Riflesso Emergency - Magazine sulla Cultura delle Emergenze 2018

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Magazine sulla Cultura delle Emergenze

Numero speciale

EMERGENCY


Natural Genius Biscuit N° 2 Design: Patricia Urquiola


bcptassociati_Perugia

www.listonegiordano.com


SOMMARIO

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I SEGNI NEL CREATO

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DESIGN, COMUNICAZIONE E FUTURO

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CASTELLUCCIO POINT "Guardavo le macerie e immaginavo il futuro"

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SATOR Case temporanee per l’emergenza abitativa post-terremoto e sociale

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VIGILE DEL FUOCO Mestiere di fede e di passione a servizio della salvaguardia dell’arte e della storia

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(H)EART(H)QUAKE "La città che trema, è la città che sorge"

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FATE PRESTO! Emergenza, memoria e ricostruzione nell’arte contemporanea

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ARTQUAKE L’arte di ricostruire

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RICUCIRE UN TERRITORIO L’arte continua a sgorgare attraverso le crepe

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TERREMOTO Tra antichi miti e nuove consapevolezze

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LE SENTINELLE FLUTTUANTI Figure mobili nello spazio coltivo

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L’ARTE DELL’EMERGENZA Mediazione e incontro per donne migranti

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DESIGN PER IL QUINTO FIGLIO Progetti eccezionali per emergenze quotidiane

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UNA CASA AL PLURALE Dalla casa famiglia per disabili ai centri residenziali di prima accoglienza per minori

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ITER TEATRO "Ricontrollare le rotte, in un’epoca di crisi di destinazione"

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HOPE AND SPACE L’emergenza come opportunità per riscoprire i valori fondamentali dell’architettura

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TOMORROW’S SHELTER I modelli utopici emergenziali di Didier Faustino tra arte, architettura e design

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BEYOND EMERGENCY Il ruolo del (co)design nelle comunità

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THE BIG U Emergenza chiama progetto

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QUANDO IL GRAPHIC DESIGN TI SALVA LA VITA Il ruolo di informazione sociale della comunicazione visiva nei contesti emergenziali

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COMUNICAZIONE VISIVA ED EMERGENZE La disciplina della rappresentazione nelle emergenze ambientali: il caso studio genovese

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DESIGN IN EMERGENZA Lezioni perugine

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PATRIMONIO SOCIALE E PROGETTAZIONE TAMassociati e l’architettura nei contesti di emergenza

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FASHION DESIGN PER L’EMERGENZA Esperienze didattiche di progettazione sperimentale per la Moda

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DESIGN FOR RESCUE AND DISASTER Modelli e ispirazioni per le nuove generazioni

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LABORATORIO DIDATTICO Emergenza e comunicazione tra editoria e design

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EMERGENCY

CONTRIBUTI

DIRETTORE RESPONSABILE

Enzo Fortunato

Mario Timio

Oliviero Toscani

VICEDIRETTORE

Paolo Belardi

Carlo Timio

Mariagiulia Bennicelli Pasqualis

DIREZIONE ARTISTICA

Domenico De Vita

Alessio Proietti

Emanuela D’Abbraccio

EDITORE

Fabio Fabiani

Ass. Media Eventi

Aldo Iori

REGISTRAZIONE

Cristiana Mapelli

Tribunale Perugia n. 35 del 9/12/2011

Vincenzo Pennacchi

ISSN 261-044X

Alessio Proietti

COORDINAMENTO GRAFICO

Rosario Giovanni Brandolino

Francesca Fregapane

Paola Raffa

GRAFICA E IMPAGINAZIONE

Raffaele Federici

Francesca Becchetti

Enrico Cicalò

Mario Milia

Matteo Clemente

Blerta Riipa

Ottavio Anania

Ana Savulescu

Luca Bonifacio

STAMPA

Simone Bori

Tipografia Pontefelcino Perugia

Luisa Chimenz

CONTATTI

Luca Martini

direzione@riflesso.info

Valeria Menchetelli

editore@riflesso.info

Maria Linda Falcidieno

artdirector@riflesso.info

Maria Elisabetta Ruggiero

info@riflesso.info

Mattia Pellegrini

SITO WEB

Pietro Carlo Pellegrini

www.riflesso.info

Valentina Spataro Gaia Vicentelli

Tutti i diritti di questa pubblicazione sono riservati

Elisabetta Furin Giovanna Ramaccini CURATELA SCIENTIFICA Paolo Belardi

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IN COPERTINA Il tema delle emergenze territoriali è al centro della proposta grafica per la realizzazione della copertina. La composizione nasce da un parallelo concettuale con la pratica giapponese del kintsugi, l’arte di recuperare un oggetto di ceramica rotto saldandone i frammenti con l’oro fuso, impreziosendone così le fratture. Questa usanza nasce dalla consapevolezza che dai contorni imperfetti di una rottura, così come dai lembi di una ferita, possa nascere una nuova forma di armonia estetica e interiore. Dal punto di vista grafico, lo squarcio sulla parete lesionata dal sisma è colmato dall’oro della coperta isotermica, simbolo dell’opera prestata dai soccorritori nelle emergenze territoriali ed umanitarie. Autore: Valeria Fortunelli

EMERGENCY

Con la collaborazione di Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia Dipartimento di Progettazione a Arti Applicate Scuola di Progettazione artistica per l’impresa-Design

Università degli Studi di Perugia Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale Corso di laurea in Design

Sacro Convento di Assisi

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I SEGNI NEL CREATO di Enzo Fortunato

Il design, nell’accezione corrente, viene inteso come l’applicazione agli oggetti prodotti per la vita quotidiana di una particolare connotazione estetica, di una particolare attenzione al lato formale che, fondendosi con la funzione strumentale, lo rende portatore di un particolare significato. Questo significato è un significato culturale che nel corso dell’ultimo secolo è cresciuto in maniera determinante e permeante la quotidianità dell’occidente e che ha finito per diventare habitat della cultura occidentale stessa, se si considera che il design nasce dal segno grafico dei più grandi architetti dei primi del novecento (Le Corbusier, il Bauhaus con Gropius e Van der Rohe ecc..). L’architettura nella dimensione urbana, il design nella dimensione domestica e strumentale sono la cifra formale, il segno caratteristico della dimensione visiva della realtà delle comunità urbane occidentali. Lo stesso vestirsi è firmato, un mondo firmato e disegnato dalle case alle cose. La massima parte degli oggetti prodotti e del visibile metropolitano (il 51 per cento della popolazione mondiale vive nelle città) è progetto architettonico e disegno industriale. Il disegno ci circonda ed è dunque diventato ambiente fino al punto che con la rivoluzione digitale è nostra protesi, visuale identità formale, duplicazione formale e alterazione della persona, duplicata in forma di profilo, aumentata, migliorata: ri-disegnata. Lo schermo è il nuovo skyline e le nostre persone vi vivono dentro in forma di profilo e immagine serialmente duplicata. Dall’Enciclopedia Treccani: “Design Industriale: progettazione di oggetti destinati a essere prodotti industrialmente, cioè tramite macchine e in serie.” Se l’ambiente artificiale sta lentamente sostituendo l’ambiente creato, fino ad essere il nostro Habitat, altrettanto lentamente la natura sta diventando solo un luogo che, separato dal quotidiano, è al massimo da custodire, preservare o da vivere come meta turistica. Credo che il tempo in cui viviamo debba ritrovare l’armonia da cui il disegno nasce, ricordare l’origine di quei segni che altro non sono che repliche di quanto già il Creato ci propone: i segni della terra e del cielo, la linea dell’orizzonte e le geometrie della natura, dal cristallo al fiore. Non possiamo altro che replicare nel nostro inventare, ché, come qualcuno diceva, la nostra fantasia non fa altro che ricomporre in modo diverso ciò che ha già visto fuori di sé: il centauro.

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Assisi, Basilica Superiore di San Francesco, Il presepe di Greggio, particolare (Giotto di Bondone, 1295 ca.)

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Assisi, Basilica Superiore di San Francesco, L’approvazione della regola, particolare (Giotto di Bondone, 1295 ca.)

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Come ci ha insegnato Francesco, deve rimanere saldo il senso dell’armonia del Creato e della bellezza del rapporto tra gli esseri creati, dove la dimensione di ognuno è relazione con l’altro nell’assoluta relatività di ognuno dinanzi al Creatore. Non perdere di vista il senso della dimensione parziale e non assoluta delle cose, la loro e nostra Povertate et Humiltate, non sfociare nella presunzione della sostituzione del Creato con il Prodotto in una cieca corsa all’espulsione della natura dalla dimensione visiva dell’umano. Lasciare sempre che l’ineffabile e spogliata, nuda bellezza delle dimensione divina, che il Creatore ha conferito alle sue creature, affiori come lato non del tutto disegnato o disegnabile degli oggetti che quotidianamente produciamo e di cui ci circondiamo: lasciamo che anche un solo fiore nella nostra abitazione ci rammenti che non siamo noi i produttori, ma che l’intero nostro globo è il respiro ancora incomprensibile della Potenza d’Amore che scorre tra noi e le cose, tra i vermi che si nascondono tra le zolle e le ruote di una Ferrari che sfreccia sulla carreggiata, tra le nuvole sopra Bilbao e il Guggenheim che le osserva, tra l’acqua che ci disseta e la caraffa che la contiene, disegnata da Patricia Urquiola per Kartell. Termino con il famoso e antico apologo dei tagliatori di pietra. Durante la costruzione di una cattedrale medievale a tre tagliatori di pietre fu rivolta a turno la stessa domanda: ‘Che cosa stai facendo?’ ‘Come vedi, sto tagliando pietre’, replicò il primo in tono seccato. Il secondo rispose: ‘Mi guadagno la vita per me e la mia famiglia’. Ma il terzo disse con gioia: ‘Sto costruendo una grande cattedrale!’. Questo ci dice come sia necessario trovare un significato profondo, perché come dalla pietra, dalla materia informe, l’artista crea la sua arte, allo stesso modo dobbiamo essere artefici della bellezza della nostra vita. Per darle un senso.

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Design, comunicazione e futuro di Oliviero Toscani

Chirurgia estetica (Šolivierotoscani)

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Il design è una forma concreta di comunicazione, ma purtroppo oggi molto design è diventato un fenomeno di moda, ha perso il suo vero significato: non è più “l’armonia e la forma delle funzioni”, perché moltissimo dell’attuale design si colloca tra la promozione delle vendite e la futilità delle cose disegnate. Il design, infatti, è sempre più un inutile ornamento modaiolo, è parte integrante di tutto quello che è “alla moda”. Alienazione, futilità e mediocrità sono i

maggiori vizi della maggior parte del design moderno, perché tutto ciò che si ferma solamente alla forma, all’estetica, al colore, alla composizione formale è sempre mediocre, il design autentico non deve mai perdere di vista i fini assoluti della condizione sociale e umana, deve essere la pura scelta dei suoi fini assoluti. Un design con funzione sociale. Quindi, dopo tanti anni di degenerazione e inutilità di moltissimo design, ci ritroviamo a un punto di parten-

za, spero che non tutti i mali (design) siano venuti per nuocere, ma che siano stati molto utili per farci capire la necessità di ricominciare da capo con nuova energia per un nuovo futuro design per l’umanità. Oggi il design si nutre dalle persone che invece dovrebbe nutrire. All’origine avrebbe dovuto essere un servizio pubblico, la forma della cultura, della produzione e del consumo, ma ora sta degenerando in uno strumento di manipolazione economica.

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Hardware+software=burros (Šolivierotoscani)

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I creativi e gli artisti che producono design, quindi comunicazione, sono in prima linea in questo esercito di collaborazionisti. Gli artisti dovrebbero avere il potere di liberarsi finalmente dalle loro paure. Il futuro ha bisogno di permettere all’artista vero potere e responsabilità. I creativi dovrebbero rompere questo cerchio e distruggere questi codici, incoraggiando un pensiero libero. Non è mai stato nell’interesse del marketing che noi artisti o consumatori fossimo capaci di pensare, perché chi pensa può essere creativo e la creatività è sempre sovversiva, disturba. Sarebbe ora di sovvertire questa situazione. Abbiamo bisogno di buon design. Ci sono stati e ci sono esempi dove questa espressione ha avuto il coraggio di rischiare di essere differente. design che rischi e che abbia il coraggio di andare al di là dei profitti e delle richieste, al di là delle necessità dei committenti. I media, la comunicazione, il design, potrebbero veramente servire l’umanità. Potrebbero essere dei mezzi creativi di ricerca di quel nuovo linguaggio che stiamo cercando, per creare, simbolizzare e identificare la condizione umana e gli sforzi sociali, per capire e spiegare questo nuovo mondo che ci sta venendo addosso con la velocità di un meteorite. Potrebbero essere creati per aiutare ad arricchire l’umanità nella fatica di meglio esprimersi in questo mondo. Potrebbero connettere con il resto della società e permettere un futuro migliore. Potrebbero sfidare e mettere in discussione le idee. Potrebbero rompere le regole, distruggere i preconcetti e i conformismi che ci governano e ci condizionano. Tutto questo potrebbe generare una bellezza genuina e darci la possibilità di creare un’espressione veramente libera, con veri e profondi significati per il mondo che ci circonda, senza essere condizionati dal profitto. Dobbiamo alterare i messaggi, riarrangiare l’intera immagine della futura società; avendo il coraggio di rischiare d’essere diversi. Nessuno deve essere affamato culturalmente, fisicamente e spiritualmente. I canali di distribuzione esistono. I creativi, come fornitori e creatori di contenuti, potrebbero avere le chiavi per sbloccare la vera ricerca delle forme e delle funzioni del futuro, restituendo veri significati che potrebbero cambiare in meglio le nostre vite e le vite degli altri con creatività e rispetto. Il nostro spirito necessita questa ricerca.

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CASTELLUCCIO POINT di Paolo Belardi

Canapa Nera, “Guardavo le macerie e immaginavo il futuro” (Milano, Ca’ Granda, 2018)

I drammatici eventi sismici che nel corso del 2016 hanno sconvolto l’Italia centrale, e con essa il versante sud-est dell’Umbria, hanno posto all’attenzione del grande pubblico il concetto di resilienza, inteso non soltanto come la resistenza che un edificio riesce a esprimere quando viene investito da una scossa tellurica, ma anche (e forse soprattutto) come la capacità di una comunità di reagire positivamente all’annichilimento psicologico provocato dai postumi di un evento sismico. Una capacità reattiva che, se da un lato è soffocata dalla miopia della società contemporanea, tendenzialmente poco incline agli slanci visionari, dall’altro può contare sul coraggio e sulla tempra di popolazioni stori-

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camente avvezze ad affrontare le avversità. Ma anche una capacità reattiva che trova un’incarnazione simbolica nell’arte giapponese del kintsugi, laddove i frammenti delle ceramiche infrante vengono ricomposti mediante l’inserto di un materiale prezioso, quale la polvere d’oro, che, nel caso del cratere umbro, è assimilabile a un mix alchemico fatto con i ricordi di cui sono pregne le macerie degli edifici e con le speranze che vibrano nelle fibre della canapa. Perché abitare non è solo un atto materiale, ma è anche un atto immateriale. Così come il compito della ricostruzione non è solo quello di restituire una casa, ma è anche quello di custodire un’identità. Traghettando i ricordi e le speranze oltre l’emergenza. Non

a caso il concept dell’installazione realizzata dalla Regione Umbria nel cortile centrale della Ca’ Granda in occasione del Fuorisalone Milano 2018, a differenza di quanto avviene in genere, non è stato veicolato con un disegno, ma è stato veicolato con una simulazione infografica (Zabriskie Point/Castelluccio Point), ispirata a una delle sequenze più celebri della storia del cinema, e con una lettera immaginaria, volta a rivendicare l’importanza della memoria e indirizzata ad Angelica. Che è mia figlia e che, curiosamente, è coetanea della ragazzina quindicenne cui Roberto Roversi ha dedicato il testo di una celebre canzone degli Stadio: Chiedi chi erano i Beatles. In fondo il confronto generazionale è da sempre l’anima della poesia.


“Guardavo le macerie e immaginavo il futuro”

Cara Angelica, quando penso al terremoto che la mattina del 30 ottobre 2016 ha colpito la nostra terra, penso sempre alle sequenze finali di Zabriskie Point: un film che probabilmente non hai visto, ma che nonostante i tuoi quindici anni dovresti vedere, se non altro perché è il capolavoro di un grande artista, come Michelangelo Antonioni, che ha amato a tal punto l’Umbria da volerci vivere l’ultimo periodo della propria esistenza. Soprattutto penso alla spettacolarità dell’ambientazione paesaggistica, una valle della California che è nota per la sua bellezza metafisica, così come penso al boato che prelude alla devastazione della villa miliardaria, ripresa al rallentatore per eleggere i detriti a metafora della futilità consumistica. L’allestimento che abbiamo progettato per Milano sarà titolato Canapa Nera (crasi tra la fibra naturale e il fiume Nera), ma forse, proprio perché vuole evocare la bellezza metafisica di un paesaggio altrettanto struggente (la magia cromatica che anima la fiorita di Pian Grande) e vuole celebrare la drammaticità di un boato altrettanto devastante (l’onda sismica che ha sgretolato l’abitato di Castelluccio), avrebbe potuto essere titolata Castelluccio Point. Perché le macerie prelevate nelle zone rosse del cratere umbro, una volta ricomposte in un fermo-immagine ideale dell’esplosione sismica, incarneranno i valori identitari più profondi della Valnerina. Così come li incarnerà il polittico artistico realizzato dipingendo con colori esplosivi undici tele di canapa di grande formato. Valori millenari che non saranno cancellati neanche dal terremoto e che dovranno essere recuperati giorno dopo giorno per ricostruire la quotidianità con ciò che c’era (“guardavo le macerie e immaginavo il futuro”). Proprio perché conosco la tua sensibilità, ti chiedo scusa se la mia generazione non ha saputo trasmettere alla tua generazione la coscienza della storia. Sono talmente consapevole di questa mancanza da comprendere le ragioni per cui vuoi vivere la tua vita guardando sempre e solo avanti. Ciò nonostante, anche se farai di tutto per non voltarti indietro, non dimenticare mai gli affetti e le speranze che lascerai alle tue spalle. Abbi sempre presente che perdere il passato significa perdere il futuro. Tuo padre

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Zabriskie Point/Castelluccio Point (Paolo Belardi, 2018)

CANAPA NERA “Guardavo le macerie e immaginavo il futuro” coordinamento, concept e progetto dell’allestimento ACCADEMIA DI BELLE ARTI “PIETRO VANNUCCI” DI PERUGIA (Paolo Belardi, Paul Henry Robb, Matteo Scoccia) concept e opere d’arte con la canapa STUDIO DANIELA GERINI MILANO (Daniela Gerini) supporto tecnico MUSEO DELLA CANAPA DI SANT’ANATOLIA DI NARCO (Glenda Giampaoli)

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Sistema Abitativo Temporaneo Organizzato Reversibile Case temporanee per l’emergenza abitativa post-terremoto e sociale di Mariagiulia Bennicelli Pasqualis Pre-sisma

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L’obiettivo di questo lavoro è la definizione progettuale di un sistema abitativo temporaneo in grado di assorbire un’emergenza abitativa ad alta densità a seguito di eventi catastrofici. Considerando che il territorio italiano, e non solo, è caratterizzato da un’elevata sismicità, e che questa può riguardare anche centri abitati medio-grandi, si rende necessario procedere sempre di più e meglio a una programmazione delle azioni di emergenza, tra cui uno degli aspetti immediatamente urgenti è di come alloggiare decine di migliaia di persone contemporaneamente e in tempi brevi, cercando di mantenere la popolazione nei propri territori, vicino alle proprie case. Una delle risposte possibili è il progetto SATOR (Sistema Abitativo Temporaneo Organizzato Reversibile), ovvero la messa a punto di un modello avanzato di sistema residenziale, temporaneo e reversibile, a basso costo e “a impatto nullo” sul territorio, capace di accogliere migliaia di sfollati senza tetto nelle aree di emergenza previste dalla Protezione Civile, adattabile a diverse tecnologie scelte sulla base di un repertorio definito tra quelle ad assemblaggio a secco, tale da essere continuamente aggiornato e disponibile ad un mercato il più ampio possibile. Si tratta di un prototipo di sistema edilizio residenziale aperto, che si basa sulla strategia dell’alta densità e della reversibilità, capace di offrire delle opportunità di sviluppo non solo nell’ambito dell’emergenza post-catastrofe, ma anche in quello dell’emergenza abitativa a carattere sociale, come nella produzione

di case volano, per operazioni di retrofit sul patrimonio residenziale pubblico, che rappresentano le nuove strategie di sviluppo urbano. A partire dall’emergenza abitativa post-catastrofe e sociale, il progetto Sator tende a definire le strategie progettuali e processuali per creare, in tempo di pace, una filiera produttiva e un prodotto sempre più rispondente alle necessità di una residenza temporanea, reversibile e, in questo modo, verificato. In questo senso è necessario apportare un’innovazione procedurale e di prodotto, ponendo le basi per una riflessione ampia relativa alle azioni da intraprendere per definire un prodotto innovativo e riempire il vuoto normativo sul tema delle realizzazioni temporanee ad uso abitativo. L’obiettivo è realizzare un prodotto a basso costo che si riveli strategico per la sostenibilità dell’operazione. Manufatti troppo onerosi, infatti, creerebbero problemi, sia nella fase di realizzazione che di dismissione. Il basso costo si può determinare attraverso scelte di tipo qualitativo – materiali e finiture che, in un’ottica di temporaneità degli interventi, possono essere caratterizzati da una minore durabilità – e di tipo quantitativo, andando cioè ad agire sulla razionalizzazione degli spazi dell’alloggio in termini tipologici e dimensionali. Ma il vero risparmio è dato dalla contrazione dello spazio privato attraverso l’integrazione degli arredi – ad esempio – garantendo un livello adeguato di comfort, in quanto l’utente dell’emergenza non ha mobili né guardaroba. Ipotesi insediamento prima, durante e dopo l’emergenza

Insediamenti temporanei

Post-sisma

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Variabilità morfologica. Viste di possibili configurazioni dell’involucro

Il concept costruttivo dell’unità tipologica che prevede la totale reversibilità

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La razionalizzazione dello spazio privato, però, è impraticabile senza una revisione degli standard edilizi espressi dal DM 1975, e quindi senza l’introduzione di una disciplina nazionale per la messa in opera di manufatti residenziali per l’emergenza abitativa temporanei e reversibili attraverso procedure semplificate. La necessità di operare in ambito emergenziale implica, infatti, una definizione di parametri che, per quanto presenti nella progettazione ordinaria, acquisiscono un’importanza strategica per la risposta ad azioni di urgenza che non compromettano il territorio in via definitiva. Tali parametri richiedono una risposta complessa che ha a che fare una molteplicità di aspetti del processo progettuale e con un’attenta programmazione procedurale, oltre a un’approfondita definizione del prodotto di architettura. Dal punto di vista del processo di realizzazione del prodotto, la volontà è di individuare le risposte più efficienti nei processi industrializzati e nel rapporto diretto con le aziende operanti nel campo dell’edilizia. Uno degli aspetti che caratterizzano di più la risposta all’emergenza è la necessità di realizzare quantità importanti di manufatti contemporaneamente. Questo problema può essere affrontato solo predisponendo la più ampia partecipazione da parte di tutte le imprese produttrici di settore, tali da assorbire la produzione necessaria. Dal punto di vista del processo di realizzazione del prodotto, la volontà è di individuare le risposte più efficienti nei processi industrializzati e nel rapporto diretto con le aziende operanti nel campo dell’edilizia. Uno degli aspetti che caratterizzano di più la risposta all’emergenza è la necessità di realizzare quantità importanti di manufatti contemporaneamente. Questo problema può essere affrontato solo predisponendo la più ampia partecipazione da parte di tutte le imprese produttrici di settore, tali da assorbire la produzione necessaria. Uno dei punti centrali alla base del presente lavoro è di dimostrare che con un attento lavoro di ricerca e affermando la centralità del progetto architettonico, quale strumento strategico di organizzazione e sistematizzazione della trasformazione della realtà, sia possibile attuare un intervento di alloggi ad alta densità capace di qualità pur mantenendo i livelli di basso-costo e reversibilità, sostanziali per un ritorno alla vita delle nostre città, quando colpite da queste catastrofi. Il progetto Sator è il risultato di questo sforzo teorico progettuale.

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VIGILE DEL FUOCO Mestiere di fede e di passione a servizio della salvaguardia dell’arte e della storia di Domenico De Vita

Non c’e’ calamità naturale nella quale i vigili del fuoco (spesso definiti gli angeli del soccorso), devono mettere in campo tutte le capacità specialistiche in situazioni molto rischiose, operando in condizioni estreme, al freddo, sotto le macerie e in mezzo ai continui sciami sismici, tra grossi roghi o in aree devastate dalla furia delle correnti di fiumi in pena. Una delle emergenze che ha messo più a dura prova il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco di recente è stata certamente l’ondata sismica che ha colpito i territori del Lazio, Umbria, Marche ed Abruzzo, caratterizzata da una sequenza sismica che ha provocato danni superiori a tutti i terremoti recenti. Dopo la scossa delle ore 3.36 del 24 agosto con magnitudo 6.0 nel Comune di Accumuli, che provocò circa 300 vittime se ne sono susseguite tante altre tra cui, le più rilevanti verificate il 26 ottobre, di magnitudo 5.9 ed epicentro Ussita (MC) ed il 30 ottobre con magnitudo 6.5 ed epicentro il territorio di Norcia. Dal 24 agosto 2016 è iniziata l’azione incessante dei vigili del fuoco di soccorso e assistenza alla popolazione, messa in sicurezza dei fabbricati e di ripristino della viabilità principale e secondaria compromessa dai crolli e dagli edifici inagibili, con interventi di messa in sicurezza con la realizzazione di opere provvisionali, demolizioni e rimozione delle macerie. Molto spesso l’attività di soccorso tecnico urgente e di recupero ha riguardato il patrimonio storico ed artistico rappresentato da importanti opere d’arte: si cita, a titolo di esempio, il recupero della sacro dipinto della

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Madonna Addolorata che, sebbene rappresenti un singolo intervento tra tanti recuperi operati dalle squadre dei vigili del fuoco, ha suscitato un particolare fermento di fede e devozione, scuotendo profondamente gli animi di un’intera comunità religiosa internazionale e locale. Tale recupero avvenuto in data 29 ottobre 2016, appena un giorno prima della grande scossa sismica di magnitudo 6.5 che ha causato il crollo della chiesa che la custodiva. Il quadro, ritenuto miracoloso in quanto sembra che versò lacrime nel 1735 dopo i violenti sismi degli inizi del ‘700, è sopravvissuto a tre sismi, di cui l’ultimo del 30 ottobre 2016, grazie alle squadre VV.F. intervenute. È stato poi prelevato dalla sua storica sede nella chiesa del centro storico di Norcia, e prontamente messo al sicuro presso il deposito di Spoleto, poi nuovamente esposto, ancora perfettamente integro, nel nuovo centro delle attività liturgiche e sociali della Madonna delle Grazie il 17 giugno 2017, dopo una cerimonia ufficiale alla presenza del presidente Conferenza Episcopale Italiana Cardinale Gualtiero Bassetti, dell’arcivescovo di Spoleto e Norcia mons. Renato Boccardo e delle autorità civili locali. Così altri importanti interventi al limite delle condizioni di sicurezza che hanno permesso di recuperare dalle squadre di Vigili del fuoco ivi presenti elementi architettonici dalla Basilica di S. Benedetto e in altre chiese della zona, fino al giorno prima della forte scossa sismica del 30 ottobre, che ha causato il crollo della Basilica, avvenuto fortunosamente alle 7:00 del mattino anziché le 8:00, ora in cui sarebbero avvenuti gli ultimi interventi

di ripristino del tetto della Basilica ad opera dei nuclei SAF dei vigili del fuoco. Piace immaginare a molti devoti del luogo sacro che per intervento miracoloso di S. Benedetto o della stessa S. Barbara, protettrice dei Vigili del fuoco, ritratta in un antico affresco su una parete interna della Basilica con in braccio una torre lesionata, ora sepolto tra le macerie, la struttura della Cattedrale è rimasta in piedi finché non vi fossero più soccorritori ad operare sul tetto. In questo drammatico contesto il recupero di tele, statue ed elementi architettonici di grande valore storico ed artistico in pieno sciame sismico, rappresenta un momento di orgoglio per le istituzioni in cui gli operatori del soccorso hanno lottato con tutte le energie fino all’ultimo istante per salvare frammenti di arte e storia destinate ad una sicura rovina sotto il peso delle macerie e della furia devastante del sisma, opere che in molti casi rappresentano per la comunità locale, oltre al valore artistico, l’identità della comunità stessa. Ed è proprio dai recuperi e restauri delle opere d’arte come quelli eseguiti a Norcia, in Val Nerina, ad Arquata del Tronto, come in altre zone colpite dal sisma, che la comunità dovrà trovare la forza di far risorgere le attività economiche, culturali e sociali, ed intraprendere il percorso della ricostruzione per un ritorno alla normalità: è stato eccezionale l’impegno e il coraggio degli uomini e mezzi del soccorso per salvare le persone e recuperare i beni sotto l’ondata sismica, necessiterà altrettanto coraggio e forte impegno sociale per far tornare a rifiorire le tradizionali attività culturali e sociali di tali territori.


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Operazioni di recupero dei Vigili del Fuoco della croce e guglie della Basilica di San Benedetto a Norcia

Il sistema organizzato messo in piedi dal C.N.VV.F. per fronteggiare le grandi emergenze garantendo l’operatività di un numero significativo di uomini e mezzi provenienti dai vari Comandi vv.f. d’Italia su un territorio così vasto colpito dal sisma, si compone delle seguenti strutture operative: - Centro Operativo Nazionale (CON), presso la Direzione Centrale per l’Emergenza e Soccorso Tecnico del Dipartimento dei Vigili del Fuoco, del Soccorso Pubblico e della Difesa Civile, che assicura il coordinamento e il controllo generale delle operazioni di soccorso e di tutte le attività in corso; - I Comandi di Cratere, che coordinano i dispositivi di soccorso per le calamità in ambito regionale di pertinenza, gestendo le risorse di uomini e mezzi inviate dal CON; - I Comandi Operativi Avanzati che curano la direzione tecnica ed operativa in loco, raccordandosi con i Comando di Cratere; - Le Unità di Crisi Locale UCL assicurano i punti di contatto con le popolazioni locali colpite dal sisma, ricevendo le richieste di intervento e pianificando l’intervento delle squadre vv.f. Per la progettazione, la direzione tecnica ed il supporto per la realizzazione delle opere provvisionali post-sisma per gli edifici civili e di culto danneggiati dal sisma ha operato il Nucleo di Interventi Speciali (NIS). Le opere di puntellamento si è evoluta negli ultimi tempi con soluzioni tecniche elaborate sulla base delle tecniche STOP di progettazione delle opere provvisionali utilizzando strutture lignee ed in acciaio giuntate. A fianco a tali attività hanno operato tecnici vv.f nell’ambito dei Gruppi Tecnici di Sostegno per la definizione delle priorità da seguire, e per la compilazione delle schede AeDES di danno agli immobili (oltre 92 mila controlli effettuati nei 300 comuni interessati dal sisma).

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Un racconto del recupero della Sacra Tela della Madonna Addolorata Il 29 ottobre la nostra Norcia continuava a tremare. Le scosse degli ultimi giorni, di intensità sempre maggiori, cominciavano a preoccuparci. Quanto avrebbero retto le nostre abitazioni già provate, e in particolar modo le chiese, le cui mura mostravano pesantemente i segni di quelle incessanti sollecitazioni? La nostra Squadra, richiamata dalla necessità di salvare il salvabile, si trovò a dare una priorità a tante meravigliose opere d’arte che arricchivano le nostre chiese: si privilegiò il quadro della Madonna Addolorata, un’icona di devozione per noi cittadini di Norcia. L’immagine aveva fatto parlare di se nel lontano XVIII quando le si attribuirono lacrime miracolose: da allora la Madonna Addolorata è divenuta la madre di generazioni di fedeli. La chiesa di San Filippo Neri, conosciuta come chiesa della Madonna Addolorata appunto, che la ospitava, versava in condizioni precarie, in particolar modo il suo campanile che non assicurava nessuna stabilità. Dopo il recupero era di fondamentale importanza un luogo dove riporla in sicurezza. L’unico luogo ad hoc ci sembrò essere la chiesa di S. Maria Argentea. La mattina seguente, alle 07.33 una scossa tellurica di una potenza inaspettata sconvolse la nostra esistenza; molte case e tutte le chiese andarono distrutte. Anche quella di S. Maria Argentea. Disperazione, sconforto, delusione si impadronirono di noi; poi subentrò l’incredulità ed infine la gioia nel constatare che l’unica parte della chiesa rimasta intatta era proprio la sacrestia. Straordinario. La nostra Madonna si era salvata. La sua immagine è attualmente collocata nella struttura di accoglienza, donata dalla Caritas, adibita a chiesa. Una grande celebrazione alla presenza di S. Eminenza Cardinale Bassetti e dell’Arcivescovo dell’Arcidiocesi Spoleto-Norcia S.E. Renato Boccardo e delle autorità civili locali ha accompagnato la ricollocazione del dipinto con tanti cittadini profondamente commossi. Tale situazione è un valido esempio a testimonianza anche del fatto che la macchina dei soccorsi ha funzionato bene grazie all’intervento congiunto, oltre delle squadre dei Vigili del Fuoco, delle Forze dell’Ordine, dei tecnici della Soprintendenza dei Beni Culturali e volontari di Protezione Civile e restauratori che hanno permesso, in tale circostanza, il recupero, la messa in sicurezza ed il restauro di molte opere d’arte.

Dipinto della Madonna Addolorata

Squadra di recupero del quadro della Madonna Addolorata

Emanuela D’Abbraccio

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(H)EART(H)QUAKE di Fabio Fabiani La mostra “Le Superutopie toyscapes” curata da Ofarch presso la Casa dell’Architettura di Spoleto, negli spazi di Palazzo Collicola Arti Visive Spoleto, è l’occasione per una riflessione sulla città contemporanea e il terremoto. Non si è trattato di esporre solo materiale dell’architetto-artista Anna laTouche Riciputo ma si è voluto avviare un’idea di mostra-progetto. I collage digitali della Riciputo sono stati il punto di partenza per indirizzare un percorso di analisi sulla città di Spoleto contemporanea coinvolgendo il Coletivo Barragem, formazione creativa di San Paolo del Brasile, composta dall’architetto Nivaldo Godoy e dallo scenografo Panais Bouki. Il collage digitale, tecnica comune agli artisti presenti, ha permesso di far emergere gli “strati” della città producendo nuovi paesaggi urbani frutto di una fusione diretta di architettura, arte, design, costume, cinema e scenografia con due esiti diversi. Il collage digitale pop di Anna laTouche Riciputo, S(poleto)uperland, lascia intravedere una città entusiasticamente goliardica. Si tratta di un auspicio di ripresa dal momento “titubante” che si respira attraverso una visione di una città luna park, quasi a manifestare un desiderio nascosto di divertimento. Alle infinite vedute incantate dello skyline riconoscibile della città, con al centro la dicotomia ponte-rocca, si sostituisce un paesaggio che cancella il silenzio “giocando” con la memoria del luogo; le montagne russe installate sopra la linea orizzontale del ponte ricalcano gli interventi artistici che hanno dialogato con il monumento e la stessa cosa si può dire della trasformazione in luogo di divertimenti della Rocca, un’architettura “parlante” che manifesta all’esterno la sua “mondanità” festivaliera e simbolicamente le torri, sostituite in rossetti, richiamano l’inquilina più illustre che aveva già dato vita a questa accezione “lussuriosa” dell’edificio, Lucrezia Borgia.

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“La città che trema, è la città che sorge”


Particolare S(poleto)uperland di Anna laTouche Riciputo, Casa dell’architettura, Spoleto

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Composizione lineare (H)EART(H)quake del Coletivo Barragem, Casa dell’architettura Spoleto

Il progetto (H)EART(H)quake del Coletivo Barragem, sotto la direzione artistica della Riciputo, è una seconda analisi e allo stesso tempo progetto per la Spoleto contemporanea. Tre sono gli elementi principali che vengono presi in considerazione: la storia monumentale della città, la storia del Festival dei Due Mondi e il perenne rintocco del tempo, il terremoto. Il Coletivo Barragem traduce questi tre elementi in una raffigurazione scenica. Una video-sequenza dove gli impalcati messi a sostegno degli edifici danneggiati dal sisma vengono liberati della loro funzione strettamente strutturale e si animano in un linguaggio spaziale autonomo. Tralicci di acciaio si liberano nello spazio trasformando, una semplice messa in sicurezza, in “architetture del vuoto” capaci di aggiungere una sovrastruttura immaginativa alla lettura attuale del tessuto urbano. In una sorta di taglia e cuci tra passato e presente si crea un

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“teatro continuo” o la più ripetuta a slogan “Spoleto città-teatro” dove personaggi del Festival e ignari cittadini appaiono e dialogano con la città e le sue cicatrici. Il Coletivo Barragem con questa operazione abbraccia anche la memoria compositiva di due grandi personaggi del passato che hanno vissuto e operato in città: Sol Lewit e Costantino Dardi. Sembra cosi di essere al cospetto di un linguaggio comune che elimina le distanze geografiche e temporali dei protagonisti e ha trovato e, continua a trovare, in una piccola città di Provincia, un luogo di sperimentazione per lo spazio. Il centro della ricerca che accomuna tutti è l’infinita spazialità del cubo. Sol Lewit è il primo a concentrarsi sull’essenza della forma cubica, attraverso un dialogo tra spigoli materiali e quelli solamente suggeriti dal vuoto per approdare allo spazio dell’uomo, quello geometrico e minimalista dell’architettura. Il volume diventa lo spazio nel quale confinare

la funzione, tema che più volte verrà rimesso in discussione nel corso del ‘900. Dardi, architetto che opera con l’idea di materializzare la forma cubica in elementi architettonici, lascia tracce del suo modus operandi nel restauro della Rocca scegliendo di mantenere in vista un segno contemporaneo nel rispetto del monumento storico. Alla fine di questo processo temporale, il Coletivo Barragem porta la forma cubica e la spazialità che ne consegue ad un salto di scala triplo: si passa da un oggetto formale ad un’architettura per poi approdare ad una composizione urbana continua. In chiusura è proprio l’analisi delle contaminazioni storiche dei processi culturali avviati nel tempo che permette di affermare che la città che trema, è la città che sorge perché di fronte ad un’emergenza è l’identità consolidata della città che trova al proprio interno le risorse per riemergere.


Particolari frame video (H)EART(H)quake del Coletivo Barragem, Casa dell’architettura Spoleto

Particolare video (H)EART(H)quake del Coletivo Barragem, Casa dell’architettura Spoleto

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FATE PRESTO!

Emergenza, memoria e ricostruzione nell’arte contemporanea di Aldo Iori Nella contemporaneità non è raro il caso di artisti che dedicano la loro attenzione all’evento sismico spesso, diversamente dal passato, mettendo in relazione la loro energia creativa con quella della natura o reagendo al trauma con ricca potenza intellettiva. Nel passato l’arte dava forma, nell’icona apotropaica, alla narrazione dei miti primigeni dello sciamano evocando le forze ctonie antropomorfe o zoomorfe: i Giganti, il pesce gatto giapponese, l’elefante o le tartarughe indiane o i dispettosi serpenti amerindi. In occidente il terremoto segna la fine del tempo, dopo la rottura del sesto sigillo nel Libro dell’Apocalisse, e spesso la sua evocazione assume la valenza simbolica di volontà esterne all’uomo che ne decretano la punizione o la salvezza oppure diviene rappresentazione della memoria collettiva o cronaca della catastrofe. Tanti terremoti compaiono nella pittura in tele d’altare e semplici ex-voto. Singolari i casi della Sala dei Giganti, di Giulio Romano del 1533 a Palazzo Té a Mantova, in cui la collera divina colpisce i mostri antropomorfi con un sisma cosmico e quello di Monsù Desiderio, pittore dell’inizio del XVII secolo: le sue allucinatorie e apocalittiche visioni notturne in molti casi hanno come soggetto proprio l’evento sismico, quasi preconizzando illustrazioni per la moderna thomiana teoria delle catastrofi o le virtuali narrazioni di cui la letteratura e il cinema odierno sono prolifici. L’arte contemporanea si fonda su presupposti in parte diversi da quelli del passato; l’icona nasce dalla coscienza di essere nello spaziotempo tra passato, presente e futuro e dalla sua necessità di un continuativo e specifico approccio con il reale del mondo e le sue problematiche. Ne sono un esempio la risposta picassiana al trauma di Guernica e il complesso carattere della nuova estetica relazionale presente in tanta arte contemporanea. L’opera quindi si relaziona con il mondo e si contamina con l’evento oltre l’evocazione simbolica, la narrazione o la collocazione metafisica della catastrofe. L’artista si fa carico di soluzioni nelle quali l’emergenza possa sollecitare nuovi metodi di intervento nel mondo

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Alberto Burri, Grande Cretto Gibellina, 1985-2015, Gibellina Vecchia, Trapani

e pratiche atte a consolidare la coscienza di una memoria, singola e collettiva, e anche per ricostruire, elaborando il vuoto dell’assenza, non solo il distrutto ma la nuova identità della collettività sopravvissuta. All’indomani del terremoto della Valle del Belice del 1968, l’amministrazione locale decide di ricostruire il paese di Gibellina a venti chilometri dal paese distrutto. Architetti ed artisti sono chiamati dal sindaco Ludovico Corrao a fornire progetti e opere per la rinascita della nuova città. Anche Alberto Burri fu invitato e, unico a fare questo, volle intervenire sulle rovine abbandonate del paese creando un’immensa opera praticabile, il Grande Cretto Gibellina, iniziata nel 1985 e interrotto nel 1989 e finalmente concluso per il centenario burriano del 2015. Inizialmente visto con sospetto e come intrusione non richiesta dell’arte nella propria memoria, oggi i superstiti accettano l’opera che diviene nuovo luogo per la memoria: sanno che le loro cose sono per sempre custodite dall’arte che ha dato forma alla loro cicatrice lasciata dal terribile trauma.

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Andy Warhol, Fate presto, 1981, Collezione Terrae Motus, Reggia, Caserta

Mario Merz, Terrae Motus, in quel tempo...,1984, Collezione Terrae Motus, Reggia, Caserta

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Nel luglio del 1984 si inaugura a Villa Campolieto, a Ercolano, la mostra Terrae Motus che riunisce le opere di artisti che avevano risposto nel 1981 all’invito del gallerista napoletano Lucio Amelio di reagire con un’opera al sisma che aveva scosso Napoli e l’Irpinia. Le opere dei 25 artisti rispondono al tragico con altrettanta energia supportata dal proprio linguaggio in specifiche intense e magnifiche soluzioni formali. Tra essi Alfano, Beuys, Cragg, Hearing, Kiefer, Long, Mapplethorpe, Merz, Paladino, Pistoletto, Richter, Twombly e Warhol; quest’ultimo realizza tre grandi tele che riproducono, in positivo, in negativo e in oro, la prima pagina del giornale napoletano “Il Mattino” del 26 novembre 1980 che titolava Fate presto! Nel 2009 il territorio abruzzese è scosso da un violento terremoto che miete vittime e ferisce profondamente il patrimonio aquilano. L’artista Giuseppe Stampone decide di reagire all’evento realizzando opere che intervengono criticamente sulla comune accettazione della disgrazia altrui. Particolare eco ha la produzione e la diffusione, dal 2010, di cartoline della città terremotata con la scritta Saluti da L’Aquila: un invito a venire nella città per capire l’accaduto oltre la comunicazione ufficiale, ascoltare il silenzio delle rovine e verificare la possibilità della comunità di scegliere quello in cui credere per il proprio futuro. Tre episodi italiani esemplari, nel panorama internazionale, del porsi nei confronti della catastrofe tellurica che si fondano sul voler mantenere la memoria e rielaborare il trauma nella consapevolezza dell’evento. La reazione all’irrazionale, caotico e imponderabile, trova forma in un nuovo equilibrio tra apollineo e dionisiaco in una rinnovata condizione della bellezza che lenisce. L’artista si fa carico di soluzioni nelle quali l’emergenza possa sollecitare nuovi metodi di intervento nel mondo e pratiche atte a consolidare la coscienza di una memoria, singola e collettiva, e anche per ricostruire, elaborando il vuoto dell’assenza, non solo il distrutto ma la nuova identità della collettività sopravvissuta.

Anselm Kiefer, Et la terre tremble encore, d’avoir vu la fuite des géants..., 1982, Collezione Terrae Motus, Reggia, Caserta

Giuseppe Stampone, Saluti da L’Aquila, 2011, Installazione al MACRO, Roma, Courtesy dell’artista e di Prometeogallery di Ida Pisani, Milano-Lucca

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ARTquake di Cristiana Mapelli

L’arte di ricostruire

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Quando mi chiedono che cosa ho imparato dalla popolazione della Valnerina nelle mie visite post sisma rispondo “La tenacia e la dignità”. Ed è realmente così. Cos’altro dire di persone che, abbandonato il disorientamento iniziale, hanno intrapreso da subito un cammino all’insegna di una bellissima normalità? Ad un anno dall’evento che ha spazzato via la quotidianità in Valnerina, insieme al fotografo Marco Giugliarelli ho raccolto testimonianze e racconti inediti di questa Umbria in un prodotto di comunicazione voluto e promosso dalla Regione Umbria: Samuel ha un anno. E una casa. Storie di persone di una terra coraggiosa. Ora il libro, grazie a un’idea dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia, promossa da Sistema Museo e qualificata dalla collaborazione della Casa di reclusione di Spoleto e del Comune di Spoleto, è diventato un’installazione artistica che ha fatto tappa prima a Expo Casa 2018 e, successivamente, a Palazzo Collicola: ARTquake, Dieci micro case ideate da una équipe di giovani studenti dell’Accademia e realizzate dalla falegnameria della casa di Reclusione, dove entrare per vivere un’esperienza straordinaria. Un piccolo borgo ideale al crepuscolo dove le immagini permettono un’esperienza immersiva nella Valnerina, che rimarca la necessità di affrontare i temi della ricostruzione post sisma attraverso l’utilizzo di materiali tradizionali, dove dal “dov’era, com’era” si riflette sulla qualità architettonica. Un’opera che mette al centro dell’attenzione le vite e le emozioni di chi queste terre le abita. Viaggio di casa in casa Il nostro viaggio immaginario inizia con una prima sosta didascalica in cui è illustrato il progetto e continua con l’esperienza vissuta dalle quattro ragazze della task force di restauratrici diplomate all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze “prestate” all’Umbria per gli interventi di messa in sicurezza delle opere danneggiate dal terremoto e custodite nel Deposito di Santo Chioso a Spoleto. Qui è racchiusa l’essenza dell’Umbria e l’identità culturale collettiva dei suoi abitanti, un patrimonio che va difeso per ricordare chi siamo. C’è anche la storia di Giulia, che ha deciso di trasferirsi da Bergamo a Norcia per lavorare nella lussuosa struttura ricettiva di Palazzo Seneca, splendida dimora del 1.500 nel centro storico subito dichiarato struttura sicura, ma chiusa al pubblico in via precauzionale. Ad aprile la lussuosa struttura ha riaperto i battenti a turisti e visitatori, reclutando Giulia nello staff. “Dai nursini – dice la ragazza – ho imparato a vivere e a non arrendermi mai”.

ARTquake, Expo Casa 2018, fotografie di Marco Giugliarelli

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Ricostruzione Emozionanti le immagini che ritraggono i giovanissimi del neo Corpo europeo per la Solidarietà che hanno raggiunto Norcia da sei paesi dell’Europa per aiutare la popolazione grazie ad attività con i bimbi e seminari, ma anche in un giro di briscola dopo cena. La ricostruzione inizia anche da qui. Esemplare è la storia della famiglia Cetorelli, produttori di pecorino a Campi di Norcia da tre generazioni. Il terremoto non li ha fermati nemmeno un momento. Giusto il tempo di capire da dove ricominciare e tutto è subito ripartito. “Fermarci? Chi lo spiega alle pecore?”. Con il racconto della famiglia Brandimarte e dell’allevamento di cavalli allo stato brado voliamo nella splendida Castelluccio. Loro, gli “irriducibili”, sono stati gli ultimi a lasciare la Piana e i primi a farvi ritorno. Le immagini della transumanza dei Brandimarte per portare la mandria a valle a dicembre, un viaggio difficile a causa del sisma che ha reso inagibile la strada verso Norcia e quella nei boschi, ha fatto il giro del mondo. Sono dei bambini delle scuole di Norcia e Cascia i volti ritratti nei loro grembiuli rosa e azzurri e che, ad un anno dal sisma, trascorrono le mattinate in nuove scuole belle e sicure, immersi in una bellissima normalità. Di casetta in casetta, si arriva anche in quella che ospita la storia che da il titolo al progetto. Samuel, insieme a mamma Pamela e papà Massimiliano, in un anno ha cambiato 9 case. Il piccolo nasce all’ospedale di Spoleto il 24 agosto a mezzanotte e cinquanta. Alle 3.36 il Centro Italia inizia a tremare portando via la casa di questa giovanissima famiglia. Nell’aprile 2017 la Regione Umbria consegna un modulo abitativo a Samuel: 40 mq con mura sicure e tutto quello che serve per tornare alla normalità. “Sfornare ciambelle, un letto vero, quattro mura: è la vita che torna”. E ancora, si parla di Rossella, preside combattente dei 1.200 alunni delle scuole di Cascia e Norcia rese inagibili dal terremoto. A nemmeno 24 ore dalla scossa del 30 ottobre la preside, durante una riunione con i vertici istituzionali, ha richiesto dei moduli prefabbricati in due settimane. “Il sisma ha distrutto case e aziende, ma c’è un patrimonio ancora più prezioso da salvaguardare: i ragazzi, il nostro capitale umano”. Infine, la nostra immaginaria visita in Valnerina si conclude con la storia di Silvana che a Civita di Cascia produce zafferano anche per il Principe Carlo d’Inghilterra.

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Ricucire un territorio L’arte continua a sgorgare attraverso le crepe di Vincenzo Pennacchi

Vincenzo Pennacchi, Aereo rapace, 2016 (tela dipinta e intonaco lesionato)

C’è stato un crollo. Quel che resta è soltanto un cumulo di macerie, pietre, affreschi, quadri, immagini, archivi, documenti, foto, provenienze, radici. L’archivio, quello che si custodisce nei cassetti del proprio cervello, è fotografico e associa immagini innescando ignote connessioni emotive. Ad uno stato di emergenza dovuto a calamità naturali, si affianca, nella mente, la fastidiosa percezione dell’esistenza di una crisi culturale in atto ormai da parecchi decenni. Con quali strumenti un artista affronta un simile stato di cose?

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Attraverso il proprio lavoro. Egli si avvicina al cumulo di macerie e seleziona i materiali che in passato già altre mani hanno modellato: assi, tavolame, tubi, brandelli, i quali, attraverso il rigore formale e la propria poetica, possono nuovamente animarsi, in una sorta di resurrezione materica. Ma le persone che tra quelle macerie hanno perduto tutto si accorgono della presenza e del lavoro dell’artista? A volte sì, come è accaduto nel 2015 all’Aquila con la realizzazione dell’anfiteatro di Beverly Pepper, che ha voluto evidenziare

quanto sia importante, accanto alla ricostruzione fisica, recuperare anche l’identità culturale della comunità. La Crepa, nella Galleria Civica di Arte Contemporanea di Spoleto, è un lavoro nato all’indomani delle forti scosse telluriche avvenute in Umbria nell’agosto del 2016, a seguito di una felice intuizione del direttore del Museo Gianluca Marziani, tesa alla rielaborazione delle lesioni sull’intonaco come fonte di rinascita. L’entusiasmo per l’incarico ha dato vita a degli appunti che, a posteriori, sembrano un reportage di guerra:


Vincenzo Pennacchi, Il Tuffatore, 2016 (specchio e intonaco lesionato)

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Caro Direttore, si continua con lo stesso spirito, la stessa energia che ha dato seguito alla tua fantastica idea. Dopo i primi momenti di ansia, di terrore e sconforto, ecco che i termini del giuoco si ribaltano di nuovo. Si continua a lavorare con uno spirito da resistenza civile davanti a nuovi crolli e nuove lesioni con la speranza che non sopraggiungano altre scosse a cancellare il tutto. Prendiamo ago e filo ed iniziamo a ricucire il territorio. Ci sarà a breve un’opera, la prima, e diverrà il simbolo di questa operazione. La mostra è stata inaugurata il 12 dicembre 2016. Claudia Colasanti su Il Fatto Quotidiano si esprimeva in questi termini: “L’artista ha selezionato sette spaccature per poi risanarle con i materiali propri del suo percorso, come specchi, frammenti di tela e di carta dipinta, lavorando in maniera intensa – ma delicata e seducente – sulle ferite degli storici muri: una cucitura iconografica e morale, nel corpo della consunzione naturale di un territorio in bilico” (Claudia Colasanti, Spoleto non tutte le crepe vengono per nuocere, in “Il Fatto Quotidiano”, 8 marzo 2017). La Galleria Civica di Spoleto è un luogo denso di opere che hanno segnato la storia dell’arte degli ultimi sessant’anni. Nel momento in cui, al suo interno, si entra in relazione con l’intonaco lesionato (elevato a mezzo d’indagine), ci si accorge che quello spazio è divenuto una tela, la materia a cui affidare un messaggio. La selezione delle crepe oggetto degli interventi non è stata condizionata solo dall’istinto, ma anche dal contesto. Lasciare ampi spazi tra un lavoro e l’altro è risultato fondamentale per non creare disturbo alle opere della collezione.

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Evidentemente, esiste un filo conduttore visibile, un modus operandi che, riallacciandosi a tutto il precedente percorso personale, riconduce agli elementi della ricerca. Il giuoco e l’ironia costituiscono alcune componenti che si fondono ad una dimensione spirituale. Da quest’ultima, è scaturita il sottotitolo della mostra: Sette stazioni dello spirito. In un’ampia recensione anticipatrice dell’evento su “Il Messaggero”, Antonella Manni scriveva: “Un’operazione artistica ‘a cuore aperto’. Come fossero tagli e buchi di Fontana, cretti e bruciature di Burri fenditure firmate da Leoncillo. Così, dalle lesioni sulle volte e dalle cadute d’intonaco provocate dal terremoto del 24 agosto scorso, al piano terra di palazzo Collicola nasceranno opere d’arte” (Antonella Manni, Quando il sisma inventa l’arte della crepa, in “Il Messaggero”, 12 ottobre 2016). In conclusione, una riflessione sul ruolo dell’arte nell’immaginario collettivo. Può l’arte svolgere un ruolo nel recupero dell’equilibrio culturale di una comunità ferita? E in che modo? Si può provare a rispondere attraverso un testo di Ferruccio Marotti, ordinario di Storia del Teatro a La Sapienza di Roma e storico Direttore del Teatro Ateneo: Dramma e trance a Bali. Qui il dramma, insito nell’esistenza umana, viene superato mediante una trance collettiva, in cui anche gli spettatori vengono coinvolti. Ci si augura che nel prossimo futuro i musei possano instaurare un nuovo rapporto con la popolazione, facendo assumere ai visitatori un ruolo attivo, coinvolgendoli nel magnifico mondo del giuoco dell’arte.

Vincenzo Pennacchi, Animals, 2016 (solfato di rame, specchio e intonaco lesionato)

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João Glama Strobërle, Allegoria del terremoto di Lisbona del 1755, sec. XVIII, Museu Nacional de Arte Antiga, Lisbona

TERREMOTO Tra antichi miti e nuove consapevolezze di Alessio Proietti “Tra i fragelli distruggitori non credo, che ve ne sia alcuno, che inspira più profondamente il terrore, e lo spavento, quanto il Tremuoto” (Giovanni Vivenzio, Istoria e teoria de’ Tremuoti, 1783). Fin dall’antichità l’uomo ha cercato di comprendere l’origine di un fenomeno naturale tanto devastante, andando a cercare un senso talvolta sovrannaturale a un evento altrimenti inspiegabile. Miti, leggende, teorie e scoperte scientifiche si sono susseguiti,

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mantenendo come filo conduttore il termine dell’imprevedibilità, determinando una paura ancestrale con cui l’uomo ha difficoltà a convivere. Un’immagine che ben raffigura questo senso di precaria stabilità ci giunge da una leggenda siciliana del 1200: l’abilissimo nuotatore Colapesce, immergendosi in fondo al mare per ordine del re, notò che la Sicilia era sorretta da tre colonne, una delle quali prossima al crollo. Si sostituì ad essa per non far sprofon-

dare l’isola e non riemerse mai più. Quando tuttavia il giovane eroe cambiava posizione per stanchezza, la terra tremava. Un rimando a questo mito sembra essere giunto anche a L’Aquila, in un mascherone pisciforme nella Fontana delle 99 Cannelle, che alcuni riconducono a Colapesce e alla Sicilia di Federico II. Sotto il Ducato di Cosimo I, nel 1542, un disastroso sisma si abbatté sul Mugello. Gli abitanti delle zone colpite, anziché ricevere agevolazioni ed esenzione dalle tasse, si vi-


Leonardo Lucchi, Raffigurazione scultorea della leggenda di Colapesce (bozzetto), 2010

Castelnuovo, San Pio delle Camere (AQ), 2010, Ph. Alessio Proietti

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L’Aquila, 2013, Ph. A. Proietti

dero aumentare le imposte e comminare provvisioni contro bestemmiatori e sodomiti. Assunto che la sciagura fosse una punizione divina contro i peccati umani, l’attenzione era dunque volta alla ricerca dei colpevoli, secondo una pedagogia della paura operata dal clero del tempo per ricondurre gli uomini sulla retta via. Parallelamente all’interpretazione ecclesiastica, i filosofi naturalisti sostenevano invece l’antica teoria aristotelica, secondo la quale la causa dei terremoti andava ricercata nella pressione di venti sotterranei imprigionati nei meandri della Terra. In base a tale interpretazione, Firenze avrebbe subìto solo lievi danni dal sisma del 1542, grazie allo sfogo permesso ai venti dai numerosi pozzi presenti in città. Nel giorno della festa di Ognissanti del 1755, il catastrofico terremoto di Lisbona accese un dibattito teologico e filosofico che modificò il pensiero culturale di un’Europa in piena età illuministica. Se a tal proposito Rousseau sosteneva che “se gli abitanti fossero stati distribuiti più equamente e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento”, Kant appuntava che “noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare”. Convinzioni legate a rivendicazioni divine perdevano forza a favore dell’errore umano e di concetti pratici che oggi ricondurremmo a pericolosità, esposizione e vulnerabilità, nell’equazione che definisce il rischio. Lisbona veniva ricostruita, analogamente a dozzine di altri centri abitati che nel corso dei decenni, e fino ai giorni nostri, hanno subìto simile sorte. Un graduale processo di miglioramento della sicurezza degli edifici, condotto però a posteriori, senza prima aver fatto abbastanza per proteggere gli abitanti, il patrimonio architettonico e artistico, gli equilibri socioeconomici. La

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Amatrice, 2016, Ph. A. Proietti

consapevolezza ci porta quindi verso una cultura della prevenzione. Necessaria, ineludibile, ma sufficiente a risanare crepe dalla genesi così profonda? Al computo delle perdite post-sisma, si affiancano dei valori uncountable. La fiducia, ad esempio. Sarebbe infatti una vittoria di Pirro ricostruire una casa, senza ricostruire la fiducia dell’abitante in quello stesso edificio, di un cittadino nella propria città. Siamo in grado di definire il punto di snervamento di un materiale da costruzione, ma sappiamo individuare il punto di snervamento psicofisico di una popolazione investita da un forte trauma? C’è uno stato limite di salvaguardia della fiducia nella tecnica, nelle istituzioni, nella ricerca scientifica? È auspicabile un approccio interdisciplinare che punti alla resilienza materiale e immateriale, in cui la comunicazione, fatta di molteplici mezzi e forme di espressione, raggiunga utenti che non siano solo interlocutori finali di un processo, ma decisori attivi, informati e formati. In questo senso, un passo importante è la recente istituzione della Cattedra Unesco in Intersectoral safety for disaster risk reduction and resilience presso l’Università di Udine. Permane il nodo cruciale dell’imprevedibilità a breve termine di un terremoto, ma studiare l’eziologia del fenomeno, definendone leggi fisiche e modelli, può contribuire a ridurre il livello di incertezza. A questo scopo, nei laboratori dell’Ingv di Roma è in azione Shiva (acronimo di Slow to High Velocity Apparatus e richiamo alla divinità distruttrice indù), prima macchina al mondo in grado di simulare il “motore” dei terremoti. Ancora una volta il mito (qui solo metaforicamente) è la lente con la quale l’uomo indaga la realtà, cerca delle risposte, consapevole più che mai di dover essere lui al centro della ricerca-azione, quale elemento imprescindibile, più delicato e al contempo resistente della struttura.

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Le sentinelle fluttuanti Figure mobili nello spazio coltivo

di Rosario Giovanni Brandolino e Paola Raffa

Le Sentinelle Fluttuanti sono figure effimere nello spazio coltivo. Dissuasori ottici e sonori del silente lavoro contadino. Rievocano gli antichi uomini di paglia posti a difesa dei campi che con il loro fluttuare custodivano la fatica del lavoro e ne assicuravano il raccolto. Temporanee figure delle stagioni, ne registrano il passaggio. Si piegano al vento, fronteggiano la neve, la pioggia, il sole. Nella loro immobilità si pongono in antitesi al cammino migratorio degli uccelli e degli uomini; perché il loro essere fermi esprime la sicurezza del ‘ritrovarsi’, la possibilità di ‘mettere radici’. Sono rappresentazione e realtà, mimesi e metafora, nella dimensione estetica del paesaggio. Racchiudono in sé “l’essere” e il “conoscere”

delle fluide lentezze della terra. Testimoni di un processo di retroterra agrario sono delle piccole sculture mobili percepite come elementi di captazione dello sguardo. Apparati di difesa a tutela di incursioni alate, rappresentano la capacità di negazione e allontanamento attraverso le forme di un artigianato espressivo che coniuga l’apporto interculturale con i territori di abbandono forzato. Identità indigene di contagio, sono espressione di integrazioni, di differenze, dissomiglianze e intrecci con campi, orti, agri che si unificano alla ricerca di un paesaggio dalle diversità culturali. Molti fotografi contemporanei hanno registrato scrupolosamente la presenza di “eserciti non violenti di crea-

ture” costruiti con frammenti di oggetti riciclati simbolo dei valori umani. La letteratura e l’arte collocano, spesso, questi esempi di arte popolare, nella dimensione paurosa e orribile, dello “spavento”; in altri casi si interpreta il significato dell’auto-rappresentazione dell’uomo come metafora del dominio sulla natura. Nell’opera, forse più nota, il Meraviglioso Mago di OZ, Scarecrow chiede a Doroty di aiutarlo a ritrovare il proprio cervello. Dorothy: «E come fai a parlare se non hai il cervello?», Scarecrow: «Ah, non ne ho idea... ma c’è un mucchio di gente senza cervello che chiacchiera sempre». Si vuole forse mettere in evidenza la saggezza della figura rispetto al mondo reale?

Turco, Kebra, Zynga e Dummies Dancing

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Ideazione e realizzazione di Mask

Dalla “camera di carta� al prototipo

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Dallo scambio di esperienze e contaminazioni di culture tra gli studenti del Dipartimento di Architettura e Territorio di Reggio Calabria e i ragazzi, provenienti da Costa d’Avorio, Gambia, Guinea che abitano nello Sprar di Fondachelli Fantina, coordinati dallo scenografo Aldo Zucco e dalla marionettista Grazia Bono sono nate le Sentinelle Fluttuanti: “Turco”, con fez di latta, sovrapposizioni di layer metallici di differenti texture e pendagli sonanti; “Zynga”, regina danzante con posa da hula hop, testa ramata e fili tesi su anelli concentrici; “Kebra”, vibrafono rasta, con movimento ondulante e scuotimenti sonori; “Mask”, stregone di riti vodoo, dal movimento basculante e tubular bells; “Dummies Dancing”, esili sintonie di mobilità puntuale. Altre elaborazioni, in fuga dalle “camere di carta”, attendono di divenire modelli nello spazio reale. Il workshop Le Sentinelle Fluttuanti si è svolto a Reggio Calabria 9-10-11 maggio 2018 e fa parte delle attività sperimentali della ricerca Mediterranean Landscape in Emergency che studia i territori in emergenza. Sono quei territori che stanno subendo una imponente modificazione dovuta all’arrivo di un enorme numero di uomini, donne e bambini in cerca di luoghi da abitare. La ricerca mira alla progettazione di paesaggi in cui le comunità insediate e nuovi arrivati partecipano alla condivisione dei luoghi. La ricerca scientifica si coniuga alla sperimentazione pratica nei Laboratori MeLANinE, la cui attivazione è data dalla cooperazione tra l’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria in rete con sei istituti di ricerca operanti nell’area mediterranea e i governanti locali sensibili al fenomeno dell’accoglienza. Il primo Laboratorio Patrì(monio)/Paesaggio è stato attivato lo scorso dicembre, in Sicilia nella Valle del Torrente Patrì e si è in fase di progettazione e realizzazione di un Parco Agricolo di cui Le Sentinelle Fluttuanti sono tutori e difensori di un coltivo nella mescolanza di frutti e semine.

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Le Sentinelle Fluttuanti


Incontro con lo scenografo Aldo Zucco

Work in progress

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L’ARTE DELL’EMERGENZA Mediazione e incontro per le donne migranti di Raffaele Federici

L’Unione Europea, e in particolare l’Italia, si trova ad affrontare un’emergenza e a confrontarsi con una dimensione nuova del fenomeno migratorio. In passato, i flussi migratori verso l’Europa erano composti prevalentemente da immigrati volontari, ossia soggetti che decidevano di affrontare la sfida della migrazione sulla base di una valutazione economica personale o familiare. Tuttavia l’instabilità geopolitica in atto, i cambiamenti climatici, le diseguaglianze economiche hanno profondamente modificato la composizione dei flussi migratori. Oggi tali flussi rappresentano una emergenza umanitaria e una sfida alle politiche di convivenza e al Welfare all’interno dell’Europa (A. Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999). Studiare le migrazioni nella prospettiva della comprensione e del dialogo, nel superamento della prospettiva emergenziale, è un tema di ricerca interdisciplinare che ha prodotto una estesa letteratura in diversi campi delle scienze sociali. Superare la logica dell’emergenza è un passaggio necessario proprio per comprendere la complessità del fenomeno e evitare un labelling che confermerebbe esclusivamente lo stato di deprivazione e di disagio per le categorie che dovrebbero essere beneficiate dall’intervento pubblico. In tale articolato contesto, il gruppo di lavoro del progetto “Donne in Mediazione”, composto dai sociologi del Centro di Ricerca per la Sicurezza Umana dell’Università degli Studi di Perugia e il Ministero degli Affari Esteri, ha inteso affrontare l’emergenza delle migrazioni nella prospettiva della teoria del cambiamento, ossia attraverso una metodologia specifica applicata nell’ambito del sociale, per pianificare e valutare percorsi in grado di promuovere il cambiamento attraverso la partecipazione e il coinvolgimento grazie a corsi specifici e attività di laboratorio legate alle produzioni artistiche. La teoria del cambiamento è una metodologia specifica applicata nell’ambito del sociale, per pianificare e valutare dei progetti che promuovano il cambiamento sociale attraverso la partecipazione e il coinvolgimento. Nello specifico si è analizzato il contesto grazie alle narrazioni delle donne coinvolte nel progetto sia come migranti di prima generazione sia come figlie di migranti. E’ stata considerata la metodologia delle storie di vita, uno strumento efficace nella ricostruzione delle motivazioni e delle strategie individuali e familiari che sostanziano il progetto migratorio. La premessa è stata quella di recuperare ciò che è all’origine delle azioni umane, dell’istinto

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“Donne in Mediazione” Laboratorio (professor Ugo Antinori)

Cammini

come capacità (C.E. Ayers, Instinct and capacity, in “Journal of Philosophy”, 18, 1921, pp. 561-565). Invece di proporre cosa fare, il corso si è posto l’obiettivo di aiutare a comprendere la situazione e gestire i problemi comprendendo la responsabilità delle scelte individuali. Grazie al laboratorio di produzione artistica e alle attività di dialogo interculturale, sono state realizzate delle opere sulla base delle esperienze percettive esistenti. Nel percorso, le esperienze sono state messe in relazione all’annullamento della prospettiva, ossia come fossero un colpo d’occhio. Una esperienza senza il troppo lontano, ciò che si è lasciato, e senza il troppo vicino, la realtà del quotidiano, nella ricerca di immagini non lavorate dalle rappresentazioni e non disaggregabili. Le immagini restituiscono così l’esperienza percettiva dell’essere posto a distanza, un fenomeno che permette di affrontare i limiti del campo visivo e, in qualche modo, degli strumenti culturali. Un percorso di post-produzione in cui le allieve hanno interpretato e riprodotto opere “oltre il caos proliferante della cultura globale dell’informazione” (N. Bourriaud, Postproduction. Come l’arte riprogramma il mondo, Postmedia Books, Milano 2002, p. 7) il cui

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Protagoniste di un cambiamento necessario

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risultato finale non può intendersi come primario ma come elaborazione consapevole dell’esperienza, come espressione della possibilità di una mediazione fra le persone. Le giovani donne del corso hanno così elaborato, in maniera informale, la capacità di essere ponte verso le culture e verso se stesse come protagoniste di un cambiamento necessario e troppo spesso solo immaginato e non voluto. Da questo punto di vista l’arte è stata uno strumento e una necessità: è uno strumento euristico diretto sia per la persona che agisce sia per la persona che osserva il risultato finale; è necessità perché consente una libera espressività degli istinti, di ciò che è nascosto. Il dialogo con l’arte ha prodotto una forma di innovazione sociale in cui si è reso visibile la capacità di generare ponti, dialogo, comprensione e, perché no, di nuove attività professionali. Ogni ricerca per l’innovazione sociale ha bisogno di un ambiente fisico favorevole e gli innovatori sociali hanno bisogno di spazi reali “possibili” per sviluppare e applicare le loro idee. Ogni azione è condizionata dai linguaggi, dai sistemi di segni e di codici. L’individuo procede alla costruzione linguistica del mondo (H.G. Gadamer, Il linguaggio, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 59-71). e la libertà dell’azione è caratterizzata dalla libertà verso l’ambiente, ossia apprendere ad abitare meglio il mondo, invece che cercare di costruirlo a partire da un’idea preconcetta dell’evoluzione storica. In altri termini, le opere pensate e realizzate non si danno più come finalità quella di formare realtà immaginarie o utopiche, ma di costituire modi d’esistenza o modelli d’azione all’interno del reale esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista. In questo percorso, oltre le parole dell’emergenza e della sicurezza, parole che rischiano di rappresentare la realtà con un repertorio insufficiente, le studentesse hanno restituito uno scenario di grande creatività, che offre spunti di riflessione utili a ripensare secondo prospettive originali le trasformazioni sociali che l’Italia sta attraversando. Il confronto con queste opere, con le scelte estetiche e narrative, ha il potenziale di contribuire in modo determinante ad attivare un processo di presa di coscienza collettiva della ricchezza di opportunità di incontro ed di innovazione creativa generata anche nei processi di migrazione.


Attraversamenti necessari

Percorsi di vita

Riflessi di giustizia Ominiteismo e Demopraxia

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DESIGN PER IL QUINTO FIGLIO Progetti eccezionali per emergenze quotidiane di Enrico Cicalò

Lontano dallo spettacolo che i media allestiscono in occasione delle emergenze stra-ordinarie vi sono delle emergenze ordinarie, irrisolvibili attraverso le soluzioni standard di designer e aziende specializzate, che sollecitano la progettualità delle persone a risolvere eccezionali problematiche quotidiane. Sono le risposte rese urgenti e imposte dalle necessità di adattare ambienti e oggetti alle esigenze del quinto figlio, descritto da Doris Lessing nel romanzo ad esso intitolato. Il quinto figlio è quello che, nel romanzo della Lessing, arriva ad Harriett e David Lovatt, una coppia di gente comune alla ricerca, come tante, della propria quotidiana felicità. I due si conoscono e decidono di iniziare insieme questa ricerca che inizia nel migliore dei modi quando trovano la casa dei loro sogni, una grande casa vittoriana a una ragionevole distanza da Londra, immersa in un giardino straripante di vegetazione. Una casa completa di attico, piena di stanze, corridoi, scale e pianerottoli. La casa perfetta per ospitare un mucchio di bambini, adatta a realizzare il loro ambizioso obiettivo. E i bambini arrivarono. Prima Luke, poi Helen, Jane e Paul, il quarto figlio. I Lovatt erano dunque una famiglia felice, non come quella della sorella di Harriett che come molti altri familiari passava lunghi periodi ospite nella grande casa dei Lovatt in occasione delle feste e che si ritrovava sull’orlo della separazione e con una figlia, la quarta, coetanea del piccolo Paul, e nata con la sindrome di Down. Al primo piano della grande casa vittoriana traboccante di familiari e vitalità c’era la grande stanza da letto della coppia, e subito accanto una stanzetta che era destinata a ospitare, in successione, l’ultimo nato. Era dunque arrivato il turno del quinto figlio, Ben, il bambino diverso, quell’ultimo nato che avrebbe segnato defi-

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Speciale sostegno che consente di stare in piedi e di camminare ai bambini con droblemi di mobilità. Il sostegno consiste in un’imbracatura mobile per il bambino che si lega con una cintura al corpo del genitore con in più dei sandali speciali doppi, per adulto e bambino, che permettono ai due di camminare insieme simultaneamente. Questa soluzione è stata inventanta da una mamma stanca di vedere il figlio sempre sacrificato su una sedia rotelle ed è stata poi prodotta da una società specializzata nella realizzazione di equipaggiamenti per bambini con bisogni speciali

Deambulatori realizzati artigianalmente con elementi componibili tubolari in PVC normalmente utilizzati in impiantistica, pensati per bambini con problemi di mobilità e adattati ergonomicamente alle singole e specifiche abilità, necessità e misure

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Sistema di chiusura dei vestiti che utilizza calamite al posto dei bottoni, inventato dalla mamma di un bambino affetto da distrofia muscolare per risolvere una delle emergenze quotidiane del figlio. Questa soluzione è stata poi adottata da aziende produttrici di vestiti per bambini ed è arrivata poi ad essere adottata anche dalle grandi marche, come da Tommy Hilfiger che quest’anno presenta una collezione intitolata Adaptive interamente pensata per bambini con disabilitĂ

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nitivamente la vita dei Lovatt che da ricerca spasmodica della felicità si tramutò in emergenza quotidiana. Nel romanzo della Lessing, Il quinto figlio è colui che introduce la diversità, e dunque la disabilità, negli ambienti domestici e familiari e rappresenta uno stato di emergenza eccezionale che diventa quotidianità. Il quinto figlio altri non è che l’imprevisto che irrompe nella normalità quotidiana, che spezza gli equilibri consolidati e obbliga a confrontarsi con problemi prima impensati e impensabili. Quell’imprevisto a cui tutti sono potenzialmente destinati ma che trova sempre e comunque tutti impreparati e inermi. Un imprevisto che oggi muta la propria accezione culturale passando da evento eccezionale a condizione normale. La “Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute”, elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, prevede infatti un concetto di disabilità ormai esteso dal modello medico a quello bio-psico-sociale compren-

dendo chiunque, in maniera permanente o temporanea, si trovi ad avere delle difficoltà nei movimenti (comprese donne in gravidanza, persone con passeggino, anziani, bambini, individui convalescenti o con un’ingessatura agli arti, obesi, cardiopatici, ecc.) o nelle percezioni sensoriali (ciechi e ipovedenti, sordi e ipoacusici), nonché le persone con difficoltà cognitive o psicologiche, richiamando l’attenzione sulle possibilità di partecipazione delle persone, negate o favorite dalle condizioni ambientali. L’attenzione viene così spostata dalla disabilità dell’individuo all’inadegatezza dell’ambiente, che può presentare barriere o facilitatori che annullano le limitazioni e favoriscono la piena partecipazione sociale. Il quinto figlio obbliga al progetto. Progettare per il quinto figlio vuol dire adattare gli ambienti di vita alle esigenze della disabilità, di qualunque tipo essa sia, secondo la concezione allargata che si sta attualmente radicando nella coscienza collettiva. Significa risolvere

problemi di accessibilità alla normalità, misurare rigorosamente spazi e tempi per permettere di superare gli ostacoli, che sono fisici ma anche psicologici e culturali. Il design per il quinto figlio non è un prodotto progettato e commercializzato a partire da approcci forse un po’ retorici prossimi all’universal design ma è design senza designer, auto-costruzione di estensioni del corpo e dello spazio, adattamento delle case e degli oggetti all’evoluzione progressiva e imprevedibile delle disabilità. Il design per il quinto figlio non è risposta a necessità universali ma a bisogni specifici legati all’ergomonia di un singolo individuo che solo un familiare è in grado di riconoscere, di affrontare e di risolvere ricorrendo ad una ostinata progettualità che è prima di tutto risposta ad un’emergenza quotidiana singolare ma che può anche diventare risposta ad esigenze condivise da una moltitudine di individui con problemi simili, e dunque in ultima istanza anche prodotto commerciale.

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Una casa al plurale di Matteo Clemente

Dalla casa famiglia per disabili ai centri residenziali di prima accoglienza per minori

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Nuove emergenze legate alla contemporaneità stanno ampliando il tema della residenza unifamiliare verso una dimensione plurale. Si tratta di nuovi modelli abitativi, a metà tra residenza collettiva, dove più individui, estranei tra loro, condividono spazi comuni, e residenza unifamiliare, che racchiude nello spazio domestico la sfera privata ed intima di una famiglia. Le case famiglia per disabili, piuttosto che i centri residenziali di accoglienza per minori sono modelli abitativi che prevedono la coabitazione di più soggetti, che tra loro non hanno una preventiva conoscenza, all’interno di spazi che hanno le caratteristiche di un appartamento. Il D.M. 308/2001, che stabilisce i “requisiti minimi strutturali e autorizzativi per l’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale”, individua alcune categorie di utenza: a) minori (per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia); b) disabili per interventi socio-assistenziali o socio-sanitari finalizzati al mantenimento e al recupero dei livelli di autonomia; c) anziani; d) persone affette da AIDS; e) persone con problematiche psicosociali. Dal punto di vista tipologico le strutture possono essere: a) a carattere comunitario; b) a prevalente accoglienza alberghiera; c) strutture protette; d) strutture a ciclo diurno.

Le Regioni hanno emanato leggi e decreti di attuazione nei propri ambiti territoriali, con piccole differenze rispetto al numero di utenti, minori, disabili adulti o anziani. La cosiddetta “casa famiglia” che si va a costituire, prevede la presenza di specifiche figure professionali, sociali e sanitarie, all’interno dell’alloggio. Nella Regione Lazio con la D.G.R 1305/2004, per avere qualche riferimento, si prevedono case famiglia con un massimo di 6 utenti nel caso di minori, ovvero massimo 8 disabili adulti e fino a 10 minori per le comunità educative di prima accoglienza. Si tratta di situazioni molto diverse e di profili di utenza diversi. L’accoglienza dei minori riguarda ragazzi che non hanno nel nostro paese un nucleo familiare di riferimento, vengono talora trovati in strada e ricondotti a presidi territoriali per un periodo transitorio. Il processo di ingresso in strutture di primissima accoglienza è veloce ed è deputato alla soluzione dell’emergenza. Dalla presa in carico, alla sala colloqui con assistenti sociali e con il personale sanitario, fino all’alloggio in camerate di passaggio e quindi all’assegnazione di un posto nella struttura, passano mediamente 4-5 giorni. Il periodo di permanenza del minore nei centri di primissima accoglienza può durare pochi mesi, prima di trovare sistemazione in comunità educative, dove possono avere maggiore stabilità. La casa famiglia per disabili ha molte possibili


Centro di primissima accoglienza per minori, Roma. Vista dello spazio esterno con campo da basket. Progetto mtstudio, 2015

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declinazioni, che variano a seconda del livello di autonomia degli utenti. Le residenze per il “dopo di noi”, destinate ad accogliere disabili gravi dopo la morte dei genitori, mirano a fornire una risposta in termini di assistenza a persone, generalmente adulte. Il progetto di coabitazione può essere sviluppato su archi temporali piuttosto lunghi ed il turn over può riguardare più gli operatori che gli utenti. La casa famiglia prevede, secondo normativa, un’articolazione di spazi con camere da letto doppie da 14 mq e singole da 9 mq, 2 bagni, uno spazio per gli operatori e uno spazio soggiorno-pranzo considerato come spazio comune. In caso di disabilità meno importanti, che consentono di avviare progetti di “vita indipendente” per soggetti che possono staccarsi progressivamente dal nucleo familiare, si possono avere configurazioni con gruppi di mini-appartamento, che hanno spazi di privacy molto più ampi della stanza singola, con un operatore che può occuparsi di più persone. Nel caso degli anziani, invece, il modello più utilizzato è quello della comunità alloggio con più di 20 utenti, o quello ben collaudato della casa di riposo, con una maggiore dotazione di spazi collettivi e servizi e più vicino al “tipo” dell’albergo, che a quello della casa. Rispetto a nuove emergenze di abitare “al plurale”, il progetto di architettura si trova ad affrontare temi complessi, dovendo interpretare schematismi normativi regionali piuttosto omologati, che non rendono giustizia di un quadro molto articolato e di istanze diverse. La soluzione diviene come sempre ad appannaggio del progettista, che deve muoversi al limite tra applicazione pedissequa della norma, al fine del conseguimento delle autorizzazioni e adattamento creativo di un patrimonio edilizio esistente e parzialmente già configurato. La casa, anche nella sua dimensione plurale, temporanea ed emergenziale, resta comunque il luogo nel quale ciascuno, qualunque siano le sue istanze abitative, vorrà coltivare, almeno per un pò, il suo progetto di vita.

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Progetto “vita indipendente” con 3 mini alloggi indipendenti + spazio operatore. Periferia di Roma. Progetto mtstudio 2014


Casa Famiglia “il ciliegio”, Roma. Vista dell’ingresso. Progetto mtstudio, 2007-2010

Casa Famiglia “il ciliegio”, Roma. Planimetria del piano terra con individuazioni delle funzioni

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ITER TEATRO

“Ricontrollare le rotte, in un’epoca di crisi di destinazione”

di Ottavio Anania L’idea nasce da alcune suggestioni d’infanzia. Sono cresciuto in una città, Palermo, che nel suo idioma greco, significa “tutto porto”. Il paese di mia madre era un borgo di pescatori, e dopo gli studi mi sono trasferito a Milano, dove gli uomini hanno anch’essi dato grande importanza all’elemento che mi ha più affascinato in questi anni: l’acqua. Il progetto ha vissuto diverse stesure concettuali dal 2010 a oggi, ma le trait d’union è stato sempre l’essere uno spazio polivalente, modulare, itinerante che potesse agire su spazi aperti, chiusi, e che funzionasse anche sull’acqua, in particolari condizioni. Di forte ispirazione sono state le tonnare siciliane, sia l’edificio sia il corpo delle tonnare, ossia la trappola per la cattura dei tonni, non solo lo schema ingegneristico che si definiva stagionalmente in mare, quanto il concetto di ritualità che ne conseguiva specialmente dall’ottocento ai primi del novecento, le logiche comportamentali dei loro operatori e protagonisti, gli aspetti spirituali e il rapporto tra uomini e natura che né scaturì, uno spazio di lavoro, di canti, di preghiera, di rivalsa, di sangue, di sacrificio, di speranze talvolta inattese. Una messa in scena dalle radici millenarie, essendo pratiche che risalgono agli antichi Greci. Il campo d’azione ha quindi, in questo impianto mobile, come baricentro urbano, la linea di confine tra terra e acqua, ricalca le dinamiche degli empori, dove arrivavano le merci e avvenivano contrattazioni, accordi, passaggi, idee, un locus relationis tra i popoli. In questi anni la ricerca del carattere costruttivo è stata interessata dalle attinenze che ho sempre rilevato tra tecniche marinare e tecniche teatrali, in marina vi sono le vele e in teatro i fondali, sulle navi i pennoni e sartie, in palco stangoni e mantegni, stiva e sottopalco, per non parlare di cime e tiri, e certamente i nodi. Mi sono chiesto per anni se marinai e maestranze teatrali si fossero mai incontrate per un fine comune, ne ero certo, e ho viaggiato alla ricerca di questa mia tesi, oltre che lungo le coste italiane, in Svezia, Olanda,

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Vista rendering prodiera - Retropalco dell’impianto

Vista di poppa - Proscenio


Concept della platea di imbarcazioni sfruttate come palchetti per il pubblico

Norvegia, Stati uniti. La risposta era però a Roma! Durante l’epoca di Vespasiano, infatti, circa mille marinai movimentavano il colossale velario dell’Anfiteatro Flavio, con un ingegnoso sistema di argani, simile ai “tamburi” del cambio scena in uso nei teatri dal XVIII secolo. In concreto Iter Teatro non è che l’evoluzione minore di tanti impianti che nella storia hanno lasciato una testimonianza d’incontro, dal carro di Tespi alle macchine itineranti barocche, come il carro di S. Rosalia e gli apparati effimeri per le feste religiose, o più recentemente il Tetiteatro di Alberto Martini, sino al Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Prevalentemente è costituito da legno, metallo, tessuti e cordame. Giunge disassemblato in un disimpegno urbano lontano dal pubblico, rapidamente pochi macchinisti ne accorpano i componenti a funzione di macchina itinerante, che negli ingombri è capace di districarsi anche nei piccoli centri. Il percorso, l’iter, comporta già una spettacolarizzazione, in quanto la morfologia è réclame di se stesso. Dopo il corteo si giunge al luogo deputato, ed è qui che avviene la metamorfosi in spazio scenico, tale da accogliere: dalla prosa, ai concerti, proiezioni cinematografiche, letture,

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eventi culturali, conferenze, laboratori, e altri contenuti artistici. In un’epoca di nichilismo, che aggredisce principalmente le nuove generazioni, dove troppe volte spazi a esse dedicate sono assenti, ma di contro vi è un esubero di spazi in disuso, questo palco vuole essere un mezzo di socializzazione culturale, nell’intento di intercettare su campo, necessità, evidenziando e confrontandosi su sostanziali emergenze che minacciano di sfuggirci di mano, il cui bilancio, nel mondo occidentalizzato è in costante negativo incremento. Così un effimero avamposto, nelle piazze o nei luoghi di aggregazione, ritorna per alcune ore ad essere un ritrovo di esperienza fisica, dove mettere in pausa i dispositivi che ci obbligano a rapporti sempre più veloci, risposte repentine, immediate, sgrammaticate, istintive, allora fermarsi un momento a riflettere su quelle che Kant individua come categorie di base: lo spazio e il tempo, e di conseguenza come scegliere di ridiscuterli; soffermarsi, far prendere al corpo e allo spirito una boccata di ossigeno. Ascoltare un brano musicale, la lettura di un sonetto, senza staccarsi dal contesto urbano, senza varcare necessariamente la soglia d’entrata di un cinema o un museo, uno stop temporale, come si fa in un parco pubblico per riordinare le idee. Dovranno principalmente essere i giovani a equipaggiare nei contenuti, questo teatro, che è pensato per installarsi come filtro, come anticamera, nei suddetti luoghi, con le loro domande, riflessioni, confronti, soluzioni, di reale desiderio di progresso, in un’epoca di forti mutamenti dominati dai mercati e dal profitto: “[…] così sì va verso la pazzia” fa recitare, R. Rossellini, ad un anziano, ne L’età di Cosimo de’ Medici. Auspico che non solo emergenze culturali venissero trattate attraverso questa costruzione, ma che potesse ospitare argomentazioni politiche rilevanti, quali il necessario ritorno al dialogo con la Natura, che non manca di mandare messaggi precisi, che la scienza ci traduce come istanze e azioni improrogabili,

Vista con ponte centrale sprofondato e petali calati

Impianto predisposto alle percorrenze come réclame urbana

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Impianto trainato da un vettore nautico su uno specchio d’acqua

basti pensare al dramma della plastica negli oceani. Così ho pensato di inserire nell’impianto, al centro nel sottopalco una vasca che può essere allagata, per permettere l’uso drammaturgico dell’elemento liquido, da cui è partito il concetto di fondo. In definitiva questa macchina scenica, in fase di prototipazione, se avrà il merito di farsi accettare nelle città che vorranno ospitarla, che siano piazze o specchi d’acqua, non sarà altro che un piccolo scrigno che raccoglierà testimonianze durante i suoi viaggi, per rivolgersi, come si fa ad una bussola, quanto le rotte che stiamo tracciando, siano in linea con le risorse a noi affidate, e continuare il dibattito tra uomo e natura che, andrebbe a mio parere, ripreso come atteggiamento, nei temi, in maniera rinnovata, nel nostro piccolo di singoli pensatori, riprendendo dal più importante, ricominciando dall’acqua.

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S

HOPE AND P A C di Luca Bonifacio

Interventi di bonifica e riqualificazione in uno slum di Yangon (Birmania), 2003

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E


L’emergenza come opportunità per riscoprire i valori fondamentali dell’Architettura Quando alla fine degli anni novanta qui in Europa si cominciava a ragionare sull’emergenza, mi ricordo, tra gli architetti era ancora considerato un tema pressoché irrilevante. Non bisogna scordarsi infatti che eravamo in pieno boom neo-liberale e nessuno sembrava essere più minimamente interessato a questioni di tipo sociale. Eppure quello che trovavo strano è che andando a studiare sui libri di storia scoprivo che i temi dell’emergenza erano sempre stati centrali in Architettura. Senza andare troppo indietro nel tempo le baraccopoli c’erano già a Berlino, Milano ed in tutte le capitali europee bombardate durante la Seconda Guerra Mondiale e volendo, pensavo, lo stesso movimento moderno di-fatto non fu altro che una risposta concertata a questa immane emergenza.

Per questo non capivo perché venivamo presi in modo così poco serio quando, insieme ad uno stuolo di colleghi un po’ idealisti come me, cominciavamo ad occuparcene, quasi come se si trattasse di architettura di serie B solo perché affrontava realtà di disagio, marginalità o di povertà estrema. La cosa sembrava ancora più assurda tenendo in conto che nel frattempo la popolazione mondiale stava superando la soglia dei cinque miliardi e sebbene i nostri colleghi fossero perlopiù distratti dalle volumetrie vorticose di Frank Ghery, la questione dell’habitat – il diritto alla casa per i milioni di disperati che affollano le baraccopoli del mondo – stava cominciando ad acquisire un ruolo centrale nel dibattito internazionale (il Summit dell’Onu di Istanbul del 1996 lo sanciva chiaramente). In quel clima di generale disinteresse, la vista

Due ragazze Tamil osservano il mare ad un anno dallo Tsunami del 2004 che in quel villaggio si portò via più della metà della popolazione

delle Torri Gemelle accasciarsi come castelli di sabbia fu per me un segnale molto chiaro che non si poteva più restare lì a guardare. Mi licenziai dallo studio in cui lavoravo e armato di bindella, i libri di Terzani ed una buona dose di coraggio, mi imbarcai su un volo di sola andata diretto in Birmania. Il mio percorso di architetto umanitario cominciava così. Negli anni a seguire ho avuto l’opportunità di collaborare in giro per il mondo con svariate organizzazioni in progetti di scale e tipologie differenti: alloggi per sfollati, centri di accoglienza per profughi, cliniche, piani nazionali di ricostruzione e tante, tantissime scuole. Mi sentivo pienamente realizzato. Ma col passare del tempo cominciai ad accorgermi che attorno a me tutto stava rapidamente cambiando. Si stava perdendo quell’idealismo originaria-

Schizzo preparatorio per un trampolino per l’anima, Kalmunai, Sri Lanka, 2004

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Programma nazionale “Schools for Africa”, Angola, 2008-2012

Centro di accoglienza per infanzia disagiata a Nyaung Shwe, Lago Inle (Birmania), 2004

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mente legato al settore umanitario e anche l’aiutare stava diventando un gioco politico spesso fazioso ed interessato. Anche l’Architettura era cambiata. Finalmente si era resa conto che la marginalità e l’emergenza si potevano trasformare in un meraviglioso laboratorio di ricerca (due premi Pritzker consecutivi furono aggiudicati a professionisti, Shigeru Ban e Alejandro Aravena, impegnati su questi temi). Alleluya, pensai. Ma questa ritrovata attenzione se da una parte alimentava un dibattito certamente utilissimo, dall’altra mi accorsi che stava anche creando delle dinamiche che trovavo alquanto preoccupanti e perverse. Come se lavorando nei campi profughi e nelle baraccopoli, queste tragiche realtà le stessimo in qualche modo anche legittimando. Non solo, ma cosa che cominciavo a sentire ancora più fastidiosa, tutta quell’attenzione da parte dei siti di tendenza stava portando con sé quella autocompiacente, frivola ricerca del gesto che ben conoscevo e che ho sempre trovato odiosa, quasi immorale. Figuriamoci in contesto umanitario. E questo, così come


Programma nazionale “Schools for Africa” (circa duecento scuole tra ricostruite e restaurate), Angola, 2008-2012

successe in quel fatidico undici di settembre di diciassette anni prima, mi rimette in crisi. Oggi il mondo è a un punto di svolta cruciale, direi apocalittico: sette miliardi di persone che lo affollano, di cui più della metà nelle periferie urbane, un terzo nell’indigenza totale; di questi sette miliardi, l’uno percento controlla il cinquanta percento delle ricchezze mentre il restante novantanove se ne resta a guardare; quei poteri totalitari che meno di un secolo fa distrussero l’Europa si stanno rapidamente ricostituendo generando nuovi conflitti e nuove diaspore. Come se non bastasse il pianeta ci sta dando segnali chiari ed inconfondibili di essere al limite della sua capacità di sopportazione. Appare quindi ormai chiaro che se non cambiamo rotta velocemente siamo diretti verso un collasso politico, sociale ed ambientale di scala epocale. Per questo credo che oggi

siamo tutti chiamati a cercare delle risposte ad una scala diversa rispetto a quella a cui siamo stati abituati fin-ora. Primi tra tutti gli architetti. Non bastano più palliativi, ne soluzioni di compromesso. Dobbiamo trovare il coraggio di reagire ed affrontare temi cruciali quali la gestione delle risorse naturali (terre comprese) e della sostenibilità (quella vera). Ma soprattutto sono convinto che se vogliamo veramente un cambio di rotta dobbiamo trovare il coraggio di trattare una volta per tutte il tema fatidico della distribuzione delle ricchezze. E va fatto in modo urgente, strutturale e netto. Perché se non lo facciamo, questo è certo, l’emergenza sarà l’unica dimensione che i nostri figli conosceranno e a quel punto, come aveva profeticamente previsto il grande Albert Einstein, ci ritroveremo a vivere di nuovo nelle caverne. E là l’architetto servirà a ben poco. Il trampolino per l’anima, Installazione, Kalmunai (Sri Lanka), 2005. Un tema che normalmente non si affronta nell’emergenza è quello della memoria. In questo caso ho voluto affrontarlo per cercare di alleviare il dolore dei genitori dei novanta bambini portati in quel luogo via dal mare con lo Tsunami del 2004

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TOMORROW’S SHELTER I modelli utopici emergenziali di Didier Faustino tra arte, architettura e design

di Simone Bori

Tomorrow’s shelter, disegno assonometrico di dettaglio

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Quale spazio abiteremo domani? A questo interrogativo, al contempo progettuale e filosofico, si propone di fornire una risposta la serie di opere (titolata non a caso Tomorrow’s shelter) di Didier Fiuza Faustino, progettista poliedrico il cui lavoro si colloca da sempre nel fertile spazio interstiziale compreso tra arte, architettura e design. Francese di nascita e portoghese di adozione, Faustino è architetto, ma pratica fin dagli esordi la contaminazione tra campi disciplinari limitrofi, promuovendo ed elaborando progressivamente l’idea di uno spazio ibrido, concepito come installazione incompiuta che attende di essere animata, e completata, dall’uomo. Le sue opere, che spaziano dall’immaterialità delle arti visive alla materialità delle architetture costruite e degli oggetti di design, sono profondamente “significate” da riflessioni critiche e filosofiche sul tema dello spazio e delle sue relazioni con il corpo, che nel terzo millennio appare di potente attualità.

Da qui Faustino, ispirato dal pensiero di Claude Parent (che nel 1963 fonda con Paul Virilio il gruppo Architecture Principe e che nel 1970 teorizza il Vivre à l’oblique in risposta all’angle droit lecorbusieriano), concepisce uno spazio adattivo, plasmabile e modificabile da parte dei corpi dei suoi utilizzatori. Ospitata nel 2017 alla prima Biennale di Architettura di Orléans, Tomorrow’s shelter si declina in una matrice di configurazioni diverse e analoghe allo stesso tempo, ciascuna composta da percorsi inclinati e snodi incurvati combinati a comporre architetture flessuose e avvolgenti, ma anche labirintiche e ossessive. Di fronte all’incertezza sul futuro causata dai comportamenti distorti che contraddistinguono la nostra società e alla condizione di emergenza culturale oltre che ambientale e relazionale, l’opera è ideata come “una struttura abitabile ed estendibile, una concatenazione di spazi che potranno essere utilizzati come rifugio, all’indomani di una possibile catastrofe generata dal riscaldamento globale”.

Tomorrows’s shelter, scultura

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Dopo la fine del mondo (non a caso l’opera è stata allestita anche nel contesto dell’omonima mostra organizzata dal Centro per l’Arte Contemporanea “Luigi Pecci” di Prato tra ottobre 2016 e marzo 2017 e più recentemente, a marzo 2018, presso la Galleria Filomena Soares di Lisbona nell’ambito dell’iniziativa Unbuilt Memories), quando l’unica certezza residua sarà probabilmente soltanto il suo corpo, l’uomo potrà trovare riparo occupando le architetture nomadi predisposte da Faustino e trasformandole in architetture rinnovate, animate da una nuova coscienza dello spazio e del tempo. L’incompiutezza delle strutture abitabili ideate dal progettista è emblematicamente suggerita persino dal nome del suo atelier (che ha sede sia a Parigi che a Lisbona): il Bureau de Mésarchitectures produce edifici imperfetti (la cui condizione minore è tradita in lingua francese dal prefisso privativo més-) affermando al contempo una forte e personale autonomia critica del loro autore (che ne suggella la paternità definendoli mes architectures). Una riflessione volutamente incompleta e interrogativa sul futuro che sembra alludere alla disperata ricerca di protezione e rassicurazione in una società fluida che cambia e che lotta per costruire un nuovo avvenire per l’umanità. Non è dato sapere se dopo la catastrofe globale abiteremo città e territori. La dimensione insieme utopica e distopica degli organismi adattivi progettati da Faustino potrebbe offrire ai nostri corpi un’occasione per ricominciare.

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Tomorrows’s shelter, composizione di configurazioni

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BEYOND EMERGENCY Il ruolo del (co)design nelle comunità

di Luisa Chimenz

Amatrice, 25 Ottobre 2016, Ph. Luisa Chimenz

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In determinate occasioni, in circostanze precise il ruolo della comunità è più forte e più importante di qualsiasi altra cosa. Nei momenti difficili, nell’emergenza, per esempio. Si osserva sul campo, si ascolta nei racconti di chi l’ha vissuta secondo dimensioni, anche disciplinari, diverse la necessità di coesione, di dialogo, di partecipazione, di condivisione. Tutto ciò porta, in una curiosa addizione, ad avere da una parte la disciplina del design e la volontà di conservare – quando anche l’immutabile paesaggio cambia conformazione – l’identità dei luoghi e dall’altra come risultato la ricerca della soluzione, o meglio del ventaglio di soluzioni che possano permettere di fare fronte al problema. Può ancora accadere che ci si chieda quale nello specifico possa essere il ruolo che il design, quale l’apporto proprio di una disciplina che nell’immaginario comune viene legata al concetto di ricerca della forma e della compiutezza estetica e invece difficilmente associata al tema forte dell’emergenza. Appare, dunque opportuno ricordare in questa sede che, innanzi tutto, il problema dell’emergenza riguarda la perdita della casa, delle proprie sicurezze e di una stabilità fatta di proprietà, spazi, oggetti. Già questo basterebbe a significare perché sia tanto importante applicare il pensiero caratteristico del processo progettuale all’emergenza, dal momento che comunque beni e oggetti vanno forniti, insieme a soluzioni (abitative e di supporto) e servizi (ancora, temi del design). Il problema dunque, non è soltanto, ricostituire quanto più velocemente possibile delle condizioni che se pur temporaneamente assicurino una situazione esterna apparentabile alla normalità. La chiave è dare luogo a una quotidianità che sia accogliente ma non porti all’immobilismo, che sia di supporto e muova al confronto reciproco e alla risposta resiliente del singolo come parte attiva di una comunità. Come agire questo processo è scientificamente dibattuto da molti punti di vista proprio per la multidisciplinarità del problema dell’emergenza: apparentemente


Borgo d’Arquata, 23 Ottobre 2016, Ph. Eran Lederman

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Collalto di Amatrice, 25 Ottobre 2016, Ph. Eran Lederman

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Soluzioni semplice la domanda, realmente complessa la risposta. Molti sono i punti di vista specifici offerti: in ogni caso sempre più chi si occupa di emergenza, dal punto di vista psicologico o antropologico, o ancora per il DRM o per l’aspetto abitativo, reperirà che le fonti individuano nel sapere condiviso della comunità la possibilità del rispetto necessità specifiche locali. Sopra tutti si desidera riportare il pensiero di Seema Khan, che in un documento preparato come risposta a una domanda posta al Governance and Social Development Resource Centre, esprime come sia maggiormente desiderabile sia per le agenzie governative, sia per quelle non governative e di supporto applicare politiche locali, che tengano conto dei desideri e delle necessità specifiche della comunità oggetto dell’emergenza, calibrando le soluzioni prestabilite e organizzandole in maniera tale che possano generare tattiche ready-made, prendendo adeguatamente in considerazione i bisogni specifici e non pretendendo piuttosto che soluzioni preordinate si adattino comunque. Ecco, dunque, il ruolo del co-design, e del design in generale, che a partire da meta-soluzioni, se vogliamo macro-schematiche, grazie a un’adeguata integrazione di dati proveniente dall’ascolto della comunità sul territorio agevola e rende nodale l’indispensabile fase di preparazione (per entrambe le parti) e consente il necessario adattamento, delle soluzioni prestabilite al territorio. Sta cambiando, infatti, il modo di percepire la comunità stessa, nel pensiero generalizzato e all’interno degli organi governativi e non preposti al soccorso. Si sta correttamente abbandonando la tendenza ad approcciare il tema e il problema – quando questo si verifichi – in maniera sovraordinata, anche perché l’approccio dall’alto verso il basso ha dimostrato di non dare i frutti sperati. Un coinvolgimento attivo, partecipativo, tipico del co-design appunto, prepara a buone pratiche e a corretti sistemi di risposta, e in qualche modo anche se passibile di errori in maggior misura fa sentire allo stesso tempo importanti e curati, parte del processo e oggetto d’interesse. È quel processo di “tailorizzazione” di cui parla Benedetta Spadolini, a proposito della sua idea di design su misura: un “su misura” che è fatto allo stesso tempo di data e di esperienza diretta, acquisita con l’osservazione sul campo, e che poi applicato fornisce eventualmente soluzioni e punti di vista alternativi e trasversali. In questo senso, il pensiero alla base della disciplina del design lo qualifica come strumento, necessario e anticipatore, a favore della gestione dell’emergenza. Si pone, infatti, come un ponte: in accordo con la sua specifica missione, offre al singolo e alle comunità soluzioni per problemi e bisogni specifici, tangibili e sostenibili, condivisibili. Ancora, offre agli organi preposti a gestire l’emergenza una possibilità di dialogo, attraverso piattaforme elastiche ed esatte allo stesso tempo, implementabili e ispiratrici. Per preparare tutti (non soltanto chi poi dovrà operare sul campo) nell’eventualità che non ci sia mai bisogno di testare la validità di un processo partecipativo, attraverso un sistema performante che parli un linguaggio ormai largamente condiviso.

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U

THE BIG

di Luca Martini

Il 29 ottobre 2012 l’uragano Sandy colpisce la costa nord-est degli Stati Uniti d’America. Gli effetti della tempesta sono devastanti: 186 persone rimangono uccise, 65000 abitazioni vengono distrutte e 65 miliardi di dollari quantificano i danni inferti a un’area che comprende la città di New York. Parallelamente alla gestione della fase emergenziale, a tutti i livelli si palesa la percezione che la vulnerabilità di fronte a un evento naturale, seppur di portata epocale, è data da un deficit di consapevolezza sulla prevenzione. E in questo senso si muovono la Hurricane Sandy Rebuilding Task Force, fortemente voluta dal presidente Barack Obama, insieme all’U.S. Department of Housing and Urban Development. Perché la questione “non è fare

un piano, ma cambiare una cultura”. Queste poche righe testimoniano una riflessione che accomuna in maniera quasi rituale ogni cataclisma naturale. Ma senza voler sottovalutare le differenze dovute alla diversità dei contesti e delle risorse, colpisce come nell’occasione venga valorizzata una metodologia operativa propria di una campagna di ricerca. In particolare nel giugno del 2013 viene bandito il concorso internazionale Rebuild by Design, dotato di un budget iniziale di circa 1 miliardo di dollari, con l’intenzione d’ideare una visione condivisa sulla ricostruzione (rebuildbydesign.org). Allo stesso tempo viene data molta enfasi alla replicabilità in altri contesti del percorso adottato, imperniato su multidisciplinarietà,

Barriere e occasioni, concept

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Emergenza chiama Progetto

East River Park, planimetria e sezione di un terrapieno

Comunità e funzioni, concept

collaborazione e partecipazione. Infatti i gruppi coinvolti sono team internazionali di progettisti, designers, sociologi, climatologi… chiamati nell’arco di un anno a visitare le zone di intervento, organizzare incontri con le vittime e coinvolgere i soggetti pubblici e privati interessati, al fine di redigere masterplan complessi da attuare negli anni successivi in diverse aree colpite dall’uragano. La qualità degli attori appare evidente se si pensa che partecipano all’iniziativa concorsuale i più noti studi internazionali sulle tematiche dell’architettura e del paesaggio, da OMA a West 8. E infine nel giugno del 2014 vengono resi pubblici gli esiti dei gruppi di lavoro e viene assegnata la vittoria alla proposta The BIG U ideata dall’équipe coordinata dall’olandese Bjarke Ingels Group (BIG), che indaga l’area incentrata sulla downtown di Manhattan (big.dk/#projects-hud). Il progetto è un vero e proprio database di interventi a zero cubatura, di landform-architecture e di microarchitetture dislocati sulla costa urbana, in forma appunto di “grande U”, e comunicati nello stile fatto di icone accattivanti, schemi smart, render iconici ed elaborati progettuali ammiccanti che sono il tratto caratterizzante di uno dei collettivi più rappresentativi della scena contemporanea. Infatti una serie sinergica di interventi occasionali di diversa intensità, funzioni e opportunità vengono misurati sul contesto, in modo tale che nel loro complesso rappresentino un apporto di resilienza necessario ad affrontare le insidie climatiche nel lungo periodo.

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Two Bridges, render delle barriere mobili

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Battery Park, render

In particolare terrapieni stradali, barriere mobili e dune artificiali proteggono dalla forza distruttrice degli eventi climatici ma non ostacolano l’accessibilità. Laddove appaiono come panchine, negozi, bike-point, osservatori, giardini, sedute, meeting-point, punti informativi, scivoli, skate-park, spazi espositivi... Suggellati da un edificio-simbolo fatto di lingue di terreno stereometriche affacciate sull’acqua nell’area di Battery Park, che ospitano un museo del mare con un “acquario inverso” che si affaccia sullo Hudson e permette di traguardare le profondità marine e la statua della Libertà. Gli esiti coniugano mirabilmente due anime della Grande Mela, quella delle grandi infrastrutture e quella dell’appartenenza comunitaria, ricalcando il mix che ha reso già celebre il recente parco High Line, non a caso citato nella relazione di progetto. E proprio l’apporto

delle comunità cittadine è ritenuto determinante in quanto sono chiamate a collaborare attivamente alla definizione del progetto stesso. Come è espresso chiaramente dall’animazione commissionata ai maker del team Squint Opera, talmente accattivante che il suo titolo The Dryline è diventato un secondo motto della proposta. E nel video proprio gli abitanti reclamano la necessità dell’intervento che celebra l’anima di New York come un nuovo Central Park, ma non più attraverso la nostalgia di una naturalità perduta sotto i colpi del “delirio” verticale di acciaio e vetro, bensì attraverso la celebrazione del principio del “borough” nel nome della riduzione della vulnerabilità urbana. In modo tale che un progetto contemporaneo sintetizzi in maniera condivisa una forma urbis consolidata: perché l’auspicio “non è fare un piano” ma innescare la cultura del progetto. A ogni latitudine.

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Quando il graphic design ti salva la vita Il ruolo di informazione sociale della comunicazione visiva nei contesti emergenziali di Valeria Menchetelli

Can graphic design save your life?, locandina della mostra, Londra, 2017

In caso di emergenza i sensi si attivano: una scarica di adrenalina percorre il corpo e lo sguardo si muove alla ricerca di vie di fuga, ripari, luoghi sicuri da raggiungere in fretta per assicurare la propria incolumità . La multisensorialità della percezione si “specializza” sulla visione e la decodificazione dei messaggi visivi diviene essenziale per salvarsi. La mente cerca di attingere ai corretti codici comportamentali assimilati, ma le informazioni grafiche disponibili al momento sono decisive: soprattutto, è decisiva la loro immediata comprensione. Che, in condizioni di emergenza, può dipendere da diversi fattori: da quelli legati al bagaglio di esperienze individuali pregresse a quelli connaturati al medium attraverso cui la comunicazione viene espressa fino a quelli dipendenti dalle caratteristiche ambientali del contesto in cui l’informazione è diffusa. Non sono rari nella storia i casi in cui

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una errata interpretazione dei messaggi visivi è alla base della portata catastrofica di eventi che sarebbero altrimenti stati maggiormente controllabili se non addirittura evitati: basti pensare al grave incidente nucleare avvenuto nella centrale statunitense di Three Mile Island nel 1979, provocato da un “banale” fraintendimento durante la lettura della strumentazione tecnica di controllo dell’impianto. Appare perciò quanto mai determinante un interrogativo: se e come “la grafica può salvarci la vita”? Interrogativo eletto a titolo (e oggetto) di una mostra svoltasi recentemente presso la Wellcome Collection di Londra, in cui circa duecento artefatti visivi, selezionati dai curatori Lucienne Roberts, Shamita Sharmacharja e Rebecca Wright, offrono uno spaccato sul ruolo del graphic design nella comunicazione e nella divulgazione dei messaggi di natura medica e sanitaria in situazioni emer-

genziali. Manifesti pubblicitari, campagne di informazione e sensibilizzazione contro fumo e AIDS, francobolli celebrativi, infografiche volte a orientare gli utenti di ospedali o servizi sanitari, opuscoli informativi, sistemi segnaletici adottati in ambito sanitario, opere di street art incentrate sull’emergenza causata dal virus Ebola nonché sull’incentivazione di comportamenti sociali responsabili orientano il visitatore nella comunicazione medico-sanitaria, componendo un mosaico linguistico variegato quanto efficace. L’esposizione estende poi il proprio ambito di azione alla grafica dei prodotti farmaceutici, altro punto di contatto tra comunicazione visiva e salute, costantemente in bilico tra interesse commerciale e comprensibilità dell’informazione. La mostra londinese ribadisce con forza il ruolo sociale della comunicazione visiva: temi quali l’universalità del messaggio grafico, la


pretesa oggettività nell’elaborazione delle immagini, la “politicizzazione” dell’informazione sono in questo ambito centrali. Si ripresenta così con potente attualità uno degli obiettivi prioritari del linguaggio universale ISOTYPE, ideato nel 1935 in maniera sinergica dal teorico Otto Neurath con la matematica Marie Reidemeister e sapientemente “messo in forma” dal graphic designer tedesco Gerd Arntz: la diffusa informazione sociale. Uno dei più celebri diagrammi statistici elaborati dalla Scuola Viennese fondata da Neurath (esemplificati nella sezione storica della mostra dalla campagna sui rischi della lebbra, realizzata negli anni cinquanta per Sierra Leone, Nigeria e Ghana), informa i cittadini su come evitare il contagio da TBC; e non è un caso se nel percorso evolutivo della comunicazione visiva (e dell’infografica nello specifico) molte rappresentazioni epocali hanno avuto a oggetto temi di carattere medico-sanitario emergenziale. Ad esempio John Snow, epidemiologo, ricorre nel 1854 a una mappa urbana di Londra per evidenziare le modalità di diffusione del colera nella città e individuarne con esattezza la causa; così come nel 1857 l’infermiera britannica Florence Nightingale reclama l’attenzione della regina Vittoria sulle estreme condizioni igieniche degli ospedali militari attraverso un inequivocabile diagramma polare (anch’esso esposto in mostra); e nel 1861 l’ingegnere Charles Joseph Minard concepisce un resoconto delle perdite umane nella guerra di Crimea elaborando il formidabile “diagramma seminale”, capostipite dell’infografica contemporanea. Oggi la grafica impiega nuovi strumenti e batte percorsi sperimentali, ma molti obiettivi non sono mutati: identificare, informare, orientare.

Otto Neurath, tavola Isotype sul contagio da TBC, Vienna, 1936

NBS, killing billboard contro il virus Zika, Rio de Janeiro, 2016

E, anche materialmente, salvare: ad esempio, lo studio brasiliano NBS ha realizzato nel 2016 un cartello pubblicitario killer, che non solo informa, ma allo stesso tempo “agisce” uccidendo le zanzare responsabili della trasmissione del virus Zika. Grafica ed emergenza costituiscono da sempre un binomio inscindibile, talora con esiti fallimentari ma in molti casi di ineguagliabile successo. E proprio laddove la competenza del graphic designer riesce a raggiungere anche il più povero, dimenticato e mortificato individuo

Florence Nightingale, infografica sulle cause di mortalità negli ospedali britannici, Londra, 1857

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La grafica può veramente salvarci la vita

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Stephen Doe, opera murale contro il virus Ebola, Monrovia, 2014

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Comunicazione visiva ed emergenze ambientali La disciplina della rappresentazione per la conoscenza, la prevenzione e la gestione delle emergenze ambientali: il caso studio genovese di Maria Linda Falcidieno e Maria Elisabetta Ruggiero Genova, città dal territorio compresso tra il mare e la collina, fragile nella necessità di edificare sul confine del mare, del bosco, del corso d’acqua; ambiente amico per la sua natura di porto, per l’esposizione e il clima, ma soggetto a bruschi cambiamenti che, soprattutto negli ultimi decenni anche in conseguenza delle mutate condizioni climatiche, hanno spesso trasformato le potenzialità in minacce. Di tutto ciò si è via via acquisita sempre maggiore consapevolezza, anche grazie ai dibattiti internazionali e alle conseguenti at-

tivazioni di azioni contenitive, migliorative e, soprattutto, conoscitive dei fenomeni, proprio al fine di scongiurare ulteriori o nuove catastrofi, come avvenuto il 25 settembre del 2015 con l’obiettivo 13 della Conferenza delle Nazioni Unite per la diffusione della cultura sociale nell’ambito dei problemi causati dai cambiamenti climatici, che ha promosso azioni concrete e mirate allo scopo. Proprio nel 2015 a Genova si ha l’ennesima alluvione e la città ricorda la lunga serie di catastrofi e vittime; e ancora nel 2015 l’Amministrazione Comunale decide di approfonLa fragilità del territorio: dalle pendici dei monti alla cimosa costiera

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Pagine tratte dal manuale per l’identità visiva delle comunicazioni della Protezione Civile genovese (a cura di Clarissa Sabeto)

dire i rapporti intercorsi in altre occasioni con l’Università, e tra la locale Protezione Civile e il Dipartimento di Scienze per l’Architettura (oggi Dipartimento Architettura e Design) inizia una proficua collaborazione, che dura tutt’oggi. Lo scopo ambizioso è la formulazione a vari livelli di comunicazioni istituzionali che promuovano la conoscenza del rischio e delle buone pratiche per affrontarlo assieme all’emergenza e, quindi, che incoraggino comportamenti virtuosi, fino a configurarsi come vera e propria forma di prevenzione divulgata alla popolazione fin dalla giovanissima età.

Il gruppo di docenti impegnati (Maria Linda Falcidieno, Michela Mazzucchelli, Maria Elisabetta Ruggiero, Massimo Malagugini, Ruggero Torti) appartiene al settore disciplinare della rappresentazione che opera all’interno dei corsi di laurea del design e focalizza il metodo e gli strumenti da adottare, mentre la Protezione Civile (con la direzione di Francesca Bellenzier e la responsabilità di Gabriella Fontanesi con l’ausilio di Rossana Monti) si pone come interlocutore attivo nella formulazione delle richieste di contenuto; l’avvio è fin da subito sinergico e riporta alla mente

la stagione italiana felice, se pur breve, della grafica di pubblica utilità, durante la quale i designer si collocavano al fianco delle istituzioni come consulenti, proprio per soddisfare le esigenze di quella che oggi ha preso i toni maggiormente generalisti di “comunicazione sociale”, in un continuo rapporto con gli utenti. Il metodo deriva dai temi di ricerca che da tempo lo stesso gruppo di docenti affronta e che ha come focus la consapevolezza delle valenze del linguaggio visivo, sia inteso come vera e propria traduzione del testo in immagine, sia come supporto alla lettura per

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Pagine tratte dal manuale per l’identità visiva delle comunicazioni della Protezione Civile genovese (a cura di Clarissa Sabeto)

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Comunicazione e città. Alcuni esempi della campagna di sensibilizzazione realizzati sui mezzi di trasporto della rete municipale e con affissioni in diversi formati (disegni di Massimo Malagugini)

rendere più veloce e immediata la comprensione del messaggio; in tal senso, argomento trasversale e centrale della sperimentazione è il miglioramento della qualità della vita del singolo e della collettività, realizzato attraverso la conoscenza dei problemi e dei rischi a questi connessi, a vari livelli, da quello socio-culturale, a quello sanitario, fino al rischio ambientale, per promuovere il cambiamento comportamentale. Gli strumenti sono naturalmente gli elaborati tipografici tradizionali (manifesti, opuscoli, cartoline…), ma anche le comunicazioni video e su supporti dinamici. Fondamentale l’utilizzo del web e delle forme di azioni collettive di comunicazione, così come le attività didascaliche rivolte prevalentemente alle scuole, qual è l’attività all’interno del Festival della Scienza, e quelle destinate alla popolazione, come è il caso del

Festival di Protezione Civile. Nel corso degli anni i temi si sono ovviamente modificati e ampliati; se in un primo momento l’interesse principale era quello di far conoscere e riconoscere la Protezione Civile e le sue attività, ben presto il mandato è divenuto quello di far comprendere alla popolazione quali fossero i rischi principali collegati agli eventi naturali dannosi possibili (essenzialmente l’alluvione, ma anche gli incendi, le frane, la neve, le mareggiate e il terremoto) e a quelli connessi alle attività antropiche (primi tra tutti i rischi derivati da attività industriali). Anche i messaggi hanno mutato natura, e se inizialmente erano visioni che ricordavano tragedie locali vissute (ad esempio le vittime dell’alluvione del 2011 travolte dall’acqua mentre cercavano rifugio all’interno di un edificio), ben presto hanno assunto i toni dell’illustrazione di quanto occorre fare in caso di allerta e

emegenza, contenuti trasversali e esportabili in qualsiasi realtà urbanizzata. Lo storytelling, dunque, come medium per esemplificare comportamenti virtuosi e consapevoli per sé e per gli altri, attraverso informazioni a carattere generale. L’ultima sfida, in atto, in sinergia anche con alcuni docenti del Dipartimento di Scienze della Formazione (Antonella Primi e Fabrizio Bracco), è la ricerca di forme visive mirate a differenti target che costituiscano un repertorio di immagini e video a disposizione degli insegnanti che, a partire dalle elementari e fino ai primi anni delle superiori, possano crescere generazioni di persone coscienti della realtà territoriale che li circonda e dei rischi a essa collegati, per indurre rispetto dell’intorno e consapevolezza delle reazioni che corrispondono a ogni azione antropica sul territorio.

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DESIGN IN EMERGENZA Lezioni perugine

di Mattia Pellegrini e Pietro Carlo Pellegrini

Michael Rakowitz, paraSITE, 1998

Nel 2017 ho tenuto un corso di design presso l’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia in collaborazione con Mattia Pellegrini. In questo senso ci siamo chiesti che tipo di domande dobbiamo porci oggi, in questo presente, per pensare attraverso il disegno lo spazio e gli oggetti. Quindi abbiamo pensato di mettere “in emergenza” il design per provare a relazionarci con quello stato di non quiete, di fine del mondo, in cui tanti, troppi, vivono oggi, costretti come sono a fuggire verso la fortezza Europa. L’emergenza d’altronde è sia “atto di emergere” che lo stato di una “crisi profonda”. Le domande che abbiamo posto agli studenti sono apparentemente semplici: “cosa porteresti via con te in caso dovessi fuggire da un momento all’altro?” e “che tipo di oggetto inventeresti per contenere quella cosa?”. Questioni più urgenti si nascondono in queste domande: da un lato l’empatia nel tentativo di comprendere le vite che non sono direttamente la tua, ovvero chi quotidianamente è costretto a far quel tipo di scelta, dall’altro il pensare, su un piano prettamente personale, cosa riteniamo necessario per noi stessi. Ci siamo avvicinati a tali riflessioni attraversando il mondo del pensiero critico, dell’arte e di alcuni designer. Questo oggetto nomade, trasportabile, che contiene ciò che vorremmo portare sempre con noi non poteva che essere suggerito da Marcel Duchamp che, in altri tempi in cui si era costretti a fuggire, pensò le sue Boîte Verte e Boîte en valise. Una sorta di museo nomade.

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Ugo La Pietra, Occultamento, 1972

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Marcel Duchamp, BoĂŽte en-valise, 1941

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potenza Altre due questioni determinanti nell’affrontare la creatività nella sua forma più autentica, e quindi comune a tutti gli esemplari dell’animale uomo, sono la riproducibilità e la non autorialità. Quindi occorre riferirsi a Bruno Munari e alla sua attenzione verso un designer anonimo, ignoto, sconosciuto. E poi a Enzo Mari e al suo sguardo verso un’artigianalità dei molti, dell’uso, e della forza di una capacità creatrice diffusa. Un po’ come se queste scatole, valigie, oggetti di trasporto in realtà non venissero che create ogni giorno dai “salta a bordo” che attraversano il pianeta. Un esemplare di uomo che conserva gli oggetti che più gli appartengono, legati alla sua realtà quotidiana in un progetto di design “necessario” per continuare a sopravvivere, ma allo stesso tempo zingaro e dedicato alla libertà di movimento, conservando e rispettando questa tradizione di vita nomade, perché d’improvviso hai la necessità di partire e sei improvvisamente senza casa e in condizioni precarie.Precarietà o provvisorietà sono la stessa condizione, che ha il potere di trasformarti in un essere umano invisibile ai più, ignorato e indifeso, e solo la potenza creativa può essere il riscatto per riuscire a imparare a riconoscere le false scommesse imprenditoriali, valorizzando la flessibilità e l’imprevedibilità del quotidiano, con la forza e il desiderio di riconoscere la libertà individuale. Quella libertà individuale che nei momenti di difficoltà si trasforma in grande capacità di cooperazione, che contraddistingue la nostra specie: e allora basta vedere le autocostruzioni create nella jungle di Calais: “un mondo sotto il mondo” ci viene da dire con Profezia, poema magnifico e attualissimo di Pier Paolo Pasolini. Perciò dove cercare la nuove forme che attaccano e si relazionano al presente? Questo tipo di potenza creatrice abbiamo voluto giocarla insieme agli studenti dell’Accademia di Perugia e ne sono nati progetti carichi di emergenza ma anche di felice forza ludica. Perché i privilegi che viviamo da questa parte del mondo non devono fermare la nostra immaginazione ma connetterla con chi sta arrivando o è già arrivato. Inoltre è stato interessante anche l’approccio di un gruppo di studenti del corso provenienti dalla Cina, in quanto hanno rappresentato un ulteriore sguardo di migrazione, di alterità. Infine, un oggetto che ci ha colpito è quello pensato proprio da una studentessa cinese che, appassionata di musica in vinile, ha progettato un manufatto per portare con sé quei suoni e quelle parole di cui non può fare a meno, mentre una studentessa italiana ha ideato una valigia che contiene tutto il necessario per disegnare. Perché quello che intendevamo comunicare nel corso delle lezioni è proprio guardare all’emergenza con uno sguardo utopico, in quanto è solo grazie alla proiezione verso i desideri e le possibilità di realizzarli che possiamo immaginare una vita fuori da questo presente asfissiante.

creatrice 93


Patrimonio sociale e impegno professionale TAMassociati e l’architettura nei contesti d’emergenza di Valentina Spataro e Gaia Vicentelli

Dall’11 al 13 aprile 2018 si è svolto a Matera Dialoghi sulla città. Architettura contemporanea nella città-patrimonio di Matera: un progetto culturale proposto e curato da un team di architetti e studenti del Dottorato di Ricerca “Cities and Landscapes”, afferente al Dipartimento delle Culture Europee e del Mediterraneo dell’Università degli Studi della Basilicata. L’iniziativa, con l’obiettivo di avviare un interessante e ampio dibattito sul tema dell’intervento urbano-architettonico contemporaneo all’interno di siti dall’alto valore patrimoniale, si è strutturato come un confronto, tra studenti, dottorandi, docenti e architetti al fine di elaborare nuove strategie progettuali rivolte alla valorizzazione. Dal latino patrimonĭum, derivante da păter ossia “padre”, il termine “patrimonio” sta ad indicare quel “complesso di elementi spirituali, culturali, sociali o anche materiali che una persona, una collettività, un ambiente hanno accumulato, ereditariamente dai propri ascendenti, nel tempo” (Dizionario Garzanti). Una ricchezza accumulatasi nel corso della storia e giunta nelle mani della società contemporanea. Appare chiaro che il dibattito su ciò che il patrimonio sia, parta, prima di tutto, da differenti interpretazioni: sia che si tratti del risultato di un’azione antropica (patrimonio culturale) sia che derivi da un processo naturale (patrimonio naturale), sia che consista in elementi materici e spaziali (patrimonio materiale) sia che racchiuda in sé concetti, tradizioni, culture (patrimonio immateriale), complesso è riflettere sulla possibilità di agire sul patrimonio poiché esso è il contesto che

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non possiamo evitare ma allo stesso tempo “qualcosa di sfuggente che si frantuma a fronte dell’abitare contemporaneo” (Cristina Bianchetti, 2010). All’interno delle città consolidate di origine euro-mediterranea, “il patrimonio è ciò in cui noi siamo” (Joseph Rykwert, 2010), ossia gli spazi, le architetture, i paesaggi in cui abitiamo e che si ripresentano alla società contemporanea richiamando qualcosa di nascosto e inconscio, una risorsa riconosciuta. Oggi il dibattito a livello internazionale indaga le dinamiche di gestione e valorizzazione, alla scala architettonica e urbana, del patrimonio culturale materiale, muovendosi essenzialmente tra due principali posizioni in contrapposizione: da una parte l’approccio legato alla conservazione e dall’altro quello prossimo alla trasformazione. Un ambito di ricerca, quindi, al confine tra tutela e progetto. Come è emerso nel corso delle lezioni e delle tavole rotonde che hanno strutturato le tre giornate del progetto Dialoghi sulla città, aperto ed in fermento è il dibattito su ciò che il patrimonio sia e su come debba essere interpretato e gestito, perché numerose sono le possibili sfaccettature. Se oggi ci si interroga su quale sia la più efficace strategia per gestire il patrimonio urbano, allo stesso tempo però è necessario non dimenticare che il patrimonio è anche ciò che noi stessi siamo come comunità. Di questo si preoccupa lo studio di architettura TAMassociati, ponendo al centro della progettazione delle loro opere (strutture sanitarie, edifici culturali e spazi pubblici) l’attenzione alla persona intesa


Dialoghi sulla città. Architettura contemporanea nella città, patrimonio di Matera (11 - 13 Aprile 2018, Chiesa del Cristo Flagellato, ex ospedale di San Rocco, Matera)

come preziosità e quindi vero patrimonio. Ospite dell’iniziativa in qualità di rappresentante dello studio TAMassociati, l’architetto Simone Sfriso, con la lectio magistralis dal titolo Working on boundaries, ha voluto raccontare del personale modo di fare architettura di questo studio che, a partire dal 1996, è protagonista del social design a livello internazionale, ponendosi al servizio della società civile, delle istituzioni pubbliche e delle organizzazioni no profit, mediante interventi progettuali focalizzati sulle vite dei cittadini, alle varie scale e nei vari contesti. Il contesto affrontato è quello del confine e dell’emergenza, della povertà e della guerra, luoghi di margine culturale, degrado e abbandono: un contesto di certo distante e differente rispetto a quello da noi comunemente considerato come patrimoniale. Gli edifici realizzati da TAMassociati divengono la dimostrazione di una ricerca continua rivolta ad un impegno civile e professionale. Un percorso verso una sempre maggiore consapevolezza del rapporto tra architettura e patrimonio sociale, che sappia trovare le giuste risposte di fronte alle nuove dimensioni del senso civico e del fine etico dell’architettura stessa. Con TAKING CARE - Progettare per il Bene Comune, ossia la curatela del Padiglione Italia alla 15° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, TAMassociati ha sviluppato una riflessione sul tema dell’architettura come arte sociale e strumento al servizio della collettività e del bene comune una vita fuori da questo presente asfissiante.

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Working on boundaries, architetto Simone Sfriso, TAMassociati

Architetto Simone Sfriso, TAMassociati

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“L’architettura, quando si prende cura degli individui, dei luoghi e delle risorse, fa la differenza. È parte di un processo collettivo in cui occorre pensare alle necessità, incontrare le persone e agire negli spazi” (TAMassociati, 2016)

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FASHION DESIGN PER L’EMERGENZA Esperienze didattiche di progettazione sperimentale per la Moda di Elisabetta Furin

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Questa volta è la moda a spogliarsi della sua accezione più frivola, quando si riferisce – dal latino modus, maniera – alle tendenze mutevoli e passeggere dettate dal mercato. È piuttosto nel termine anglosassone “fashion” che si può ritrovare una vocazione più profonda, che attraverso la parola francese façon affonda a sua volta le radici nella lingua latina (factio, factionis) a indicare il significato di fazione, per svelare come attraverso la scelta di ciò che indossiamo sia possibile dichiarare una presa di posizione nei confronti del mondo che ci circonda.

La moda ha il potere di influenzare lo stile di vita delle persone e in questo modo concorre ai cambiamenti della società. Le situazioni di emergenza che negli ultimi decenni hanno colpito sempre più persone nel mondo, a partire dalle guerre fino ad arrivare a quelle legate a calamità naturali, sembrano problematiche lontane dalle passerelle, invece sempre più stilisti di moda si lasciano interrogare dalle esigenze della gente e a loro volta richiamano l’attenzione dell’opinione pubblica. Tra i fashion designers che più hanno influenzato il linguaggio estetico a livello internazio-

Scatto di una sfilata dello stilista Yohji Yamamoto

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nale si distingue il giapponese Yohji Yamamoto. Nato sotto il secondo conflitto mondiale a Tokyo, la devastazione materiale e culturale del suo paese ha segnato profondamente la sensibilità di questo giovane creativo. Dagli esordi fino ad oggi Yamamoto esprime uno stile unico nel suo genere, in cui predominano il colore nero e le forme ampie, che rievocano le antiche stampe giapponesi, abbinati a tagli asimmetrici, strappi e tessuti grezzi che ricordano gli abitanti di città decadenti, sopravvissuti di una civiltà post-atomica. A volte anche l’arte utilizza la moda come strumento di riflessione sulle situazioni di emergenza, come nelle opere di Lucy e Jeorge Orta. Dagli anni novanta i due artisti introducono il concetto di “abito-rifugio” in cui il corpo indossa delle micro-architetture autosufficienti che lo proteggono dall’ambiente circostante. Attraverso i loro progetti di arte contemporanea lo studio parigino Orta ha come obiettivi da una parte quello di richiamare l’attenzione verso le questioni di emergenze umanitarie che coinvolgono il nostro pianeta e dall’altra quello di fornire degli scenari di sopravvivenza per un futuro apocalittico non poi così lontano. Il fashion design quando si interroga sulle emergenze sa anche servirsi del mercato come veicolo di sostegno concreto, mosso da un’etica che si traduce in estetica. Negli ultimi anni, due start-up in particolare hanno saputo dare vita a delle collezioni di accessori moda che aiutano la situazione di migliaia di rifugiati sulle coste mediterranee. Il primo progetto Makers Unite parte dal recupero dei giubbotti di salvataggio per creare borse e custodie confezionate dagli stessi profughi, ospiti di strutture europee, in cui questi salvagenti diventano il simbolo concreto del loro viaggio verso una nuova vita. Il secondo progetto Bag2work, come il primo, parte dalla valorizzazione di uno scarto come i gommoni che una volta approdati sulle coste europee ingombrano le spiagge con un notevole problema di smaltimento. I due giovani designers ideatori di questa iniziativa hanno pensato di riutilizzare molti degli elementi di queste imbarcazioni per creare delle borse leggere, pieghevoli ed impermeabili con modalità di assemblaggio semplici, che non richiedono l’ausilio di grandi tecnologie e che possono essere eseguite dagli stessi rifugiati dei campi di accoglienza adiacenti alle spiagge, per poi essere venduti in tutto il mondo come prodotti portatori di un grande valore umanitario oltre che di innovazione estetica. A partire da esempi di questo tipo gli studenti del corso di design dell’Accademia di Belle Arti

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La Venere delle macerie, bozzetto per un abito da sposa degli studenti di design dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia (B. Aviles, A. Donzella, Y. Chen, H. Zhang)


Il collettivo Makers Unite crea accessori dal recupero dei giubbotti di salvataggio

Bag2Work aiuta i rifugiati a creare borse dai gommoni abbandonati

“Pietro Vannucci” di Perugia, coordinati dai professori Elisabetta Furin e Francesco Paretti, sono stati coinvolti in un laboratorio di fashion design innovativo nel suo genere che riguarda la tematica delle emergenze. Ad un anno di distanza dagli eventi sismici che hanno colpito l’Italia e in modo particolare l’Umbria, i giovani creativi si sono interrogati sulle esigenze pratiche e funzionali, ma anche esistenziali e psicologiche, che si trovano ad affrontare i terremotati e i loro soccorritori. I futuri designers hanno dovuto virtualmente indossare gli abiti delle persone che vivono questa situazione di emergenza per creare abiti e accessori che riflettono sulle condizioni di precarietà e perdita di ogni riferimento materiale, a partire dal recupero di materiali insoliti, ma altamente performanti, che appartengono alle situazioni di soccorso o di messa in sicurezza degli edifici. Il risultato è una collezione di capi unisex multifunzionali, trasformabili e adattabili alle esigenze di una quotidianità stravolta, ma recuperata grazie a questi nuovi abiti. Le esperienze di questi designers ci dimostrano come anche la “maniera” (moda, modus) in cui vestiamo possa contribuire a dare uno stimolo di speranza e di rinascita dove queste sembrano essere più lontane.

Refuge Wear è un progetto degli artisti Lucy e Jeorge Orta

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DESIGN FOR RESCUE AND DISASTER di Giovanna Ramaccini Ogni fase o evento storico ha un termine che più di altri lo caratterizza e attorno al quale vengono prodotti studi e riflessioni. Tra i vocaboli maggiormente ricercati in rete negli ultimi anni figura in maniera piuttosto prevedibile la parola “terremoto”, che spesso affianca il sostantivo “emergenza” contribuendo ad accentuarne l’aspetto negativo. Tuttavia, a ben guardare, l’emergenza descrive un fenomeno di particolare rilevanza, indicando la presenza di qualcosa che risalta da una superficie uniforme. Laddove l’accezione più comunemente utilizzata sottolinea la presenza di difficoltà insormontabili, quest’ultima interpretazione introduce una sfumatura di opportunità, invitando all’azione e offrendo l’occasione di innovare. È questo lo spirito che ha pervaso l’attività svolta dal 21 al 25 maggio 2018 nell’ambito del workshop “Design for rescue and disaster. A challenge and opportunities for designers, architects and engineers” (realizzato grazie al supporto dell’azienda eugubina Tecla e con il coordinamento scientifico del professore Paolo Belardi) condotto dalla professoressa e designer israeliana Noemi Bitterman presso il Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università degli Studi di Perugia, coinvolgendo 28 studenti selezionati tra gli iscritti ai Corsi di Laurea in Design e in Ingegneria edile-Architettura. A partire dallo studio di cinque casi di calamità naturali (quali il terremoto, l’alluvione, l’incendio, la valanga e l’epidemia) ci si è interrogati rispetto al ruolo assunto dal design al fine di migliorare il benessere delle persone coinvolte e la capacità degli organismi chiamati al loro supporto. In questo senso il programma del laboratorio ha previsto che l’attività fosse integrata da incontri e dialoghi con gli enti direttamente coinvolti nei territori colpiti da catastrofi ambientali (quali la Protezione Civile, rappresentata dall’ingegnere Nicola Berni) e da lezioni dedicate.

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Concept per un dispositivo in caso di terremoto, elaborato dagli studenti Agnese Carlotti, Lorenzo Dal Carobbo, Margherita Mezzasoma, Helene Alma Napolitano, Gabriele Pagiotti

Concept per un dispositivo in caso di alluvione,elaborato dagli studenti Monica Battistoni, Debora Ciaramella, Valeria Fortunelli, Elena Scarpelli, Francesco Scubla

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Concept per un dispositivo in caso di incendio,elaborato dagli studenti Roberta Scungio, Sara Posanzini, Angela Angelucci, Daniel Asavei, Salvatore Raniolo, Clotilde D’Archivio

Concept per un dispositivo in caso di valanga,elaborato dagli studenti Lorenzo Binucci, Cristina Ceccarelli, Maria Rita Citti, MarilĂš Falconieri, Andrea Gazzella, Sonia Lepri

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La maniera imprevista, inattesa e inaspettata con cui la situazione di emergenza si manifesta richiama la necessità di risposte tempestive basate su un’adeguata preparazione. L’alterazione improvvisa, anche se solo temporanea, dell’equilibrio prima esistente riferito agli aspetti mentali, sensoriali ed emotivi, nonché a funzioni fisiologiche, quali l’equilibrio termico, la mobilità, la respirazione, la mancanza di cibo, di acqua o di un riparo, si associano a specifiche richieste relative al supporto sociale e psicologico, alla sicurezza, alla protezione e alla comunicazione. L’individuazione dei cinque problemi specifici è stata sviluppata da altrettante proposte progettuali fondate su approcci sperimentali legati alla biomimesi. La lettura critica dei processi biologici della natura (caratterizzata da economia, semplicità ed esattezza dei mezzi impiegati) offre strumenti progettuali relativi alla forma, al materiale e alla funzione che sono stati elaborati attraverso l’introduzione di tecnologie avanzate. Così, ad esempio, il sistema di difesa adottato dal pesce palla ispira il concepimento di un dispositivo di sicurezza in caso di terremoto, dotato di un airbag in grado esplodere rapidamente proteggendo l’eventuale utente e, grazie all’integrazione con dispositivi tecnologici, consente di informare gli organi preposti al soccorso e di ricevere informazioni dall’esterno; la corazza dell’armadillo è lo spunto per un progetto di arredo urbano declinato in un sistema di pensiline collocate in corrispondenza delle fermate degli autobus che, dotate di appositi sensori, si chiudono su se stesse offrendo protezione in caso di alluvione; il fenomeno della bioluminescenza, tipico di alcuni organismi marini, suggerisce il disegno di una tuta da impiegare in caso di incendio, con l’obiettivo di garantire la protezione dalle fiamme e dal fumo nonché di consentire una fuga in sicurezza; il bucaneve, per la sua capacità di sopravvivere a basse temperature e di forare la crosta nevosa, conduce all’idea di una tuta dedicata agli sciatori some supporto in caso di valanghe; o ancora, il meccanismo che permette ai camaleonti di cambiare colore in modo da mimetizzarsi nell’ambiente circostante in situazioni di pericolo, orienta l’ideazione di una tuta intelligente destinata alla protezione dei medici e degli operatori sanitari che intervengono in caso di epidemie, segnalando il rischio di contagio. Se da un lato l’emergenza implica la perdita della normale capacità di orientarsi e di orientare le azioni future, il progetto assume un ruolo necessario attraverso cui poter partecipare alla tutela e alla trasformazione della società.

Concept per un dispositivo in caso di epidemia,elaborato dagli studenti Leonardo Cardinali, Anna Gebbia, Elisa Giannoni, Maria Chiara Iachettini, Pier Filippo Taraddei, Eleonora Tassini

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Laboratorio didattico “Riflesso Emergency” Emergenza e comunicazione tra editoria e design di Carlo Timio L’idea di dare forma al progetto editoriale “Riflesso Emergency”, incentrato sulla cultura delle emergenze, nasce da una serie di riflessioni con esperti del settore, dalle quali è emersa la necessità di fornire risposte adeguate ed immediate al presentarsi improvviso di avvenimenti calamitosi, situazioni di pericolo e disastri sia a carattere naturale che artificiale. In questi contesti, il ruolo della comunicazione risulta strategico e i sistemi con cui si emettono messaggi, sia dispositivi che informativi, dovrebbero essere particolarmente qualificati e caratterizzati da alti livelli di innovazione. Ma è ancora più importante sapere costruire e diffondere, su larga scala, una cultura che rappresenti l’humus su cui fondare sistemi di comunicazione dell’emergenza efficaci, tempestivi e permanenti. L’esigenza quindi di creare un nuovo magazine che desse sostanza a forme diversificate di ricerca, di approfondimenti di elevato valore conoscitivo, scientifico e informativo, si concretizza grazie alla sinergia tra diversi voci, sensibilità e competenze. Un filo rosso lega professionisti, accademici e rappresentanti delle istituzioni e della comunità scientifica: è il termine contaminazione. Un concetto che esprime intrinsecamente una fusione di elementi capaci di miscelare pensieri, visioni, esperienze e professionalità. Questa riflessione è stata tradotta in contenuti redatti da esperti che hanno apportato il loro contributo affrontando tematiche legate alla cultura delle emergenze ad ampio spettro. Con questi presupposti, in parallelo, è stato attivato un Laboratorio didattico “Riflesso Emergency” all’interno del Corso di Design 2 e Design 3 dell’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci” di Perugia, che ha permesso di mettere in piedi questa inedita iniziativa editoriale. E così, a seguito di lezioni frontali tenute da rappresentanti della redazione Riflesso sul tema del design della comunicazione, sono stati selezionati gli studenti che hanno ideato la grafica del magazine e realizzato l’impaginazione dei contenuti. La copertina invece è stata scelta tra una serie di elaborati proposti da studenti del Corso di Laurea in Graphic Design (Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università degli Studi di Perugia), di cui viene pubblicata qui di seguito una selezione. Entrambi i Corsi sono tenuti dalla professoressa Elisabetta Furin. Tale Laboratorio rappresenta un chiaro esempio di come una consolidata e lungimirante sinergia tra il mondo della comunicazione e quello accademico può dare vita a progetti innovativi di rilievo nazionale, con un significativo coinvolgimento anche degli studenti.

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Noemi Stirpe Tra le opere d’arte che nascono dalla volontà di esprimere il dolore per la mancanza di qualcosa di caro, ho preso come ispirazione il monumento dello scultore veneziano Antonio Corradini “Pudicizia velata” che si trova nella cappella Sansevero di Napoli, commissionato da Raimondo di Sangro. La statua, allegoria della Sapienza, è dedicata alla madre di Sangro, la quale morì quando il figlio non aveva compiuto ancora un anno. Il velo che aderisce con grande naturalezza al corpo, simboleggia e cela il dolore del figlio.

Lavinia Marinelli La proposta di copertina del numero dedicato all’emergenza, della Rivista Riflesso è ispirata alle opere d’arte esposte nella mostra del Museo di Spoleto del 2017; opere provenienti dalla Valnerina, recuperate fra le macerie del terremoto. Il tema scelto è l’emergenza richiesta dall’attività di salvaguardia e restauro di cui necessita il patrimonio storico artistico. Un’emergenza culturale che rischia di vedere dissociati per decenni le comunità, i luoghi architettonici e le opere d’arte.

Giulia Nassuato L’idea dell’elaborato è un messaggio di rinascita proposto con la tecnica giapponese del Kintsugi, che consiste nel riparare dei vasi rotti con dell’oro in modo da renderli ancora più belli di prima donando loro nuova vita. Per la copertina del numero speciale di Riflesso è stata applicata questa usanza alle crepe causate dal sisma. L’oro crea la scritta “Emergency” richiamando la forte emergenza di rinascere e donare nuova bellezza ai territori e alle popolazioni colpite dal terremoto.

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Nadia Ubaldini Gli intrecci delle linee e i colori dell’emergenza, sono gli elementi che costruiscono la copertina. La linea dei ponteggi e delle impalcature, che nel loro forte impatto, come nei luoghi della catastrofe, invadono il titolo della rivista.È da questo intreccio che emerge una linea più spessa e marcata, quella del lettering che compone la parola Emergency, a simboleggiare l’aiuto che si concretizza. I colori più evidenti, giallo e rosso, sono quelli del soccorso, degli aiuti, riempiono gli spazi con rigore ed equilibrio nella “frenesia” delle linee.

Federica Mileto La mia proposta grafica, dedicata alle emergenze, in particolare quella sismica, vuole esprimere la forza dell’uomo nell’andare avanti nonostante le visibili cicatrici create dal terremoto sia nella terra che nel cuore della gente.

Sindi Mlloja Ciò che esprime la grafica è un messaggio positivo, per cui un equilibrio si può sempre ristabilire. Un edificio crollato può essere riedificato, le ferite di un animo posso essere risanate, un mezzo piatto rotto, oggetto comune e intimo allo stesso tempo e fragile, può essere ricomposto con un mandala che indica la composizione ordinata, ripetitiva e simmetrica di frammenti geometrici e naturali. I collanti sono coraggio e positività.

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IV ESPOSIZIONE NAZIONALE BIENNALE

LAB

LA GRANDE MOSTRA PER I PROFESSIONISTI DELL’EMERGENZA 16 > 18 NOVEMBRE 2018

SPECIALE TERREMOTO

RADUNO NAZIONALE

SOCCORRITORI D’ITALIA

SABATO 17 NOVEMBRE DURANTE IL RADUNO VERRANNO PREMIATE LE SEGUENTI CATEGORIE:

GRUPPO PIÙ NUMEROSO Premio: Modulo Antincendio GRUPPO PROVENIENTE DA PIÙ LONTANO Premio: Defibrillatore DAE Ami Italia SOCCORRITORE PIÙ ANZIANO Premio: Ricetrasmittente VHF Motorola SOCCORRITORE PIÙ GIOVANE Premio: Ricetrasmittente VHF Motorola pre-iscrizioni: info@eptaeventi.it

Organizzazione: Epta Confcommercio  Tel. 075.5005577  info@eptaeventi.it  www.eptaeventi.it  


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