione complessa con una nube di implicazioni che risulta difficile da racchiudere in pochi termini che ne delineino i principali tratti peculiari. Edward Soja18 parla in merito di “nuovo iperspazio urbano fatto di città invisibili”, “urbanesimo postmoderno”, “reti elettroniche”, “comunità virtuali” e via dicendo. Setha Low, invece, nel suo testo Theorizing the city, individua ben dodici metafore per sintetizzare le diverse prospettive della ricerca antropologica sulla città: città etnica, condivisa e contestata; deindustrializzata, informazionale e globale; modernista, postmoderna e la città fortezza ed infine la città sacra e la città tradizionale. Allo stesso tempo la metafora dell’urbano ha contaminato anche il glossario dei nuovi mezzi di comunicazione: molti dei nuovi termini utilizzati per descrivere e cogliere sinteticamente gli usi e le funzioni dei diversi dispositivi tecnologici fanno riferimento alla città. Abbiamo ad esempio i neologismi di “vicinati elettronici” e “piazze virtuali” per esprimere le diverse forme di socialità che avvengono in rete. Esse hanno luogo su piattaforme diverse che implicano un certo grado ci partecipazione all’informazione e di comunicazione tra utenti e avvengono principalmente sui social network, i blog, i forum, ovvero sul web 2.0. Con il termine “Web 2.0” si fa convenzionalmente riferimento a “l’insieme di tutte quelle applicazioni online che permettono un elevato livello di interazione tra il sito web e l’utente come i blog, i forum, le chat, i wiki, le piattaforme di condivisione di media come Flickr, YouTube, Vimeo, i social network come Facebook, Myspace, Twitter, Google+, Linkedin, Foursquare ecc. ottenute tipicamente attraverso opportune tecniche di programmazione web e relative applicazioni afferenti al paradigma del web dinamico in contrapposizione al cosiddetto “Web statico” o “Web 1.0”. 19

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LA CITTÀ INFORMAZIONALE

Castells ritiene che lo spazio urbano sia stato segnato negli ultimi anni del Novecento dall’affermazione di un nuovo paradigma tecnologico. In questo salto paradigmatico le tecnologie dell’informazione hanno un ruolo centrale. A differenza delle precedenti rivoluzioni tecnologiche, nel nuovo paradigma l’informazione stessa diviene il prodotto del processo produttivo. È proprio Castells ad elaborare il concetto di “città informazionale”20 e con essa egli cerca di offrire una descrizione esaustiva non solo delle nuove dinamiche economiche ma anche di quelle sociali e culturali che si trovano inscritte nello spazio urbano. La nuova forma urbana emergente è caratterizzata da collegamenti esterni alle reti globali e a segmenti dei propri paesi scollegando però internamente le popolazioni locali non funzionalmente necessarie o socialmente dirompenti. 21 Si presenta così ai nostri occhi uno spazio urbano profondamente frammentato, discontinuo e diffuso in cui le classi sociali non possiedono una propria collocazione definita (come poteva essere per la città moderna). Tale dinamica, che ha interessato in questi anni le città è, in ultima istanza, il segno del più ampio processo di affermazione di una specifica forma spaziale attraverso cui si esprimono le pratiche sociali della città in rete, lo spazio dei flussi. In un panorama sociale, economico e culturale attraversato da flussi di immagini, di capitale, di informazioni, di simboli, è necessario organizzare materialmente e simultaneamente le pratiche sociali senza poter contare sulla contiguità geografica che ha caratterizzato l’esperienza della modernità. In questa prospettiva lo spazio dei flussi supporta materialmente i principali processi ed attività della società informazionale e si struttura attraverso la combinazione di tre diversi strati di supporti materiali: - Circuiti di scambi elettronici: il complesso tecnologico che comprende le tecnologie informatiche, le telecomunicazioni e i sistemi di trasporto ad alta velocità; - Nodi e snodi ovvero i luoghi specifici connessi materialmente dal circuito degli scambi elettronici (possono essere nodi della rete come snodi di comunicazione, stazioni di scambio e hub);

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- Organizzazione spaziale delle élites che materialmente egemonizzano in chiave direzionale l’articolazione dello spazio. Nonostante la ricchezza di elementi sociali e di libertà consentita dal web, lo spazio dei flussi non è in grado di saturare ogni porzione della vita dell’uomo. La gran parte della popolazione mondiale ne è slegata, non ne ha accesso (digital divide) e – al contrario – è legata allo spazio dei luoghi. Se la logica spaziale dominante si sviluppa a partire dalla rottura della contiguità fisica come precondizione per la realizzazione delle pratiche sociali, lo spazio dei luoghi, di contro è uno spazio autosufficiente la cui definizione si esaurisce nei propri limiti fisici. Sono luoghi nei quali si possono ancora verificare interazioni dense e complete con il proprio ambiente materiale indipendentemente dallo spazio dei flussi. Nelle preziose teorie di Castells si individua però un gap riguardante la componente riflessiva degli individui, questa viene invece illuminata da Anthony Giddens, riconoscendo un ruolo attivo del soggetto, inteso come individuo complesso che interagisce con sistemi complessi. 22 L’aspetto che desta però più interesse da parte di numerosi studiosi è il rapporto tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi 23. Analizzando per esempio le principali esperienze di lotta si può comprendere come esse si attivino nello spazio dei luoghi e si proiettino con efficacia nello spazio dei flussi attraverso un abile uso delle tecnologie informazionali. Allo stato attuale dei fatti, il futuro dello spazio urbano globale non è “verticalmente delineato in un getto di superfici a specchio proiettate verso il cielo”, come ci hanno abituato teorici e pianificatori dal dopoguerra ad oggi, ma in gran parte sviluppato orizzontalmente in una “distesa opaca di lamiere e materiali di scarto”.

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LA PROIEZIONE SOCIALE DEL WEB NELL’AMBIENTE COSTRUITO


RAPPORTI EGEMONICI TRA SOCIETÀ E TECNOLOGIA

Nel vastissimo panorama concettuale in riferimento a questo ambito teorico vi sono dei punti di vista ricorrenti, individuati dai ricercatori britannici Stephen Graham e Simon Marvin24, attraverso i quali sono stati interpretati ed analizzati i rapporti tra ambienti urbani e nuove tecnologie della comunicazione. Dalla loro attenta osservazione emergono alcune prospettive principali: - Determinismo tecnologico La tecnologia viene interpretata come variabile indipendente rispetto ai processi sociali e politici più generali. La società e la tecnologia sono così considerate sfere distinte e separate, dichiarando una sostanziale supremazia della tecnologia sulla società. In questa prospettiva la forma della città e dell’ambiente urbano sono considerati come prodotti dell’evoluzione tecnologica. Questo approccio determinista è il più vicino alla percezione della realtà delle persone, considerandosi passivi ad una ondata inarrestabile delle nuove tecnologie. - Utopia e futurismo Si tratta in questo caso di una visione ottimistica secondo la quale la tecnologia dichiarerà la morte della distanza e quindi della griglia spaziale alla base delle città. La tecnologia risolverà i principali problemi umani legati alla città fisica. La rivoluzione conseguita all’entrata nella vita quotidiana della popolazione urbana delle nuove tecnologie della comunicazione viene da Graham e Marvin definita come “terza ondata”. Nel mondo dei new media, si può estrarre un carattere fondamentale, individuabile nella diffusione dei “self-media”. Questi mezzi di comunicazione personali consentono un importante livello di partecipazione al flusso della comunicazione. Sono trasmissioni che avvengono in maniera istantanea e a prescindere dalle distanze spaziali. Questa rivoluzione delle nuove tecnologie della comunicazione ha definitivamente proclamati l’abbattimento delle barriere spaziotemporali.

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Nel rifiuto di un determinismo tecnologico si considera la tecnologia come un elemento inestricabile dalla società nel suo insieme. Essa è influenzata dalle scelte dei singoli individui e dalle modalità reali d’uso ma anche dalla possibilità che le tecnologie stesse mettono a disposizione. Lo sviluppo tecnologico è così considerato come processo profondamente sociale e politico. Gli effetti urbani delle nuove tecnologie della comunicazione sono indeterminati poiché sono il risultato d’insieme di innumerevoli contributi individuali, quindi di una costruzione sociale. Ciò determina un’impossibilità nel definire gli impatti specifici delle telecomunicazioni sulla città, i modi nei quali esse si relazionano al cambiamento urbano variano nello spazio e nel tempo in maniera eterogenea. Lev Manovich ci illumina sulla nuova tendenza che si registra all’inizio del ventunesimo secolo secondo la quale l’attenzione comincia a spostarsi sullo spazio fisico reale, sul territorio, arricchito però di un nuovo elemento: «lo spazio fisico potenziato dai dati elettronici». Si parla così di “spazio aumentato” come nuovo tipo di spazio generato dalla possibilità di sovrapporre allo spazio fisico dati digitali dinamici.

LA COSTRUZIONE SOCIALE DELLA TECNOLOGIA

Jaume Plensa Crown Fountain Millennium Park, Chicago 2001

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LO “SPAZIO RELAZIONALE”

Lo spazio pubblico urbano è stato sempre il risultato del nesso tra le strutture urbane e specifiche forme di comunicazione. La città contemporanea è diventata un complesso mediatico e architettonico allo stesso tempo in cui la produzione mediatica dello spazio urbano è una cornice costitutiva di una nuova modalità di esperienza sociale. È un’esperienza caratterizzata da quello che Scott McQuire chiama “spazio relazionale”.25 Lo spazio relazionale può essere definito soltanto dalla posizione temporanea occupata dal soggetto in relazione a numerosi altri [...] ogni soggetto appartiene a molteplici matrici e reti che si sovrappongono e si compenetrano. L’eterogeneità dello spazio relazionale è “un’esperienza chiave della globalizzazione contemporanea e richiede nuovi modi di pensare a come possiamo condividere lo spazio per creare esperienza collettiva”. Dal quadro di analisi della complessità dell’era post-moderna, la città contemporanea si mostra come un amalgama dove gli aspetti fissi e tangibili della vita urbana che ci è familiare interagiscono continuamente con quelli elettronici e intangibili. C’è un urgente bisogno di una ricerca che sappia scendere in profondità illuminando le multiformi interrelazioni tra ambienti elettronici e luoghi urbani.

FENOMENI ATTUALI DI ESTETIZZAZIONE DEL CIBO

Quello fin qui delineato è il substrato culturale su cui si fonda l’indagine specifica sul tema, si cercano qui di delineare le caratteristiche di quelle che qui abbiamo scelto di definire “elective communities intorno al cibo”. Alla luce delle definizioni che inquadrano con precisione tale concetto, riteniamo che possa essere pregnante l’applicazione di tali termini anche al grandissimo fenomeno contemporaneo che vede raccogliersi un ingente numero di persone ed utenti del web intorno al cibo. Si tratta di un movimento che si registra sia in una dimensione online, con forme di aggregazione sul web, sui social network in particolare, sia nelle occasioni ed eventi che si svolgono “offline”, in spazi pubblici, luoghi aperti al pubblico, musei, ma anche spazi privati che per certune occasioni decidono di aprire i propri spazi ad un pubblico, su invito nominale o aperto.

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Marije Vogelzang Sharing Dinner Tokyo 2008

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Tale movimento è sempre più manifesto con i tratti di comunità poiché, nonostante abbia confini ancora opachi, dati dalla contemporaneità tra il fenomeno stesso e il momento di scrittura di tale trattazione, non consentendo ancora un distanziamento critico oltre che temporale all’analisi del fenomeno, si mostra con caratteristiche che sono distintive delle comunità territoriali. Ecco, l’elemento del territorio diventa in questo caso invece, un elemento che può essere condiviso ma non è alla base delle forme di condivisione ed aggregazione di tali gruppi sociali, anzi ne sono spesso slegati a favore invece di comuni interessi su questioni attuali di varia natura (interessi culturali, approccio ecologico, diritti e libertà ed interessi dei più diversi generi). Ciò che senza dubbio contraddistingue tali comunità è l’approccio estetico ed estetizzante che dimostrano nei confronti del cibo. Ciò non significa che si tratti banalmente di pratiche di osservazione o elaborazione/rielaborazione formale della materia edibile. A seconda dei casi e dei filoni di pensiero ed azione esistono gradi di approfondimento culturale e di approccio estetico più o meno cosciente e più o meno sensato. A tal proposito Boris Groys, nel suo testo Going Public, ci offre una riflessione molto interessante intorno all’esperienza estetica. Innanzitutto egli chiarisce che nella relazione tra estetica ed arte assumere od assecondare il punti di vista dello spettatore ha portato a concezioni che assecondavano interpretazioni di spettatore come “consumatore”, consumatore di esperienza estetica, appunto. Esperienza edonistica, di bellezza, che di riflesso genera anche una definizione di ciò che è antiestetico. Groys afferma che: «per accedere a qualsiasi tipo di godimento estetico lo spettatore dovrà esservi educato e la sua educazione rifletterà l’ambiente sociale e culturale in cui è nato e vive – e prosegue denunciando che – l’approccio estetico presuppone l’asservimento della produzione d’arte al consumo e quindi della teoria artistica alla sociologia» Alla luce di ciò «il mondo reale, e non l’arte, è l’oggetto legittimo dell’approccio estetico, come di quello scientifico ed etico.»26

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Andando ancora più in profondità afferma che l’approccio estetico ha inevitabilmente perso il proprio ruolo e primato sociale anche e soprattutto alla nascita e al rapido sviluppo dei visual media (i quali hanno sensibilmente mutato la produzione e fruizione artistica postmoderna). «L’accesso relativamente facile a macchine fotografiche e videocamere digitali, insieme alla diffusione globale della piattaforma Internet, ha rivoluzionato il rapporto numerico tradizionale fra chi produce e chi consuma immagini. Sempre più persone oggi sono interessate all’elaborazione di immagini anziché alla loro visione».27 Possiamo nello specifico osservare ed analizzare i fenomeno attuali attraverso manifestazioni e casi diversi: - il grande successo di programmi televisivi di cucina, dai primi cooking show a sfida tra due squadre o di dimostrazione e preparazione di piatti particolari, ai più recenti e seguiti talent show culinari di cui Masterchef è il caso più eclatante; - la diffusione di Instagram come mezzo per immortalare principalmente leccornie e prelibatezze che si preparano o comprano o mangiano al ristorante; questo è riscontrabile in particolare attraverso gli hashtag #food #instafood, #foodporn; - la moda dello street food , che dilaga nei centri urbani principali, in forma di tendenza cosmopolita; si tratta spesso di piccoli locali che offrono cibo d’asporto (dalla pizza al primo di pasta, dal panino gourmet al kebab), talvolta di ricercata qualità ed abbinamenti ma talaltra più etichettabile come “junk food” o comunque più vicina al mondo “fast food”; - l’interesse per la letteratura gastronomica: questa nasce dal fatto che precedentemente si è diffuso e consolidato l’interesse per il cibo, ma allo stesso tempo la presenza di numerosi testi specifici, più o meno di qualità, hanno alimentato tale fenomeno; comunque sia mai come negli ultimi anni il settore a tema alimentare ha portato ad incassi ragguardevoli come in questo decennio; - la nascita e sviluppo di numerosissimo blog di cucina: anche in questo caso non si sa porre su una linea temporale i fatti con un rapporto lineare di causa-effetto, si tratta di una questione sistemica che sottende una certa circolarità del rapporto tra input ed esito;

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comunque sia tali spazi web sono letteralmente fioriti in rete e contengono una serie molto vasta di contenuti, non solo informazioni testuali (talvolta di opinabile veridicità) ma anche in gran parte multimediali, primato abbastanza specifico del caso; - la pratica di bookmarking attraverso piattaforme social come “Pinterest” o portali dedicati come per esempio “Delicious”; qui gli utenti creano e condividono degli elenchi di “segnalibri”, ovvero archiviano contenuti di natura visuale (fotografie, illustrazioni, grafiche e immagini di varia natura) e più ampiamente mutimediale, organizzandole per tema o parola chiave e condividendole con gli altri utenti grazie al principio dell’open source; - la proliferazione di guide gastronomiche: la necessità di avere dei filtri, selezioni e punti di riferimento, da parte di esperti (o non), sui luoghi in particolare, più interessanti o di spiccata qualità o particolarità d’offerta, all’interno di un panorama quasi ingestibile di informazioni, tramite il web o la carta stampata, tramite il buon vecchio passaparola o i nuovi canali social, ha incentivato la nascita di guide e selezioni rispetto al vastissimo mondo della gastronomia e dintorni. Si delinea, attraverso questi punti, un quadro assai eterogeneo con un’organicità spiccata, ma che, anche grazie a tale natura, assume un valore antropologico e sociale peculiare, che definisce i primi punti di ancoraggio di quel vastissimo campo di azione del fenomeno. La forza di tale movimento, al quale ancora non è possibile dare un nome, o almeno un termine che ne racchiuda la ricchezza di caratteristiche e sfaccettature, sta molto nella diffusione e valorizzazione della centralità del cibo nelle nostre vite, della manifestazione delle infinite relazioni che esso comporta. Il web in tutto ciò ha un ruolo di acceleratore e potente canale di diffusione, con una carica virale incommensurabile, il quale, per l’ampio utilizzo di canali sociali da parte di masse di utenti, consente un rimbalzo continuo – come fossero infiniti link digitali ed umani – tra lo spazio dei flussi e lo spazio dei luoghi. Da un passaparola pronunciato verbalmente a un passaparola tramite i social network, il palleggiamento di informazioni e contenuti è di portata globale.

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Tra le teorizzazioni ad oggi presenti in relazione a tale movimento, citiamo il neologismo “foodie” elaborato già nel 1987, ma di grande uso in questo secondo decennio degli anni Duemila, il quale è quello che più si avvicina alla definizione di un contorno di tali comunità del “food-stream”, ma che ancora non offre una fertile rappresentazione della ricchezza di tale movimento. Paul Levy coniò il termine, assieme ad Ann Barr (e sincronicamente con Gael Green), riferendosi a “un buongustaio o una persona che ha un interesse ardente o raffinato per cibo e bevande alcoliche. Il “foodie” cerca nuove esperienze culinarie, come un hobby piuttosto che semplicemente come pratica di mangiare fuori per pura convenienza o fame.

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Ikea Food Hembakat är Bäst


I FOODIES

I “foodies” costituiscono un gruppo distinto di appassionati al cibo il cui profilo non è sempre costante ma le cui caratteristiche sono delineabili attraverso gli interessi comuni: attività dell’industria alimentare, visita di cantine e degustazione di vino, di birrerie e campionamento birra, le scienze alimentari, aperture e chiusure di ristoranti, la distribuzione alimentare, le mode alimentari, la salute e la nutrizione, i corsi di cucina, il turismo gastronomico e la gestione di un ristorante. Un “foodie” potrebbe sviluppare uno specifico interesse pratico nella rivisitazione di piatti, abbinamenti o ricette tradizionali. Molte pubblicazioni hanno intere colonne di contenuti dedicati al settore alimentare che si rivolgono alle buone forchette e molti dei siti web che portano il nome foodie sono diventati popolari tra i “foodies”. Gli interessi da buongustai negli anni Ottanta e Novanta, ha dato luogo al Food Network e altri elementi specializzati come film popolari e spettacoli televisivi sul cibo come “Top Chef ” e “Iron Chef ”, una rinascita dei libri di cucina specializzati, di periodici specializzati, come “Gourmet Magazine” e “Cook’s Illustrated”, in crescita la popolarità di mercati contadini, di siti oriented o dedicati al cibo, editoria e la lettura blog alimentari, come “Zagat” e “Yelp” o come “Foodbeast” e “foodieworld”, cucina specializzata negozi come “Williams-Sonoma” e “Sur La Table”, e l’istituzione degli chef-star. In sostanza tale gruppo di appassionati, racchiude una porzione particolare di coloro che svolgono pratiche di relazione intorno al cibo, ne sono una parte importante perché, nonostante le diffuse accezioni negative, sono quelli che più creano rete e comunicazione virale attorno ad eventi, siti, contenuti, avvenimenti e quant’altro tratti di cibo oggi. Nonostante la diffusa superficialità di interesse al cibo, spesso più una questione di piacere nell’estetizzazione di questo più che di vero approfondimento culturale e scientifico, questo movimento d’oggi è una sorta di filtro antropologico che rende più visibile la sfera immateriale di relazione e scambio, basata su comuni interessi, intorno al tema e consumo empirico del cibo. Qui di seguito le questioni attuali sin qui analizzate da un punto di vista teorico, sono presentate attraverso materiali visivi, anche in linea con la natura stessa dei contenuti scambiati nei flussi di comunicazione e relazione delle comunità raccolte intorno al cibo.

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The Food Porn Index by Bolthouse Famrs

1 | George Bataille, Sacred Sociology. 2 | Kevin Lynch, (pubblicazione postuma a cura di Michael Southworth), Deperire: rifiuti e spreco nella vita di uomini e città, CUEN, 1992 (originale: Wasting Away, Sierra Club Books, 1990). 3 | Cfr. Alessandra Guigoni, “Comportamenti e relazioni tra i membri di comunità virtuali”, Memoria e ricerca, 2002. 4 | Howard Rheingold, Comunità virtuali, Sperling & Kupfer, 1994, p. 5. 5 | Alessandra Guigoni, op. cit., 2002. 6 | Cfr. Ugo Fabietti, Comunità “dense”, Comunità “immaginate”, comunità “virtuali”. Un punto di vista antropologico, in “Le comunità virtuali “ a cura di P. Carbone e P. Ferri, Mimesis, 1999. 7 | Manuel Castells, La nascita della società in rete, EGEA, 2008, p. 22.

8 | Ibidem. 9 | Ibid, p.23. 10 | Zygmunt Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2009. 11 | Manuel Castells, op. cit., 2008, p. 3. 12 | Ibidem 13 | Ibid, p.485. 14 | “Un luogo è una località la cui forma, funzione e significato sono autosufficienti all’interno dei limiti della contiguità fisica”[M. Castells] 15 | Si fa rif. al concetto di “memoria collettiva” di Christine Boyer in The city of collective memory, Cambridge, MIT Press, 1994. 16 | Ibid, pp. 486-7. 17 | Ibid, p.489. 18 | Edward Soja, Dopo la metropoli, Pàtron, 2007. 20 | Cfr. Luca Grivet Foiaia, Web 2.0 guida al nuovo fenomeno della rete, Hoepli,

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2007. 21 | Manuel Castells, op. cit., 2008. 22 | Ibidem. 23 | Manuel Castells, op. cit., 2008. 24 | Stephen Graham, Simon Marvin, Città e comunicazione, spazi elettronici e nodi urbani, Baskerville, 2002. 25 | Scott McQuire, 26 | Boris Groys, Going Public – scrivere d’arte in chiave non estetica, Postmedia books, 2013, p. 27 | Ibidem 28 | Si veda l’approfondimento sul termine e sul tema presentato nel capitolo “il cibo di strada e il mercato”. 29 | Fonte: The American heritage dictionary of the English language. (4th ed.). Boston: Houghton Mifflin. 1992. Traduzione a cura delle autrici del seguente saggio.


PRATICHE RELAZIONALI DEL CIBO ATTRAVERSO L’ARTE di Evelyn Leveghi


VERSO UN’ECOLOGIA DELL’ARTE

PRODUZIONI RELAZIONALI

L’AFFERMAZIONE DEL QUOTIDIANO, IL VIRUS DELL’INFORMALE E L’INTERSOGGETTIVITÀ. Ingredienti per un’arte relazionale.

EVENTI COLLETTIVI E CIBO. La manifestazione della componente relazionale del cibo nello spazio urbano. Focus 1 | “Cenaconme” “Cenaditutti”

LA NATURA DIALOGICA E RELAZIONALE DELL’ARTE. Tratti e traiettorie della produzione artistica contemporanea.

INSTALLAZIONI TRA ARTE E ARCHITETTURA. Focus #2 | studio Raumlabor Berlin AMBIENTI E DISPOSITIVI TRA ARTE E DESIGN. Focus 3 | Martí Guixé Focus 4 | Marije Vogelzang CIBO&ARTE CONTEMPORANEA. Dalle esplorazioni oggettuali e materiche alle indagini di interazione e relazione.

NEL CUORE DELL’ARTE RELAZIONALE

LA CULTURA DELL’INTERAZIONE. Nuove relaioni di fruizione dell’opera. ARTE RELAZIONALE: UN NUOVO FRONTE DI LETTURA E SCRITTURA DELL’ARTE. Coordinate estetiche. COME IL CIBO RIPROGRAMMA L’ARTE E IL SUO UNIVERSO SEMIOTICO. Ricerca di una [nuova] forma alle relazioni conviviali. Focus #5 | Rirkrit Tiravanija.


L’AFFERMAZIONE DEL QUOTIDIANO, DELL’INFORMALE E DELL’INTERSOGGETTIVITÀ. Ingredienti per un’arte relazionale.

«La vita quotidiana è cosparsa di meraviglie, di suggestioni altrettanto seducenti […] di quelle degli scrittori e degli artisti. Linguaggi di ogni tipo, senza nome proprio, danno vita a feste effimere che appaiono, scompaiono e riappaiono.»1 Lo scenario contemporaneo, osservato da molteplici punti di vista – antropologico, sociologico, etnografico, artistico e progettuale – mostra come vi sia stato un sostanziale cambio di paradigma nella società e nella città in parallelo. Ciò che appare con grande evidenza alla lettura di tali trasformazioni sono alcuni punti: - la democratizzazione del mondo, di città e società - l’affermazione del carattere quotidiano, della vita sociale - una sostanziale libertà nelle pratiche, dettate da un’inedita informalità - il rafforzamento del carattere collettivo e pubblico degli spazi - l’interesse verso le dinamiche peculiari dell’intersoggettività Questo quadro diviene sia oggetto di analisi da parte di numerose discipline, non più solo dal fronte delle scienze sociali, e a partire dalle rinnovate coordinate del campo di indagine, tali caratteristiche peculiari divengono anche soggetto di produzioni progettuali e artistiche in particolare. Da parte delle scienze sociali ritroviamo studi specifici, tra i quali riteniamo fondamentale citare il pensiero di Michel de Certeau in merito alla peculiare dimensione delle pratiche del quotidiano che risignificano numerosi spazi, strutture sociali, relazioni di potere e molti livelli della società civile in termini di politica, governo e non solo. Egli ci illumina sulle pieghe del fenomeno, dense di significati e valori, che definisce questo singolare ritorno di interesse alla vita quotidiana e alla dimensione dell’esperienza collettiva. Al di là del razionalismo sclerotizzante che ha costituito la pietra miliare dei tempi moderni, è oggi necessario porre l’accento sulla vita, fonte di continui rinnovamenti e di dinamismo esistenziale. 2 La rivoluzione della vita quotidiana proposta da de Certeau suggerisce di considerare quella “cultura fatta di elementi semplici che favoriscono l’essere insieme e il vivere insieme.”

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“The Pasta Dance” performance by Tancha Dirickson

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La relazione con gli altri e con il gruppo (Mitsein) è sempre dipendente infatti dal luogo in cui si vive (Mitwelt). Spazio della socialità: ecco la cultura concreta che si oppone al tempo sociale proprio della civiltà razionale. […] Il cuore battente della quotidianità è esattamente la coappartenenza, ciò che, dall’origine, pone l’uomo in relazione a qualcosa: l’ordine simbolico, quello della corrispondenza nel gruppo, con la natura, con il sacro.3 Le teorizzazioni antropologiche intorno allo spazio delle pratiche della vita quotidiana di Lefebvre propongono invece un punto di osservazione ed un approccio critico di taglio assai differente. Proponendo un’antropologia sociale alternativa, Henri Lefebvre ha sostenuto la necessità di emancipare la quotidianità dal ruolo che essa svolge nel capitalismo, poiché in esso serve solamente a riprodurre le caratteristiche imposte alla vita collettiva da parte della classe dominante. L’abitudine, con la sua temporalità inautentica – in quanto astorica – riproduce e perpetua i rapporti sociali dati. La quotidianità è una sorta di deposito sotterraneo all’interno del quale si sedimentano le convenzioni e le menzogne del potere, è qui che si trova la barriera che impedisce alla fantasia e all’inventiva individuali di trovare le vie per una propria espressione autonoma. Di qui il suo interessamento per l’arte, intesa non tanto nella sua autonomia, quanto piuttosto come medium basato su un’espressione estetica, capace di mostrare il carattere infondato della convenzionalità della vita di tutti i giorni. L’arte moderna pose le condizioni per la soppressione della quotidianità.4 La critica della vita quotidiana fu di ispirazione anche per l’Internazionale situazionista, e influenzò le idee del Maggio francese. De Certeau, a differenza di Lefebvre e di molti altri teorici e studiosi, ha uno sguardo che non si ferma a involutive invettive a un solo soggetto sociale ma si proietta molto più lontano. La sua diffidenza nei confronti dell’ordine dogmatico che le autorità e le istituzioni tendono a costruire, la sua attenzione per la libertà dei non conformisti, anche se ridotti al silenzio, il suo rispetto per qualsiasi forma di resistenza, gli consentono di credere fermamente alle “libertà interstiziali delle pratiche quotidiane”. Ciò gli consente perciò di percepire delle differenze microscopiche dove altri sguardi leggono solo uniformità ed obbedienza. “La sua attenzione si concentra sugli spazi minuscoli che tattiche silenziose e sottili insinuano.” 5

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China Street Food Flickr

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Ci illumina sulle pieghe delle pratiche quotidiane, che diamo per scontate, che non interpretiamo come segni di produzioni di segni di un potere istituito dalla classe dominante, che, attraverso canali di comunicazione che fanno parte essi stessi della nostra quotidianità ci dettano ciò che è bene o no fare e interpretare del mondo che sta di fronte ai nostri occhi. Ma questi stessi occhi sono gli stessi che permetterebbero a quelli che sono divenuti più spettatori che attanti, di riconoscere la gabbia comunicativa in cui sono manipolati, telepolati. Così, pratiche abituali come leggere, conversare, abitare e cucinare, venivano descritte attraverso la lettura, occhio esorbitante della cultura contemporanea e del suo consumo. Dalla tivù, al giornale, dalla pubblicità a tutte le altre epifanie mercantili, la nostra società caratterizza la vista, misura tutta la realtà in base alla sua capacità di mostrare o di mostrarsi e tramuta le comunicazioni in viaggi dello sguardo. È un’epopea dell’occhio e dell’impulso a leggere.6 Egli prosegue la sua acuta analisi denotando come addirittura l’economia stessa si sia trasformata attraverso questo approccio devoto alla vista, in quella che Jean Baudrillard definiva «semiocrazia». Dunque al binomio produzione-consumo si dipana in parallelo un secondo connubio di senso, scrittura-lettura. E del resto la lettura (dell’immagine o del testo) sembra rappresentare l’apice della passività che caratterizzerebbe il consumatore, ridotto a voyer (troglodita o itinerante) in una «società dello spettacolo»7.8 Michel Foucault propone invece un’osservazione attraverso lo spazio del corpo. Un’interpretazione che vede il soggetto caricato di una valenza sociopsicologica o fenomenologica del tempo e dello spazio. Secondo il noto sociologo la dimensione spazio-temporale è l’elemento cardine della società, poiché è sullo spazio del corpo che agisce la socializzazione (e con essa le forze della repressione e del controllo). Il corpo ha luogo perché esiste nello spazio ed è costretto a sottomettersi all’autorità dei sistema sociali cui fa riferimento. In questo contesto il corpo crea dei luoghi di resistenza al potere che vengono definiti “eterotopie”: il dinamismo sprigionato dalla «lotta eterotopa» dei corpi contro le forze repressive della società diventa il motore della storia sociale e anche dello sviluppo delle città contemporanee.

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Paolo Inghilleri, psicologo sociale presso l’Università Statale di Milano, conduce da tempo indagini su come i luoghi e le città possono diventare artefatti viventi creativi attraverso le nostre esperienze, i nostri conflitti e i nostri desideri. Le nostre identità sono profondamente connesse a luoghi ed oggetti della nostra vita quotidiana. Pietre, mattoni, ferro, plastica, costituiscono edifici, strade, istituzioni, arredo, abiti. Essi sono materiali duri: i processi psicologici degli esseri umani danno senso e vita ad essi e tutti questi artefatti producono ed incorporano esperienza. Esistono poi interpretazioni assai differenti che spostano il focus dell’attenzione al quotidiano del mondo web. Paul Virilio e Manuel Castells indagano in tale prospettiva le forme culturali, frattali e virtuali fatte di reti e di comunicazione. Tali ricerche mettono in luce come sia ragionevole parlare di sfera del quotidiano anche in tali contesti legati al mondo tecnologico, proprio per tale appropriatezza divengono a maggior ragione obsoleti ed insensati termini come “virtuale”. La dimensione vitale e concreta di numerosissimi utenti e cittadini, in carne ed ossa, viaggiano concretamente nei flussi di informazione e scambi che sul web trovano luogo. Dall’inizio degli anni ‘80 molti di noi hanno cominciato a percorrere nuovamente la città ed il territorio ed a descriverli. E’ stata un’avventura inizialmente guardata con sospetto cui hanno partecipato, tra loro intersecandosi sino a confondersi, sguardi differenti e sempre più numerosi: quelli dell’architetto, del fotografo, del cineasta e di molti altri artisti e studiosi. Un’avventura che ha mostrato come città e territorio non potessero più essere racchiusi nelle parole, nei concetti e nelle teorie che la tradizione ci aveva consegnato. Un’avventura che ha privilegiato lo sguardo, il vedere da vicino, l’osservazione dell’ordinario, che ha fatto cogliere le differenze che attraversano le pratiche del quotidiano, che ha posto in evidenza le specificità del locale ed ha prodotto un universo di immagini per qualche verso stupefacente. Eravamo in ritardo; la letteratura ed il cinema, per fare solo due esempi, da lungo tempo percorrevano quella stessa strada. 9

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L’arte, dal canto suo invece, attraverso la sensibilità che ne contraddistingue il sistema percettivo del mondo e dell’uomo contemporaneo, ha sempre percepito ed interpretato le profonde trasformazioni e modificazioni sociali e non solo. In tale fase storica, che manifesta una rivoluzione paradigmatica che attraversa tutti i comparti della dimensione materiale che sociale, dall’economia alla cultura, essa si è trovata essa stessa investita da un profondo mutamento. È importante poi comprendere come il punto di vista della sociologia in relazione all’arte ne depauperi ulteriormente e drasticamente la reale portata di significato. L’analisi sociologica continua a vedere nell’arte il riflesso di una realtà precostituita, più precisamente del contesto sociale reale in cui viene realizzata e distribuita. Tuttavia l ’arte non può essere spiegata completamente come una manifestazione di “realtà” sociali e culturali, perché anche questi contesti, in cui emergono e circolano le opere d’arte sono artificiali. Questi ambiti si costituiscono di figure pubbliche che sono a loro volta creazioni artistiche. 10 Si aprono così degli importanti dibattiti sull’arte contemporanea e sul tipo di posizione ed approccio che l’artista, in particolare, debba o possa assumere alla luce di tali configurazioni della società e del mondo. Boris Groys ci apre lo sguardo a tal proposito attraverso delle interpretazioni assai interessanti e da una prospettiva molto ampia, che va oltre il puro campo e sistema artista-opera-mostra pubblico, ma considera in maniera integrata anche la dimensione delle proiezioni sociali e denuncia una forma di impegno ad una forma di dominio pubblico. In presentazione al libro di Groys, “Going Public” 11, si sottolinea come i saggi ivi contenuti producano delle aperture su alcuni punti saldi, tra questi la questione del come collocare in modo produttivo la sfera pubblica e quella privata dell’arte.

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Il passaggio in cui si individua un importante nodo problematico è in particolar modo l’approccio estetico (come tradizione filosofica e disciplina accademia) all’arte e la relativa esperienza estetica, tipico punto di vista dello spettatore-consumatore. I rapporti di produzione e fruizione delle opere sono infatti sensibilmente cambiati anche alla luce della dimensione mediatica di scambi di informazioni, contenuti e relazioni dal web. La riproduzione digitale attraverso i numerosissimi dispositivi a disposizione degli individui, ha decisamente contribuito agli stravolgimenti dei delicati equilibri della disciplina e pratica artistica.

1 | Michel de Certeau, Fabula mistica. La spiritualità religiosa tra il XVI e il XVII secolo, il Mulino, 1987, p. 282. 2 | Michel Maffesoli in Prefazione a “L’invenzione del quotidiano” di M. de Certeau, Edizioni Lavoro, 2001, p.IX. 3 | Ibid, p. XI-XII 4 | Queste teorie si riferiscono all’esperienza e alla riflessione del movimento surrealista, al quale Lefebvre prese parte in gioventù. La trilogia “Critica della vita quotidiana” (1947, 1961, 1981) presenta in maniera approfondita questo pensiero. 5 | Luce Giard, Storia di una ricerca, in “L’invenzione del quotidiano”, M. de Certeau, Edizioni Lavoro, Roma, 2001, p. XXXV.

6 | Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, 2001, p. 17. 7 | Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979. 8 | Michel de Certeau, op. cit., 2001, p. 18. 9 | Bernardo Secchi, In between - Diario di un urbanista, Planum n.3, 2003. 10 | Boris Groys, Going Public, Postemedia books, 2013, p. 13. 11 | Julieta Aranda, Brian Kuan Wood e Anton Vidolke in presentazione in copertina di “Going Public”, di Boris Groys.

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LA NATURA DIALOGICA E RELAZIONALE DELL’ARTE.

Tratti e traiettorie della produzione artistica contemporanea.

METALOGHI SULLE PRATICHE CONTEMPORANEE DELL’ARTE

Un metalogo è una conversazione su un argomento problematico. Questa conversazione dovrebbe essere tale da rendere rilevanti non solo gli interventi dei partecipanti, ma la struttura stessa dell’intero dibattito.1 I metaloghi, nozione peculiare di Gregory Bateson, noto sociologo e psicologo, non si concludono mai con certezze ma lasciano la possibilità di porsi numerose altre domande. È un modo di presentare le idee molto diverso da quello al quale siamo abituati (ipotesi, dimostrazione delle ipotesi e conclusioni), per questa ragione il lettore può rimanere, almeno ad un primo approccio, perplesso. Ma se da un lato Bateson sostiene l’importanza dell’accrescimento della conoscenza fondamentale, dall’altro lato attraverso i metaloghi egli ci fornisce un esempio concreto di cosa significhi avvicinarsi a un problema con un atteggiamento conoscitivo – ecologico per l’appunto – e di come dei dati oggettivi possano essere utilizzati con un intento euristico, piuttosto che con una forzatura atta a incasellare i dati dentro una teoria di riferimento. Nella stragrande maggioranza dei casi critici e filosofi sono restii a fare i conti con le pratiche contemporanee che restano dunque praticamente illeggibili, perché non si può cogliere la loro originalità e importanza analizzandole a partire da problemi risolti o lasciati in sospeso dalle generazioni precedenti. 2 «L’ecologia della mente» – scrive Bateson in apertura del volume – «è una scienza che ancora non esiste come corpus organico di teoria o conoscenza». Ma questa scienza in formazione è nondimeno essenziale. Essa sola permette di capire, ricorrendo alle stesse categorie, questioni come «la simmetria bilaterale di un animale, la disposizione strutturata delle foglie in una pianta, l’amplificazione successiva della corsa agli armamenti, le pratiche del corteggiamento, la natura del gioco, la grammatica di una frase, il mistero dell’evoluzione biologica, e la crisi in cui oggi si trovano i rapporti tra l’uomo e l’ambiente». L’approccio ecologico – unitamente al metodo “metalogico” – viene quindi abbracciato in tale trattazione come possibile atteggiamento conoscitivo e di indagine non solo di tipo olistico ma che possa comportare un rapporto dialogico fecondo anche tra discipline talvolta in contrasto metodologico.

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Gordon Matta-Clark Food restaurant documentary 1972

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Scendendo nello specifico del cuore di ricerca di tale parte di saggio, si vuole affrontare quello che l’autrice ritiene essere un legame vitale che lega e (ri)significa la sfera degli atti alimentari del cibo – da una parte – e la produzione artistica contemporanea – dall’altra. È a partire da una presa di coscienza della natura stessa dell’arte che si rintraccia quell’attitudine appunto relazionale che le appartiene e che consente un rapporto di senso tra i due mondi. Nicolas Bourriaud suggerisce una rinnovata definizione della nozione di “arte” alla luce delle profondazioni trasformazioni del mondo e della società di cui essa ne è interprete e ricevitore: «attività che consiste nel produrre rapporti con il mondo attraverso forme, segni, gesti od oggetti»3 Bourriaud afferma che l’arte è sempre stata relazionale a diversi gradi, cioè fattore di partecipazione sociale e fondatrice di dialogo.4 Essa possiede una caratteristica endemica, un potere di agire da reliance, come suggerisce Michel Maffesoli: «bandiere, sigle, icone e segni producono empatica e condivisione, generano legami».5 Egli prosegue dichiarando che, a differenza della televisione da una parte e della letteratura dall’altra, le quali rimandano ad un consumo privato ed individuale dei loro contenuti e soggetti di comunicazione, l’arte si rivela particolarmente adatta all’espressione della civiltà della prossimità, in quanto «rinserra lo spazio delle relazioni». L’arte è altresì il luogo di produzione di una partecipazione sociale specifica. Come introdotto nella sezione di saggio che precede la presente, esiste un universo di pratiche legate alla vita quotidiana e alle numerose manifestazioni che si mostrano nella città e negli spazi di azione pubblica in generale. L’arte contemporanea instaura un nuovo rapporto con tali atti che possiamo con “sensata audacia” definire performativi nella misura in cui deve necessariamente relazionarsi con la società, la cultura e la storia. Essa accetta nuove sfide, e nuove missioni, rimodellando linguaggi, approcci e forme della produzione e,

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volente o nolente, della comunicazione. Si tratta spesso di produzioni apparentemente sfuggenti, molto poco oggettuali e molto agenti su una dimensione immateriale difficile e problematica che si prende a carico di interpretare ed indagare. Spesso ci troviamo di fronte ad opere che hanno una natura eminentemente processuale e/o comportamentale; performativa è quasi una categoria obsoleta, che non soddisfa più, almeno non completamente, la rappresentazione della ricchezza del rinnovato rapporto del contesto attuale. 6 In riferimento alle teorie di Max Weber sull’importanza che il «nonrazionale» riveste all’interno degli assetti della società postmoderna, e con un’applicazioni di tali direttive alla disciplina e pratica artistica, invece che alla teoria sociologica (campo di riferimento entro il quale egli rivolgeva le suddette tesi), riteniamo che il concetto di comprensivo sia appropriato e confacente anche al profilo dell’arte contemporanea. Cum prehendere, ovvero “prendere assieme”, prendere e includere le specificità del “vivere-con”, del “vivere-insieme”. A tale concetto si relaziona anche la nozione di habitus, teorizzata da San Tommaso d’Aquino – traducendo ciò che Aristotele chiamava exis – indicava il modo di ambientarsi in un luogo e adeguarsi a dei modi di vita. In tale concetto era molto forte il principio generativo di un legante sociale, comunitario, che si fondava sulla sedimentazione delle piccole pratiche della vita quotidiana, questo ne generava il legame sociale. In seguito anche Pierre Bourdieu ci offrì il concetto di “habitus”, inteso però come «principio permanente generativo di improvvisazioni regolate che produce pratiche»7. L’interpretazione che nel presente saggio si intende e presenta ha radici nella prima ma sostiene pienamente la seconda. Bourdieu considera il mondo dell’arte come uno «spazio di relazioni oggettive tra posizioni» 8, ovvero una dimensione definita da rapporti di forza e da lotte, come strategia di preservazione di tale cosmo. Il mondo dell’arte, come ogni altro campo sociale, è per sua natura relazionale in quanto presenta un «sistema di posizioni differenziali» che ne permette la lettura.

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A partire dall’osservazione delle produzioni dell’arte contemporanea più frizzanti e peculiari si registra come l’arte abbia instaurato delle relazioni a sistema con i concetti di interazione, convivialità e relazione.9 Queste le premesse per la nascita, o meglio per l’individuazione, di un nuovo filone di indagine e produzione: l’Arte relazionale. «Un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato».10 La possibilità di un’arte di tal vocazione testimonia un cambiamento radicale rispetto agli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna. L’Arte relazionale si presenta quindi come una fertile forma d’arte contemporanea che vede il suo sviluppo più attorno alla metà degli anni Novanta e che, al centro del suo agire, prevede la partecipazione del pubblico, non più passivo ma coinvolto direttamente e fondante la definizione dell’opera di cui fruisce. Si tratta di un’arte con tratti politici e sociali al cui centro gravita la visione dell’uomo come essere creativo. L’artista relazionale, abbandonando la produzione di oggetti tipicamente estetici, si adopera per concepire dispositivi in grado di attivare la creatività insita nel pubblico, trasformando l’oggetto d’arte in un luogo di dialogo, confronto e, appunto, di relazione. Ciò che sta al centro del nuovo sistema non è più l’opera finale bensì il processo, la convivialità, lo scambio, l’incontro, in una parola un sistema relazionale. Ciò che sensibilmente cambia all’interno del campo artistico è la presa di coscienza delle relazioni che possono instaurarsi e che per natura sociale sussistono tra un ordine di relazioni esogeno ed uno endogeno. Si manifesta, denota ed interiorizza quella vocazione della pratica artistica verso la produzione di rapporti con il mondo. In tali esplorazioni di relazioni esistenti tra uomini, mondo e arte si manifesta l’ordine relazionale e dialettico alla base del riconoscimento del movimento – non riconosciuto – dell’arte relazionale, il quale pone le sue radici e prime manifestazioni già nel Rinascimento. Tale affermazione si basa sulla tendenza, trasversale ad alcune epoche, di molti artisti nel privilegiare l’espressione fisica dell’essere umano nel suo universo, in una forma di antropocentrismo. Tale caratteristica fu ripresa nel tempo solo dal Cubismo con la scelta di analizzare i nostri

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rapporti visivi con il mondo attraverso degli oggetti tipici della vita quotidiana dell’uomo. L’origine dell’approccio relazionale dell’arte si individua quindi nel Rinascimento italiano e da un’universalità di applicazione di tali principi di lettura del mondo si è nel tempo ridotto il campo di osservazione sino ad entrare nel particolare, nei microcosmi del quotidiano. Nel corso della seconda metà del secolo scorso una serie di ricerche ebbe luogo nella pratica artistica e che in primo luogo possono essere associate ai cambiamenti sociali e tecnologici che la rinascita dal secondo dopoguerra stava provocando. La volontà di uscire dalla cornice produsse inequivocabilmente l’uscita dalla disciplina, avvicinando l’arte alla vita. Anche da tale prospettiva emerge un’arte di relazione, transmediale e transdisciplinare, che si muove con naturalezza nei territori limitrofi come quelli del design e dell’architettura, e che si costituisce come parte attiva e dinamica nel rinnovamento della città contemporanea. La messa in atto di strategie atte a garantire un equilibrio politico ed economico globale, le grandi scoperte scientifiche e tecnologiche e il raddoppiarsi in pochi anni della popolazione mondiale permettono di rileggere la storia recente dell’arte secondo una prospettiva che dimostri l’origine e lo sviluppo di nuovi spazi epistemologici e progettuali, nati dal tentativo di interpretare il passaggio epocale da una società industriale a quella postindustriale, e dentro cui oggi si muove il fronte delle arti contemporanee.11 1 | Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, 1977, p. 28. 2 | Boris Groys, Going Public, Postmediabooks, 2013, p. 7. 3 | Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia books, 2010, p. 101. 4 | Ibid, p. 15. 5 | Michel Maffesoli, La contemplazione del mondo, Figure dello stile comunitario, Costa&Nolan, 1994. 6 | Per “attuale” si intendono le circostanze che si manifestano dagli anni

Novanta dello scorso secolo e che ancora sono contemplabili alla luce di un fil rouge di senso che attraversa gli ultimi 3 peculiari decenni di storia. 7 | Pierre Bourdieu, Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina, 2003. 8 | Pierre Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, 1994. 9 | Cfr. Nicolas Bourriaud, Estetica Relazionale, Postemedia books, 2010. 10 | Ibidem. 11 | Cfr. Angela Rui, L’arte che si fa spazio, academia.edu

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EVENTI COLLETTIVI E CIBO.

La manifestazione della componente relazionale del cibo nello spazio urbano.

Eventi e manifestazioni pubbliche collettive sono indiscutibilmente delle occasioni conviviali. Ne esiste un ventaglio molto ampio, con specificità territoriali, settoriali (ne sono un esempio le fiere di settore), tematici o ad una determinata ricorrenza. Al di là delle varie singolarità, una costante di tali eventi risiede sia nel predisporre e proporre un’area “lounge” dedicata ai rituali collettivi. Tra fiere ed esposizioni l’Italia è puntellata di eventi di varia portata ma, senza dubbio, quelle di maggior numero, successo ed affluenza sono di tipo enogastronomico. Tra le manifestazioni specifiche del settore si possono annoverare “Identità Golose”, “Vinitaly”, “Cibus”, “Slow Fish”, “Taste Festival”, “Eurochocolate” e “Salone del Gusto” in particolare. Queste, oltre a far riflettere sull’importanza del cibo e far conoscere le eccellenze della tradizione culinaria italiana, contribuendo anche a diffonderne la conoscenza, dedicano degli spazi importanti ad attività hands-on o di dimostrazione nella quali non c’è solo una trasmissione di conoscenza e informazioni ma anche una forte componente di attivazione di relazioni. Prescindendo dal riferimento diretto al cibo, tutti i grandi eventi collettivi prevedono tali spazi ed attività. Che si tratti di aree di ristorazione interne, di punti di degustazione o di workshop, ci troviamo di fronte a luoghi ed occasioni che aprono alle innumerevoli relazioni che cibo e uomo possono instaurare. Pare non esserci una piena coscienza del bacino di possibile osservazione di tali pratiche intorno agli atti alimentari in contesti collettivi di tal natura. Si ritiene che un approfondimento sul campo potrebbe portare a delle osservazioni interessanti ed utili, soprattutto se si procede anche attraverso una decodifica ed interpreta il sistema semiotico e comunicativo su cui l’evento è costruito e che agisce sulle azioni dei visitatori. Studiare in che modo le relazioni conviviali siano in tali occasioni condotte attraverso una struttura segnica e simbolica potrebbe condurre ad avvincenti indagini e riflessioni. Si tratta comunque di luoghi integrati ad esposizioni di altra natura e fortemente influenzati e regolati da rigide norme di comportamento, igienico-sanitarie e di sicurezza, che di certo non consento un’ampia libertà di azione. Spostando lo sguardo, svincolandoci dagli eventi appena descritti, ci è di particolare interesse osservare e riflettere su quelle occasioni conviviali più aperte in termini di azione dei partecipanti, che

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Diner en blanc Philadelphia

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presentano essenzialmente non una rigida struttura e pianificazione del divenire ma una maglia ampia del possibile all’interno della quale possono dispiegarsi informalità, spontaneità e favorire quindi socialità. Negli ultimi 10 anni sono numerosi i casi che si possono contare di occasioni conviviali nello spazio urbano. Si tratta nella maggior parte dei casi di cene, con modalità, stili e intenti diversi ma che presentano un denominatore comune: la volontà di aggregare un gran numero di persone, cittadini – temporanei o permanenti1 – attorno al cibo, spesso raccolti in lunghe tavolate, in spazi pubblici significativi2 della città. Esiste una buona casistica di questo fenomeno, anche sul territorio nazionale, in particolare a Milano, di cui segnaliamo due esempi emblematici: “cenaconme” e “Cena di tutti”. CENACONME

Il primo caso studio è “Cenaconme”, ovvero le cene a location segreta ideate e organizzate della gallerista Rossana Ciocca. Concepite su modello delle diner en blanc francesi, sono proposte al pubblico delle cene collettive in luoghi della città spettacolari, sulla base di una suggestione culturale sempre diversa e di un dettaglio richiesto ai partecipanti (un cappello, abiti bianchi, o neri, e simili). La location è sempre diversa ed scelta con cura, sono individuati e selezionati quei luoghi della città che, seppur abbiano una natura pubblica, non sono particolarmente valorizzati o sfruttati come spazi collettivi aperti, ma che hanno un potenziale altissimo sia per le caratteristiche fisiche, che simboliche (sono sovente luoghi significativi della città). Gioielli della città, spettacolari culle quasi a configurarsi come teatri urbani, di dominio pubblico ma quotidianamente untouchable per un loro uso collettivo. Insomma si parte da un sogno, da una figurazione, da un’«immagina se qui potessimo realizzare una cena… per centinaia, migliaia di persone, tutti vestiti di bianco…». Ed è così che nella sostanza avviene. Una location speciale viene scelta e non rivelata. L’evento viene pubblicato sulla pagina dedicata su Facebook, su Twitter e Instagram, diffuso anche tramite il passaparola ed altri canali di comunicazione di supporto. Si suggerisce il tema o il dettaglio necessario, il giorno e l’ora. Si definiscono le “regole del gioco”, una serie di indicazioni che sono suggerite e caldamente consigliate, sia in termini di comportamento (di rispetto ecologico) che di attinenza al tema. Per una cena in bianco, per esempio, sono richiesti abiti bianchi, cibo e bevande chiare, tavoli e sedie portati da casa (non

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ci si siede in terra) con corredo anch’esso bianco, rigorosamente non di plastica. A discrezione e piacere di ognuno portare candele, bengala e simili per arricchire l’atmosfera di calore e luce. Poche ore prima dell’orario fissato viene resa nota la location e questa ha sempre un effetto di sorpresa e stupore unici. Moltissimi partecipanti non avrebbero mai pensato né immaginato di poter cenare, per esempio, in Galleria Vittorio Emanuele o alla Rotonda della Besana. Inoltre la componente di temporaneità e rapidità dà una frizzantezza in più all’evento, il quale ha vita solo nell’arco di poche ore, una sorta di flash-mob, elegante e civile, piacevole e impeccabile, che come un evento temporaneo del mondo dell’arte viene installato, realizzato e disallestito. Un’occasione conviviale che partendo da cibo, spazio pubblico e voglia di socialità si realizza in un evento che si configura quasi come una performance collettiva emozionante.

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Camera chiara Giardini Idro Montanelli di “Cena con me” ph. Marta Cutello e Stefano Bolognesi


Di stile molto differente ma con punti di contatto è il secondo caso studio: “Cena di tutti”, un’iniziativa dello studio milanese di design pubblico, “Esterni”. Nato nel 1995, esterni è un progetto sociale e culturale di ampio respiro, un movimento di pensiero che produce critica, idee e avvenimenti, un ideale di partecipazione che accoglie le persone nella loro individualità, un gruppo di lavoro che pensa e agisce per operare un vero cambiamento. L’attività di esterni coinvolge diversi aspetti della cultura, dell’arte e della comunicazione; privilegia la centralità dell’uomo, l’aggregazione e l’utilizzo di spazi pubblici, patrimonio esclusivo della collettività. Sempre più persone condividono il pensiero di esterni e partecipano attivamente alle sue multiformi espressioni ed eventi. All’interno del ricco panorama di progetti elaborati dal collettivo, “Cena di tutti”, evento appartenente al festival di design pubblico del 2007, è un caso veramente interessante. Come già lascia immaginare il nome stesso si trattava di una cena collettiva, attorno alla quale si sono riunite centinaia di persone in una piazza pubblica nel centro di Milano, un’occasione di convivialità pura. L’idea era molto semplice ma forse è proprio per la sua semplicità che ha riscosso un grande successo: riunirsi ad una cena, aperta a tutti, nello spazio pubblico. Preciso, semplice ed efficace. Il contesto milanese con le sue caratteristiche di città metropolitana per molti aspetti individualista e consumista ha di certo favorito l’adesione a tale iniziativa. Sono proprio territori di tale natura che si presentano come i più ricettivi nelle rare occasione di aggregazione, a maggior ragione se parliamo di convivialità. Nella patria dell’aperitivo, non esiste una particolare offerta di eventi collettivi – di grande portata – di tipo enogastronomico, a differenza di ciò che accade per arte e musica, di cui esiste una grande abbondanza, nello spazio pubblico ancora meno. Un tratto interessante, trasversale ai due casi studio qui sopra presentati, è la viralità con cui si diffonde la notizia di tali iniziative, tra persone interessate (nel senso che ne condividono l’interesse, uno specifico, che sia per il cibo o per la socialità) e la stretta relazione tra alcune forme di aggregazione e comunicazione online – social network e in generale sul web 2.0, e offline, negli spazi fisici della città.

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Esterni Cena di tutti Piazzale Cadrona, Milano 2007

1 | Si fa qui riferimento alla differenziazione tra cittadini residenti e quelli che vengono convenzionalmente definiti city-users, ovvero persone che lavorano o studiano in una determinata cittĂ , di cui molti hanno ivi domicilio, 2 | Si intendono qui luoghi che hanno

un valore non nel senso tradizionale, non riconosciuto, ma sentito da coloro che lo vivono, seppur transitoriamente. Luoghi che sono ricchi di caratteri simbolici rispetto all’importanza e valore dello spazio pubblico per la vita quotidiana dell’uomo.

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INSTALLAZIONI TRA ARTE E ARCHITETTURA.

Dopo la seconda Guerra Mondiale la progressiva esigenza di valicare i formalismi sembrava rendere sempre più difficile condurre ad esiti operativi specifici di ogni disciplina. L’esperienza artistica andava assumendo un forte valore esistenziale, principalmente mossa da due obiettivi: da un lato il bisogno di operare un qualche riscatto morale dopo la catastrofe e dall’altro la volontà di appropriarsi di un nuovo futuro positivista, scritto dall’avanzamento tecnologico, scientifico e produttivo, e dal rinnovato clima politico di alleanze globali che mirava al definitivo riassestamento postbellico. 1 La progressiva relazione – e scambio – fra diverse arti e tecniche diventò la modalità incontrastata che si diffuse nel panorama artistico internazionale attraverso il particolare fenomeno dell’Informale, sebbene secondo declinazioni diverse, in Europa diversamente che in USA. Quello che è di fondamentale interesse, è che all’interno del movimento si evidenziano due elementi nodali: innanzitutto l’opera si trasforma progressivamente da oggetto a situazione di relazione con lo spazio; in secondo luogo l’elemento processuale diventa componente essenziale dell’opera. Questi fattori in particolare segnano un chiaro passaggio dall’opera allo spazio e, soprattutto, tendono a indebolire mano a mano molti di quei tratti che tradizionalmente permettevano di tracciare con precisione i contorni tipologici delle diverse arti.2 Mentre oggetti i frammenti della quotidianità, sono fagocitati dal “cannibalismo estetico”3 di Dubuffet, Burri, Pollock, Raushenberg, De Kooning e molti altri, e aboliscono i tradizionali confini tra pittura e scultura, tra opera e spazio, tra arte e vita, va rilevato che la dimensione effusiva verso lo spazio tridimensionale volge, negli anni Cinquanta, verso una visione dell’arte che oltrepassa l’oggetto per tradursi in tensionalità e comportamento4. È questo un passo necessario per determinare come negli anni successivi il vero cardine dell’arte contemporanea sia una presa di posizione che vede un definitivo allontanamento dai propri e canonici linguaggi, per sperimentare oltre se stessa, oltre il suo tradizionale campo d’azione, i linguaggi del reale, di ciò che esiste, del quotidiano. La pratica spaziale diventa fondamentalmente la mèta più vicina e naturale per avvicinarsi all’everyday life e la necessità di partire da un territorio neutro, liberato dalla classicità, conduce sempre più verso l’indagine radicale dello spazio vuoto, in particolare nel passaggio dagli anni Cinquanta agli anni Sessanta. Il rapporto tra arte e vita è sancito nel suo luogo più “reale”,

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Raumlabor das K端chemonument 2006

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“esistenziale”, proprio perché privato di un mezzo oggettuale che li mette in relazione. Ecco quindi che si possono delineare tre punti chiave che chiariscono l’osmosi tra fatto artistico e spazio interno5: lo spazio interno diventa –innanzitutto – il luogo dove esperire l’opera, e – in seconda battuta – lo spazio è esso stesso opera, è l’“oggetto” di cui fruire; infine, lo spazio diventa la “camera” entro cui si assiste alla messa in scena di ciò che esiste, una porta da cui ascoltare il mondo. Le esperienze del vuoto, e del silenzio, portarono ad un avvicinamento ulteriore tra arte e vita, rendendole così prossime da produrre «una sintomatica attrazione delle altre arti verso un nuovo codice espressivo che serviva ad avvicinarsi alla sensibilità dell’uomo contemporaneo». 6 Nel quadro di una realtà profondamente complessa, arte e architettura, sempre più dialetticamente affini, costituiscono un debole sistema connettivo a servizio di società, dettata da interessi, scambi di merci e universi oggettuali che dominano totalmente lo spazio. Dunque dentro alla metropoli biologica architettura e arte diventano delle forme astratte di energia economica e vitale, la cui collaborazione non si attua sulla base di un esperimento d’avanguardia, ma sulle necessità di una società complessivamente d’avanguardia. «L’opera spaziale non ha un significato, ma un orizzonte di senso: una molteplicità definita e indefinita, una gerarchia mutevole, in cui questo o quel senso, attraverso una certa azione, passa per un momento in primo piano.» 7 L’evoluzione della storia dell’architettura ha attraversato una serie di fasi transitorie e di rivoluzione, rintracciabile tra le maglie della sua struttura concettuale: si è passati dal precetto che storicamente definiva l’architettura attraverso parametri fisici di massa e volume, essa venne poi concepita e interpretata negli anni Cinquanta del ‘900 come essenza dello spazio fino all’ipotesi più radicale, qui indagata, che l’architettura possa esistere senza volume. Al riguardo Reyner Banham ipotizza che già gli accampamenti delle popolazioni primitive fossero non-volumetrici. Una riflessione più recente ed illuminante venne dalla lettura di “Learning from Las Vegas”: la città dei casinò, immersa nel deserto, proponeva modalità di definizione non spaziali e non volumetriche attraverso dispositivi comunicativi tendenti alla

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Rafael Lozano-Hemmer Sandbox “Relational Architecture” Glow Festival Santa Monica (USA) 2010 Ph. by Antimodular Research

Rafael Lozano-Hemmer Bodymovies 2001

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bidimensionalità, le insegne luminose. Il testo indicò quindi nuove forme di lettura e di definizione formale della città contemporanea “preconizzando una forma urbana in cui segni e figure avrebbero pesato iconologicamente più dei tracciati e dei volumi, rompendo così la genetica dualità che opponeva il pieno al vuoto, l’emergenza al tessuto”. A partire dall’osservazione dei mutamenti in atto e attraverso l’interazione tra culture e discipline differenti nuove linee di ricerca sono state capaci di creare nuove prospettive. Questa innovativa visione è potuta scaturire dallo statuto disciplinare non afferente alla progettazione e gestione del territorio, bensì grazie al dispiegamento di competenze trasversali all’antropologia, sociologia, fotografia, geografia unitamente alle discipline progettuali e tecniche. Un nuovo sguardo obliquo definiva i fenomeni strutturanti dell’ambiente antropico, collegando territori e obiettivi sociali. L’architettura a zero cubatura nasce come “approccio sistemico” nel 1800 su stimolo delle enormi trasformazioni territoriali permanenti da una parte e delle esposizioni universali, temporanee ed effimere, dall’altra. Nonostante tra le caratteristiche principali che ne definiscono l’identità vi siano l’“inutilità funzionale”, l’attitudine all’ibridazione, la predisposizione ad usi molteplici e la capacità di generare autonomamente spazio, si possono individuare degli esempi di architettura a volume zero nell’antichità: Stonehenge, i portici della Grecia e della Roma antica, i colonnati di S. Pietro, quindi congegno prettamente architettonici per la loro relazione irrinunciabile con il volume principale a cui si accostano. Sulla scorta di tali implicazioni profonde e relazioni di consistenza storico-antropologica, esiste nel panorama attuale, un campo intermedio, ibrido, a cavallo tra arte e architettura ma intermediato dalle contaminazioni che provengono dal mondo del design e dalla pratica dell’installazione. Nel panorama delle pratiche spaziali che si manifestano nella città proteiforme e mutevole8, si osserva un proliferare di interventi temporanei, leggeri, adattabili.

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Raumlabor das K端chemonument 2006

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In relazione anche alle occasioni conviviali che si possono mettere in scena, innescare o favorire, nello spazio aperto e pubblico della città contemporanea si sviluppano una serie di dispositivi che, con caratteristiche proprie, stanno nel campo condiviso tra arte e architettura e attraverso la loro presenza risignificano luoghi e ne innestano pratiche temporanee vitali. A questo territorio d’azione appartengono dei progetti dello scenario attuale di inizio secolo ed in particolare citiamo il Kßchenmonument dello studio Raumlabor di Berlino.

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Raumlabor das K端chemonument 2006

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Raumlabor è già di per sé la dimostrazione di un’avvenuta ibridazione e contaminazione tra discipline del progetto e testimonia che l’approccio trasversale a discipline e mezzi diversi sia il più efficace ed adatto alla realtà quotidiana d’oggi. Si occupa prevalentemente di progetti d’architettura ma la componente sociale e relazionale spicca nettamente se si osservano le peculiarità dei numerosi progetti dello studio. Una straordinaria capacità di comprendere territorio e dinamiche sociali, di interpretare le criticità e di dare concretezza alle potenzialità intrinseche è alla base del loro agire. “Das Küchenmonument” è una scultura mobile ed è trasformabile: composta da una sottile lamiera zincata estende la scultura in uno spazio pubblico attraverso un manto spaziale pneumatico che lo trasforma un luogo in uno spazio collettivo temporaneo e diviene uno strumento per la costruzione di comunità temporanee. Diversi programmi vanno in scena in luoghi diversi. La sua vasta gamma di usi e applicazioni si estende dalla sala per banchetti alla sala conferenze, cinema, sala concerti, sala da ballo, dormitorio, arena di boxe e bagno turco. Un dispositivo urbano che apre un orizzonte nuovo all’architettura e all’istallazione d’arte e che suggerisce prospettive per il design.

1 | Cfr. Angela Rui, L’arte che si fa spazio, academia.edu., p. 2. 2 | La riflessione è tratta dal saggio di Franco Sborghi, L’interrelazione fra le arti nella seconda metà del XX secolo: 1945-1968, pubblicato in “L’arte del XX secolo. 1946-1968. La nascita dell’arte contemporanea”, Skira, 2007, vol.3, p. 342-359. 3 | Il termine fu utilizzato da Yves Michaud per descrivere l’opera di Willem De Kooning nel catalogo della mostra tenutasi al Centre Georges Pompidou, a Parigi nel 1984.

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4 | Angela Rui, L’arte che si fa spazio, academia.edu., p. 3. 5 | Ibid, p. 4. 6 | Ibidem. 7 | Henri Lefebvre, La produzione dello spazio, Mozzi Editore, 1976, vol.1, p. 220. 8 | Si fa qui riferimento ad un passaggio relativo al pensiero di Michel de Certeau, in Paolo Barberi, È successo qualcosa alla città, Donzelli Editore, 2010.


Raumlabor das K端chemonument 2006

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AMBIENTI E DISPOSITIVI TRA ARTE E DESIGN.

Il rapporto che arte e design hanno avuto nella storia è sempre stato osmotico. Non diciamo armonico poiché è innegabile che ci siano stati dei momenti storici, come gli anni Sessanta, che hanno presentato delle visioni e produzioni che erano piuttosto lontane e contrastanti rispetto allo scenario sociale e politico in particolare. Ad esempio la relazione con il mercato e la società dei consumi, ha visto percorrere strade assai differenti, di critica profonda da una parte e di assecondamento e servizio dall’altra. Si potrebbe già fare delle obiezioni all’affermazione che il rapporto tra queste due discipline sia stato sempre di fertile relazione, ma a tal proposito è importante scindere tra l’essenza delle due dottrine attraverso le pratiche e il fronte della critica contemporanea e delle teorizzazioni su esse elaborate. Se dovessimo offrire una prospettiva a partire dalla critica sarebbe come inoltrarsi in un campo di rovi, infinite sarebbero le letture, contrastanti tra loro e che, con schieramenti di parte, offrirebbero delle lance da una disciplina all’altra. Ma ciò non è assolutamente ciò che qui ci interessa. Lo sguardo qui offerto cerca di eludere qualsivoglia teoria ed apre lo sguardo al mondo delle pratiche, che appare, in particolare nel territorio a cavallo tra le due discipline, uno spazio di florida produzione, di particolare interesse e tessuta da fertili peculiarità d’indagine. Premesso ciò, ci inoltreremo di qui in tali interstizi, che si configurano meglio, ad un grado di zoom-in maggiore, come ampi spazi comuni, aperti, di azione – talvolta collettiva e sovente autonoma – tra la disciplina artistica e quella progettuale del design. Ciò che in particolare – nel presente saggio – si ha interesse di rilevare sono quegli aspetti processuali, performativi e interattivi che affiorano dalle opere e dai progetti che si dispiegano e che vengono messi in scena in tale dimensione spaziale. Tali aspetti rivelano solitamente una scelta di un chiaro approccio alla fruizione dell’opera o dell’oggetto, ma ciò non comporta una predeterminazione della dinamica che si svolge durante l’apertura al pubblico, bensì è interessante proprio quella fase di contingenza e di imprevedibilità di reazione nella quale tutto – o quasi – può succedere. Bourriaud a tal proposito afferma che, nella prospettiva di un’estetica relazionale, esiste una continua mediazione tra l’opera, il pubblico e quindi tra l’artista e il pubblico (e di conseguenza sulla base di un rapporto dialogico anche tra l’artista

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Marije Vogelzang Connection Dinner per Droog Design 2006

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e la “sua”1 opera) proprio per l’effetto della componente relazionale dell’opera stessa, la quale ha bisogno di una comunità per svilupparsi, per assumere significato, in altre parole per esistere.2 È importante, al fine di un’interpretazione disincantata e ragionata, comprendere come questo tipo di pratiche non siano ascrivibili all’ambito di un’ “arte sociale”, bensì comprendere che esse mirano alla costruzione formale di spazi-tempo che non rappresentano l’alienazione.3 Piuttosto l’opera e la sfera relazionale che favorisce consentono di risignificare quell’alienazione e di reificarla a segno positivo. L’esposizione non nega dunque i rapporti sociali in vigore, ma li distorce, li proietta in uno spazio-tempo codificato dal sistema dell’arte e dell’artista stesso. 4 Avviene così un sensibile spostamento di focus e di sistema interpretativo a cui non siamo ancora abituati, il centro di un’opera, come ad esempio quelle di Rirkrit Tiravanija, non è la convivialità di per sé ma ciò che dall’opera scaturisce attraverso essa, il prodotto di quella convivialità, e quindi attraverso il sistema di relazioni possibili e concretamente innescate in un hic et nunc che ne determina l’unicità. L’opera o l’oggetto, attraverso un’esposizione che ne consente l’interazione, conduce ad un esito ibrido e fecondo, diviene prodotto collettivo e collaborativo, grazie anche alla natura processuale. Da ciò si producono situazioni aperte e non prevedibili, che divengono esperienze, non come interpretazione estetica tradizionale in cui il visitatore è fruitore e consumatore, bensì perché sono significate dal divenire definito da un vivere-insieme, e con ciò porta inoltre ad una straordinaria stratificazione di senso. Si delinea quindi un orizzonte che parte dall’individuazione di un “territorio comune” tra arte e design, il cui termine di confronto ed affinità risulta proprio essere quell’approccio e vocazione relazionale di cui Bourriaud ci ha suggerito la presenza corposa e reale. Su tale fronte ci interessa nello specifico fare il punto su due produzioni molto diverse che si possono inscrivere a tale campo e che, in rapporto al tema del cibo, si offrono come casi emblematici ed assai interessanti.

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Mischertraxler Reversedvolumes

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Focus 3 | MARTÍ GUIXÉ

“Ho sempre desiderato che le cose continuassero a mantenere la loro funzione, però facendone sparire il corpo. L’occasione di realizzarlo si è creata quando mi hanno affidato la progettazione dell’opening di una mostra d’arte, a Utrecht. Ho utilizzato una macchina agricola di quelle usate per nebulizzare l’acqua, e ho prodotto una sorta di nebbia di gin tonic. La gente entrava in una nuvola e poteva bere senza dover tenere un bicchiere in mano. Non c’era nulla di solido. L’abbiamo chiamato GAT Fog Party.» Egli dà una sua precisa definizione di “Food Design” : Food Design is a discipline which had its first opening in Barcelona in 1997 with Martí Guixé: SPAMT. Food Design makes possible to think in food as an edible designed product, an object that negates any reference to cooking, tradition and gastronomy. Guixé as a Food Designer builds edible products that are ergonomic, functional, communicative, interactive, visionary but radically contemporary and timeless. Tra i suoi progetti di tipo relazionale segnaliamo: I sistemi ambientali: - The Lapin Kulta Solar Kitchen Restaurant , Helsinki - Pharma Food - PFIC BAR, Public Fountain Ice Cube Bar - SPAMT Factory 2.0 - SSK Snack Bar Wall. - Kimchi Bar Mentre tra i progetti più etichettabili come di estetizzazione della materia edibile: - Olive Atomic Snack: - 3D-snack. - I-cakes - Tapas-pasta - Post-it Chip. - Geometric Potatoes

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in basso a sinistra: Martì Guixé i-cakes 2001 Martì Guixé SPAMT Tomato

in basso a destra: Martì Guixé Olive Atomic Snack

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Martì Guixé Solar kitchen Helsinki, 2001

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Martì Guixé Solar kitchen Helsinki, 2001

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Focus 4 | MARIJE VOGELZANG

«It’s all about humans. Food is simply used as a tool to interact, explore, engage and enjoy.» “Sono un po’ stufa di tutta questa storia del design – dichiara Marije Vogelzang – il design non è così importante, in realtà. Mi accorgo di essere sempre meno una designer. Forse è un po’ grossa, ma comincia a interessarmi più la filosofia del design.” Non è un’affermazione che ci si aspetterebbe da Marije Vogelzang, “designer del cibo” fortemente concettuale, famosa per le sue performance di degustazione d’acqua del rubinetto, cottura sul paralume di lampade da scrivania, o in cui i commensali si sporgono su tovaglie di pastella per arrivare alle portate. Ma questa affermazione spiega il cambiamento che abbiamo notato nei recenti progetti della designer. Sta accettando meno incarichi per cene private e si impegna di più in progetti di carattere etico e comunitario: attualmente lavora con un ospedale locale a un progetto per combattere la malnutrizione. Ma forse la trasformazione più importante è il cambiamento dello spazio del suo studio. Già luogo sperimentale per cene concettuali, Proef (cioè “Assaggia”) oggi è un bar-ristorante nascosto, notevolmente diverso dal suo primo, “iperdisegnato” caffè di Rotterdam, dove i commensali sedevano su pezzi unici mangiando con posate e stoviglie a tiratura limitata.5 Prendendo in considerazione il fatto che il cibo è già stato perfettamente progettato dalla natura, Vogelzang sostiene che per essere dei veri progettisti in relazione al cibo bisogna concentrarsi intorno all’atto del mangiare, con rimandi e considerazioni della storia, la preparazione, le sensazioni, la cultura e tutto ciò che verte intorno al cibo attraverso le pratiche umane. L’eating design è infatti la progettazione degli atti alimentari ovvero la progettazione di qualsiasi situazione in cui le persone interagiscono con il cibo. Questa categoria può essere considerata la più complessa perché il progetto in questo caso richiede al designer di tener conto di innumerevoli e variabili aspetti e parametri. Un progetto di eating design considera il cibo e le sue tecniche ovvero gli strumenti e le procedure di produzione, la preparazione, la distribuzione e il consumo; le cerimonie sociali e religiose, le

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In basso: Marije Vogelzang Bits ‘n bytes

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rappresentazioni nell’arte e nell’immaginario collettivo e individuale; il suo mercato ovvero le strategie e i linguaggi del marketing. L’atto del mangiare è costituito da tre elementi fondamentali: una cornice argomentativa, un mangiato e un mangiatore. L’ ambiente ovvero la cornice argomentativa o frame in cui si svolge l’atto che è a un tempo sociale, culturale, fisico ed economico in cui la comunità condivide i propri valori e le proprie aspirazioni. Tali valori vengono messi in scena concretamente attraverso i riti, i costumi, le credenze, gli ideali, le tecniche, le forme e i sapori di ciò che viene mangiato. Gli Atti Alimentari sono dunque il luogo in cui si inverano i valori fondamentali di una epoca e di una cultura tanto che attraverso il loro studio è possibile delineare le caratteristiche di una cultura, ma non è possibile il processo inverso. Questi possono essere trattati come elementi scientifici e di fatto progettati. Gli atti alimentari sono un sistema complesso e ben strutturato: essi possono essere progettati nella loro forma, nella relazione degli elementi che li costituiscono, nella relazione tra gli elementi costituenti e le forme a cui si riferiscono e nella relazione tra gli elementi costituenti e colui che compie l’atto (il mangiatore). La figura più autorevole per l’Eating design è proprio la designer olandese Marije Vogelzang. DI tipo reazionale e di interesse per questo saggio segnaliamo i seguenti progetti: - Sharing Dinner - Bits ‘n bytes - Connection dinner L’uomo è sempre il prodotto dell’ambiente e dell’educazione e ogni molecola di cibo che introduce nel suo corpo porta sempre e inevitabilmente con sé una particella di mondo.6

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Marije Vogelzang Sharing Dinner Tokyo, 2008

1 | Dopo l’interazione con il pubblico l’opera non è più considerabile di puro dominio e autorialità dell’artista poiché essa porterà una traccia, tendenzialmente immateriale, ma talvolta anche fisica, di quella che è stata la relazione e scambio con il pubblico. 2 | Roberto Pinto, “Il dibattito sull’arte degli anni Novanta” in Estetica

relazionale, Nicolas Bourriaud, Postmedia books, 2001, p. 110 3 | Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia books, 2001. p. 80. 4 | Ibidem. 5 | Anna Bates, “Proef Amsterdam by Marije Vogelzang”, Domusweb, 12 luglio 2010 6 | www.intothefood.eu/eating-design

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CIBO&ARTE CONTEMPORANEA.

Dalle esplorazioni oggettuali e materiche alle indagini di interazione e relazione.

Il rapporto tra cibo e arte non è di certo un fatto recente. Da secoli appare in numerose opere, di pittura e scultura, di installazioni e performance, di artisti ed epoche differenti, nelle scene religiose così come nelle nature morte, sullo sfondo oppure in primissimo piano, accessorio o al contrario protagonista. Nell’Arte Medievale e Moderna le vivande apparivano per ciò che erano, anche se talvolta potevano avere dei significati nascosti, misteriosi o al contrario facilmente riconoscibili; il pane ad esempio rimandava all’eucarestia, il melagrana alla fedeltà coniugale, la mela morsicata alla caducità della vita e via discorrendo.

Giuseppe Arcimboldo Aununno anno

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Pieter Bruegel Banchetto nuziale 1568

Giuseppe de Nittis Colazione in giardino 1884

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Georges Braque Natura morta con clarinetto, grappolo d’uva e ventaglio 1911

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Giuseppe Arcimboldo, L’ortolano o Ortaggi in una ciotola (Natura morta reversibile) olio su tavola, Museo Civico di Cremona, “Ala Ponzone”

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Il primo a stravolgere il senso e l’uso comune dei soggetti alimentari è stato senza dubbio Arcimboldo che, già nel Cinquecento, realizzava inconsueti ritratti con frutta e verdura, creando un divertissement unico per la corte asburgica. Nell’Arte Contemporanea il cibo ha iniziato ad assumere un ruolo diverso e a essere usato non più come tale, ma con significati e funzioni altre. Così il “Busto di Donna”, retrospettiva di Salvador Dalì , presenta

René Magritte Ceci n’est pas une pomme, 1964

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Salvador DalĂŹ Buste de femme - retrospective New York MoMA, 1933

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Io sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse, delle insegne luminose a intermittenza, per i biscotti… [Claes Oldenburg]

una baguette come copricapo e come capelli delle pannocchie, mentre René Magritte sconvolse tutte le nostre certezze dicendoci che non sempre una mela disegnata è semplicemente una mela. Tra tutti i movimenti artistici, la Pop Art è di certo quello che ha dedicato un posto di riguardo al cibo; non esiste artista pop che non abbia realizzato almeno un’opera il cui protagonista sia un alimento. Andy Warhol ha creato una serie di litografie che hanno per soggetto alcuni dolci più o meno inventati, con fantasiose ricette per riprodurli, mentre Tom Wesselmann ha inserito un po’ ovunque nei suoi quadri prodotti di grandi marchi americani, veri status symbol della società americana anni Sessanta in particolare. E così in “Still Life #30 del 1963 fanno bella mostra di sé tutti gli alimenti che si possono trovare nella dispensa e nel frigorifero della famiglia perfetta della società

Claes Oldenburg Giant BLT (Bacon, Lettuce and Tomato Sandwich) Vinyl, kapok, and wood painted with acrylic 1963

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Tom Wesselmann Still Life #30 mixed media and collage on board 1962

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consumistica: yogurt, frutta in scatola, cereali da colazione, pane da toast, pancakes. Alcuni oggetti sono dipinti, altri sono stati ritagliati dalla pubblicità e poi incollati sulla superficie pittorica, ma tutto è trattato nella stessa maniera, in modo piatto e artificioso, quasi banale, alla stregua di un advertising. Il vero gastronomo della Pop Art rimane però è Claes Oldenburg, con le sue sculture molli, di vinile imbottito, che riproducono cibi di largo consumo, come gelati, hamburger, patatine fritte e torte. Il suo cibo però non ha un aspetto gradevole e colorato, come le torte di Wayne Thiebaud ad esempio, ma mostra sempre un lato inquietante, che allontana qualsiasi desiderio di mangiarlo. È così in “Floor Cake” , una gigantesca fetta di torta gettata sul pavimento, ma anche in “Dropped Cone” di Colonia del 2001, dove il cono gelato è installato, come fosse conficcato, su uno spigolo di sommità di un palazzo, come fosse appena caduto di mano ad un bambino mastodontico. Se i lavori di Will Cotton rimandano a un universo iper-zuccheroso, dai toni pastello e dalle atmosfere oniriche e fiabesche , diverso è il significato che il cibo assume nelle installazioni di Felix Gonzalez-Torres. Le caramelle e i bastoncini di liquirizia evocano lo spettro della morte e del nulla che rimane dopo il loro consumo, ma sono anche una mera consolazione per coloro che rimangono.

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Claes Oldenburg ice-cream cone

Broodthaers Casseruola di cozze 1964 Tate Modern

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Felix Gonzalez-Torres Untitled - Lover-Boys 1991

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Jennifer Rubell Old-Fashioned 2009

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LA CULTURA DELL’INTERAZIONE

«Utilizzare il mondo permette di creare nuove narrative, mentre la sua contemplazione passiva relega ogni produzione umana allo spettacolo comunitario» Le definizioni un tempo inflessibili di artista, opera e pubblico hanno perso di significato, o meglio, mutato sensibilmente il loro statuto, con le esperienze artistiche contemporanee. Introducendo la componente di partecipazione all’opera, che fosse una semplice osservazione della creazione in atto o che si trattasse di vera interazione tra pubblico, opera ed artista, si dissolsero quelle categorie rigide e precostituite che ne definivano i ruoli. Questi non solo erano definiti ma anche riconoscibili (distinti) e distanti uno dall’altro, sia sul piano temporale sia sul piano spaziale. L’uno – l’artista – era il soggetto attivo, faber, attraverso un atto di creazione, l’altro spettatore, che fruiva dell’opera, passivamente. Accadeva così che non sussisteva mai – e non fosse nemmeno contemplabile – un rapporto di significazione tra pubblico e artista, men che meno tra pubblico ed opera d’arte. Ma l’idea che la ricezione e fruizione dell’opera dovesse richiedere la partecipazione del pubblico, non è un’idea nuova del ventesimo secolo. L’arte tradizionale e l’arte tribale sono in qualche modo considerate forme d’arte partecipativa, nel senso che - alla loro creazione - hanno preso parte molti o tutti i membri della società. Come scrisse l’etnomusicologo Bruno Nett, il gruppo tribale “non ha specializzazione o professionalità, la sua divisione di compiti dipende quasi esclusivamente dal sesso o - occasionalmente - dall’età e soltanto raramente vengono inclusi individui abili in misura distintiva in qualche tecnica… le stesse composizioni musicali sono note a tutti i membri del gruppo e esiste una bassa specializzazione nella composizione, nell’esecuzione o nella creazione degli strumenti musicali” . Ne troviamo delle radici teoriche nell’Ottocento, con Stéphane Mallarmé, nel concetto da lui sviluppato di “arte come processo”, nel quale entrava in gioco un certo grado di mutazione e indefinitezza; questo divenne in seguito un importante riferimento concettuale per le avanguardie.

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Gianni Colombo (Gruppo T) Spazio Elastico 1967

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Più tardi anche il concetto di “opera aperta” , attraverso il quale Umberto Eco ha restituito dignità ai linguaggi delle arti, non solo a quello letterario, mentre intorno a lui erano in fibrillazione le neoavanguardie, fu nozione ampiamente abbracciata ed esplorata da numerosi correnti. «Ascriveremo quindi ad Opera Aperta, in primis, il merito di aver ricondotto una serie di problemi scaturiti dall’esame di arti diverse a un comune interrogativo estetico, che radiografando le modalità della formazione, rappresentazione, comunicazione e fruizione artistica, mette il luce la continuità interattiva fra questi quattro stadi con un’urgenza quasi profetica, sostenuta da una lucida esposizione “scolastica”, in senso medioevale. E questo proprio nel momento in cui l’osabile, in arte, era in via di esaurimento. A distanza di quarant’anni, la furia inventariale di Eco, raffreddata e cristallizzata, fornisce comunque un prezioso bilancio della discussione estetica fino agli anni ’60 del secolo scorso. Costringendoci a scuotere la polvere dai volumi di Diano, Anceschi, Pareyson e Rossi-Landi, a riconsiderare possibilità smarrite ma non perse.» Marcel Duchamp affermava che ogni esperienza estetica assegna un ruolo essenziale allo spettatore, il quale, nel corso dell’osservazione «aggiunge il suo contributo all’atto creativo» . I concetti di interazione, partecipazione e comunicazione furono elementi centrali nell’arte del ventesimo secolo e investono allo stesso tempo il pubblico, l’opera e l’artista. Tali nozioni non furono solo delle coordinate di ricerca e produzione artistica di una determinata fase storica, bensì esse segnano un passaggio storico, rivoluzionario: dall’opera d’arte chiusa all’opera d’arte aperta, dall’oggetto statico al processo dinamico, dalla fruizione contemplativa alla partecipazione attiva. Si tratta di un cambiamento che supera il concetto autoriale esclusivo e introduce all’idea di “paternità distribuita” e collettiva dell’opera.

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Con gli anni 2000, l’ “artista-genio”, di stampo ottocentesco, si evolve profondamente divenendo un iniziatore di processi di scambio comunicativi e spesso anche sociali e politici. In tutti questi “movimenti di apertura” il concetto di interazione svolge un ruolo importante. Tuttavia, il significato del termine “interazione” ha subito una trasformazione continua durante gli anni tra l’avvenimento partecipativo e le azioni di Fluxus degli anni ’50 e dell’inizio degli anni ’60, e l’arte interattiva dei media degli anni ’80 e degli anni ’90. Il mutamento di significato è dovuto probabilmente all’ampio spettro di interpretazione a cui il termine si presta: “interazione” indica infatti sia l’azione sociale correlata, sia la categoria di comunicazione, sia quella uomo-macchina comunemente definita “interattività”. Dagli anni Sessanta agli anni Novanta la nozione sociale di interazione è stata rimpiazzata dalla definizione di “interattività” (interazione uomo-macchina) con maggiore impronta tecnologica e mediale.

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Focus 4 | MARIJE VOGELZANG

Dal “lavoro aperto” di happening e di Fluxus, degli anni ’60, allo “spettatore condizionato” degli anni ’70 I primi passi verso un’attiva partecipazione ed interazione sono stati fatti da John Cage, Allan Kaprow, George Brecht ed altri appartenenti ai movimenti di Fluxus e di Happening negli anni 50 e negli anni 60. Le famose composizioni di John Cage “4’ 33” del 1952 o “Imaginary Landscape n°4” del 1951 possono essere citate come esemplificazione di “lavoro aperto”. Il primo consiste di quattro minuti e trentatre secondi di silenzio, il cui protagonista dipende naturalmente dalle condizioni della sua performance pubblica (rumore fatto dal pubblico e dall’esecutore, rumore di sottofondo, e così via) mentre in “Imaginary Landscape n°4” sono impiegate dodici radio come strumenti musicali. Da notare che ogni opera/prestazione è unica ed irripetibile per il fatto che la scelta delle frequenze varia secondo la data e la località dell’esecuzione. Con i suoi requisiti minimi, Cage intende iniziare un processo creativo individuale e sociale che successivamente si stacca dalle intenzioni del relativo autore. Mentre il silenzio 4’33 intensifica la creatività potenziale della ricezione del pubblico (ma non fa ancora partecipare attivamente gli ascoltatori al processo artistico), “Imaginary Landscape” dà risalto al ruolo non-definito degli esecutori che, tuttavia, rimangono esecutori. Dai tardi anni ‘50 in poi, la forma d’arte di happening ideata da Allan Kaprow fece qualche passo ulteriore rendendo gli spettatori stessi partecipanti, esecutori ed interpreti del processo artistico (ne è un esempio “18 happenings in 6 parti” del 1959). Negli anni ‘70 altri concetti di interattività vennero introdotti in coincidenza col passaggio dall’happening alla performance. Artisti come Dan Graham, Peter Campus e Peter Weilben utilizzarono installazioni a circuito chiuso per far confrontare lo spettatore con la sua stessa immagine mediata, mentre nel “Live-taped Video Corridor” del 1970 di Bruce Nauman gli spettatori si trovano ad essere radicalmente condizionati. Queste installazioni interattive furono le prime ad incontrare il successo nel mondo dell’arte e furono i prodotti di una fondamentale diffidenza verso gli ideali di apertura e partecipazione a cui si anelava negli anni Sessanta, tanto che lo stesso Nauman dichiarò “Io non credo nella partecipazione del pubblico”.

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Fluxus

Allan Kaprow

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Le installazioni a circuito chiuso prodotte negli anni ’70 invece non rappresentarono tanto progetti partecipativi, quanto situazioni che riflettono sul rapporto fra lo spettatore ed il mezzo. Il celebre “Tap and Touch Cinema” del 1968 di Valie Export, che rese l’interattività afferrabile come un’esperienza sensoriale e tattile diretta, si pose in netto contrasto con questa auto-riflessione media-estetica. Per la sua azione di strada, Export si legò al petto una scatola aperta nella parte anteriore ed in quella posteriore, così da consentire ai passanti di far passare le mani sul davanti attraverso una tenda e di toccarle i seni. Questa “installazione mobile” condizionò lo spettatore più drasticamente di quanto non fece il corridoio di Nauman, ed allo stesso tempo mise profondamente in discussione il confine fra pubblico e privato. Negli anni Settanta, un artista come Davis Douglas rappresentò l’opposto dell’esplicito rifiuto di Nauman per la partecipazione del pubblico. I suoi progetti d’arte miravano a creare delle situazioni di comunicazione esplicitamente dialogiche attraverso i nuovi mezzi di telecomunicazione. Con risultati di vasta partecipazione di pubblico, rappresentarono un’eccezione alla regola: i principali progetti di telecomunicazione degli anni 70 e degli anni ‘80 prevedevano la partecipazione degli artisti che li avevano realizzati, ma non di un vasto pubblico. La situazione cominciò a cambiare soltanto negli anni ‘90, quando molte più persone ottennero l’accesso ad Internet. Arte partecipativa, è un’espressione con cui si fa riferimento a quelle forme artistiche dove la presenza dello spettatore diviene di fondamentale importanza per la realizzazione stessa dell’opera d’arte. Questa definizione, coniata da Claire Bishop nel suo libro “Artificial Hells” , comprende diverse pratiche artistiche che spaziano dall’attivismo, alle arti socialmente impegnate e a quelle pubbliche. L’aspetto centrale dell’arte partecipativa è appunto la partecipazione attiva dello spettatore, le opere che ne derivano si possono esprimere all’interno di una forma d’arte specifica come le arti visive, la musica o il teatro. Oppure possono essere interdisciplinari includendo una collaborazione che attraversa diversi ambiti artistici. Ma la caratteristica fondamentale di queste pratiche artistiche è data dall’impatto e dalle conseguenze che si manifestano nella società. L’opera d’arte prodotta può assumere varie forme, per la sua natura

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collaborativa potrebbe essere la realizzazione di un evento, oppure una situazione o una performance piuttosto che la produzione fisica di un oggetto. Le varie interazioni che si manifestano in questi incontri in genere sono documentate attraverso fotografie, video o testi questo per mantenere traccia di opere che hanno la caratteristica di non perdurare nel tempo. L’Arte partecipativa usa dunque un approccio al fare arte che coinvolge direttamente il pubblico nel processo creativo, autorizzandolo a divenire coautore, editor e osservatore dell’opera medesima. Questa forma d’arte risulta incompleta quando non comprenda una interazione fisica degli spettatori. Tra gli obiettivi di tale approccio e corrente c’è la volontà di scardinare quella modalità dominante di fare arte, tipica dell’occidente, per la quale una piccola classe di artisti crea mentre il pubblico recita il ruolo passivo di osservatore o consumatore dell’opera dei professionisti. Alcune opere su commissione, che hanno reso nota l’arte partecipativa, sono il “Teatro dell’oppresso” di Augusto Boal e gli happening di Allan Kaprow. Un lavoro artistico, che sia interattivo e partecipato, può essere definito di arte partecipativa e può anche essere categorizzato con termini quali “Arte relazionale” o “Arte pubblica”, sebbene ognuno di questi abbia dei tratti distintivi specifici ed unici che ne tracciano le differenze. Con l’espressione public art ci si riferisce ad attività di commissione, a pratiche artistiche e a un campo di ricerca che hanno fatto dello spazio pubblico il luogo privilegiato d’intervento. Qui l’arte punta a stabilire una comunicazione diretta tra artista e fruitore al di là di ogni mediazione colta in una prospettiva che allarga insieme scena e pubblico dell’arte. A partire dagli anni ‘70 commissioni di arte pubblica, largamente presenti in Europa e su tutto il territorio degli Stati Uniti, hanno diffusamente portato opere d’arte negli spazi urbani di grandi, medie e piccole città. La public art è divenuta un campo molto vasto che arriva a definire una possibile zona di co-progettazione fra l’arte, l’architettura, l’urban design, il landscape e l’interaction design. Analizzando testi teorici e pratiche artistiche si può ripercorre l’arte pubblica nelle sue tappe storiche e critiche fondamentali: - il monumento come opera astratta collocata nello spazio

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urbano; - il site-specific degli anni ‘60, che ritrova il nesso mancante con il luogo; - le pratiche artistiche che dagli anni ‘80 ad oggi hanno messo al centro il rapporto con il pubblico. Queste si scindono fra ruolo militante dell’artista sul territorio conflittuale delle trasformazioni sociali e utilizzo dell’arte pubblica come motore d’intrattenimento e attrazione economica in grandi progetti di riqualificazione urbana. Riguardo l’origine dell’arte partecipativa Claire Bishop ne riconduce le prime tracce e radici al teatro e alla performance e quindi viene strettamente collegata ai movimenti d’avanguardia, in particolare al Futurismo e al movimento DADA. Le serate futuriste consistevano in veri e propri spettacoli con letture accompagnate da musica il cui fine era suscitare attraverso forti provocazioni una reazione del pubblico tanto violenta da terminare l’esibizione con una rissa. Invece il più importante evento precursore dell’arte partecipativa nello spazio pubblico è la “Stagione Dada” che ha luogo a Parigi nel 1921. L’operazione dadaista «è una sorta di ready-made urbano, il primo intervento artistico nella città che non sia scultoreo o monumentale ma di natura performativa.» Gli esponenti di queste correnti artistiche hanno iniziato a porsi il problema dell’originalità e della paternità dell’opera d’arte contestando anche il ruolo passivo dello spettatore. Intorno agli anni ‘60 gli sconvolgimenti sociali, politici e culturali hanno portato alla formazione di nuove forme artistiche come l’Arte concettuale, Fluxus e il situazionismo. Inoltre lo sviluppo di nuove tecnologie nel campo della comunicazione ha permesso una sempre più interazione fra artista e spettatore ponendo piano piano le due figure sullo stesso piano e eliminando quindi ogni sorta di gerarchia. Il rapporto che si crea tra l’opera e il pubblico è l’elemento centrale di queste pratiche artistiche. Alcune opere d’arte prendono vita anche senza l’intervento diretto dell’artista, coinvolgendo i partecipanti a eseguire una serie di istruzioni. Queste istruzioni possono essere comunicate attraverso diversi media come la fotografia, il video, il testo, la performance, il suono, la scultura e l’installazione.

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L’origine di questo importante processo di decostruzione risale, per Roberta Valtorta, all’idea di ready made di Marcel Duchamp: una scelta radicale con la quale egli afferma l’annullamento di ogni valore assoluto dell’opera, l’indifferenza totale per la qualità formale ed espressiva dell’oggetto artistico, l’inutilità per l’artista di produrre l’oggetto, che altro non è ormai che un oggetto già esistente ‘semplicemente’ prelevato dalla realtà quotidiana, che acquista valore di opera mediante una ironica operazione di decontestualizzazione. Duchamp ha agito vigorosamente anche su altri aspetti dell’operazione artistica, attribuendo valore al comportamento e non più alla produzione, al pensiero e non più all’azione, fino ad annullare ogni sua presenza ufficiale nel mondo dell’arte ritirandosi nel gioco degli scacchi. Ha inoltre messo in evidenza la possibilità di scelte e comportamenti possibili a tutti, facendo coincidere, come Dada voleva, l’arte con la vita dell’artista come di qualunque persona. Per Duchamp insomma, l’arte non va costruita né inventata: l’arte esiste già. Con gli anni ’60 e ’70 tutte le posizioni artistiche – dalla pop art al “concettuale”, dalla land art all’”arte ambientale” in generale, al Nouveau réalisme, dalla body art alle pratiche performative, all’utilizzo del video e della fotografia, dalla narrative art al “minimalismo” – registrano le stesse questioni di fondo: un rapporto con la realtà e con la vita sempre più libero da mediazioni, una radicale messa in discussione del concetto stesso di opera d’arte come prodotto generato unicamente dall’artista, un disinteresse per il risultato finito e infine un forte accento posto sul processo, sulla interazione e sulla mutevolezza. Negli anni Sessanta venne apportata una significativa accelerazione e sperimentazione sul fronte di un’arte interattiva grazie alla nascita di “Fluxus” nel 1961. Gruppo neodadaista, impegnato sui fronti di poesia sperimentale e musica oltre che nelle arti visive, si sviluppa inizialmente proprio da concerti sperimentali portando avanti la corrente internazionale che vedeva l’arte come “evento”, tratto distintivo della produzione e filosofia del gruppo. Gli artisti Fluxus respingono l’idea dell’oggetto d’arte permanente e della figura dell’artista vista come professionista. Vedono l’opera d’arte non come un oggetto finito ma come un’esperienza che prende forma

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in un determinato periodo di tempo fondata sulla performance o su esperimenti teatrali. Si interessano alla potenziale trasformazione dell’arte attraverso la collaborazione e la partecipazione incoraggiando gli spettatori ad interagire e realizzando quindi opere d’arte di libera interpretazione in varie forme che includono performance, pubblicazioni, eventi, e ambienti costruiti per coinvolgere interamente lo spettatore. Queste iniziative hanno la caratteristica del workshop dove l’artista svolge il ruolo di moderatore coinvolgendo il pubblico in discussioni filosofiche sul significato di arte. Le opere spesso assumono la forma di incontri, manifestazioni pubbliche e sculture sociali per cui il significato delle operazioni deriva dall’impegno collettivo dei partecipanti. L’obiettivo comune di Fluxus, happenings e eventi situazionisti è quello di sviluppare una nuova sintesi tra politica e arte, dove l’attivismo politico si intreccia con la pratica artistica di strada eliminando la distinzione fra arte e vita quotidiana. La crisi economica e le questioni politiche degli anni ‘80 sommati agli effetti del capitalismo e al suo impatto sulle strutture comunitarie hanno determinato una crescente consapevolezza sul potere dell’arte pensata come mezzo per affrontare questioni sociali. Da questo scenario si sono formate diverse “Community Art”, istituzioni che considerano l’arte come mezzo per affrontare questioni sociali coinvolgendo individui che spesso son emarginati socialmente ed economicamente dalla società. I progetti che prendono vita nelle “Community Art” in genere sono a livello locale dove la consultazione e la partecipazione sono aspetti fondamentali e imperativi delle iniziative artistiche. Alla fine degli anni ‘90 i concetti di partecipazione si sono estesi a una nuova generazione di artisti identificati sotto il nome di Arte relazionale o Estetica relazionale. Questo termine è stato coniato dal curatore francese Nicolas Bourriaud per descrivere una serie di pratiche artistiche che interessano e intessono una rete di relazioni umane e il contesto sociale in cui si manifestano. L’arte relazionale prende la forma di incontri, momenti ludici, piattaforme di discussione e altri tipi di “eventi sociali”. In questo contesto il punto centrale si focalizza sulla creazione collettiva e contingente dell’opera d’arte. Sempre secondo Bourriaud la generazione di artisti del ventunesimo secolo interpreta la globalizzazione culturale immersa in nuovi modi

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di comunicazione, grazie all’incremento dei viaggi e delle migrazioni culturali che hanno incentivato rapidi mutamenti nello stile di vita. Questo ha dato vita a una dimensione nuova detta “Altermodern” e fa riferimento proprio al fatto di come gli artisti reagiscono alle implicazioni del contesto globale grazie alla rapida accelerazione delle comunicazioni in tempo reale. Questo è il percorso molto importante che la mutevole e multiversa arte contemporanea ha continuato a seguire fino ai giorni nostri, in un arcipelago di procedure, azioni, situazioni, recuperi, luoghi nei quali l’artista risulta figura sempre meno definita, l’opera diventa sempre più mutevole, il pubblico sempre più protagonista e soggetto decisivo – fino alle installazioni interattive di tipo tecnologico, spesso di segno ludico, e alle recenti pratiche artistiche nel web: in questo ambito nascono opere dai margini molto labili, liberamente riproducibili, opere ‘collaborative’, distribuite, aperte alla partecipazione attiva degli utenti, i quali stimolano processi creativi che determinano una nuova “sparizione dell’arte”, che ora si dissolve anche in una dimensione virtuale. Nella nuova configurazione, processuale e partecipata, che l’arte relazionale propone e instaura, il cibo svolge un ruolo molto rilevante. Esso si offre – all’artista e al pubblico – sia come un elemento altamente simbolico ma anche come materializzazione (parziale) di quella sfera relazionale generata dalle opere attivanti e riprogrammanti di quest’arte. Il tema è presentato in maniera più specifica ed approfondita nel capitolo 6.3. Nicolas Bourriaud, Postproduction – come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia books, 2004, p. 45 Nettl, Bruno, Music in Primitive Culture, Cambridge, Harvard 1956, p. 10. Il concetto di “opera aperta” si ritrova, ulteriormente approfondito, nel saggio del 1979 dello stesso Eco, “Il ruolo del lettore”, ma anche dalla distinzione di Roland Barthes tra testi leggibili e

scrivibili, trattati nel saggio del 1967 “La morte dell’autore”. Nel 2000 Umberto Eco pubblica una nuova edizione di “Opera aperta”. In semiotica, un’opera aperta è un testo che permette interpretazioni multiple o mediate dai lettori. Articolo apparso su italialibri.net il 5 agosto 2003, a cura della redazione della piattaforma web. Marcel Duchamp nella sua lecture del

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1957 “The creative Act”. Interaction, Participation, Networking - Art and telecommunication, di Inke Arns, www.medienkustnetz.de. Claire Bishop, Artificial Hells Participatory Art and the Politics of Spectatorship, Verso, 2012. Ibidem. Cfr. Roberta Valtorta, Artista-operapubblico: un processo osmotico, multiversoweb.it


ARTE RELAZIONALE. UN NUOVO FRONTE DI LETTURA E SCRITTURA DELL’ARTE. Coordinate estetiche.

La possibilità di un’arte relazionale (un’arte che assuma come orizzonte teorico la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato) testimonia di un rivolgimento radicale degli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco dall’arte moderna. Decodificando le opere di quella particolare generazione di artisti degli anni Novanta, si individua un comune atteggiamento: tutti operano in seno a ciò che si potrebbe chiamare la sfera relazionale, che sta all’arte di oggi come la produzione di massa stava alla pop art. L’estetica relazionale si pone quindi come un metodo critico per confrontarsi con l’arte di quegli anni. Volendo abbozzarne una sociologia, quest’evoluzione proviene essenzialmente dalla nascita di una cultura urbana mondiale, e dall’estensione di tale modello cittadino alla quasi totalità dei fenomeni culturali. L’ “arte relazionale” ci può sembrare oggi come una faccia di quel poliedrico volume – etereo e simbolico – che l’arte contemporanea costituisce. C’è una parvenza di conoscenza acquisita che ne adombra la novità, non risuona come conquista teorica e concettuale di memorabile rilievo. Invece l’intuizione di Bourriaud è stata rivoluzionaria per il tipo di posizione prospettica attraverso la quale ci ha mostrato la realtà, quel panorama artistico che ci pareva così conosciuto e definito. È necessario indagare le radici e gli sviluppi del fenomeno a cui l’Arte relazionale si riferisce per comprenderne la portata e per dare uno sguardo nuovo agli effetti che la teorizzazione dell’Estetica relazionale ha avuto sull’interpretazione di molte pratiche contemporanee. Quelle pratiche che ci appaiono difficilmente inscrivibili all’interno di categorie acquisite, oramai troppo fumose, poco dinamiche alle variazioni e contingenze che questo mondo fluido comporta.

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Lee Mingwei and His Relations The Legacy and Deviation of Relational Aesthetics in the East

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Ho scritto Estetica Relazionale per trovare un denominatore comune tra gli artisti che frequentavo in quel periodo , da Pierre Hughe a Liam Gillik, Gabriel Orozco o Vanessa Beecroft. Sentivo che c’era qualcosa di nuovo nel loro lavoro, ma nessuno ne aveva scritto, i critici usavano ancora le vecchie categorie come le teorie fluxus o l’appropriazionismo… Allora ho capito: tutte queste opere condividevano come punto di partenza la sfera delle relazioni umane.

Un’osservazione condotta oggi, a posteriori, rispetto alla conquista semantica di “arte relazionale”, la produzione artistica di artisti quali Rirkrit Tiravanija, Daniel Spoerri, Vanessa Beecroft, Georgina Starr, Angela Bullock e molti altri, appare lampante e chiaro, nonostante la profonda diversità di stili, tecniche e ambienti, quel terreno comune fatto di interazione, partecipazione e socialità. È la controprova che Bourriaud ha individuato il fil rouge che legava tutte queste produzioni artistiche, valicando ogni etichetta di stile e scuola. Gli anni Novanta sono a noi molto vicini, quasi troppo, per elaborare attraverso un distanziamento critico, una lettura completa e chiara delle dinamiche e dei nuovi rapporti che si sono riformulati attorno all’opera, in termini di ideazione, elaborazione, presentazione e fruizione a fronte di un profilo nuovo del pubblico. «Solo la fine di un tempo permette di enunciare ciò che l’ha fatto vivere, come se dovesse morire per diventare un libro» . Bourriaud, era forse in una posizione privilegiata proprio per la sua completa immersione – ma allo stesso tempo estraneità – a quella dimensione che stava configurando una sfera di produzione e fruizione, la “sfera relazionale”. Tutte quelle opere così apparentemente lontane condividevano come punto di partenza la sfera – appunto – delle relazioni umane. E il fronte più dinamico e vivace dell’arte contemporanea sembra essere proprio quel territorio in cui «l’arte si svolge in funzione di nozioni interattive, conviviali e relazionali». E questo profondo mutamento rispetto ai rapporti estetici, culturali e politici della pratica artistica pare collegarsi strettamente con le trasformazioni urbane e sociali in atto, a quella nascita e sviluppo di una cultura urbana mondiale, globale, a quell’urbanizzazione generalizzata che dal secondo dopoguerra «ha permesso una straordinaria crescita degli scambi sociali, così come un’accresciuta mobilità degli individui». Si parla infatti di una crescente urbanizzazione dell’esperienza artistica. I rapporti di senso che costituiscono la trama di tale complessità, paiono evidenziare proprio come siano vive, fertili e fondamentali le relazioni che, come arterie umane, collegano l’arte con la vita quotidiana e questa con la città, in un sistema arte-uomo-città, basato su scambi osmotici, su flussi enzimatici , che alimentano le parti, che le rendono interdipendenti ma straordinariamente ricche e vitali, così visceralmente vicine alla vita dell’uomo e alla sua esperienza del mondo.

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Lygia-Clark Nostalgia do corpo objetosrelacionais 1968-1988

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La città ha permesso e amplificato l’esperienza della prossimità, una forma di incontro intensivo che, nel tempo, ha finito per produrre «pratiche artistiche corrispondenti, cioè una forma d’arte la cui intersoggettività forma il substrato e che assume come tema centrale l’essere-insieme, l’incontro fra osservatore e quadro, l’elaborazione collettiva del senso». E l’arte di riflesso esprime la civiltà della prossimità poiché rinserra lo spazio delle relazioni. Questo è lo scarto di senso e valore che la differenzia con sostanza da ciò che televisione ma anche letteratura fanno, i quali rimandano al proprio spazio privato e personale, e a teatro e cinema che seppur radunino e creino delle piccole comunità elettive, pongono di fronte immagini che non possono essere veramente vissute – in un hinc et nunc fondamentale per l’oggi – e discusse nella contingenza. Il fattore temporale è un altro tratto rilevante che l’arte relazionale porta in primo piano. Un progressivo interesse per gli aspetti temporali sottende l’importanza della contingenza dell’accadere nel dispiegamento dell’opera evento, che, presentandosi come «una durata da sperimentare» , si fonda sulla possibilità e sulle situazioni del possibile. E in tali nuovi circostanze, egli evidenzia il verificarsi di una mediazione continua tra operapubblico-artista, come effetto del carattere relazionale di cui l’opera stessa è dotata: Il suo fine non è la convivialità ma il prodotto di quella convivialità, cioè una forma complessa che unisce una struttura formale, gli oggetti messi a disposizione del visitatore e l’immagine effimera nata dal comportamento collettivo. In un qualche modo il valore d’uso della convivialità si mescola con il suo valore d’esposizione, in seno a un progetto plastico. Non si tratta di rappresentare mondi innocenti, ma di produrne le condizioni. Come evidenzia Roberto Pinto, in chiusura e commento ad Estetica relazionale, «condividere il cibo con gli altri, come fa Rirkrit Tiravanija, può entrare nella sfera estetica solo se si sposta l’attenzione dall’oggetto finito al processo e al meccanismo di socialità che ne scaturisce». L’arte è – quindi – il luogo della produzione di una partecipazione specifica , l’opera si configura come prodotto collettivo e collaborativo, il quale si basa su relazioni e convivialità attraverso un processo di partecipazione, mediazione e socialità diviene un evento/opera, un’esperienza condivisa che, infine, genera comunità.

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Daniel Spoerri

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Il coinvolgimento della sfera relazionale comporta anche delle coscienti ricadute politiche, di cui quest’arte si fa carico e manifesta, «l’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza di investire la sfera relazionale problematizzandola» . L’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale […] l’interstizio è uno spazio di relazioni umane che, pur inserndosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetta quelle in vigore nel sistema stesso. È proprio questa la vocazione e natura dell’arte contemporanea, o meglio, dell’esposizione di tale arte nel campo dei commerci delle rappresentazioni: si manifesta e rappresenta attraverso la creazione di spazi liberi attraverso un ritmo alternativo a quello impostoci nella vita quotidiana dalla struttura sociale e favorisce scambi interpersonali differenti dagli spazi e contenuti di comunicazione che ci vengono prescritti. «Il contesto sociale attuale limita le possibilità di relazioni interpersonali quanto più crea spazi a ciò deputati.» L’arte attuale instaura una serie di relazioni anche esterna al proprio campo e «mostra che non v’è forma se non nell’incontro, nella relazione dinamica che intrattiene una posizione artistica con altre formazioni, artistiche o meno.» Nel confronto con un materialismo dell’incontro, teorizzato da Louis Althusser si comprende che «l’essenza dell’umanità è puramente tarns-individuale, costituita da legami che uniscono gli individui tra loro in forme sociali che sono sempre storiche». «L’arte fa tenere insieme momenti di soggettività legate a esperienze singolari» poiché – affermava Karl Marx – «l’essenza umana è l’insieme dei rapporti sociali». Quindi la forma dell’opera contemporanea si estende al di là della sua forma materiale: è un elemento legante, un principio di agglutinazione dinamico». Lo spazio in cui le opere si dispiegano è interamente quello dell’interazione, dell’apertura che inaugura ogni dialogo. Ciò che esse producono sono spazi-tempo relazionali, esperienze interpersonali che tentano di liberarsi dalle costrizioni dell’ideologia della comunicazione di massa; in qualche modo, producono luoghi in cui si elaborano modelli di partecipazione sociale alternativa, modelli critici, momenti di convivialità costruita.

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Vanessa Beecroft VB52 2003/4

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Alla luce di tali caratteristiche l’arte relazionale comprende e si manifesta nella sua pienezza anche in quelle forme di convivialità innescata, come nelle opere, proto-performative, di Rirktit Tiravanija, come esempio emblematico, attraverso degli atti alimetari che riportano a scene del quotidiano e che innescano una convivialità che non diventa il centro o il fine dell’opera stessa bensì è ciò che genera che diviene il fulcro di riflessione della pratica artistica. Sono esplorazioni di schemi relazionali che costituiscono microterritori relazionali intrusi nello spesso del socius contemporaneo. Emile Durkheim suggerisce infatti di considerare i “fatti sociali” come “cose” poiché la “cosa” artistica talvolta didà come “fatto” (o insieme di fatti) che si producono nel tempo o nello spazio senza che la sua unità sia messa in questione. La spiccata immaterialità di tali produzioni artistiche contemporanea non è da interpretarsi come un’operazione concettuale eterea e incostistente, né un rifiuto manierista verso un materialismo arido. Lo scopo, la missione relazionale, è quella di esposizione ed analisi di processi che conducono agli oggetti e al senso, intendendo l’oggetto come un esito di arricchimento sociale e relazionale ottenuto dopo l’esposizione, che, come avviene per le performance, che solitamente non portano traccia del loro svolgimento, si tratta di una presa di posizione e valorizzazione verso la contingenza, verso l’importanza di essere e vivere quel momento e quella sfera relazionale unica. Quello del “relazionale” si configura con chiarezza ma ancora non esiste, secondo l’autrice, una formula che ne rappresenti a pieno la ricchezza sia teorica che pratica ed i valori ad essa connessi. L’arte reazionale ha in parte ha le caratteristiche di “movimento” e in parte si configura come una “comunità elettiva”. Così come avviene nelle trame sociali, forse ha senso parlare di “elective community of relational artists”. Sarà impegno e interesse dell’autrice sviluppare nel tempo una definizione che ne racchiuda con più completezza i connotati relazionali.

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Marco Vaglieri

Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia books, 2010, p. 14. Ibid, p.109. Ibidem. Fa qui riferimento all’anno 1995. Anthony Gardener e Daniel Palmer, “Nicolas Bourriaud Interviewed”, Broadsheet 34.3, settembre-ottobre 2005, p.166-167. Michel de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni lavoro, 2001. Anthony Gardner e Daniel Palmer, “Nicolas Bourriaud Interviewed”, Broadsheet 34.3, Sept-Oct 2005, pp. 166-7. Nicolas Bourriaud, Estetica relazionale, Postmedia books, 2010, p. 8. Ibid, 14.

Andrea Branzi, Nuova Carta di Atene, 2010. Nicolas Bourriaud, op. cit., p. 14. Ibidem. È sottinteso: dell’opera. Nicolas Bourriaud, op. cit., p. 80. Roberto Pinto, “Il dibattito sull’arte degli anni Novanta”, in Estetica relazionale, di N. Bourriaud, Postmedia books, 2010, p. 109. Nicolas Bourriaud, op. cit., p. 15. Ibid, 16. Ibid, 15. Ibidem. Si fa qui riferimento al pensiero di Gilles Deleuze e Felix Guattari. Nicolas Bourriaud, op. cit., p.46. Ibid, 33.

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COME IL CIBO RIPROGRAMMA L’ARTE E IL SUO UNIVERSO SEMIOTICO.

Ricerca di una [nuova] forma alle relazioni conviviali.

All’interno dello scenario dell’Arte relazionale, l’interazione è un ingrediente fondamentale, poiché permette la realizzazione piena del concetto di partecipazione all’opera, non tanto come una messinscena precostituita ma come vera costruzione di un’opera in divenire di cui la componente spaziale e temporale, una volta elemento di separazione netta tra i mondi di artista e pubblico, di produzione e fruizione, diviene centrale e fondamentale manifestandosi in un hic et nunc, in parallelo a un cum-. L’opera relazionale assume senso se e solo se vi è un coinvolgimento attivo del pubblico, che da spettatore-fruitore diviene attore ed autore di un processo aperto e disponibile assieme alle altre figure presenti. Tra gli elementi che gli artisti della generazione relazionale, attivi soprattutto negli anni ‘90, ma ancor oggi, il cibo si pone tra uno dei mezzi privilegiati per innescare tali processi generativi d’arte. Il cibo permette una riprogrammazione del mondo attraverso la produzione artistica relazionale nei termini in cui esso innesca una condivisione primordiale, un’appartenenza non solo simbolica ma anche fisica all’opera/evento e una materializzazione della relazione. Esso permette anche una messa alla prova e scardinamento delle forme accademiche tradizionali di produzione e di fruizione. Diventa una partecipazione empirica ed endemica. Il concetto di nomadismo e di mobilità che sta alla base del lavoro di Rirkrit Tiravanija, si traduce materialmente anche nel fatto fisico e concreto che ogni persona del pubblico che ha partecipato ad una sua opera/evento, porta con sé non solo l’esperienza relazionale e comunitaria dell’opera ma anche una testimonianza fisica: porta nel suo corpo una parte dell’opera stessa, il cibo condiviso.

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Rafael Lozano-Hemmer Bodymovies 2001

Rirkrit Tiravanija

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Il cibo, attraverso le sue numerose valenze – nutritive, conviviali, simboliche, culturali – costruisce un orizzonte di senso e allo stesso tempo determina uno “spazio personale” di relazione. Il termine, coniato da Edward T. Hall nella teoria prossemica, definisce quello spazio sociale che si presenta tra individui a seconda del rapporto di conoscenza e relazione che esiste fra i soggetti. Nel contesto specifico dell’arte relazionale, secondo il pensiero dell’autrice del presente saggio, il cibo definisce un rapporto di prossemica tra esso e chi ne fruisce e tra le persone che mangiano, soprattutto se la consumazione è basata sulla condivisione del cibo. Alla dimensione relazionale della sfera sociale innescata dall’opera e dalla partecipazione del pubblico alla sua costruzione, si somma – dunque – anche una di tipo prossemico. Un terzo grado di valore scaturisce inoltre dalla componente semiotica e simbolica che il cibo porta con sé e comunica. Già il processo di crescita e coltivazione, nel caso di elementi vegetali, o di preparazione, se si tratta di alimenti manipolati/prodotti, definisce un primo grado di valore, memoria e quindi significato. Un secondo livello sta invece su un piano simbolico-culturale: forma, consistenza, odori, sapori, dimensioni, suggeriscono una serie di segni che vengono interpretati dall’uomo, sia come individuo, portatore di una sua cultura e sistema interpretativo del mondo, sia come comunità, temporanea o consolidata, elettiva o territoriale, che interpreta quell’universo semiotico da esso generato anche sulla scorta del proprio background culturale, delle proprie radici. A questo si sovrappone un layer di tipo nutrizionale, di caratteristiche fisico-chimiche che il cibo possiede e che comportano degli effetti precisi e multiformi sul corpo dell’uomo attraverso il sistema digerente. Una forma molto intima di partecipazione e di mobilità, di eterotopia che il cibo consente di realizzare attraverso la condivisione e assunzione. Il cibo realizza una sorta di volumizzazione della sfera relazionale, una sua manifestazione tangibile, che sta a cavallo tra una dimensione immateriale, fatta di valori, sensazioni ed emozioni ed una materiale, fisica, empirica, viscerale ed intima. Un processo esso stesso che da materia edibile si fa relazione, spazio, comunità, corpo. Il cibo riprogramma quindi sia le relazioni sociali che lo spazio e produzione dell’arte. Oggi la mostra d’arte, che ha sensibilmente

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cambiato i suoi connotati e la sua vocazione, la sua funzione e il suo ruolo comunicativo, non è più (solo) il risultato finale di un processo ma si configura come un luogo di produzione. Se per gli artisti concettuali era il luogo in sé e di sé, per gli artisti relazionali diviene uno dei tanti luoghi di produzione. Assistiamo quindi ad un cambio di rotta evidente, da esposizione passiva si passa ad una produzione partecipata dell’arte, in cui l’artista mette a disposizione degli strumenti ad un pubblico che sarà invitato a partecipare e produrre collettivamente, attraverso un processo che non è solo di produzione materiale ma lo è soprattutto immateriale, valoriale ed esperienziale. Il luogo d’esposizione diviene così spazio della coabitazione, un teatro di relazioni e convivialità. Avviene una produzione di modelli relazionali attraverso l’uso o il riuso di opere o strutture formali pre-esistenti, i prodotti culturali e le opere d’arte appaiono come un livello autonomo che fornisce strumenti di connessione tra gli individui. Si attua una riprogrammazione del mondo attraverso un lavoro sulle narrative, sugli scenari immateriali che lo strutturano e che determinano, o comunque determinano sensibilmente, i nostri modi di consumo e fruizione. «Siamo tutti vittime dello stesso scenario del tardo capitalismo. Alcuni artisti manipolano le tecniche di previsione in modo da esporre le motivazioni.» Con l’affermazione della cultura dell’attività nasce il riconoscimento da parte degli artisti appartenenti a quel filone dell’arte della postproduzione, della presenza in ogni prodotto culturale e nell’ambiente quotidiano di narrative “dominanti”che si materializzano negli oggetti di consumo e che «riproducono degli scenari comunitari impliciti che inducono certi comportamenti, promuovono valori collettivi e varie visioni del mondo.» Si producono così delle narrative alternative a quelle dominanti implicite e devianti. Il socius, ovvero l’insieme dei canali che distribuiscono e producono l’informazione, diviene il vero luogo espositivo per gli artisti relazionali. «L’arte contemporanea è come una consolle di montaggio alternativa che turba le forme sociali, le riorganizza e le inserisce in scenari originali.»

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Focus 5 | RIRKRIT TIRAVANIJA

Rirkrit Tiravanija, noto artista di origini thailandesi ma dai caratteri di cittadino del modo, figlio del puro nomadismo contemporaneo, è uno dei maggiori esponenti dell’“Arte relazionale”. Noto per trasformare gallerie e musei in salotti e cucine, non di rado mettendosi lui stesso a preparare zuppe e crêpes, propone un’arte che pone l’accento sull’interazione tra i suoi fruitori più che sulla realizzazione di un prodotto vendibile nelle gallerie, e che trova nel cibo e nell’agricoltura gli strumenti d’elezione per portare gli individui in contatto l’uno con l’altro. Nel pensiero e produzione dell’artista la gente è assolutamente al centro dell’opera, gli spettatori sono invitati ad avvicinarsi alla scena dell’opera e a servirsene. “Lots of people” è quel pubblico partecipante che è presente addirittura nei titoli delle opere che Tiravanija sceglie per le sue opere in una nuova forma di Gesamtkunstwerk. Se l’opera è intesa come luogo della negoziazione tra realtà e finzione, lo spettatore delle sue opere distingue con difficoltà i due mondi. Ma ne appartiene. Il senso dell’esposizione viene costituito dall’uso che ne fa la gente. Questo è un nodo centrale, la chiave interpretativa per comprenderne a fondo la portata innovativa della produzione peculiare di Tiravanija. E l’opera, così concepita, fornisce una chiave narrativa una struttura dalla quale si forma una realtà tangibile. Le mostre proposte dall’artista thailandese hanno sempre le caratteristiche dell’interazione e della partecipazione, in cui i processi di costruzione di senso, dell’opera e della vita del pubblico partecipante viaggiano in parallelo e si costituiscono uno a partire dall’altro in un intreccio vitale. Egli inventa collegamenti inediti tra l’attività artistica e l’insieme delle attività dell’uomo, costruendo uno spazio narrativo che cattura finalità e strutture del quotidiano in una forma-scenario. È interessante osservare quale sia sempre il delicato equilibrio che Tiravanija instaura con il pubblico e con l’opera. Se talvolta è un attore attivo, favorendo atteggiamenti, talaltra rimane passivo, osservatore delle improvvisazioni aperte che la gente dispiega. Ha la straordinaria capacità di produrre modi sociali parzialmente imprevedibili, poiché lasciando ampia libertà di azione egli mantiene sempre le redini della situazione.

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I am interested in time I am interested in time between spaces I am interested in time and spaces between things I am interested in time between spaces and things and people I am interested in time between people I am interested in spaces between people I am interested in contingencies between people and place I am interested in places where people can relate to each other despite their differences I am interested in differences between people and how they relate I am interested in sidewalks, which are full of people walking in different directions I am interested in stalls, which appear and disappear on the sidewalks, which are full of people walking I am interested in people gathering on street corners buying and eating Nathan’s hot dogs and pretzels I am interested in the disruption of routines I am interested in the appearance of variables that disrupt routines I am interested in the suspension of time by the disruption of routines I am interested in the idea of a flash mob I am interested in detours I am interested in detours that lead to new routes I am interested in no destination I am interested in constructing new destinations I am interested in “a moment of life concretely and deliberately constructed by the collective organization of a unitary ambience and a game of events” (Internationale Situationniste, no. 1) I am interested in the construction of a situation that does not necessarily amount to very much I am interested in the critique of capitalist urbanism I am interested in the idea that “urbanism is the most fully developed form of the concrete realization of a nightmare” (Raoul Vaneigem) I am interested in constructing a condition in which people find themselves implicated I am interested in constructing situations where people come together I am interested in food that makes people warm in their bellies I am interested in slowness I am interested in the idea of incorporating the passing of time into the work of art I am interested in Cedric Price’s Fun Palace I am interested in Claes Oldenburg’s proposed Colossal Monument of Concrete Inscribed with the Names of War Heroes, which was to be realized at 57th Street and Fifth Avenue in New York I am interested in the Peace Tower erected by Mark di Suvero, Arnold Mesches, and Irving Petlin against the Vietnam War in 1966 I am interested in the potentiality of a terrain that is located in the exchanges between the urban fabric, its users, and the wider context, and in the constant reformulation of this relation of exchange I am interested in pulling the rug out from under the situation I am interested in the idea of the potentiality to not do —Rirkrit Tiravanija

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Un altro tratto fondamentale della sua arte è sicuramente quella traccia del suo passato e del suo presente, come uomo di mondo, che è stato in contatto con numerosissime culture di luoghi molto molto lontani tra loro non solo geograficamente ma anche e soprattutto culturalmente. Tiravanija ci offre le forme del suo passato e i suoi strumenti e trasforma con essi gli spazi nei quali espone in luoghi accessibili a chiunque. Emblematica fu la sua prima personale a New York, nella quale invitò dei senzatetto a mangiare in galleria, dimostrando non solo i principi cardine del suo agire ma anche rivelando quell’attitudine alla generosità tipica tailandese. «È attraverso la problematica del viaggio che si intravede il suo universo formale». Ne sono esempio “On the road with Jiew, Jeaw, jieb, Sri e Moo” del 1998 e il “Reharsal Studio n.6”. Il primo, fu un viaggio da Loas Angeles a Philadelphia, dove ebbe luogo la mostra, che intraprese assieme a cinque giovani studenti e che documentò con foto, video e un diario, i quali costituirono il materiale centrale dell’esposizione a Philadelphia. Il secondo la riproposizione dei Context Studio di New York al Whitney Museum, ricostruendo delle strutture architettoniche che ha visitato, «come un emigrante che fa l’inventario dei luoghi che ha lasciato». Indaga, propone e contestualizza sempre le sue opere in spazi pubblici, gli spazi quotidiani di un viaggiatore, di un nomade contemporaneo. Nelle opere di Tiravanija c’è sempre una forte presenza delle componenti di mobilità e di precarietà. Non solo poiché realizza piccoli accampamenti, bivacchi o tragitti ma anche perché per l’artista niente è duraturo, tutto è in movimento, gli incontri sono più importanti dei singoli individui che li generano e il tragitto è più importante dei luoghi che connette. Egli consente di creare delle comunità temporanee che si organizzano e materializzano in strutture e divengono attrattori di comunità. Si verifica così, secondo il pensiero dell’autrice, una “volumizzazione dello spazio relazionale” grazie all’opera che ne innesca le speciali relazioni. Un altro esempio progettuale che vogliamo presentare dell’artista tailandese è “The Land”, lo facciamo attraverso le sue preziose ed eloquenti parole: «“The Land” è un fazzoletto di terra situato vicino a Chiang Mai, in Tailandia, dove chiunque può recarsi per coltivare riso e relazionarsi

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Rirkrit Tiravanija Art Basel

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con gli altri ospiti della struttura, spesso artisti, per mettere a punto nuove idee e pratiche di interazione con la società e con il prossimo. Un luogo dove sperimentare l’autosostenibilità e imparare che è possibile vivere con meno, facendo meno». Tiravanija è fondatore insieme al connazionale Kamin Lertchaiprasert di questo progetto agricolo nato dall’arte, nel 1998. In esso vi sono tutti gli ingredienti di quell’“arte relazionale” di cui Tiravanija è considerato uno dei maggiori esponenti del mondo e che trova nel cibo e nell’agricoltura degli strumenti enabling per stimolare e favorire l’incontro e le relazioni sociali tra gli individui che frequentano quel dato luogo. «Non è un museo, un parco di sculture, un oggetto, una proprietà. Non può essere trasportato, non può essere venduto. Non è nemmeno un luogo, ma è aperto a tutti. “The Land” è una condizione di vita: una piazza di scambio, un’alternativa, un luogo dove pensare fuori dagli schemi» – prosegue l’artista – che intende sottolineare l’impronta autoctona del progetto, che rifugge ogni definizione e non si pone obiettivi numerici, in linea col principio buddista che libera l’uomo dall’obbligo, tipicamente occidentale, di essere necessariamente produttivo e sviluppare al massimo il proprio potenziale. «The Land è libero dall’obbligo di “funzionare”, di essere giusto o sbagliato. È come un albero che cresce in un campo. La sua “utilità” non può essere misurata, ma tutti noi sappiamo che in sua assenza non potremmo ripararci dalla pioggia e dal sole, né nutrirci dei suoi frutti» . Parlando del futuro egli afferma infine: «intendo respirare a polmoni aperti, vivere in libertà. E fare meno per ottenere di più. Vivere, non produrre, è ciò che veramente conta» . Per tutte queste ragione Tiravanija si conferma un artista molto profondo, che si identifica in un campo peculiare, ai limiti tra arte e filosofia, tra sociologia e progetto del di paesaggio. Un artista che incarna i tratti più identitari dell’arte relazionale e del nomadismo contemporaneo.

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Rirkrit Tiravanija Untitled The Mgnificent Seven-spaghetti western 2001

Edward T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, 1966. Cfr. Nicolas Bourriaud, Postproduction, Postmedia books, 2004. Liam Gillick, Should the future help the past?, in cat. “Dominique GonzalezFœrster, Pierre Huyghe, Philippe Parreno, Parigi, 1998. Nicolas Bourriaud, Postproduction, Postmedia books, 2004, p. 44. Ibid, p. 68. Nicolas Bourriaud, op. cit., p. 46 Ibid, p.47. Intervista rilasciata per la rivista web “L’Uomo Vogue”, novembre 2013, n.445. Ibidem. Ibidem. Ibidem.

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MANUFATTI RELAZIONALI DELL’AMBIENTE CUCINA di Paola Sprovieri


ECOSISTEMA GASTRONOMICO

Cibo e lavoro. I figuli e la ceramica nel Mezzogiorno Dai campi alla tavola Creatività, forma, funzione

IL PROGETTO

Reinterpretazione e realizzazione di oggetti della tradizione lucana propri della dimensione conviviale: A’iasca U’vac’lott


L’ECOSISTEMA GASTRONOMICO

caratteri antropologici, sociologici e semantici dei rituali domestici attorno al cibo.

CIBO E LAVORO

Esiste da sempre una strettissima connessione tra cibo e lavoro: senza l’uno non ci sarebbe l’altro e ciò ha influenzato intere generazioni fino a pochi decenni fa. Lavorare per nutrirsi e nutrirsi per lavorare, oltre che per sopravvivere semplicemente. Decine di migliaia di bambini e bambine, da subito giovani adulti si scontravano con questi concetti dalla durezza disarmante. Solo cercando di immedesimarsi nei bisogni e nei limiti di una delle numerose famiglie contadine vissute fino ai primi anni Cinquanta del secolo scorso, si può comprendere quanto fosse importante il semplice atto del “mangiare e del bere”. Istruirsi era un bisogno meno che secondario: lavorare, sfamarsi, vestirsi, tutto qui. All’età di cinque anni molti bambini come anche mio nonno dovette fare, badavano ai maiali o ad altri tipi di bestiame- un lavoro da “uomini”; mia nonna invece, imparò da piccolissima a fare il pane, i taralli, la pasta e molto altro in cucina oltre a raccogliere il tabacco e a farlo essiccare. Frammenti di ricordi raccontati con voci piene di orgoglio e sofferenza, quella dello stomaco vuoto. “Nel 1954 l’Italia era ancora un paese dove le sacche di povertà erano molto elevate, soprattutto nel Mezzogiorno. Secondo l’inchiesta parlamentare sulla miseria del 1951, una fetta consistente della popolazione, soprattutto rurale, viveva ancora prevalentemente di autoconsumo e i bassi redditi impedivano alle classi lavoratrici di superare la soglia della mera sopravvivenza, con un accesso al mercato ristretto essenzialmente ai generi alimentari e al vestiario; i generi voluttuari si riducevano a qualche svago (in genere cinema e stadio), al tabacco e al caffè. Il prodotto interno lordo però era già in netta ascesa e solo quattro anni dopo l’Italia si sarebbe trovata in pieno boom economico. Anche gli italiani poterono così accedere ai consumi di massa: insieme ai frigoriferi, alle automobili, ai televisori, alle lavatrici, ai prodotti di moplen (la plastica italiana) cominciò a essere garantito un accesso ai consumi alimentari meno precario e qualitativamente superiore. Ricerche recenti hanno rivelato che il consumo di calorie procapite degli italiani raggiunse nel 1968 le 3000, ritenute dalla Fao la soglia del benessere alimentare, anche se già verso la fine degli anni cinquanta le abitudini alimentari avevano subìto trasformazioni che denotavano un crescente benessere e una profonda trasformazione del rapporto tra gli italiani e il cibo.” De Bernardi- Gli italiani e il cibo

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Henry Cartier Bresson Basilicata 1951

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Il boom economico però nella maggior parte dei casi, non ha trasformato quelle stesse umili famiglie così che sperperassero beni e soprattutto cibo, anzi. La fame era un ricordo ancora troppo vicino e l’essere cauti era d’obbligo. Il concetto di non-spreco e di conservazione degli alimenti si è tramandata di generazione in generazione, spesso continuando ad utilizzare gli stessi manufatti con sana gelosia e orgoglio. Questi oggetti erano per lo più in ceramica, il materiale che più si prestava da un lato a preservare le qualità organolettiche di cibi quali vino, olio, ecc., e dall’altro a cucinare al fuoco qualsiasi tipo di pietanza. I FIGULI E LA CERAMICA NEL MEZZOGIORNO

In un territorio così ricco di argilla non poteva che sorgere un fiorente artigianato della ceramica. A Grottaglie, come in tutto il Mezzogiorno, un tempo in ogni casa si trovava una cinquantina di oggetti in ceramica – raccontano gli artigiani - perché erano indispensabili all’utilizzo quotidiano, diversamente dalla funzione per lo più ornamentale che se ne fa oggi. «Caminaru, a’ cuette buene lu caminu?» (“Vasaio, hai cotto bene nella tua fornace?”) – chiedeva una volta il passante al maestro intento in quella che era l’operazione più difficile del suo mestiere, vale a dire la cottura quando la si faceva a fuoco di legna per cui bisognava saper dosare il calore altrimenti tutta la produzione andava perduta. Oggi si fa uso di forni elettrici e con quelli è difficile sentirsi dire “Quiddu no’ sape cocere” (“Quello non sa cuocere”), ignominia delle ignominie per il figulo, che così era ritenuto incapace anche di essere buon marito, buon padre, buon cristiano. Le origini dell’artigianato di Grottaglie rimandano al Medioevo ma è dal Settecento alla prima metà del Novecento che la ceramica d’uso grottagliese ha attraversato un periodo di vero fulgore artistico ed economico. Gran parte della popolazione locale era impiegata nelle botteghe ceramiche capeggiate da i “figuli” ovvero i maestri ceramisti, ed i manufatti che uscivano dalle fumanti fornaci venivano esportati nelle regioni limitrofe,Calabria e Basilicata soprattutto; ma si diffusero rapidamente anche nei mercati della Turchia, dell’Albania, dei Balcani e di numerose isole dell’arcipelago greco favorite dalla vicinanza dell’importante snodo commerciale del porto di Taranto. Ecco perchè il tipico decoro pugliese, costituito da piccoli fiori azzurri e dal caratteristico galletto colorato, si ritrova anche in oggetti di ceramica datati ma provenienti da Calabria e Basilicata.

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Nancy Peerbolt ceramiche tradizionali di Grottaglie fonte: Pinterest

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DAI CAMPI ALLA TAVOLA

Nei campi il lavoro era pesante, si era spesso in molti e c’era bisogno di idratarsi visto il sole cocente; l’acqua perciò non poteva affatto mancare e d’altronde neanche il vino che avrebbe accompagnato il pasto frugale consumato all’ombra degli alberi verso mezzogiorno. L’oggetto in ceramica utilizzato era una piccola anfora(la “iasca”), alta circa una trentina di centimetri, spesso senza decori; veniva utilizzata da tutti gli operai e dal “padrone”; che ognuno avesse la sua era ovviamente inconcepibile. Una volta a casa, si poteva finalmente consumare l’unico piatto caldo e sostanzioso della giornata all’interno della solita ambientazione: il camino accesso, qualche lampada a olio o petrolio, un tavolo di legno massello rettangolare(così che le gerarchie familiari potessero essere rispettate anche mangiando), una posata e un bicchiere a testa e un unico grande piatto, “u vac’lott”; quest’ultimo poteva contenere in media circa un chilo e mezzo di pasta e sfamare sei persone. I riferimenti a questo oggetto di uso comune nella vita delle famiglie molto umili, sono svariati; basti pensare al famosissimo e denso di significato quadro di V. Van Gogh “I mangiatori di patate” o ad uno dei discorsi pronunciati nel celebre film “Matrimonio all’italiana” da Sophia Loren: “Li conoscete voi i bassi? Ai Vergini, a Forcella, i Tribunali, o’Pallonetto, neri affumicati dove d’estate non si respira, dove non sta luce nemmeno a mezzogiorno. In uno di quei bassi ci stavo io con la famiglia mia, quanti eravamo, na folla! […] e u’calor! U’calor! La sera ci mettevamo attorno alla tavola, un piatto grosso per non so quante forchette[…]”.Tra l’opera di V. Van Gogh e quella di V. De Sica intercorre quasi un secolo ma la povertà e la fame a quanto pare non hanno mai avuto età.

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Vincent Van Gogh I mangiatori di patate 1885

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CREATIVITÀ, FORMA, FUNZIONE

“Non si tratta che di domare la materia. E’ un atto di creatività, quasi un atto d’amore; atto che pone l’uomo nelle condizioni di dover dare vita alla materia, vita che deve essere poi rappresentata dalla forma che sarà funzione e rimarrà eterna” Orazio Del Monaco, maestro ceramista L’argilla, materia che sembra esser stata concepita volutamente per essere plasmata da mani, e forse è realmente così. Argilla, mani e acqua: senza la forza scultorea di quest’ultima, l’atto del plasmare diventerebbe molto più arduo. Soffermarsi a pensare come un semplice ammasso di terraglie umide possa trasformarsi in oggetti di straordinaria bellezza, risulta assolutamente affascinante. Dar vita a dei pezzi in ceramica seguendo i dettami della tradizione, sottende una grande passione, è realmente un atto d’amore. L’argilla mette duramente alla prova attraverso tutti i passaggi che la porteranno a trasformarsi in ceramica: dall’essere plasmata all’essere decorata c’è bisogno di dedizione, pazienza e un pizzico di fortuna. Chi decide di essere un maestro ceramista, si fonderà con la creta attraverso le proprie mani e il proprio spirito poiché come ogni mestiere che prevede uno stretto rapporto tra uomo e materia, si diventa un tutt’uno con quest’ultima. Come dimenticare il celebre racconto “Pinocchio” ad opera di Carlo Lorenzini detto Collodi: un umile falegname pur di avere accanto a se un figlio, si serve della materia alla quale ha donato tutta la sua pazienza ed esperienza, scolpendo da un tronco di legno un burattino che per magia si trasformerà in un bambino vero. L’atto del plasmare mi ha da sempre affascinata e da sempre messa alla prova; ho deciso di avvicinarmi al mondo della ceramica intorno ai sedici anni restandone totalmente conquistata. In essa c’è della chimica, della fisica, della statica, tutte componenti che poco si legano alla creatività incondizionata che spesso travolge chi dal nulla si approccia per la prima volta all’uso della creta. Quest’ultima così morbida ed elastica convince le mani di poter fare qualsiasi cosa, di poter raggiungere qualsiasi risultato; ma non è così. Ogni cosa in natura possiede dei limiti che è giusto comprendere e dai quali è importante imparare.

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Ottavio Cozza maestro ceramista calabrese intento a lavorare al tornio

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A’IASCA E U’VACLOTT

L’obiettivo dei miei intenti creativi e progettuali si esplicita mediante la reinterpretazione di due tra gli oggetti più comuni utilizzati nelle case contadine, ormai decenni or sono. La iasca che come precedentemente detto era una piccola anfora di terracotta atta alla conservazione di acqua e vino, sia in casa che nei campi; il vac’lott, ovvero un grande piatto abbastanza concavo da permettere di contenere cibo a sufficienza per sfamare almeno sei persone. Il termine dialettale “iasca” si avvicina evidentemente alla parola italiana “fiasco/a”: la sua derivazione è incerta per gli studiosi, poiché alcuni la fanno discendere da svariate radici nordeuropee quali ad esempio il ladino “flascha” e lo svedese “flaska”, mentre altri la riferiscono all’alterazione della parola latina “vasculum”, diminuitivo di “vas” ovvero vaso. Un’ultima ipotesi meno accreditata è quella collegata alla radice “FLA”, nel senso di “soffiare”, creando quindi un oggetto “gonfio”. Il termine “vac’lott”, invece, è un’evidente deformazione dialettale della parola italiana “bacile”, che definisce genericamente un recipiente basso e largo per contenere acqua, molto usato nei tempi passati per il lavaggio delle mani e del viso, in mancanza dell’acqua corrente. A sua volta, il termine “bacile” si collega a “bacino”, la cui origine etimologica è da ricercare nel basso latino “bacinus”, facilmente ricollegabile alla radice di “bocca”, che per la sua struttura richiamò spesso nel linguaggio l’idea di “vaso”, oppure alla radice “BAC”, comune a molte lingue col senso di “curva, concavità”.

sulla destra: esempi di “cucco” (la “iasca” lucana) e del tipico piatto (il “vac’lott” lucano) della tradizione artigianale di Grottaglie

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Il processo creativo precedente alla realizzazione pratica dei due manufatti è servito semplicemente a mettere in moto i pensieri e l’immaginazione; non mi è mai accaduto che ciò che avevo rappresentato in un bozzetto o in una versione per me definitiva di un oggetto, restasse invariato. La materia per fortuna ti travolge e ti permette di intraprendere percorsi creativi fino a poco prima invisibili. Ciò è avvenuto anche nella realizzazione di questi due manufatti della tradizione contadina del Mezzogiorno, alla quale tengo particolarmente. L’obiettivo prefissatomi, consisteva nel riuscire ad apparecchiare una delle nostre tavole contemporanee per almeno sei persone, con esclusivamente due manufatti in ceramica. La convivialità, che scaturisce nella condivisione sia del cibo che delle stoviglie da parte dei commensali, è alla base dei processi progettuali e creativi da me innescati. Un’anfora plasmata come da tradizione al tornio: bassa e panciuta; poi un filo di nylon che divide quasi perfettamente a metà l’oggetto e avanti con l’aggiunta delle due pareti mancanti. I manici sono tre: due verranno posizionati su una e il terzo sull’altra piccola metà della iasca. Sdoppiare l’oggetto di pura e semplice argilla in due elementi non era previsto, è il processo creativo che lo ha richiesto; ciò è valso anche per le forme e le posizioni differenti conferite ai manici. Un manufatto, una funzione, una forma evolutasi in due varianti, acqua e vino serviti a tavola.

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Le anfore pronte per l’asciugatura

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in alto: Anfora divisa in due parti simmetriche in basso: Chiusura dell’anfora tramite l’aggiunta di altra argilla

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in alto: Accostamento anfore in basso: Apposizione dei manici

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Un grosso piatto ottenuto da uno stampo in gesso ma che non per questo ha destato meno preoccupazioni, anzi; pretendere eccessivamente dall’argilla, fa si che ci si scontri in un secondo momento con ostacoli e a volte rinunce, proprio com’è accaduto in questo caso. Un manico al posto di due, ma fortunatamente quello in cui avevo riposto la maggior parte dei miei propositi creativi e progettuali non ha ceduto. L’intento principale nella reinterpretazione del vac’lott consiste per l’appunto nell’aggiunta di un’impugnatura(inesistente nei manufatti della tradizione)molto articolata così da conferire doppia funzione ad un unico manico: da un lato il trasporto del piatto dalla cucina alla tavola diventa più agevole evitando scottature e dall’altro risulta possibile inserire il numero di posate necessario di modo che il pasto possa essere consumato. In conclusione avremo un piatto molto capiente, facilmente trasportabile e che oltre al cibo accoglie anche le posate ed un’anfora, sdoppiata in due per acqua e vino. Due manufatti, sei commensali, abitudini dimenticate e condivisione del cibo.

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Lo stampo in gesso La foderatura dello stampo Il piatto in forma nello stampo

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in alto: Il piatto rifinito e spugnato in basso: Il piatto è pronto per l’asciugatura

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Aggiunta di altra argilla che avrĂ come funzione quella di appoggio

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in alto: “Vac’lott” cotto e pronto per essere decorato in basso: Decorazione “iasca” in corso

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in alto: Decorazione “vac’lott” in corso in basso: Decorazione completata; il pezzo è pronto per la seconda cottura così che gli smalti si fissino

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L’ESTRO COME SFIDA

Il processo creativo è da sempre quello che innesca la maggior parte di meccanismi nella mente e nell’anima di un’artista. Condensare le esperienze personali, il bagaglio culturale e le proprie inclinazioni, in un unico manufatto, non è affatto facile; dosare gli intenti e le energie creative a volte, richiede uno sforzo particolare di pazienza e maturità professionale. Ciò che è più difficile da farsi, non è tanto il raggiungimento dell’obiettivo, quanto il percorso che conduce ad esso. Il mio processo creativo prende forma in primis, pensando ed immaginando oggetti, spesso irrealizzabili; le migliaia di cassetti pieni di informazioni e di rimandi a ricordi magari molto lontani nel tempo, presenti nella mia mente, si aprono e si mischiano: ciò che ne deriva inizialmente è un grande caos. Arriva poi il momento di disegnare e di farsi prendere dal panico dovuto al foglio bianco; superata questa fase le linee tracciate iniziano ad avere un senso formale ed estetico, arrivando al concepimento dei primi bozzetti che faranno da timone lungo tutto il percorso creativo.

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Bozzetti preparatori( di Paola Sprovieri

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Bozzetti preparatori iasca di Paola Sprovieri

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Bozzetti preparatori vac’lott di Paola Sprovieri


Bozzetti preparatori_ tavola imbandita di Paola Sprovieri

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Il lavoro prosegue affinando i particolari e gli intenti progettuali di pari passo, consapevole del fatto che in fase di realizzazione tutto cambia poichĂŠ dialogare direttamente con la materia è l’atto creativo di maggior potenza ed efficacia.

Sperimentazione: forme, colori e proporzioni

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Sperimentazione: forme, colori e proporzioni

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In laboratorio è infatti accaduto ciò che mi aspettavo: un cambio netto di intenti ha modificato le forme, i colori e le proporzioni degli oggetti. La grande tavola imbandita così ricca di stoviglie, presente sia nei primissimi bozzetti che in quelli successivi, si eclissa; ciò che improvvisamente realizzo è che non desidero avere decine di piatti, seppur dotati di un’estetica particolare. Ho pensato di sedermi alla tavola che avevo immaginato e per quanto potessi ammirarne la varietà di manufatti presenti, ho avvertito un senso di noia che derivava da un’impostazione eccessivamente formale riguardo a come il pasto sarebbe stato consumato. La soluzione più sensata e vincente stava nel tornare alle origini: due oggetti della tradizione contadina da reinterpretare, entrambi estremamente densi di significato. Il tornio girava e su di esso prendeva forma una nuova “iasca”; in mente la visione di una tavola animata da soli due oggetti che riuscivano comunque a soddisfare le esigenze dei commensali. Da qui nasce l’anfora che sdoppiatasi può contenere sia acqua che vino, e il piatto che accoglie in uno dei manici almeno sei posate.

Sperimentazione: forme, colori e proporzioni

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Sperimentazione: forme, colori e proporzioni

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Sperimentazione: forme, colori e proporzioni

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HOME RESTAURANT ITINERANTE di Evelyn Leveghi e Paola Sprovieri


IL SIMPOSIO CONTEMPORANEO: DALL’APERITIVO AL SOCIAL EATING

Il nuovo dirompente fenomeno del social eating, il successo degli home restaurant

IL PROGETTO

Premesse e intenti Online: presenza sul web e social network Offline: le cene ed eventi culinari culturali


IL SIMPOSIO CONTEMPORANEO: DALL’APERITIVO AL SOCIAL EATING Il nuovo dirompente fenomeno e il successo degli home restaurant

Gli “usi e costumi” che ruotano attorno ai rituali umani della vita quotidiana, soprattutto in relazione ai bisogni ed azioni fondamentali di mangiare, bere, dormire si intrecciano, in ogni epoca, a usanze e mode che riflettono i mutati stli di vita. Se una volta era il couch surfing, la generosa pratica, made in USA, di ospitare uno sconosciuto, solitamente viaggiatore metropolitano, sul divano di casa a prezzi low cost (o addirittura gratis), l’ultima tendenza in termini di pratiche contemporanee diffuse, sociali e di successo è il social eating. Il principio della condivisione è lo stesso, solo che al posto del divano è possibile trovare un buon piatto, rigorosamente homemade e mangiato in compagnia. È quasi una filosofia: sfruttare il momento dei pasti come mezzo per connettersi con gli altri, insomma mangiare per socializzare. Solitamente si tratta di una cena ma può essere anche un brunch, di un pranzo o di una colazione. Sono tutte occasioni per raccogliersi socialmente intorno al cibo. Amici e sconosciuti possono condividere l’esperienza culinaria e relazionale. Nasce dal web 2.0 e si sviluppa nelle case delle persone, vis-à-vis. Dimostrazione tangibile ed esperienziale della stretta relazione che sussiste tra la socialità in rete e quella che si volge nei luoghi della città fisica. SI tratta dell’ennesimo fenomeno di straordinario successo che si inscrive nella sharing economy. Ciò che qui si condivide non è solo il cibo ma sono momenti conviviali unici e imprevedibili. Occasioni relazionali degli anni Duemila. Dopo il boom degli aperitivi, usanza ormai diffusissima e consolidata, che ancora oggi è assai praticata e richiesta, l’avvento del fenomeno in questione segna una nuova epoca, un cambio di paradigma nei rituali quotidiani del mangiare e del vivere, in maniera più ampia. È straordinario osservare come, a fronte di una sempre maggiore privatizzazione, individualismo e globalizzazione, non solo del patrimonio materiale ma anche delle relazioni e dei valori immateriali, ci sia una crescente e dirompente domanda di socialità. Si registra sostanzialmente il bisogno di tessere nuovamente una trama identitaria che funga da riferimento nel caos generato da una sovrapproduzione di informazioni, tramite canali tradizionali e social, dal web, dai media tradizionali e direttamente di persona in persona. Ci troviamo in una dimensione comunicativa di sovraccarico e di difficile sopravvivenza e selezione.

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RICERCA DELLA CONVIVIALITÀ

In questo panorama entropico, si registra un ritorno a valori che costituiscono una sorta di bolla di vita lenta e gradevole, che richiama alla memoria anche momenti di vita familiare dissolta nel tempo e negli incalzanti ritmi di vita quotidiani. Ecco come il social eating, con la formula dell’home restaurant, sia la risposta, una delle risposte, più efficaci e confacenti allo scenario sociale attuale.

APPORTO DELLA TECNOLOGIA

La tecnologia ha reso tali pratiche un’esperienza condivisibile attraverso aggiornamenti in tempo reale, immagini, interfacce user-friendly. Tra le persone presenti si innescano conversazioni sui vari eventi e possono venire condivise anche con coloro che sono collegati da lontano. Piattaforme del web 2.0 come Twitter, Facebook, Foursquare e Forkly incoraggiano e favoriscono la gente, facendo incontrare domanda e offerta, i desideri di convivialità, in uno spazio sociale e “virtuale”. Le applicazioni possono essere scaricate su uno smartphone per condividere gli aggiornamenti. Alcuni servizi web-based sono pensati proprio per aggregare la gente insieme per condividere un pasto sociale, mentre altre reti propongono l’organizzazione di cene nelle case dei loro utenti.

COME FUNZIONA

Basta iscriversi ad uno dei “network del gusto” attivi in rete, di cui se ne contano numerosi, per scovare una miniera di appuntamenti golosi e sociali. Chi organizza mette a disposizione gli spazi di casa, elabora il menù, sceglie la data e fissa il prezzo (in alcuni casi si tratta di un contributo spese, in media si calcolano i costi con un minimo di rientro economico). Il potenziale ospite, in pochi clic, può prenotarsi all’appuntamento che considera più interessante e condividere la tavola con nuovi amici. Le probabilità di mangiare bene sono alte, anche perché l’organizzatore di solito è un appassionato di gastronomia che si diletta a fare lo chef per l’occasione.

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PRINCIPALI SITI E PIATTAFORME

Esistono sia reti internazionali che nazionali, generali e specifiche di un tipo di cucina o format. Tra le reti worldwide, citiamo: - il famosissimo “Eatwith”, - “VizEat”, - “EatWithMe” - People cooks, il più solidale di tutti, che ha dato vita a una rete di pasti economici per studenti fuorisede, disoccupati e viaggiatori a bassissimo budget. Per le reti italiane: - la più famosa è “Gnammo”: una florida community composta da numerosissimi cooks e gnammers; - “New Gusto”, nato in Italia e attualmente presente in ben 56 Paesi. Ci sono poi progetti paralleli ed autonomi come - “Ma’Hidden Kitchen Supper Club”, caso milanese di straordinario successo, dove le cene hanno liste d’attesa anche di 1800 persone; - Let’s Lunch, che offre l’opportunità di organizzare colazioni di lavoro e fare networking; - MyBusyMeal, pensata come social eating per business men. Molti altri ancora sono nati e stanno fiorendo in questi anni.

NON SOLO CIBO

Grazie alle “community dei gourmand” è possibile fare un’esperienza che va molto al di là del cibo. Mangiando si realizza una sorta di dimensione sociale orizzontale, che rifugge la formalità e le differenze sociali, favorendo lo sviluppo di rapporti di lavoro, talvolta di colloqui unconventional, si trovano nuovi amici, e, talvolta, che anche chi fa piacevoli incontri da cui nascono relazioni d’amore. Tendenzialmente dopo una cena di home restaurant si rimane in contatto con gli altri commensali e moltissime persone rimangono amiche e si incontrano nuovamente in contesti simili e non. Oltre alla cena talvolta si organizzano dei piccoli concerti o performance in casa. Si può affermare che il social eating riporta le sue radici più lontane alla cucina greca, quando i pasti venivano disposti allo scopo di raduno sociale e collettivo durante le feste o le commemorazioni. A tutti gli effetti possiamo definirlo una forma di “simposio e convivium contemporaneo”.

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IL PROGETTO Un home restaurant itinerante.

A partire dal desiderio di lavorare su forme più contemporanee del convivium, antica pratica largamente diffusa nella Grecia dei filosofi e nella Roma imperiale, e più ampiamente tra gli antichi popoli del bacino del Mediterraneo e incuriosite dal nuovo fenomeno del social eating, abbiamo deciso di intraprendere una via sperimentale di nostro home restaurant, in forma itinerante. Nasce così “Made in Lucania”. Un progetto che vuole parlare di cibo, di Basilicata e di cultura, ma non solo. Vuole parlare anche di famiglie, di saperi e di eccellenze tutte italiane. Odori, sapori e preparazioni tradizionali unite ad un accurato studio degli usi e costumi della Basilicata sono il cuore pulsante degli appuntamenti culinari che il progetto propone. Una casa, un gruppo di commensali buongustai e curiosi, cibo lucano che dialoga su un piano gastronomico con quello del territorio ospitante, che di volta in volta cambierà a seconda di dive si svolgono gli appuntamenti culinari. Ecco la semplice ricetta di questo progetto professionale e di vita. Parallelamente alla prima si sviluppano altri due filoni di offerta: - “Mangia con noi”: oltre alla cena, a tema, si offrono dei pacchetti culturali che propongono performance teatrali, piccole masterclass o lecture di approfondimento sul tema; - la rete “Le nostre tavole”: un gruppo di famiglie italiane, degli ospiti ghiotti, un menù tradizionale da scoprire e tanta convivialità. Un progetto, due situazioni: una ricercata esperienza culinaria a metà tra performance e masterclass da un lato e un’occasione di pura condivisione dall’altro. Entrambe con un elemento comune ovvero l’amore per il buon cibo.

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«Invitare una persona è occuparsi della sua felicità durante tutto il tempo ch’essa passa sotto il vostro tetto» Jean Anthelme Brillat-Savarin

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IL MANIFESTO

Siamo convinte che dal concetto del “vivere di buon cibo” si diramino infinite possibilità di crescita interiore ed esperienziale. La tappa successiva sta nel riconoscere quanto il territorio lucano e il suo popolo abbiano da trasmettere: [certamente] seduti attorno ad un tavolo, perfettamente imbandito, qualsiasi storia risulta interessante e si è portati ad una maggiore apertura verso l’altro. Siamo certe che dietro un semplice pasto consumato in compagnia si celino svariate possibilità di riscoperta di sensazioni dimenticate, saperi da acquisire, concetti da rivalutare e occasioni di condivisione. “Made in Lucania” è perciò animato da alcuni fondamentali concetti: La qualità. Qualità dei prodotti e delle materie prime, qualità del lavoro svolto, qualità di pensiero. L’educazione. Educazione nel saper nutrire se stessi e la propria anima selezionando cibi e concetti utili alla crescita dell’individuo, educazione nell’accogliere e nell’ascoltare i nostri commensali facendoli sentire a casa propria. La pazienza. Pazienza nell’aspettare che i tempi siano maturi per poter consumare un determinato cibo (così da non doverne forzare il ciclo di vita), pazienza nella preparazione di una pietanza, pazienza per comprendere cose che solo il corso del tempo potrà svelare. La conoscenza. Conoscenza del proprio territorio e delle sue tradizioni, conoscenza dei meccanismi che animano i processi vitali naturali, conoscenza dei cibi e delle sue proprietà. Lo scambio. Scambio di saperi ed esperienze. Scambio di ricette e dialetti. La riscoperta. Riscoperta di tradizioni, di abitudini, di colture dimenticate, del concetto di tempo inteso come kairos e non come chronos. Ciò che ci proponiamo di fare è quindi diffondere la vera cultura del buon cibo e delle tradizioni più autentiche che la Basilicata – ma allo stesso tempo l’Italia tutta – custodisce ancora gelosamente.

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LE NOSTRE TAVOLE

Perché tavole e non famiglie? Crediamo che una famiglia possa crearsi anche attorno a un tavolo di sconosciuti, ecco perché preferiamo parlare di persone e che siano marito e moglie, amici, fratelli, coinquilini poco importa. Apriranno le loro porte e daranno vita alle loro cucine solo per voi; potrete scegliere e gustare i migliori menù tradizionali delle regioni italiane in un gioviale clima casalingo.

LA BASILICATA

La Basilicata, da sempre poco conosciuta sia in Italia che all’estero, è in realtà una regione ricca di cultura e luoghi affascinanti da visitare. Paesaggi lunari si alternano a meravigliosi boschi e a spiagge dorate; antichi borghi, spesso molto suggestivi, si adagiano da secoli su colline brulle. Ospitalità e generosità sono da sempre tra le caratteristiche del popolo lucano. Le pietanze affondano le loro radici nelle tradizioni contadine: scarsità di risorse economiche e materie prime hanno dato vita a numerose ricette “povere” ma certamente ricche nei sapori e negli odori.

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LE MATERIE PRIME

Le materie prime che utilizzeremo per la preparazione dei nostri piatti, sono attentamente selezionate per garantire ai nostri ospiti qualità e sicurezza. Che a cucinare saremo noi o le famiglie de “le nostre tavole” non fa differenza: siamo tutti convinti che per ottenere del buon cibo sia necessario partire da basi solide; ecco perché ci affideremo alle migliori aziende agricole e di allevamento animale. I prodotti italiani sono da sempre sinonimo di qualità perciò che sia un menù 100% lucano o di altre tradizioni regionali, saremo felici di usufruire di ciò che di meglio il mercato italiano offre.

I MENÙ

I menù che proponiamo all’interno degli eventi a tema sono estremamente mutevoli e adattabili ad ogni esigenza che i nostri ospiti avranno. Teniamo molto a un rapporto solido tra menù e contenuti culturali dei nostri appuntamenti in modo che si mantenga un equilibrio tra questi al fine di preservarne l’essenza. Per quanto riguarda i menù proposti all’interno del circuito “ le nostre tavole”, ricordiamo che la grande forza di questa iniziativa sta nel valorizzare la regione di provenienza e/o residenza di chi ospiterà. La cucina di ogni famiglia è frutto di esperienze di vita, spostamenti e scelte importanti, e ciò si rispecchia in ciò che mangiamo. Potrà perciò capitare ai nostri commensali che, accomodati ad una tavola apparentemente pugliese, gusteranno piatti di tradizione lucana e umbra.

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ONLINE: SITO E SOCIAL NETWORK

Sul web il progetto era presente come: Sito web: madeinlucania.com basato sulla piattaforma Wordpress, è stato costruito secondo sezioni ed un menù per una navigazione differenziata, con layout molto pulito e semplice in termini di usabilità e navigazione. Il sito è disponibile sia nella versione da computer che da mobile (tablet e smartphones). Qui sono presentati i contenuti completi del progetto, principalmente in termini di offerta. Facebook: pagina “Made in Lucania” Lanciata in concomitanza con il sito web, è la base più ricca di contenuti, principalmente link e fotografie. Sono state previste delle sezioni in cui organizzare i contenuti a seconda della naura del messaggio da comunicare o degli obiettivi da raggiungere: * Assaggi di cultura * Ingredienti di semantica * Meditazioni gastronomiche * Territorio lucano: degustazioni fotografiche * Cultura del cibo in Basilicata * Ci piace il progetto xyz perché... Instagram: profilo “Made in Lucania” Un supporto prettamente visuale era necessario per il rafforzamento dell’immagine del progetto e consente di intercettare tipi di utenza diversificati, in particolare i cosiddetti “foodies”, buongustai e appassionati di gastronomia.

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Rafael Lozano-Hemmer Bodymovies 2001

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OFFLINE: GLI EVENTI CULINARI

La socialità dell’home restaurant si manifesta a pieno nella sua fase offline, dunque nel momento clou, delle cene e dell’interazione diretta con le persone. A fronte di una prima “conoscenza” tramite i social o il sito, e messe in relazione le persone per “affinità elettive”, si arriva al dunque della pratica del mangiare sociale attraverso il vero e proprio convivio a casa. Sono state proposte una serie di possibilità differenziate di eventi culinari, dal pranzo all’aperitivo, dalle colazioni alle cene. Gli eventi organizzati e realizzati nei primi due mesi di vita del progetto (marzo ed aprile) sono stati essenzialmente cene ed un aperitivo di presentazione, che ha riscosso un buon successo. Le cene sono state sia di tipo “tradizionale”, organizzate da noi con le consuete dinamiche dell’home restaurant, fatta eccezione per una cena commissionataci da Gnammo, la piattaforma italiana più conosciuta e di successo a livello nazionale. Nonostante ci siano state occasioni molteplici e differenti di collaborazioni e disponibilità, in città differenti (Milano, Bernalda, Matera), la totalità delle occasioni conviviali sin qui realizzate (marzo - maggio 2015) hanno avuto luogo a Venezia. La città si è dimostrata molto ricettiva al tipo di format di volta in volta proposto e si sono innescate in tempi molto brevi delle relazioni che hanno dato vita ad un network fatto di individui nella maggior parte dei casi coinvolti nel settore culturale ed artistico della città. Dalle cene in casa si sono infatti sviluppate occasioni altre ed esterne come ad esempio la cura di vernissage di mostre d’arte, collaterali alla Biennale di Venezia. Il progetto prosegue mantenendo alcuni punti saldi (convivialità, qualità, dialoghi gastronomici tra i prodotti lucani e quelli di territori italiani altri). Uno dei valori più forti e riconosciuti del progetto risiede sia nel carattere itinerante del progetto sia nella scelta di valorizzazione del territorio lucano – della sua cultura a 360 gradi – attraverso il cibo.

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CONCLUSIONI

Il percorso qui intrapreso, è stato un cammino che ha visto maturare il pensiero e le riflessioni personali, critiche e di esperienza, di entrambe. Sebbene il seguente saggio si sia sviluppato in un contesto accademico, sebbene si tratti quindi di una tesi di master e non di un progetto o pubblicazione effettiva, è stato affrontato con il massimo impegno e serietà. Per noi, infatti, non ha costituito “solo” un elaborato finale del percorso di studi, bensì un banco di prova di vita e professionale. Questo lavoro tesi costituisce un punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo. Di arrivo poiché nasce e si sviluppa dalla maturazione di un pensiero, da esperienze personali e in gran parte da passioni, idee e filosofia condivise. L’incontro tra noi è avvenuto proprio nel contesto di questo particolare Master, che essendo stato alla sua prima edizione, ci ha visti un po’ nel ruolo di “avanguardisti” (e la manifestazione della terza generazione di Andrew Blauvelt), i primi a crederci, a viverlo ed i primi a farsi affascinare. È stato un anno intenso, a tratti molto difficile e a tratti divertente, ma che ci ha permesso, oltre all’apprendimento di nozioni specifiche e di metodologie progettuali nuove, di innescare un rapporto che – non a caso – parte proprio dal cibo, dal mangiare insieme, dalla convivialità. Attraverso questo canale hanno trovato spazio e tempo il confronto di opinioni, i racconti di vita passata e i sogni. Una relazione che probabilmente solo il cibo sa tessere e rafforzare, perché lo scambio e la condivisione primordiale che si manifesta attraverso il convivio è straordinaria, unica ed ineguagliabile. Il cibo e le infinite declinazioni sociali e relazionali – dunque –non costituiscono meramente un tema di nostro interesse e a noi caro, ma costituiscono quel trait d’union meraviglioso che ha dato senso e significato a molte riflessioni e pensieri che non possedevano ancora una manifestazione tangibile e contorni distinti. A prova di tutto ciò, “Made in Lucania” è divenuto un progetto reale, a tutti gli effetti attivo, che si sta già inserendo all’interno di una rete di occasioni culturali, di interessanti collaborazioni, alcune già avviate ed altre possibili. Questo costituisce il punto di partenza; il presente lavoro non si chiude qui, ma da qui parte, con nuove energie e suggestioni, con un pensiero rinnovato, diverso, più ampio e ricco.

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In conclusione alla seguente trattazione ci sentiamo di esprimere un pensiero. Le dinamiche sociali attuali dimostrano una straordinaria forza che proviene dal basso, dalle trame della società, e che si manifestano nella vita quotidiana, sia in una dimensione collettiva sia in una più intima e privata. Nonostante le profonde trasformazioni urbane, sociali, tecnologiche ed economiche che hanno investito entrambe queste sfere, e nonostante il processo di globalizzazione abbia riconfigurato sensibilmente moltissime relazioni di potere, consumo, di comunicazione e di vita in generale, la società dimostra e manifesta una nuova voglia di condivisione e di socialità, in sostanza – citando Bauman – una nuova “voglia di comunità”. Le lacerazioni e le disgregazioni che l’uomo contemporaneo ha subito non fanno che rafforzare e nuovamente desiderare occasioni di relazione e socialità. Ecco quindi che si manifesta il filo conduttore di tutto il seguente saggio. Dal convivium dei popoli antichi del Mediterraneo sino ai rituali del social eating di oggi, si dispiega nelle diverse epoche quella preziosità che le pratiche relazionali del cibo sanno offrirci. Dapprima attraverso le riflessioni teoriche, socio-antropologiche, e poi critiche dall’arte, nelle trame dei fenomeni sociali più attuali, attraverso le sperimentazioni progettuali e artigianali di manufatti ceramici ed infine con il progetto reale e attivo di home restaurant itinerante, si affronta tale tema e se ne dimostra il corpo vitale.

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RINGRAZIAMENTI

Ringraziamo innanzitutto le persone che hanno creduto in noi, che ci hanno sostenuto nei momenti di sconforto e in quelli pieni di gioia e soddisfazioni. Ringraziamo le nostre famiglie, tradizionali ed “allargate”, che ci hanno permesso di arrivare sino a qui e che pensano – come noi – che investire sulla cultura e sulla formazione non possa che contribuire all’accrescimento personale e si estenda e rifletta anche al nostro intorno sociale, nell’ ambito privato come in quello professionale. Ringraziamo moltissimo il nostro relatore, Gianni Romano, che ha creduto nel tema che abbiamo voluto trattare e nella nostra multiforme palette di strumenti di indagine, e con il quale speriamo di poter continuare a tessere una preziosa relazione di lavoro. Ringraziamo i nostri colleghi del master, e i docenti, perché hanno favorito la circolazione e lo scambio di idee ed opinioni attraverso la forza del team e della costellazione di punti di vista. Ringraziamo chi abbiamo incrociato sul nostro percorso attraverso l’home restaurant e le occasioni di qui diramatesi. Un grazie particolare va a Casa Tent[at]ori di Venezia. Vogliamo quindi rivolgere un grazie sincero a tutti coloro che sia nel presente sia nel futuro condivideranno con noi filosofia di vita e di lavoro attraverso il meraviglioso mondo del cibo e della cultura.

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L’uomo è più di ciò che mangia. Il cibo è relazione. Francesco Botturi Sulla base del pensiero che il rito del con-vivium sia un momento di relazione unico e prezioso si è vuluto affrontare un percorso di ricerca e sperimentazione attorno alla sfera delle interazioni umane che hanno come focus e trait d’union il cibo. L’indagine considera il panorama contemporaneo alla luce del profondo mutamento delle coordinate sociali, antropologiche, estetiche e – in generale – culturali che hanno investito non solo la vita quotidiana degli individui ma anche i mondi e modi del progetto contemporaneo. Partendo da un inquadramento di alcune pratiche di relazione e condivisione del cibo nel passato e nel mondo attuale, si indaga il tema sia su un piano teorico, esplorando in particolare alcuni casi studio nel mondo dell’arte, sia su un piano progettuale, attraverso una ricerca e produzione di manufatti in ceramica. Una parte finale presenta invece una sperimentazione messa in atto attraverso un progetto di home restaurant itinerante che si inscrive nel fenomeno contemporaneo del “social eating”.

Tesi di Master - “Relational Design” di Evelyn Leveghi e Paola Sprovieri e con la collaborazione del prof. Gianni Romano ABADIR - Arts Between Architecture and Interdisciplinary Research


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