Magazine di cultura, informazione e turismo
Laccato Legno Cemento
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Turismo, formule nuove e antichi saperi L'antica città di Matera Assisi reale e magica Il Parmigiano Reggiano Milano esoterica Como insolita L'Orologio Astronomico di Padova Il Castello incantato Il Castello di Moncalieri Il Duomo di Monreale Basilica di Sant'Agata a Gallipoli
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La Madonna della Pace Instagrammer a confronto Mi-ka-el, c'è altro guardando oltre? Bosa, la Città del Sole Fara San Martino I borghi nei dintorni di Parma La Rocca dei Vescovi L'isola croata del Molise Il Papa e l'Imperatore Nel parco del Monte Cucco Lo spirito del Lago I colli Berici
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DIRETTORE RESPONSABILE Mario Timio VICEDIRETTORE Carlo Timio DIREZIONE ARTISTICA Alessio Proietti REDAZIONE Marilena Badolato, Francesco Colamartino, Laura Patricia Barberi, Francesca Fregapane, Carlo Trecciola, Alba Fagnani, Italo Profice, Elisa Giglio, Anna Paola Olita, Sara Bernabeo, Caterina Chiarcos, Andrea Mastrangelo, Mariangela Serio, Paola Faillace, Mariagrazia Anastasio CONTRIBUTI Elisa Laschi, Lucia D’Addezio, Alessandra Benazzato, Antonella Manca, Eliana Lazzareschi Belloni, Riccardo Martin, Iris Benoni EDITORE Ass. Media Eventi REGISTRAZIONE Tribunale di Perugia n. 35 del 9/12/2011 ISSN 2611-044X
In copertina
IMPAGINAZIONE E GRAFICA R!Style - Francesca Beacci STAMPA Tipografia Pontefelcino Perugia CONTATTI direzione@riflesso.info editore@riflesso.info artdirector@riflesso.info info@riflesso.info
Arte, architettura e paesaggio sono gli elementi che accompagnano questa edizione di Riflesso in un viaggio culturale fra le eccellenze turistiche del Bel Paese. Come emblema dell’Italia pittoresca apprezzata in tutto il mondo, viene rappresentato in copertina uno degli scorci più suggestivi del capoluogo umbro: la vista che da via Appia su via Sant’Elisabetta incornicia l’acquedotto medievale e Palazzo Gallenga Stuart. L’opera è stata realizzata dalla mano inconfondibile dell’artista Francesco Quintaliani. QUINTALIANI DESIGN Corso Vannucci 4, Perugia www.quintaliani.com info@quintaliani.com
SITO WEB www.riflesso.info 3
Turismo: formule nuove e antichi saperi di Mario Timio
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erché numerosi poeti e scrittori stranieri quali Lord Byron, Goethe padre e figlio, Anderson, Montaigne, Ruskin, Shelley, John Keats, hanno scelto l’Italia per trarre ispirazione e lasciare mirabili e profonde descrizioni dello Stivale, talvolta meglio dei loro colleghi italiani? Quasi tutti hanno stilato un “Diario di Viaggio” in cui sono “dipinte” le bellezze naturali che incrociano nel loro peregrinare prima di giungere alla meta definitiva che poteva essere Roma, Napoli, Firenze, Venezia, Assisi. E così scoprono paesaggi incantevoli e degni di essere messi in poesia o narrati in righe indimenticabili. Sono anche gli scopritori “ante litteram” di quei borghi dispersi tra mari e monti che oggi rivivono la loro seconda storia, grazie a chi stanco della inquinata quotidianità metropolitana, scopre nelle loro bellezze naturali e artistiche un modo nuovo di vivere, che poi è anche il più antico. Non solo. Anche pittori, musicisti, compositori hanno attraversato le Alpi per prendere spunto dall’ambiente italiano per edificare opere immortali. Grandi firme, ma anche nomi comuni, quelli dei pellegrini che da oltre un millennio hanno calcato vie, sentieri e strade, disegnato percorsi, tracciato cammini da un capo all’altra d’Italia. Abbiamo così la via Francigena, la via Lauretana, la via Flaminia con i suoi vari diverticoli, le vie Romee che procedono dal mondo slavo e tedesco, la via Francescana della Marca, la via Amerina che unisce direttamente Roma all’Umbria, la via della Spina che attraversa l’Umbria dal Nord a Spoleto e poi le numerose vie Francescane che convergono su Assisi. Insomma milioni di persone alla ricerca nei secoli del Bel Paese e delle sue bellezze. Tutti turisti innamorati dell’Italia, che offre ambiti unici ed irrepetibili. Il contesto territoriale evocato dalle tante testimonianza letterarie ed iconografiche si rivela una metafora del viaggio e del modo in cui per secoli l’Italia e le sue genti sono apparse ai pellegrini di ieri e ai turisti di oggi. Tutti hanno tratto e traggono una visione estetica del Paese mediante la quale il
viaggiatore si ricollega – come ricorda il giornalista Attilio Brilli – “alla eredità lontana del mondo classico facendone rivivere i tratti immutabili dinanzi ai propri occhi e a quelli dei posteri”. Insomma, un luogo per creare sogni. Che il moderno smaliziato turista accetta e personalizza nelle sue varie accezioni. Poiché esiste un turismo storico, un turismo culturale, un turismo religioso, un turismo musicale, un turismo natura in cui immergersi nella fragranza di scoperte spirituali e fisiche. L’Enit, l’Agenzia Nazionale del Turismo, nel suo piano triennale 20162018 volto alla promozione del nostro Brand Paese, traccia le linee essenziale per contrastare la concorrenza dei Paesi competitor tradizionali ed emergenti. E far sì che vengano consolidate ed espanse le cifre economiche orbitanti intorno alla voce turismo nelle sue varianti. Ad esempio, secondo la Coldiretti, l’indotto dei parchi e aree naturali sale del 21 per cento negli ultimi anni. Questo turismo natura può infatti contare su 871 parchi e aree naturali, che nel 2014 hanno attirato 102 milioni di turisti con un fatturato di 11.8 miliardi di euro. Nei Top 10 parchi preferiti dagli italiani, il primo è il Parco Nazionale dell’Abruzzo, poi quello del Molise, Lazio, Gran Paradiso, Parco delle 5 Terre, seguono l’Arcipelago Toscano e il Gargano. Sta emergendo il Parco di Colfiorito, in Umbria. C’è poi un altro turismo emergente: è quello dei borghi rivitalizzati in un moderno contesto sociale e culturale, sinonimo del buon vivere, del gusto antico, di un saper fare creativo che si apre all’esterno per forme inedite di turismo protagonista della nuova soft economy. Si raggiungono i maggiori siti turistici con la bici (29 per cento), il trekking (25 per cento), escursioni (24 per cento); si cercano sci (12 percento) o watching (8 per cento). Certo, è un modo nuovo di fare turismo che pur non intaccando quello tradizionale verso grandi mete culturali e archeologiche, ne integra la consistenza e le finalità mediante la scoperta culturale di inediti territori e la ricerca di antichi saperi.
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Un mondo sopito nell’antica città di Matera di Italo Profice
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el 2019 Matera sarà la Capitale della Cultura Europea grazie ad un progetto ambizioso che ha puntato sulla sperimentazione sociale, tecnologica e ambientale. La parte antica della città è rappresentata dai Sassi: un’intera città scavata nella roccia calcarenitica che comunemente è chiamata “tufo”. Solo nel 1950 i Sassi erano famigerati perché additati da Alcide De Gasperi come il simbolo dell’arretratezza dell’Italia meridionale. Non è un caso che siano descritti, in maniera anche pittoresca, da Carlo Levi in Cristo si è fermato ad Eboli, che li definisce come due imbuti separati da uno sperone di roccia (La Civita).
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Ph. Giorgio Galeotti
Capitale della Cultura 2019, primo sito Unesco dell’Italia meridionale: è la città dei Sassi, uno dei luoghi più suggestivi grazie alle grotte, ipogei, palazzotti, chiese, scalinate e giardini incastonati l’uno nell’altro a formare un luogo unico e magico
L’insediamento risale ai tempi del Paleolitico e per secoli ha ospitato il fiero popolo materano, il quale ha adattato gli aspri fianchi di uno sperone roccioso per ricavarne un labirinto di grotte e vicoli. I suoi abitanti hanno modellato le asperità rocciose per adattarle alle proprie esigenze. Il sovrapporsi di diverse fasi di trasformazioni urbane sull’irregolare morfologia murgica originaria percorre tutte le diverse ere: medioevo, rinascimento, barocco fino all’epoca moderna. Il raffinato dialogo tra rocce ed architettura, canyon e campanili, ha creato nel corso dei secoli uno scenario urbano di incomparabile bellezza e qualità. I tetti di una servono come base per nuove case che si sono
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Ph. Berthold Werner Vista sulla Cattedrale di Matera
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Ph. Giorgio Galeotti Scorcio su Matera
sviluppate su livelli superiori. Una fitta rete di vicoli che dà l’impressione di camminare attraverso un presepe di pietra. I Sassi si compongono di due grandi Rioni: Sasso Barisano e Sasso Caveoso, divisi al centro dal colle della Civita, l’insediamento più antico dell’abitato materano, cuore della urbanizzazione medioevale e cornice della maestosa Cattedrale romanica. Il Sasso Barisano, girato a nord-ovest, è il più ricco di portali scolpiti e fregi che celano un cuore sotterraneo. Il Sasso Caveoso, che guarda invece a sud, si chiama così perché è disposto proprio come la cavea di un teatro, con le case-grotte che scendono a gradoni. All’interno dei due Sassi vi sono poi quartieri, rioni e contrade. Potremmo considerarla la Betlemme italiana: nel 2004 ottenne fama mondiale grazie al film di Mel Gibson, La Passione di Cristo, che fu girato proprio qui. Oltre alle grotte-case, i Sassi ospitano cisterne, magazzini e ben 156 chiese “rupestri”, molte delle quali perfettamente conservate e
arricchite da preziosi affreschi risalenti al 700-800 d.C. Nelle grotte vivevano spesso più famiglie e nonostante la mancanza di spazio, quasi attività quotidiane si svolgevano nella cavità delle case-grotte: dai lavori artigianali alla tessitura, dalla conservazione dei cibi alla cura degli animali (domestici e non). La temperatura era costante (intorno ai 15 gradi) e garantita dalle caratteristiche del tufo marino dentro il quale le grotte erano scavate, perciò gli abitanti non soffrivano troppo il freddo d’inverno e trovavano un riparo dall’arsura estiva. Sono una chiara testimonianza della capacità di adattamento all’ambiente e al contesto naturale. Adesso sono un sito di interesse culturale tra i più suggestivi del mondo: il visitatore troverà in continuità grotte, ipogei, palazzotti, chiese, vicinati, scalinate, ballatoi, giardini e orti tutti incastonati l’uno nell’altro a formare un luogo unico e magico. Nel 1993 è diventata patrimonio mondiale dell’umanità Unesco, primo sito dell’Italia meridionale.
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Basilica superiore di San Francesco, Assisi
“Assisi reale e magica: da Riccardo Francalancia a Giorgio De Chirico” di Elisa Laschi
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uogo del mistero quotidiano e tempio della spiritualità occidentale, Assisi è nota, tra le città del Bel Paese, anche per il suo eccezionale patrimonio storico artistico. Qui la pittura conosce e sviluppa una lunga tradizione, il cui esordio è da collocarsi nel ciclo giottesco della Basilica, che vede l’arte quale mezzo per esprimere i sentimenti e la magia della vita e dei paesaggi umbri. Magico, mistico e meraviglioso accompagnano il passante che percorre affascinato i tortuosi viottoli medievali e sono le stesse passioni che caratterizzano lo sguardo del pittore che ritrae
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questo mondo come sospeso in un attimo onirico. Occasione unica per conoscere l’Umbria attraverso tale prospettiva, reale e magica assieme, è la mostra “Una profondissima quiete. Francalancia e il ritorno alla figura tra De Chirico e Donghi”, che si tiene dal 18 maggio al 4 novembre 2018 nella rinnovata sede di Palazzo Bonacquisti di Assisi, sito nella centralissima Piazza del Comune. La mostra, voluta dalla Fondazione Cassa di risparmio di Perugia e organizzata dalla Fondazione CariPerugia Arte curata da Beatrice Avanzi, Vittorio Sgarbi e Michele Dantini, espone 130 opere provenienti da musei, fondazioni, istituzioni
Magia, misticismo e spiritualitĂ accompagnano il passante che percorre affascinato i tortuosi viottoli medievali alla scoperta di quella vocazione culturale che rende unica la cittĂ di San Francesco
Giorgio De Chirico, Cavalli in riva al mare
Donghi, Paesaggio
Bartoli, Moltefalco
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Vicolo di Assisi
Francalancia, Via Santa Maria delle rose, Assisi
bancarie e collezioni private, dipinte dai maestri della corrente del “realismo magico”: De Chirico (tra cui Cavalli in riva al mare, 1927-19289), Felice Casorati (tra cui Uova sul tappeto o Uova sulla scacchiera, 1940) e Filippo De Pisis, di scuola Romana, e ancora Antonio Donghi, Francesco Trombadori, Cagnaccio di San Pietro, e molti altri. Questi artisti, che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento italiano aderiscono al clima europeo del “ritorno all’ordine” e dei “valori plastici”, enunciati nell’omonima rivista di Mario Broglio, vollero rappresentare i
paesaggi e la realtà quotidiana in un mondo reale ma sospeso ed incantato, tangibile e al tempo stesso onirico. Reale e magico sono allora aggettivi che descrivono perfettamente i paesaggi dell’Umbria: emerge qui il talento di Riccardo Francalancia, assisano, che sviluppa una sua personale interpretazione influenzata dai luoghi in cui crebbe, un mondo incantato ed echeggiante il passato. Ben evidenti nelle sue tele sono le ispirazioni dei maestri del Tre e del Quattrocento e l’adesione al movimento: quadri che mostrano un mondo rigenerato,
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Felice Casorati, Uova sul tappeto
compatto, onirico e lirico. L’opera di questo artista, che è stata recentemente rivalutata in altre importanti mostre nazionali, viene ora esaltata dal collocamento delle sue nature morte, dei paesaggi, dei luoghi familiari e dei ritratti, tra quelle degli altri grandi esponenti del realismo magico, nate nell’atmosfera dei loro incontri al Caffè Aragno di Roma. Tra le sale quindi la personalissima interpretazione di Francalancia, non solo opere d’arte che, come disse De Chirico stesso, sono portatrici di “magia”, ma anche Assisi e l’Umbria, soggetti di molte delle
tele esposte, come quelle di Amerigo Bartoli, Renato Paresce e Antonio Donghi. È in Paesaggio Umbro, olio su tela del 1927, che Francalancia ritrae le verdi colline e la profondissima quiete che ispirano la mostra e che emergono nei numerosi scorci di Assisi, come nelle nature e negli occhi dei personaggi. Una bella occasione per conoscere l’Umbria e la sua arte contemporanea, per capirne l’influenza a livello nazionale e per rendere omaggio ad una terra che dell’arte ha fatto da sempre una delle sue vocazioni culturali.
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Sapore e forma: è il Parmigiano Reggiano
Ph. Carlo Ferrari
di Marilena Badolato
Vista aerea del Duomo e del Battistero, Parma
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apore di Parma. Ma anche di Modena e Reggio. È il Parmigiano Reggiano, una lunga storia di “forma e sostanza” indissolubilmente legate. La forma la riconosci subito, perfettamente rotonda e nei decenni marchiata dal Consorzio che tutela questo bene prezioso. Anche la sostanza, l’inconfondibile consistenza e sapore sono immediatamente in bocca. Sedici litri di buon latte, rigorosamente prodotto nella zona di origine, sono quanto occorre per fare un chilogrammo di splendido Parmigiano Reggiano. Un gioiello della caseificazione di latte vaccino, la più vecchia denominazione di origine DOP casearia italiana, per una storia di gusto infinita. Cominciano a lavorare il latte, nel 1200, le prime abbazie cistercensi e benedettine di Reggio e Parma e ben presto si diffonde la produzione di un formaggio a pasta dura, ottenuto attraverso il trattamento del latte di questa zona in ampie caldaie. Attestazioni letterarie del suo goloso utilizzo appaiono già nel 1351 nel Decamerone del Boccaccio, che così descrive il Paese di Bengodi: “et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva”.
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Nel XV secolo si registrano a Bologna, presso famiglie aristocratiche, ordinativi di parmigiano anche di notevoli dimensioni…XXXII formagias casei parmensis magnas. Un famoso umanista del tempo, Bartolomeo Sacchi detto il Platina, scrive che in Italia vi erano due specie di formaggi a contendersi il primato: il marzolino, così chiamato dagli Etruschi perché si produceva in Etruria nel mese di marzo e il parmigiano, nella regione cisalpina, che poteva essere chiamato anche maggengo, dal mese di maggio. Ampiamente documentata nel Rinascimento la presenza del parmigiano nella grande cucina dei cuochi di corte, come Bartolomeo Scappi che lo utilizza in ricette elaborate, gratato cum spetie, o il celebre Cristoforo di Messisbugo che descrive la cena fatta nel 1543, dove tra frutte e confetioni cioè i dessert, compaiono piatti 6 di formaggio parmigiano. Il primo documento ufficiale risale al 7 agosto 1612: un atto notarile, rogato a Parma, con cui si sancisce l’uso di chiamare Parmigiano nelle contrattazioni, il formaggio prodotto nel circondario parmense. È del 1928 la costituzione del primo Consorzio di tutela: “Consorzio volontario per la difesa del Grana Reggiano”, che deve essere fatto soltanto di latte, caglio naturale e sale, senza additivi aggiunti. A seguire nasce il “Comitato provinciale per la marchiatura del Grana
© FICO Eataly World
Ph. Giuliani Claudio Piazza Prampolini, Reggio Emilia
“…et quando si tagliano rendono perfecto odore con alcune lagrime” (Bartolomeo Scappi) Parmigiano” e nel 1934 il “Consorzio interprovinciale Grana Tipico”. Finalmente è del 1938 il Decreto governativo che sancisce definitivamente la denominazione del prodotto come “Grana Parmigiano Reggiano”. Oggi la zona di produzione comprende oltre Parma, Reggio Emilia e Modena anche il territorio di Bologna alla sinistra del Reno e quello di Mantova alla destra del Po. Il Parmigiano Reggiano è buono e salutare e non solo per le eccezionali proprietà nutritive-ricchissimo in calcio biodisponibile, una fonte importante di fosforo, ricco di aminoacidi liberi cioè prontamente assimilabili-, ma anche per la presenza di oligosaccaridi biologicamente attivi che stimolano la flora intestinale utile a proteggere dalle infezioni batteriche. E’ indicato quindi nella alimentazione dei bambini proprio per l’azione prebiotica. La sua lunga stagionatura, raccontata dai casari e dagli esperti battitori, prevede che il formaggio “debba passare due estati”, cioè subire per due anni le trasformazioni enzimatiche che creano la sua magica pasta e che in estate, grazie al calore, sono più intense. Attraverso questi processi di maturazione biologica, il formaggio ha un suo picco di fragranza e di tipicità organolettica dai 24 ai 36 mesi. Re della cucina emiliana e principe assoluto di quella italiana, regala sapore a ricette che portano con sé la bellezza dei luoghi. Parla
italiano nel mondo insieme alla nostra cucina tradizionale e rappresenta quel gusto generoso del carattere emiliano: grattugiato, se ben stagionato, e cosparso su paste asciutte o in brodo, siano semplici “minestrine” o compositi “minestroni” di verdure, dona sempre nerbo e sapore; battuto con uova nella cinquecentesca “terdura” e ingrediente delle antiche “bombe” come del più moderno risotto; nella storica “pasta rèsa”, cioè la serendipità delle ricette dei passatelli o della pasta reale; dentro ogni pasta farcita dai tortelli ai cappelletti; dalle splendide lasagne dove a strati riposa legando salse e condimenti sino ai complicati e buonissimi pasticci; nelle polpette e polpettoni di carne; nelle farciture di “crescentine” e” borlenghi” che parlano della sua terra natia; a scaglie in modernissimi aperitivi insieme a frizzanti bollicine, da gustare con amore…Così commentò lo scrittore e giornalista Giovannino Guareschi, padre di Don Camillo e Peppone, la presenza nel Parmigiano dei cristalli di tirosina, indice di una buona stagionatura: “A fissare con una fortissima lente d’ingrandimento la grana del parmigiano, essa si rivela non soltanto come un’immutabile folla di granuli associati nell’essere formaggio, ma addirittura come un panorama. E’ una foto aerea dell’Emilia presa da un’altezza pari a quella del Padreterno”.
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Chiesa di Sant'Eustorgio
Un sentiero esoterico nella Milano dei segreti di Francesco Colamartino
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ilano è come un grande indovinello, che una volta risolto svela grandi segreti, ma solo dopo aver condotto il viandante dalle tenebre alla luce. Principio di questo sentiero è l’Ossario di San Bernardino, in piazzetta Santo Stefano. Risalente al 1127, nel XV i Disciplini, monaci che dedicavano buona parte delle loro giornate alla disciplina dell’autoflagellazione, ne ricoprirono le pareti interne di teschi, omeri, tibie, femori, con lunghe ossa disposte in alto in modo tale da formare la M di Maria Vergine, cui la chiesa era un tempo dedicata. Ma, se per alcuni la morte è solo un’illusione, il sentiero non può che portare a pochi passi dall’Ossario, in
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Ossario di San Bernardino
Duomo di Milano
Tra storie, leggende e misteri si cela una cittĂ dal volto inedito tutta da scoprire per le sue accattivanti e inaspettate peculiaritĂ artistiche, architettoniche e religiose
Chiesa di San Bernardino alle Ossa a Milano
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Ossario di San Bernardino
via Torino, nella chiesa di San Satiro. Entrando dall’ingresso principale ci si ritrova davanti al presbiterio del 1482 di Donato Bramante, ma basta fare pochi passi verso l’altare perché ci si renda conto che l’abside, che all’inizio sembra essere profonda una decina di metri, in realtà occupa uno spazio di soli 97 centimetri. Lo stratagemma è stato escogitato dal Bramante quando la chiesa, all’atto della costruzione, si è vista negare i permessi per le dimensioni previste dal progetto. A pochi minuti a piedi, proseguendo lungo corso di Porta Ticinese, ci si inoltra nel vero e proprio campo di battaglia tra la luce e le tenebre: la chiesa di Sant’Eustorgio. Il tempio, dove sono custodite le spoglie dei Re Magi date in dono nel 344 d.C. a Eustorgio, vescovo di Milano, da Elena (madre dell’imperatore di Costantinopoli), è una celebrazione di ciò che viene alla luce, il Cristo, ma al contempo cela dietro un angolo ciò che lo insidia, il Signore delle Tenebre. Sul campanile svetta la stella cometa dei Re d’Oriente, ma sotto di essa vi è la Cappella Portinari,
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Colonna del diavolo
Ossario di San Bernardino
dove campeggia l’affresco rinascimentale di Vincenzo Foppa, la Madonna con le Corna. La leggenda legata a questo strano dipinto vuole che, durante la messa celebrata da San Pietro Martire, capo dell’Inquisizione lombarda nel 1200, il Diavolo abbia provato a beffarlo assumendo le fattezze della Madonna e che, nella fretta, non abbia completato la trasformazione, lasciando ancora visibili le corna. Ma, quando il santo se ne accorse, lo scacciò con un’ostia. Ed è proprio la statua di Pietro da Verona quella che si eleva sulla piazza antistante la chiesa, dove egli soleva bruciare al rogo streghe ed eretici catari, i quali, però, si vendicarono piantandogli una grossa spada nel cranio, quella con cui viene raffigurato. Il tema dell’eterna lotta tra luce e tenebra torna nella basilica di Sant’Ambrogio, dove il segreto potrebbe essere nascosto nelle scacchiere disseminate all’interno e sulla facciata interna, ricostruita proprio negli anni in cui i Templari soggiornarono a Milano. A Gerusalemme i cavalieri del Tempio scelsero, infatti, come loro sede la Moschea
di Al-Aqsa, che si credeva sorgesse sulle antiche rovine del Tempio di Salomone, il cui pavimento sembra avesse l’aspetto di un’enorme scacchiera. Alla fine di questo percorso immaginario a ritroso nel tempo, dalla morte alla nascita, non può che esservi l’emblema di ciò che viene al mondo: il Duomo, luogo della fondazione celtica di Milano e tempio cristiano a Santa Maria Nascente. Una leggenda vuole che nei sotterranei del Duomo esista ancora un lago segreto, protetto da un cerchio di colonne su cui sono incisi simboli magici, e che al suo interno sia racchiusa l’effige di una Venere Nera che deve partorire. Giulio Cesare racconta che, nell’area in cui oggi sorge il Duomo, i Celti edificarono un tempio dedicato a Belisama, dea del fuoco e della saggezza, signora della fertilità legata alle acque e alla luna. Il santuario dedicato alla divinità celtica venne poi sostituito dai Romani con un tempio in onore della dea Minerva, ma ora a dominare Milano dalla guglia più alta vi è Maria, madre di Dio, che ha dato alla luce colui che è nato per portare la luce.
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Via Gerardo Dottori 94, Perugia
Como insolita: la città di Alessandro Volta e del Razionalismo Ph. Lucia D’Addezio
di Lucia D’Addezio
Cupola del Duomo e Lago di Como
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a cittadina di Como sorge in un angolo di Lombardia incantevole. Abbracciata dalle montagne e da una vegetazione lussureggiante, Como è bagnata dalle acque del Lario, il terzo lago italiano per estensione. Nonostante le piccole dimensioni, Como è una città dalla forte vocazione turistica e le ragioni di un flusso sempre crescente di visitatori sono molteplici. Monumenti di grande valore storico-artistico, panorami e scorci mozzafiato, posizione favorevole sia dal punto di vista climatico che logistico (è a breve distanza dal confine con la Svizzera, da Milano e da importanti scali aeroportuali) e, soprattutto, strutture di qualità destinate all’accoglienza turistica. È la cupola del Duomo a vegliare dall’alto sulla città lariana e a indicare ai turisti la direzione da seguire per raggiungere il bel centro storico di Como. Il Duomo di Como, edificato a partire dal 1396 e terminato con la costruzione della cupola
La città, tra monumenti di grande valore storico-artistico e scorci mozzafiato, è abbracciata dalle montagne e da una vegetazione lussureggiante, oltre che essere bagnata dal terzo lago italiano per estensione
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Ph. L. D’Addezio The Life Electric
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nel 1744, è uno degli edifici religiosi più grandi e spettacolari della Lombardia. Insieme al limitrofo Palazzo del Broletto di epoca medievale e alla Torre civica, la Cattedrale di Como rappresenta il cuore storico della città murata. Il cittadino più illustre di Como è l’inventore e scienziato Alessandro Volta, personalità geniale con la quale la città lariana mantiene da secoli un forte legame. Ad Alessandro Volta sono dedicati i monumenti più iconici della città: il Tempio Voltiano, che ospita cimeli e oggetti personali dello scienziato, e The Life Electric di Daniel Libeskind, opera ispirata alla tensione elettrica tra i due poli di una batteria e posizionata su una rotonda in mezzo al lago. È proprio Alessandro Volta a dare il benvenuto in città ai visitatori, che quasi immediatamente lo incontrano lungo il cammino, giungendo in Piazza Volta. Su un lato della pittoresca piazzetta è stata posta una grande statua che ritrae Volta, firmata dallo scultore Pompeo Marchesi. A breve distanza, al civico 62 di Via Alessandro Volta, si può vedere la casa dove lo scienziato morì nel 1827. A ricordarlo c’è una targa commemorativa: “Fu questa l’avita casa di Alessandro Volta”. Infine il Faro Voltiano, che dall’alto della collina di Brunate domina la città e il Lago di Como, è dedicato a Volta e mira a
Ph. L. D’Addezio Tempio Voltiano
Ph. L. D’Addezio
Ph. L. D’Addezio Casa del Fascio
Duomo di Como
celebrarne la grandiosità con i suoi 29 metri di altezza e la sua mole imponente. Como, oltre a essere la vivace cittadina lombarda bagnata dal Lario che tutti conoscono, è anche un piccolo “museo diffuso” del Razionalismo. La Como razionalista non si svela agli occhi dei visitatori più superficiali e frettolosi. Solo i viaggiatori che saranno in grado di andare oltre le apparenze riusciranno a perdersi per qualche istante nella bellezza e nell’originalità delle architetture razionaliste comasche. Passeggiando sul lungolago o tra i vicoletti medievali del centro storico, basterà guardarsi intorno con un po’ più di attenzione per comprendere di trovarsi, magari senza saperlo, nel cuore del Razionalismo italiano. Tra gli anni venti e trenta del XX secolo una nuova corrente architettonica vide la luce. Proprio a Como si trova quello che Bruno Zevi definì “il capolavoro del Razionalismo Italiano”, la ex Casa del Fascio progettata dal geniale architetto Giuseppe Terragni. I lasciti del Razionalismo a Como non si limitano, però, a questo simbolico edificio. Il Razionalismo in Italia fu una corrente architettonica avanguardistica, quasi eversiva, di decisa rottura con il passato. Nel 1928 Terragni, temendo che il progetto originale
del Novocomum venisse rifiutato, presentò al Comune di Como un progetto più coerente con il gusto del tempo. Sotto le impalcature e i ponteggi, Terragni realizzò in gran segreto quello che sarebbe divenuto il simbolo della nascente corrente razionalista italiana. Gli architetti razionalisti incarnarono un’epoca di sfrenata sperimentazione, alla continua ricerca di un linguaggio adatto a raccontare la città contemporanea. Ordine, linee rigorose e coerenza tra forma e funzione furono i pilastri di questa nuovo modo di concepire la progettazione. I più significativi esempi del Razionalismo comasco li troviamo in Piazza del Popolo, sulla quale affaccia la già menzionata Casa del Fascio (1932-1936), e tra Viale Puecher e Viale Sinigaglia nel cosiddetto “quartiere razionalista” della città, dove si trovano lo Stadio Giuseppe Sinigaglia (1927), il Monumento ai Caduti (1933), il Novocomum (1928), la Casa ad appartamenti Giuliani-Frigerio (1939-1940), e ancora l’Idroscalo (1930), lo Yacht Club (1931) e la Canottieri Lario (1931). Quello nei luoghi del Razionalismo è un interessante percorso alla scoperta di una Como meno conosciuta ma decisamente affascinante. luoghidavedere.it
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Ph. Fioccof Dettaglio del quadrante dell’Orologio Astronomico
L’Orologio Astronomico di Padova di Alessandra Benazzato
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Capolavoro di tecnica e di ingegneria, ornamento ed orgoglio per la città
Ph. Alessandra Benazzato
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egnatempo ed ornamento per la città, capolavoro di tecnica e di ingegneria, meravigliosa macchina da ammirare e da utilizzare per conoscere gli influssi delle stelle sul destino, l’Orologio Astronomico di Padova rappresenta anche per gli interventi a cesello di pregevole fattura orafa, un gioiello che merita di essere conosciuto e valutato per la sua importanza storica. Ben lo comprese Venezia che lo volle imitare per quello che avrebbe realizzato sulla Torre di Piazza San Marco, alla fine del Quattrocento. La sua posizione nel contesto di Piazza dei Signori, insieme al Palazzo Pubblico, al Leone Marciano, al Monte di Pietà, alla Loggia è quella voluta, nel Cinquecento, dalla Serenissima Repubblica di Venezia come definizione di un luogo strategico di governo della Città. La storia dell’Orologio astronomico risale al secolo precedente,
Il meccanismo dell’Orologio di Jacopo Dondi
Ph. groenling
Ph. Sandromars
L’Orologio Astronomico visto da Piazza dei Signori
Vista da Piazza dei Signori della Torre dell’Orologio e del Palazzo del Capitanio
in un contesto diverso, la Torre di ingresso della Reggia dei Carraresi. Quello che oggi è visibile in Piazza dei Signori è il rifacimento del celebre Orologio astronomico meccanico di Jacopo Dondi, realizzato nel 1344 per volontà del Principe di Padova, Ubertino da Carrara. Esistevano già in Italia campanili con orologi meccanici a ruote dentate per indicare le ore del giorno ma quello ideato da Jacopo Dondi, fu il primo in Europa, a segnare, oltre alle ore, i giorni ed i mesi, il corso del sole lungo il cerchio dello Zodiaco nonché le varie fasi lunari. Un’opera straordinaria tale da far meritare all’autore il cognome “dall’Orologio”. Andato distrutto nel 1390, l’Orologio astronomico venne ricostruito nel 1427, sotto il dominio di Venezia. I lavori iniziarono ad opera dell’orologiaio Matteo Novello, e furono conclusi nel 1436 ad opera di Giovanni e Gian Pietro Dalle Caldiere. L’inaugurazione della nuova opera avvenne nel 1437 in occasione della tradizionale Festa di S. Antonio. La Torre su cui è posto l’Orologio è alta una trentina di metri ed è costituita da cinque livelli seguiti da una cella campanaria a pianta ottagonale, con cupola lignea rivestita di piombo. Il piano terra, con un’altezza di circa nove metri, costituisce la Porta che collega Piazza dei Signori con Piazza del Capitanio. I primi tre piani contengono le varie parti del complesso meccanismo di orologeria; gli ultimi due, destinati a residenza del maestro orologiaio, custode e manutentore, non sono oggi visitabili. Nel 1532, Giovanni Maria Falconetto adeguò la facciata della Torre dell’Orologio ai nuovi canoni stilistici ed architettonici rinascimentali. Sostituì l’arco acuto della porta con l’arco trionfale a tutto sesto e collocò su un alto basamento
le colonne doriche binate, ai lati dell’arco, due Vittorie alate, nella trabeazione, il leone marciano e nelle nicchie due figure virili con le insegne del Podestà e del Capitanio. La Pietra d’Istria che caratterizza il prospetto lapideo di rivestimento, esalta l’azzurro della fascia dell’Orologio, su cui campeggiano le quarantotto stelle fisse che simbolicamente ruotano attorno alla Terra, sopra il cielo di Padova. E tutto il quadrante dell’orologio testimonia verità che sarebbero state smentite due secoli dopo, proprio a Padova, nella vicina Specola, da Galileo Galilei. Al centro del quadrante dell’Orologio è infatti rappresentata la Terra, attorno alla quale girano il Sole e la Luna le cui fasi sono segnate nel primo disco mobile con 29,5 tacche, pari ai giorni del ciclo lunare. Stelle, quadrati ed esagoni nel disco centrale, servivano per le interpretazioni astrologiche molto importanti nella vita quotidiana onde ricavare l’oroscopo e pronosticare l’esito di eventi. Il disco successivo indica i dodici mesi, ognuno con il rispettivo numero di giorni. La piccola mano vicina al segno dello scorpione indica su tale anello il giorno ed il mese. Il Sole è fissato su una lancia la cui estremità segna le ore sul settore circolare più esterno. L’ultimo disco mobile del quadrante, il più grande, indica i dodici mesi dell’anno con i rispettivi segni zodiacali, tra i quali manca curiosamente quello della Bilancia il cui spazio è occupato dalle chele dello Scorpione. L’omissione della Bilancia, simbolo della Giustizia, sarebbe una vendetta del decoratore dell’orologio per essere stato retribuito in modo ingiusto! Il segno della Bilancia si trova comunque, in un punto nascosto, della Piazza dei Signori… Si svela solo a chi sa cercare.
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Il Castello incantato di Filippo Bentivegna di Francesca Fregapane
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Ph. Francesca Fregapane
“Io. Filippo de li Testi, scultore. Il pensiero è qui: l’ho conservato per il mondo. È tutto dentro le teste. Non ho lasciato niente fuori. Basta così. Vivete, voi. Nell’inferno. Io raccolgo. Io nel paradiso.”
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on è un castello ciò che ci attende varcando il cancello all’ingresso, né un palazzo di corte, né una costruzione con porte e finestre e magari una torre. Un incredibile museo a cielo aperto, ecco cosa Filippo Bentivegna ha lasciato a noi
posteri. Nasce a Sciacca, in Sicilia, nel 1888 in una famiglia di pescatori di corallo. Purtroppo, agli inizi del 1900 esaurendosi le riserve è costretto ad emigrare negli Stati Uniti dove per un po’ di anni svolgerà i più disparati mestieri, ed è nei cantieri per la costruzione di grattacieli che acquisisce
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dimestichezza con gli strumenti per lavorare la pietra. Durante quegli anni si innamora di una donna la cui relazione viene in qualche modo osteggiata da un rivale che lo aggredisce causandogli un primo trauma cranico. Il secondo, non meno importante del primo, avverrà successivamente in un cantiere sul lavoro che lo costringerà a stare un intero mese in ospedale. Diciamo che il Filippo di cui tutti parlano non si è mai ambientato oltreoceano. Questa motivazione legata ai traumi subiti fa sì che ritorni nella sua terra natia già nel 1919. Inizia così il percorso legato alla sua produzione artistica. Grazie alla pensione di sussistenza americana compra un appezzamento di terra dove trascorrerà, quasi in esilio, l’intera vita lavorando
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e scolpendo facce su qualsiasi cosa glielo permettesse: dalla roccia calcarea presente nel sito ai tronchi di ulivo e mandorlo, sassi, pietre. “Una bastonata me dettero proprio qui sulla testa, me dettero. Per molti giorni nulla ricordai. Poi i medici mi guarirono. Fui allora che io cominciai a scolpire la roccia. Quasi ogni giorno scolpisco…”. Quando la pietra inizia a scarseggiare comincia a scavare cunicoli e grotte da cui estrarre la materia prima da modellare, anche se in paese la storia che si vociferava era un’altra: Filippo non scavava per reperire la pietra da scolpire, voleva, invece, raggiungere una delle vene del vulcano spento di San Calogero per dar fuoco alla città con i suoi abitanti che si prendevano
gioco di lui. Schivo e diffidente veniva additato come pazzo, millantatore, stupido, bizzarro; non fu amato dalla gente, che per ignoranza, lo prese in giro senza riconoscergli quel genio che lo abitò fino alla morte. Venne deriso dai compaesani per il suo strambo atteggiamento, soprattutto quando pretendeva d’essere chiamato Eccellenza poiché pensava d’essere il re di un regno: il suo Castello Incantato, con teste a cui dare un nome e con le quali discutere, conversare, condivide pensieri. Per molto tempo questo luogo rimase in totale stato di abbandono, le oltre 20.000 teste scolpite nell’arco di 50 anni rimasero incustodite, distrutte, perdute o oggetto di
sciacallaggio. Solo nel 1968 qualcuno si accorge di lui e della sua incredibile opera, colui che definì le opere di Filippo Bentivegna “le migliori della sua collezione”: Jean Dubuffet, che nel 1945 teorizzò l’Art Brut, ossia un’arte spontanea senza pretese culturali; realizzata da gente comune, “artisti loro malgrado” che non hanno mai pensato di farsi notare; persone che si sono rifugiate nell’arte per proteggersi dalla vita. Oggi quelle stesse teste sono esposte al Museo dell’Art Brut di Losanna, istituito in memoria di Dubuffet. Lo stesso che asserì che d’altronde “La vera arte è dove nessuno se lo aspetta, dove nessuno ci pensa né pronuncia il suo nome…”, tra i sentieri di un castello incantato, nel regno di un re senza corona.
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Il Castello di Moncalieri e il restaurato percorso museale di Elisa Giglio
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erito nella sua anima, ha riaperto il Castello di Moncalieri. A distanza di nove anni dalla chiusura dovuta al drammatico incendio del 5 aprile 2008 che aveva colpito in particolare il torrione di sudest e l’appartamento di Vittorio Emanuele II, da novembre 2017 ha riaperto ufficialmente al pubblico l’intero percorso museale nel castello, con gli appartamenti delle Principesse Maria Letizia Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, la Cappella Reale e l’appartamento del Re Vittorio Emanuele II. Il castello, che domina dall’alto di un colle il centro storico di Moncalieri, fa parte del sistema delle numerose residenze dei Savoia a Torino e in Piemonte. Dal 1997 è uno dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Al suo interno si trova la caserma dei carabinieri maggiore “Alfredo Serranti”. Si tratta di una delle più antiche fra le residenze sabaude, il castello si erge in tutta la sua monumentalità a guardia del
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Un gioiello piemontese, con lo sguardo sul Po, è stata una delle più antiche residenze sabaude trasformata dai Savoia in “luogo di delizie”
Camera da letto della regina
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Interno del Castello
Po, poco distante da Torino. Edificato in epoca medievale con scopi difensivi, fu trasformato dai Savoia in “luogo di delizie” a seguito di numerosi interventi di ampliamento e abbellimento. Molto amato dai personaggi femminili di Casa Savoia, come la regina Maria Adelaide e le principesse Clotilde e Letizia, il castello fu luogo di soggiorno, sede dell’educazione dei giovani principi e teatro di eventi: frammenti di storia e ricordi familiari aleggiano ancora negli appartamenti reali, collegati al vasto parco che si estende sulla collina. La struttura attuale del castello è a ferro di cavallo rivolto verso nord, con quattro possenti torrioni quadrangolari. I corpi laterali presentano cinque piani e le pareti in laterizio ospitano robusti contrafforti. Le corti esterne sono adibite a scuderie e appartamenti della servitù. La facciata meridionale guarda un piccolo giardino all’italiana e presenta due torrette cilindriche, vestigia dell’antico castello quattrocentesco. Originale il belvedere all’ingresso nord. Il giardino all’inglese si estende sulla collina per circa dieci ettari. È stato oggetto di recenti lavori di restauro che hanno permesso il recupero della componente vegetale e degli edifici presenti nel parco, tra cui la Cavallerizza (la più estesa delle residenze sabaude con i suoi mille metri quadrati), la Casa del Vignolante, la Torre del Roccolo e il laghetto delle ninfee. Il grande parterre all’italiana non è stato recuperato interamente in quanto una parte di esso è occupata dal poligono di tiro dei carabinieri.
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Parte interna del Duomo di Monreale
Il duomo di Monreale: una cattedrale patrimonio Unesco nota per i suoi mosaici e intarsi di Paola Faillace
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a cattedrale di Monreale, la più bella chiesa normanna della Sicilia, fu fondata da Guglielmo II nel 1174; secondo la leggenda, grazie al tesoro rivelatogli dalla Vergine in sogno. Guglielmo II il Buono si sarebbe addormentato sotto un albero, mentre cacciava nei boschi di Monreale; in sogno gli apparve la Madonna, che gli rivelò che si era addormentato nel luogo in cui era nascosto un tesoro. Risvegliatosi, ritrovò un tesoro in monete d’oro che furono destinate alla costruzione del Duomo di Monreale. Nei secoli XVI, XVII e XVIII vennero fatte delle aggiunte che non modificarono la struttura dell’edificio, dei restauri furono fatti a seguito dell’incendio del 1811 che distrusse quasi completamente soffitto e travature.
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La facciata principale del duomo di Monreale è caratterizzata da due torri normanne collegate tra loro da un portico settecentesco in cui si apre la porta principale adorna di due magnifici battenti in bronzo. Suggestive e originali più della facciata della chiesa sono le tre absidi dalla decorazione di grandi archi intrecciati, nei quali l’architetto seppe con molta abilità sfruttare il contrasto cromatico derivante dall’uso di calcare e di bruna trachite. L’interno del duomo di Monreale è formato da una vasta sala basilicale a tre navate divisa da 18 colonne provenienti da monumenti romani, adorne di splendidi capitelli classici. Le pareti sono ricoperte interamente da una rivestitura marmorea con intarsi e mosaici, questi ultimi rifulgenti di milioni di
Abside del Duomo
Colonnato del Chiostro del Duomo
In bella posizione sulle montagne della conca d’oro sorge la cittadina dominata dalla basilica in stile normanno considerata una delle chiese più famose della Sicilia
tessere policrome ed aurate. I mosaici che adornano il Duomo rappresentano le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento e diversi episodi biblici. A tali raffigurazioni si innestano poi altre decorazioni musive rappresentanti uno schieramento ieratico di angeli, santi e profeti. La conca dell’abside anch’essa a mosaico raffigura un maestoso Cristo benedicente, sulle pareti è raffigurato il ciclo della religione cristiana. Il soffitto è a travature scoperte e dipinte, rinnovate dopo l’incendio del 1811. Questa splendida rappresentazione iconografica oltre a un ruolo estetico aveva un importante ruolo simbolico: mostrare il racconto biblico a chi non era alfabetizzato e non riusciva all’interno delle cerimonie ad udire la voce del prete. Per questo viene chiamata «Bibbia dei poveri».
Altra caratteristica dell’antico convento benedettino è la presenza di un chiosco, attiguo al Duomo di Monreale, tra i più vasti del secolo XII. Gli archi acuti del portico sono sostenuti da 216 colonne geminate, di forme varie con intarsi geometrici e bassorilievi. Le colonne sono scanalate, alcune sono tortili, altre diritte. Sono tutte incrostate di mosaici colorati e dorati, di ogni tipo di marmo che forma piccoli disegni di pregiata fattura. I capitelli sono una mescolanza di fiori, frutta, di figure di animali di ogni specie. All’interno del chiosco sorge una fontana moresca a fusto di palma, molto suggestiva; essa è a sua volta circondata da un chiostrino che la separa dal giardino. Il chiosco era stato realizzato per dare un luogo di quiete ai monaci che si ritiravano per studiare e pregare.
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Basilica di Sant’Agata a Gallipoli tra fasto immaginifico e ricchezza decorativa di Mariangela Serio
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Ph. Leonardo D'Angelo
Ph. Andrea Ruggeri
a Basilica Cattedrale di Sant’Agata sorge nel cuore del centro storico di Gallipoli. È una chiesa in stile barocco leccese tra le più importanti per i gallipolini, sia dal punto di vista religioso che artistico. Costruita dal 1629 al 1696, periodo della controriforma in cui i temi barocchi e sfarzosi sono la regola, il suo progetto è opera dell’architetto gallipolino Giovan Bernardino Genuino. Nata nello stesso luogo dove secoli prima sorgeva una chiesa medievale distrutta nel XVII secolo, la solenne cattedrale legò la sua nascita a questa remota presenza, ereditandone la devozione per la santa, tramandata fino a noi dal lontano 1126. La facciata principale della chiesa, adornata in pietra leccese, presenta la ricchezza decorativa tipica del periodo a cavallo tra ‘600 e ‘700, quando nel Salento primeggiava l’opera
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Ph. M. S.
Ph. M. S.
Ph. Mirabilia Sistemi
La Cattedrale, realizzata in stile barocco leccese, è una delle opere più rilevanti sia dal punto di vista religioso che artistico
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dell’architetto-sculture Giuseppe Zimbalo, a cui tutti gli artisti locali dell’epoca facevano riferimento. Le statue presenti sul fronte, realizzate anch’esse in pietra leccese, raffigurano Sant’Agata, San Fausto, San Sebastiano, Santa Marina e Santa Teresa D’Avila. La chiesa è a croce latina a tre navate, con due file di colonne in ordine dorico realizzate in carparo che trasmettono all’ampio ambiente una sensazione di raffinatezza e rigore. Le decorazioni, le cornici e i fregi circostanti, come anche lo splendido presbiterio e il coro in legno intagliato dall’artista tedesco Giorgio Aver, riflettono il fasto immaginifico e la ricchezza decorativa propria del barocco. L’altare maggiore, realizzato dall’artista Giorgio Aver, presenta splendidi marmi policromi che ne esaltano la forma sfarzosa.
Ph. M. S.
La pittura riveste un ruolo importante sia con le grandi tele del pittore Giovanni Andrea Coppola che rappresentano le Anime del Purgatorio, S. Giorgio, i Miracoli di S. Francesco di Paola, l’Adorazione dei Magi, l’Assunta, il Martirio di S. Agata, la Vergine e i Santi Nicola e Oronzo, sia con le tele del pittore Nicola Malinconico raffiguranti la Cacciata dei mercanti dal Tempio. Sulle pareti e sulle volte del coro altri episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento e nel transetto le grandi pale d’altare come il Martirio di San Sebastiano. Nella Cattedrale sono custodite le reliquie di alcuni santi, tra cui quelle di San Fausto. In epoca passata i fedeli potevano rivolgere la loro dedica anche alla reliquia più importante per la città, la mammella di Sant’Agata, che ora si può osservare nella Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina. Una tradizione
locale spiega con un miracolo la presenza della reliquia a Gallipoli. Si dice che l’8 agosto del 1126 sant’Agata apparve in sogno a una donna che notò che il suo bambino stringeva qualcosa tra le labbra: era la mammella della Santa. La donna si svegliò e ne ebbe conferma, ma non riuscì a convincerlo ad aprire la bocca. In preda alla disperazione, si rivolse al vescovo che recitò una litania invocando tutti i santi, e soltanto quando pronunciò il nome di Agata il bimbo aprì la bocca, restituendo la mammella della Santa. La reliquia rimase nella basilica fino al 1380, anno in cui Balzo Orsini, Principe di Taranto, la trasferì furtivamente nel Monastero di Santa Caterina D’Alessandria a Galatina, dove attualmente è custodita. viaggiareinpuglia.it
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La Madonna della Pace di San Severino Marche di Carlo Trecciola
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erso la fine del quindicesimo secolo il protonotario apostolico Liberato Bertelli donò al Duomo di San Severino Marche, quella che forse è l’opera più importante di tutta la città e che, ad oggi, ha pressoché un valore economico incalcolabile, dato che porta la firma di uno dei maestri della pittura più importanti della seconda metà del quattrocento. Il dipinto in questione si intitola “Madonna della Pace” ed è un olio su tavola di 143 x 70 cm e il suo realizzatore era nato con il nome di Bernardino di Betto, conosciuto universalmente però come Pinturicchio (o Pintoricchio che dir si voglia), per via della sua esile corporatura e per il suo principale mestiere, in cui egregiamente eccelse. Incredibilmente questa è una delle sue tante opere ritenuta completamente autografa dai critici più importanti e affermati a livello mondiale, che fu dipinta a Roma nel 1490 circa e che ora è conservata nella Pinacoteca Tacchi Venturi del comune maceratese di San Severino Marche. Forse questo dipinto, più di ogni altra creazione del Pinturicchio, riesce a rappresentare magnificamente il valore della virtù artistica del pittore perugino, che nacque nel 1452 e s’impose prepotentemente nel gotha dei pittori dell’epoca per la sua straordinaria potenzialità espressiva e per la sua sublime discorsività, oltre ovviamente alla sua una chiarissima raffinatezza compositiva. Questa deliziosa tavola fu realizzata all’apice della maturità artistica del Pinturicchio e per questo è da considerarsi un inestimabile gioiello che, almeno una volta nella vita, deve essere ammirato da chi è interessato all’arte, per comprendere pienamente quella caratteristica inclinazione di cui oggettivamente noi italiani possiamo definirci “ambasciatori secolari”: la Bellezza. La Madonna della Pace presenta una composizione studiata nei minimi dettagli, con una maniacale ed epidermica
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Quest’opera, considerata uno dei capolavori prìncipi del Rinascimento italiano, e ritenuta completamente autografa, fu dipinta a Roma nel 1490
cura per i gesti, le espressioni e i drappeggi dei personaggi. In primo piano, come di consuetudine per l’epoca, troviamo il committente inginocchiato, che viene benedetto dal Bambinello seduto in grembo alla Madonna. Sullo sfondo vi sono due dolcissimi angeli che hanno il compito di catturare e di convogliare l’attenzione dell’interlocutore verso il centro della scena, in cui si possono apprezzare la dalmatica e il pallio, finemente decorati, che rivestono il piccolo Gesù.
Tutti i volti dei personaggi richiamano espressamente una bellezza ideale, eterea e soave, che infonde serenità e gioia sin dal primo colpo d’occhio. Lo sfondo riprende la celeberrima fama della dolcezza delle colline umbro - marchigiane, che tra alberi frondosi e rarefatti, risalta la straordinaria sfumatura dell’ambiente, resa ancora più potente ed importante dagli elementi rocciosi sulla sinistra. I colori sono vividi e sgargianti, brillano splendidamente
grazie al massiccio impiego dei finimenti d’oro. Tutta la scena sfavilla grazie ad una luce luminosissima, conferendo religiosa solennità e frizzante letizia. Sulla lunetta superiore invece è rappresentato l’Eterno benedicente, in una vesica piscis di angioletti. Quest’opera è unanimemente considerata come uno dei capolavori prìncipi del Rinascimento italiano, motivo per cui merita decisamente di essere valorizzata e divulgata.
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di Laura Patricia Barberi
Ph. Ema the rabbit
Fotografare l’anima dell’Italia: tre instagramer a confronto
Veduta di Via Po e sullo sfondo la Gran Madre, Torino
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e è vero, come diceva Alphonse de Lamartine, che la fotografia è un arte – anzi è più che un’arte, è il fenomeno solare in cui l’artista collabora con il sole –, si moltiplicano naturalmente i punti di vista dei fotografi che immortalano ogni giorno bellezze dell’Italia. Tre sono i punti di vista dei fotografi che abbiamo intervistato: Emanuele nella regale Torino, Romano circondato dalle dolci colline toscane e Davide contornato da una Palermo spesso baciata da una luce dorata e unica nel suo genere.
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Davide Molica, fotografo siciliano ha iniziato a scattare sette anni fa e da lì la sua passione è continuata senza posa. I toni delle sue foto spaziano dai tramonti rosati in riva al mare al chiarore dei marmi e della pietra dei tanti palazzi ed edifici palermitani d’impronta regale. Nella vita si occupa di Social Media Marketing, professione che ama. Gli abbiamo chiesto cosa significa per lui ritrarre la Sicilia e ci ha risposto così: “Cerco sempre di catturare la sua essenza, i suoi colori, il suo fascino antico ed eterno”. Per Davide Instagram – dove
Ph. Ema the rabbit
Ph. Ema the rabbit
Ph. Ema the rabbit
Piazza Carlo Alberto, Torino
Salone grande, Reggia di Venaria
Galleria Sabauda, Torino
si trova con il nome di @il_mastromatto – è un tramite per presentare le bellezze delle Sicilia ai suoi follower, un nobile intento che sempre più fotografi decidono di abbracciare. Nella primavera del 2016 Romano Ceccatelli decise di acquistare la sua prima reflex digitale e iniziò a scattare foto paesaggistiche. Nei mesi a seguire iniziò ad approfondire anche la Street Photography e il mondo affascinante del ritratto. Ma è nel paesaggio che @r.william.c – così si chiama in Instagram – eccelle. Romano nasce a San Miniato 25 anni fa. Al momento
sta studiando Informatica Umanistica. Per il futuro ha intenzione di continuare a esplorare il mondo della fotografia. La sua Toscana è quella delle zone meno conosciute, esplorata attraverso l’attenzione per le luci, i colori e la composizione: il tutto tenuto insieme da una composizione semplice ed efficace. La sua ricerca costante di nuovi punti di vista lo porta sempre e comunque a prediligere la semplicità. “Non bisogna per forza andare nelle città o nei posti famosi per portare a casa foto stupende. La Toscana, come del resto tutta l’Italia, è ricca
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Ph. Davide Molica
Ph. Davide Molica Vista sulla cattedrale di Noto
Ph. Davide Molica
Lungomare di CefalĂš
Vista dalla chiesa di Santa Caterina a Palermo
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Ph. Romano Ceccatelli
Ph. Romano Ceccatelli Alone (Orciano Pisano)
Ph. Romano Ceccatelli
Infinity (Bolgheri)
The tree in the wind (Pienza)
di bellezza; per questo non mi stanco mai di scoprirla.”, il pensiero di Romano, così riassunto, ci affascina. Sostiene che Instagram sia un ottimo strumento per promuovere le zone meno conosciute ed apprezzate cercando, così, di valorizzarne la bellezza. Parlare di Torino, ci confida Emanuele Zola – in arte ed in Instagram @ema_the_rabbit – non è facile. Una città che ha avuto la visibilità che merita solo da quando ci furono le Olimpiadi a Torino: da allora finalmente iniziò a farsi notare arrivando ad essere citata anche dal NY Times. Emanuele ama profondamente la sua città, sentimento che traspare dai suoi scatti. Ha iniziato a scattare per gioco con il telefono, sfruttando le geometrie delle lunghe vie torinesi. Tre anni fa decise di iscriversi a Instagram. L’hobby per la fotografia che aveva già da bambino torna allora con prepotenza nella sua vita sino a diventare vera e propria passione. Emanuele ama studiare la fotografia, non solo la tecnica, ma anche i libri degli autori che più ama da quelli classici come Erwitt, Doisneau, Frank fino ad arrivare a Friedlander e Fan Ho. Tra i suoi preferiti: Gardin, Scianna, Haas e Leiter. “Da tre anni mi sono evoluto dal punto di vista dei toni e del registro visivo. Ho iniziato a scattare molto più spesso solo in determinate ore del giorno, sia per la mancanza di tempo, che perché mi concedeva di esprimere meglio le mie idee attraverso le immagini: come ad esempio una maggiore libertà nella scelta delle cromie”, ci racconta Emanuele. Il genio fotografico di @ema_the_rabbit non predilige un genere specifico: spazia dal panorama al reportage fotografico. Quello che più ama è adattarsi al luogo in cui si trova, uscire dalla zona di comfort sia da un punto tecnico che compositivo. Di sicuro, agli scatti della sua amata Torino aggiunge infinita sensibilità arrivando dritto al cuore.
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Ph. Filippo Fagioli
Mi-ka-el, c’è altro guardando oltre? di Antonella Manca
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Ph. F. F.
È
appena uscito nelle sale “Mi-Ka-El”, l’inedito e innovativo docufilm autobiografico di Filippo Fagioli e Massimiliano Varrese che intreccia il percorso umano di un giornalista e la figura di San Michele Arcangelo. La produzione è firmata Philms Video, giovane realtà perugina specializzata in reportage e documentari. Il viaggio del giornalista, interpretato dall’attore Massimiliano Varrese, ben presto, per strani sincronismi e accadimenti “guidati”, diviene autobiografico. Il personaggio del giornalista doveva essere inviato a fare ricerca sulla linea dell’arcangelo Michele, ma poi Varrese ci si è totalmente immedesimato. Spunti e cenni storici sul culto micaelico fanno da traino alla storia, che spazia tra Perugia e Monte Sant’Angelo, passando per Pescocostanzo (AQ) e Roma, in cammino verso i luoghi
Ph. F. F.
sacri di San Michele Arcangelo, una figura, per culto nel mondo, secondo solo a quella della Madonna. Sono perugine alcune location del film: il castello di Monterone, antico fortilizio con un passato templare, e il suggestivo tempio di San Michele Arcangelo. Altre tappe dell’opera patrocinata dall’Unesco sono il santuario di Monte Sant’Angelo in Puglia, la Sacra di San Michele in Val Susa e Mont Saint-Michel in Francia. La linea di san Michele Arcangelo collega i principali luoghi di culto europei dedicati all’Arcangelo Michele. Si tratta di una linea ideale che sotto l’impulso delle apparizioni di San Michele e la costruzione di edifici sacri a lui dedicati, diventa via di pellegrinaggio ma anche via di comunicazione storica. Nel docufilm sono stati coinvolti altri sette personaggi di rilievo che Varrese intervista durante il suo viaggio e che sono tutti, in qualche modo, legati alla figura dell’Arcangelo
Ph. F. F.
L’innovativo docufilm autobiografico che ruota intorno al culto micaelico
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Ph. F. F.
Ph. F. F.
Michele: la leader ambientalista e scrittrice Grazia Francescato, la pellegrina Angela Maria Seracchioli, il giornalista e scrittore Enrico Baccarini, la giornalista e scrittrice che si occupa di tematiche spirituali ed esoteriche Paola Giovetti, l’angelologo Don Renzo Lavatori, il geo-bio architetto Graziana Santamaria e il Rettore della Basilica Santuario di San Michele Padre Ladislao Sucky. Un progetto, Mi-ka-el, che darà delle conferme a chi è già sulla via, ma tutte le risposte arriveranno attraverso le domande che le persone si porranno vedendo questo film, che darà sia risposte che domande. Una via spirituale non può avere un punto definitivo. “Quando sei alla ricerca di te stesso e quando tutto sembra
perso c’è sempre una forza che ti guida. Forse, dopo, quando tutto sarà passato riuscirai a mettere insieme tutti quei puntini che sembrano ormai lontani, ma stai pur certo, legati insieme da un unico meraviglioso grande Disegno. MiKaEl, chi come Dio? Chi siamo? Cosa vogliamo? Se fosse proprio lui a guidare i nostri passi? Ci siamo riscoperti davvero in molti, moltissimi sulla stessa “linea”. Quella linea sottile, che taglia in due i mali del Mondo. E allora ti chiedo: C’è davvero qualcosa guardando oltre? È un cerchio che si chiude o che si apre?”. Al momento Mi-ka-el è uscito nelle sale di Roma, Perugia, Avigliana (TO), Narni (TR) e Monte Sant’Angelo. In attesa di nuove date è possibile proporlo nelle sale della propria città contattando direttamente Philms Video.
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Bosa, la “Città del Sole” che incanta per la sua atmosfera magica di Anna Paola Olita
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osa, soprannominata “Città del Sole”, è una delle sette città regie della Sardegna. Antico borgo medioevale, situato in Planargia, è affiancato dal Temo, unico fiume navigabile presente nell’isola. Le sponde del fiume sono unite da un maestoso ponte, considerato tra i trenta più belli d’Italia, da cui possiamo ammirare la città vecchia sovrastata dal castello dei Malaspina,
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situato sul colle di Serravalle, che dal XII secolo veglia sulla costa nord-occidentale della Sardegna e da cui si ha una visione globale di Bosa ed una straordinaria vista sull’ampia vallata, sul corso del fiume e sulle chiesette campestri. L’anima del paese sono i vigneti dove si produce un vino dolce, la nota malvasia bosana, vincitore di prestigiosi premi. La malvasia viene utilizzata anche come attrattiva turistica, Bosa
Ph. Alicew Land Sardegna Link Vacanze
Ph. Gzzz
Panorama del ponte di Bosa sul Temo e del centro storico
portalesardegna.com
Vista della città di Bosa
infatti è inserita nell’itinerario “le vie del vino”. Nel centro storico le facciate delle case, che si sviluppano soprattutto in altezza, sono dipinte con colori pastello. Al loro interno vi sono ripide e strette scale che conducono ai diversi piani; le finestre sono ornate con caratteristici pizzi sardi e impreziosite da graziosi balconcini in ferro battuto, con stipiti e architravi in trachite rossa lasciati a vista. La trachite rossa caratterizza
anche la facciata della cattedrale dell’Immacolata, edificata nel XV secolo e ricostruita quattro secoli dopo mantenendo intatte le caratteristiche originarie, la chiesa del Rosario sormontata da un ottocentesco orologio bifacciale e la vicina piazzetta con la fontana di marmo, incorniciata dalle arcate del seicentesco palazzo Delitala e dal settecentesco palazzo Don Carlo. Da non perdere, inoltre, la suggestiva chiesa e l’annesso convento
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bosa.net
Lungo le vie del pittoresco borgo medioevale si possono ammirare le facciate delle case tutte dipinte con colori pastello. Inoltre, la presenza di vigneti, considerati l’anima del paese, consente la produzione della nota malvasia bosana, vincitrice di prestigiosi premi
del Carmine, costruiti in stile barocchetto piemontese, che custodiscono un prezioso altare decorato con marmi policromi. Le attività artigianali sono ancora profondamente radicate nella cultura e nell’economia locale e contribuiscono ad ammantare Bosa di un’atmosfera magica. Lungo le vie del pittoresco borgo medioevale, detto “Sa Costa”, ci si imbatte in anziane signore dedite al ricamo e alla lavorazione della filigrana, a richiamare l’antica usanza che praticavano le donne in attesa dei loro uomini partiti per mare. Sulla sponda opposta del fiume si estende il complesso architettonico della Bosa ottocentesca, le concerie, che sono state dichiarate monumento nazionale in quanto considerate un prezioso esempio di archeologia industriale. Scendendo verso il mare si raggiunge Bosa Marina e lo sguardo viene immediatamente rapito dalla chiesa di Santa Maria del Mare che fonde insieme elementi gotico-catalani e forme rinascimentali e dalla Torre Aragonese dell’isola Rossa, una costruzione cinquecentesca che veglia sull’antico borgo. Bosa è un paese ricco di storia, di tesori architettonici e di buon cibo, di cui ci si innamora al primo sguardo.
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Sorgenti del Verde
Fara San Martino, la bellezza tra rocce, natura e cascate di Sara Bernabeo
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eta molto apprezzata dagli abruzzesi per passeggiate naturalistiche, picnic e attività sportive di vario tipo, ma forse non conosciuta come meriterebbe sul territorio nazionale, il borgo di Fara San Martino – Borgo Autentico d’Italia – si trova immerso nello splendido Parco nazionale della Majella ed è un vero paradiso per gli amanti della natura. Appena fuori dal centro abitato, infatti, è possibile addentrarsi nella Riserva Fara San Martino – Palombaro, una vasta area
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boschiva di grande interesse per la ricca biodiversità che la contraddistingue: tra i faggi e i pini abitano molte specie di uccelli, il camoscio, l’orso bruno marsicano e il lupo appenninico, animali che con un po’ di fortuna possono essere avvistati da chi ama fare trekking ed esplorare i sentieri meno battuti. Vero elemento protagonista della Riserva, sono le Gole di Fara San Martino, che si trovano a circa 660 metri dalle sorgenti del fiume Verde. La stretta fenditura nella roccia – meno di due metri di larghezza – si può percorrere a piedi, con la sensazione
Dal borgo medievale ai resti di un antico monastero benedettino, passando per le sorgenti del fiume Verde e le imponenti Gole: un gioiello paesaggistico tutto da scoprire Abbazia, San Martino in Valle
di trovarsi quasi all’interno della montagna; attraversata la gola, ci si trova nella valle di Santo Spirito: è qui che sorgono i resti del Monastero di San Martino in valle, un’abbazia benedettina le cui prime notizie risalgono al IX secolo. Una giornata estiva a Fara San Martino offre numerose possibilità di svago: il borgo antico, al quale si accede attraverso la “Porta del Sole”, merita senz’altro una visita, con i suoi tesori architettonici da scoprire passeggiando tra i vicoli; ci si può poi riposare nell’area – attrezzata anche per picnic – presso le sorgenti del fiume Verde, e lasciarsi rinfrescare dall’acqua
cristallina che corre attraverso piccole cascate. Gli appassionati di sport all’aperto, inoltre, non rimarranno certo delusi: arrampicata, trekking, passeggiate a cavallo e rafting sono solo alcune tra le attività che è possibile praticare. Per i più esperti, un’escursione di circa sei ore conduce alla sommità del Monte Amaro che domina la valle. Fara San Martino, abbracciata dalle sue montagne e immersa nel verde, è un piccolo gioiello abruzzese da non lasciarsi sfuggire per trascorrere qualche momento di autentico contatto con la natura.
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Il fascino dei borghi da visitare nei dintorni di Parma di Eliana Lazzareschi Belloni
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Ph. Renaud Camus Castello di Torrechiara
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iete a caccia di idee per un weekend fra i borghi emiliani? Il nostro consiglio è quello di scegliere il territorio parmense, dove il cibo è un’istituzione. Vi basti pensare che Parma è città Unesco per la gastronomia creativa, quindi l’aspetto culinario in tutta la zona viene preso molto seriamente. Ecco la lista dei borghi più belli da visitare in provincia di Parma. Fontanellato è un comune “Bandiera Arancione”, fa parte del novero dei Borghi più Belli d’Italia e vanta anche il titolo di Città d’Arte e Cultura e di “Cittàslow” per la sua qualità urbana, per l’ospitalità e per la valorizzazione dell’enogastronomia
Un weekend parmense alla scoperta di castelli, storia, cultura e prodotti gastronomici
locale. Il suo centro storico è caratterizzato da scorci medievali perfettamente conservati. La piazza e gli edifici che la compongono si raccolgono intorno alla Rocca Sanvitale, fortezza del XIV secolo. A pochi chilometri fuori del centro abitato c’è il Labirinto della Masone, il più grande labirinto di bambù al mondo. Torrechiara è un piccolo borgo che sorge a ridosso dell’ingresso dell’omonimo castello. È costituito da casette in pietra tra cui si snodano stradine acciottolate. Di abitanti qui ne sono rimasti sei, dieci al massimo, fra cui Giuseppe Vicari, un anziano signore che vi accoglierà nella sua piccola cantina per farvi
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Ph. Brian Adamson Rocca Sanvitale, Fontanellato
degustare vini e creme di mosto. Accompagnerà consigli sugli abbinamenti a interessanti racconti. Dal castello, un’elegante e suggestiva dimora del ‘400, si aprono vedute sui filari d’uva e lo sguardo spazia fra i dolci pendii dei colli di Parma. Compiano è un agglomerato di case torri e di antichi palazzi nobiliari incastonati fra i valichi appenninici. Il borgo è arroccato lungo il crinale di un colle che si affaccia sul percorso del fiume Taro. Anch’esso, come Fontanellato, fa parte del club dei Borghi più Belli d’Italia. Passeggiate fra i vicoli lastricati e visitate il castello, che ha conservato perfettamente il suo aspetto medievale. Non andate via senza prima aver assaggiato i panigacci, pane tipico rotondo (non lievitato), che viene cotto
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Ph. Marco Felisa Scorcio di Compiano
Cantina di stagionatura del Culatello
Castello di Compiano
su un piatto di terracotta e condito con salumi, formaggi molli o sughi di funghi e pesto. Sulle strade che conducono al Po, troviamo Zibello. Non potete venire qui e non portare a casa il Culatello, il prodotto tipico di questa area geografica. Stagiona con lentezza nelle cantine del paese. Sotto i portici del Palazzo Pallavicino, in piazza Garibaldi, ci sono una bottega alimentare dove fare incetta di prodotti tipici e la sede della Strada del Culatello di Zibello. Se siete degli appassionati, a fine maggio è in programma la festa che il paese dedica a questo prodotto. gecotravels.com
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Via Ritorta, 6 - Perugia 075 5734430 - 347 4426739
Sulla Rocca dei Vescovi guardando Verona
Paesaggio con vite Garganega
Ph. Franco Lanfredi
di Riccardo Martin
Situata sulle pendici dei Berici, tra stradine tortuose, rivoli colmi d’acqua, case antiche, vigneti e una campagna ridente, il borgo di Brendola, per la sua formidabile posizione, fu oggetto delle mire dei Signori veronesi e padovani
L'incompiuta San Michele, interno
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anto bella che pare un miracolo. Un luogo semplice, posto sulle pendici dei Berici rivolte al veronese, fatto di stradine tortuose, rivoli colmi d’acqua, nugoli di case antiche ed eleganti poste qua e là, tra i vigneti e una campagna ridente e verdissima che tenta di conquistare anche le pendici più ripide delle colline. Brendola trasuda storia in ogni sua parte: oggetto di bonifica da parte dei benedettini nell’Alto Medioevo, ebbe la fortuna di essere scelta da Ottone I di Sassonia come luogo da occupare con una poderosa rocca, fortezza che domina tutt’oggi l’intero abitato. Poco dopo l’edificazione, la rocca venne concessa in feudo ai vescovi di Vicenza; questi fecero del borgo uno
Villa Maluta
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Brendola Rocca
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Ph. Franco Lanfredi
Villa Veronese
San Michele, chiesa incompiuta
dei loro primi feudi e del fortilizio primario avamposto. La formidabile posizione, il paese vivace e fertile, fecero di Brendola oggetto delle mire dei Signori di Verona e di Padova. Nel 1404 Vicenza con il suo territorio si consegnava ai Veneziani che installarono un castellano presso la rocca, spendendo ducati per avviarne un restauro. La vivacità vissuta in età veneziana si interruppe nel 1513 quando, su suggerimento del condottiero Bartolomeo d’Alviano, la fortezza venne minata e ridotta in rovine per evitarne l’occupazione da parte dei nemici della Repubblica. Le rovine della Rocca dei Vescovi – composte da un massiccio mastio, e dalle vestigia delle muraglie che lo circondavano con la porta – sono parte ora di un percorso suggestivo, collegate al paese da una stradina serpeggiante (via Pio XII) che le congiunge più in basso al nucleo più antico di Brendola, al sagrato della neogotica chiesa di San Michele, attorniato da vecchie case e da una allettante osteria. Scendendo ancora, si giunge alla piazzetta Vicariato, circondata dai giardini frondosi della seicentesca e barocca Villa Pagello, Villa Maluta dell’Ottocento ed il medievale palazzotto dei Vicari, sede amministrativa in età veneziana. Presso piazza della Vittoria si è invece dominati dalla grandiosa “Incompiuta”, la nuova chiesa di San Michele iniziata verso il 1931 a sostituzione della più antica e scomoda parrocchiale; il nuovo “duomo” di Brendola non venne mai portato a compimento. Il grande edificio, come una cattedrale nel deserto, è costruito sopra un’altura e circondato da vigneti e caratterizza indiscutibilmente il profilo della località. Di fronte si erge l’elegante loggiato quattrocentesco addossato ad un tozzo torrione, complesso riferibile ai Piovene e ora sede comunale. Proseguendo verso il basso, lungo l’arteria principale del paese, via Revese, incontriamo sulla destra, come una sorta di reliquiario, l’oratorio di Santa Maria Annunciata “la chiesetta Revese” costruita dall’omonima famiglia alla fine del Quattrocento in stile lombardo e affrescata da Giovanni Buonconsiglio, probabilmente nei primi anni del ‘500. Alla famiglia Ravese è riconducibile anche il torrione con pregevolissimo portale di stile sanmichelesco che si innalza poco dopo la chiesa: faceva parte di un grande complesso gentilizio formato da masserie, corte dominicale, villa e giardini, mutati nel corso dei secoli ed in gran parte perduti. Seguendo le altre numerose vie incontriamo ancora chiese e splendide ville, come la bella Villa Casavalle, o ancora Villa Ferramosca. Tutto sembra disposto per essere scoperto con lentezza, nella calma agreste del luogo. Già la bicicletta sembra un mezzo troppo svelto per scoprire la pax brendolana, e il camminare alla ricerca della storia, dei vitigni di Garganega o di qualche osteria dove bere un’ombra con due fette di salame de casada può restituire finalmente quell’equilibrio tutto umano che manca, spesso, al quotidiano contemporaneo.
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L’isola croata del Molise di Andrea Mastrangelo
San Felice del Molise
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l Molise è talmente piccolo da riservare sempre sorprese enormi. Vi sembrerà strano ma tre piccoli comuni della ventesima regione d’Italia sono la culla preziosa di una cultura serbo croata che si conserva da circa quattrocento anni. Parliamo di Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice del Molise. In questi ridenti paesini, i cui centri storici conservano una bellezza antica rimasta inalterata per secoli, non è difficile imbattersi in qualche simpatico gruppo di anziani che si esprimono in un idioma a noi spesso incomprensibile; come, al contempo, non c’è da rimanere stupiti qualora ci si trovasse dinanzi ad un’insegna stradale in doppia lingua. Ma come mai questa piccola zona, quanto affascinante sconosciuta, rappresenta a tutti gli effetti una vera e propria “Isola Croata” del Molise? Leggiamo dal sito
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dell’Istituto centrale della Demoetnoantropologia: «I primi contatti degli slavi provenienti dall’altra sponda dell’Adriatico, lungo le coste molisane, avvennero agli inizi del XIII secolo, per motivi economici, commerciali e culturali. Risale infatti al marzo 1203 un primo trattato commerciale tra la già fiorente Repubblica marinara di Ragusa in Dalmazia ed il piccolo porto molisano di Termoli per la concessione della isopolitìa […] Con la conquista di Costantinopoli, avvenuta nel 1453, i Turchi iniziarono l’espansione verso i territori settentrionali, abitati da popolazioni slave. E, com’era accaduto alle popolazioni albanesi qualche decennio prima, sin dal XVI secolo le nuove migrazioni furono originate dalle invasioni turche. La Repubblica di Venezia e il Regno di Napoli agevolarono gli insediamenti lungo le coste adriatiche per ripopolare le terre che, in quegli anni, erano
Da oltre quattro secoli, una nicchia di cultura balcanica è rimasta viva in tre paesi molisani dove addirittura si parla un idioma tipico e in alcuni casi le insegne stradali sono in doppia lingua Indicazioni stradali in italiano e croato, Acquaviva
rimaste abbandonate a seguito del vastissimo terremoto del 1456 e della Peste del 1495». Tra gli altri paesi già slavi, Palata, ormai italianizzata nella parlata ma i cui abitanti hanno conservato i cognomi chiaramente di origine croata, è forse l’unico abitato che aveva una testimonianza lapidea con una data precisa. Da più fonti infatti era riportata la seguente scritta, incisa sull’architrave della porta d’ingresso alla Chiesa parrocchiale di Santa Maria la Nova: ‘hoc primum dalmatiae gentes incolu e re castrum ac a fundamentis erex e re templu anno domini mdxxxi’ (Le genti della Dalmazia abitarono in questa prima località - ed eressero la Chiesa dalle fondamenta Nell’anno del Signore 1531). Testimonianza ancor più tangibile rimane la lingua parlata. Sempre facendo riferimento al sito web citato in precedenza, leggiamo: «L’idioma parlato dalla minoranza è
sostanzialmente l’antica lingua croata del tipo štòkavo-ìkavo, in uso nella Dalmazia centrale, nel retroterra croato e in Erzegovina. Secondo alcuni studiosi, si tratta di un idioma conservato da circa quattrocento anni (denominazione propria naš jezik - la nostra lingua, forma avverbiale “na-našu” o “na-našo” - al modo nostro; altre denominazioni: slavisano - slavo molisano - lo slavo, in croato moliškohrvatski), con una fisionomia eminentemente pratica, appunto perché parlato in prevalenza da contadini. L’antica lingua croata è, oggi, usata soprattutto nei rapporti familiari e nelle relazioni interpersonali. Essa è stata trasmessa per cinque secoli con la sola tradizione orale e non esistono infatti tracce di scritti, se si escludono alcune poesie». Questo è, senza ombra di dubbio, un angolo stupendo di quel Molise che aspetta soltanto di essere scoperto.
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Un affaccio sul paesaggio di Campo Imperatore
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Il Papa e l’Imperatore di Alba Fagnani
Un viaggio nella piana di Campo Imperatore, in Abruzzo, nei luoghi cari a Papa Giovanni Paolo II
Ph. Alessio Proietti
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ampo Imperatore. Un luogo dal nome austero, quasi superbo, che la tradizione attribuisce a Federico II di Svevia. Nel cuore d’Abruzzo, grandi giganti di roccia si guardano attraverso valli scavate dall’acqua e dal vento. È il massiccio del Gran Sasso d’Italia, il più alto dell’Appennino. Una catena montuosa con quasi 50 km di sviluppo, possente nelle sue vette e dolce nei suoi pendii, modellati dallo scioglimento di antichi ghiacciai. Uno di questi, arrivato ai giorni nostri: il ghiacciaio del Calderone, ultimo dell’Appennino e più meridionale d’Europa. Dall’imponente vetta del Corno Grande, che domina l’Abruzzo con i suoi 2912 metri di altezza, è possibile scorgere l’Adriatico, Roma e j’atru mare (il Tirreno), come narra il canto popolare J’Abruzzu. In un luogo solo apparentemente inospitale, la forza della roccia a un tratto si interrompe in uno sconfinato, splendido altopiano, che si apre agli occhi sorpresi del viaggiatore: è la piana di Campo Imperatore, 75 km² di silenzio e bellezza a circa 1800 metri sul livello del mare.
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Ph. Marco Esposito Rocca Calascio
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Sentiero San Giovanni Paolo II - A.L.B.A. - Š Ainwa (Associazione Italiana Nordic Walking Applicato)
Ph. Marco Esposito Ph. Alessio Proietti
Chiesa di Santa Maria della Pietà, Calascio
Chiesa di San Pietro della Ienca con la statua di Papa Giovanni Paolo II
Fosco Maraini, etnologo, alpinista e scrittore italiano, definì questi luoghi Piccolo Tibet, per la varietà unica dei paesaggi e le sensazioni forti, quasi mistiche, che essi suscitano. Queste zone, oggi tutelate dall’istituzione del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga (1991), sono state per secoli fonte di ricchezza per tutto il comprensorio, grazie ai verdi pascoli d’alta quota: sono le terre della transumanza, là dove il pastore veglia e tace, in attesa di condurre, in autunno, le greggi lungo i tratturi, verso la più mite Puglia. Campo Imperatore richiama ogni anno visitatori di tutte le età, sportivi, fotografi, registi (Calascio, con la sua rocca e la sua chiesa, è stato scenario di numerose riprese cinematografiche), studiosi e appassionati di storia (l’Hotel Campo Imperatore fu prigione di Benito Mussolini fino alla liberazione da parte di forze armate tedesche, nell’Operazione Quercia del 12 settembre 1943). Eppure, luoghi di tale maestosità possiedono anche, e soprattutto, un’impronta più umana. Spirituale e terrena al tempo stesso. Papa Giovanni Paolo II, al secolo Karol Józef Wojtyla, aveva un rapporto speciale con le vette abruzzesi, il maestoso paesaggio tanto simile ai Monti Tatra della sua Polonia. Amante della montagna e dell’aria aperta, il Papa si recò più volte in Abruzzo (il 20 giugno 1993, proprio Campo Imperatore fu teatro di un Angelus), per camminare assorto nel silenzio della preghiera o sciare, in quelle che erano più piccole fughe che visite ufficiali. Il Gran Sasso e quei paesaggi in cui il silenzio della montagna e il candore delle nevi parlano di Dio lo affascinavano. Facilmente raggiungibili da Roma, le cime abruzzesi furono per Wojtyla un posto segreto, un rifugio dalla vita quotidiana. Tra i luoghi a lui più cari, c’era il piccolo santuario di San Pietro della Ienca, Chiesa sub umbra Petri a quota 1166, dove il Papa si ritirava per pregare. A rievocare questo intimo legame, di fronte alla chiesa oggi c’è una rappresentazione scultorea del pontefice, rivolta verso valle. Il 22 ottobre 2015, con una marcia nello stile del nordic walking, è stato ufficialmente inaugurato il Sentiero San Giovanni Paolo II - A.L.B.A. (Ass. Lifestyle, Benessere e Alimentazione), che congiunge i borghi di Assergi e di San Pietro della Ienca. Il silenzio è spezzato solo dal rumore dell’acqua che scorre, in un percorso dalla pendenza moderata ma costante. L’essenza del rapporto tra Wojtyla e questi luoghi va ricercata proprio nel significato profondo della salita, realtà fortemente evocativa del cammino dello spirito, chiamato ad elevarsi dalla terra al cielo, fino all’incontro con Dio. La montagna apre i suoi segreti solo a chi ha il coraggio di sfidarla. Chiede sacrificio e allenamento. Obbliga a lasciare la sicurezza delle valli, ma offre a chi ha il coraggio dell’ascesa gli spettacoli stupendi delle cime. Cime che hanno plasmato bellezze e paesaggi naturali, popolazioni e uomini. Uomini miti e forti, che dello spirito della montagna sono profondamente, orgogliosamente infusi.
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Il Convento Antica Dimora francescana sec. XIII
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Monte Vettore innevato
Le grotte nel cuore del Parco di Monte Cucco di Mariagrazia Anastasio
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on i suoi 1566m svetta a nord-est del piccolo paesino di Costacciaro il grande complesso calcareo del Monte Cucco. È il cuore di un’area naturale protetta, il Parco Regionale omonimo, che si estende intorno ad esso, all’interno dell’Appennino umbro-marchigiano della zona eugubina. Si tratta di una montagna interamente costituita da una formazione geologica definita “Calcare Massiccio”. Il nome stesso ci fa intendere sia la possenza dei banchi calcarei al suo interno, sia
Grotta
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Country Road
l’origine delle rocce che lo costituiscono e la cui modellazione da parte degli agenti esogeni ed endogeni ha dato origine all’orografia del monte che attualmente osserviamo, ma anche a quello che al suo interno custodisce gelosamente. Percorrendo uno dei tanti sentieri che da Pian delle Macinare conduce fino alla sua vetta, ci si imbatte prima nella traversata di un fitto bosco di faggi e, dopo un importante dislivello tra le faggete, si apre il paesaggio aspro e brullo dei monti calcarei, allietati in cima dai simpatici ‘omini’ in pietra che gli escursionisti costruiscono una volta giunti sulla cima del Monte Cucco. L’infiltrazione delle acque meteoriche e la loro circolazione all’interno del sistema di fratture profonde del massiccio del Monte Cucco ha escavato i preziosi e intricati cunicoli
L'acqua della grotta
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Dall'alto
La grotta
Tra cunicoli, nuovi ambienti e pozzi verticali, distribuiti su circa trentacinque chilometri di lunghezza, sono previsti percorsi turistico-escursionistici per una ‘Traversata’ nella montagna, percorrendo ampie sale e scoprendo inediti panorami
Dettagli della grotta
Preparazione al volo
carsici lunghi oltre 30 km, che fino a nemmeno dieci anni fa potevano essere apprezzati solo da esperti speleologi. Le Grotte del Monte Cucco è noto siano state esplorate sin dal 1499, data incisa sulla roccia da un anonimo visitatore. Ma la prima vera esplorazione ufficiale del sito avvenne tra il 1880 e il 1892 ad opera di un industriale fabrianese che iniziò a studiarne e cartografarne i primi 3 km, e che mise in opera anche una scalinata d’accesso al pozzo iniziale per rendere la grotta accessibile a tutti. Furono le esplorazioni speleologiche successive guidate dal Gruppo speleologico CAI di Perugia che, dal 1959 al 2003 scoprirono nuovi cunicoli, nuovi ambienti e pozzi verticali, arrivando fino lo sviluppo attuale delle Grotte che conta circa 35km di lunghezza dei cunicoli
I passaggi della grotta
Deltaplano
Parapendio
e una profondità verticale di 922m con ben quattro ingressi. Solo dal 2009 parte delle grotte sono aperte al pubblico lungo gli 800 m che tagliano il monte dall’ingresso Est all’ingresso Nord delle grotte. I percorsi turistico-escursionistici sono obbligatoriamente guidati, tra essi quello chiamato ‘Traversata’ è quello più emozionante, fa provare ai visitatori l’ebbrezza di attraversare longitudinalmente la montagna, percorrendo ampie sale e suggestivi cunicoli, fino a sbucare al di là del monte da un pozzo verticale. Le passeggiate da trekking di bassa-media difficoltà che anticipano l’ingresso e seguono l’uscita dalle grotte lasciano il visitatore sbigottito nell’osservare gli splendidi panorami offerti dall’Appennino e dalle sue valli.
In cammino
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Ph. Rccardo Cacioppolini Fauna del Trasimeno
Lo spirito del Lago di Iris Benoni
“Quante volte mi sono trovato in compagnia dei miei pensieri, a perdermi fra i bagliori del lago, rapito da un angolo, da uno squarcio di veduta, dalla vista o dal richiamo di una folaga, dal piroettare di un persico, capace di evoluzioni degne di una campionessa olimpica di nuoto sincronizzato. E quella risacca, lieve, nei giorni di stanca; tutto, tutto sembrava lì apposta per me, ecco sembrava che il lago volesse parlarmi. Perché io sono sempre più convinto che il lago abbia un’anima, uno spirito, pronto a parlarmi, a dialogare con me, con il mio umore, con la mia vita. Quanta bellezza in questo lago!” (tratto dal testo teatrale dell’autore/attore Gianluca Brundo)
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Ph. Iris Benoni Villa Aganoor Pompilj a Monte del lago
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hissà quante volte Guido Pompilj (statista e uomo politico) si è trovato in questa situazione ammirando il lago dalla loggia della sua villa a Monte del Lago, dove viveva con la moglie Vittoria Aganoor (un borgo delizioso collocato sulle sponde del Trasimeno) preoccupato di come salvarlo da una bonifica aggressiva. Questo bellissimo specchio d’acqua, il quarto in Italia per dimensione, ha rischiato all’inizio dello scorso secolo di scomparire per sempre dalle cartine geografiche e, se non fosse stato per Guido e altri imprenditori illuminati che sono riusciti a salvarlo, non ammireremmo più i favolosi ed unici tramonti che ci vengono regalati al calar del sole. Passeggiando lungo le rive del lago è possibile vedere l’innalzarsi di falchi, aironi, uccelli acquatici e splendidi uccelli migratori; risalendo tra le dolci colline ed i borghi si scorgono le tracce dell’epica battaglia tra Annibale e i legionari romani, i resti lasciati dagli etruschi, dai longobardi, dai papi, da duchi e marchesi, palazzi, abbazie, chiese in cotto e santuari che celano le opere di importanti artisti come il Pinturicchio, Pomarancio, Gerardo Dottori. Ogni evento, ogni famiglia nobiliare, abitante,
Lo specchio d’acqua del Trasimeno, con i suoi favolosi tramonti e la sua ricchezza storico-artistica, rappresentano un posto incantato dove emozionarsi facendo esperienze uniche
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Ph. Renilda Zajmi Tramonto sul lago
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Ph. Vladimiro Ercolani
Ph. Fabrizio Belìa
Castello di Montegualandro a Tuoro sul Trasimeno e vista sulle isole Maggiore e Minore
Monte del lago
artista ha donato a questo territorio particolarità uniche che ne hanno disegnato il paesaggio e la sua storia rendendolo unico e irripetibile. In questo splendore si consumò il grande legame d’amore, immenso e tragico, tra Guido e Vittoria la sua amata poetessa che, come lui, veniva ispirata dal lago e lo supportava nella sua battaglia per salvarlo. Il loro amore nato in tarda età, tra due personalità forti e che mal si confacevano ai dettami del tempo in cui vivevano, è stato passionale, intenso e, come ogni amore dovrebbe essere, portatore di energia che ha permesso ad entrambi di realizzare i loro sogni. Vittoria morì per una grave malattia e Guido, non potendo più pensare ad una vita sul lago senza la sua amata, si uccise subito dopo. “Ma questo lago per chi lo conosce, per chi ha il privilegio di frequentarlo per un week-end o per una breve vacanza, ha qualcosa in più, qualcosa di più profondo. Ha la capacità di capirti. Il lago ha la capacità di capirti? Sì, il lago ha la facoltà di spiegarti quello che spesso senti e non riesci a comprendere, a fare tuo; è una sorta di alchimia, una specie di superpotere che il lago ti sa infondere, ed è proprio in quell’istante
che ne percepisci a pieno la bellezza, perché ti è entrato dentro”. (tratto dal testo teatrale dell’autore/attore Gianluca Brundo) Molte sono le esperienze e le storie che i territori del lago Trasimeno possono offrire ai visitatori che desiderano una vacanza che sappia regalare emozioni. Ed è per le emozioni che sa offrire che molti i turisti, che lo hanno scoperto, decidono di dimorarvi come ad esempio George Lucas ed Ed Sheeran. Se respiri la forza, l’energia, l’armonia, la bellezza di queste rive di questi territori, quando ti entreranno dentro, allora comprenderai che anche tu fai parte di tutta quella bellezza, che sei una parte di essa, che lo spirito del lago ti parlerà se lo sai ascoltare. “Stiamo appunto per lasciare il lago, che, veramente fino a ieri fu luminoso, e giocondo come di maggio [...] Tu avessi veduti i tramonti dei giorni scorsi! Veri manti d’ostro e di foco gettati sulle onde e infondo al cielo dietro ai monti neri, quel violento sfondo di fiamme. Ma ora si fa fagotto e si torna in città”. (lettera del primo novembre 1903 a Marina Sprea Baroni Semitecolo di Vittoria Aganoor). architettobenoni.it
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L’ulivo, la vite e il vento: l’affascinante ristoro dei Colli Berici di Caterina Chiarcos
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a maggior novità, ch’ivi si pone, si è a veder lo Covol di Costoggia, là dove il vin si conserva e ripone. Quivi son donne d’ogni vaga foggia.” Così il medievale Fazio degli Umberti, nel suo “Dittamondo”, riassume didascalicamente le bellezze caratteristiche dei Colli Berici vicentini. I boschi che ricoprono i dolci pendii dei Colli Berici offrono incantevoli passeggiate tra robinie, querce, carpini, noccioli e castagni, da arbusti e vegetazione “di macchia”, quali la rosa canina, il ginepro, il corniolo, la roverella ed il terebinto e anche specie vegetali rare tra cui il paliuro ed il pero corvino; la vista che si apre tra la vegetazione consente di ammirare i filari di vigne e gli uliveti che si alternano al bosco autoctono, le strette
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valli con mulini e corsi d’acqua, e lo spettacolo della Pianura Padana che nei giorni tersi si estende da Venezia a Bologna. Tutta la zona rocciosa compresa tra il comune di Longare e le frazioni di Lumignano e Costozza è disseminata inoltre da un tipo particolare di grotta carsica: i covoli, vere e proprie stanze naturali scavate nella roccia calcarea locale, adibite fin da tempi antichissimi alla conservazione di vini e vivande, alla coltivazione del fungo pioppino, fungendo poi da riparo agli abitanti della valle in cerca di refrigerio nel periodo estivo, oltre che in occasione di guerre o incursioni nemiche. Usciti dalle fresche ombre dei boschi, anche i paesi che giacciono ai piedi o sulle pendici delle colline offrono al visitatore affascinanti scorci architettonici e preziose testimonianze storiche. Dopo la cessione ai monaci benedettini da parte dei longobardi,
Villa Veronese, Brendola
La Rotonda, Vicenza
I boschi che ricoprono i dolci pendii offrono incantevoli passeggiate con una vista che si apre tra la vegetazione consentendo di ammirare i filari di vigne e gli uliveti che si alternano al bosco autoctono, le strette valli con mulini e corsi d’acqua, e lo spettacolo della Pianura Padana che nei giorni tersi si estende da Venezia a Bologna sorsero in tutta la zona santuari ed eremi, tra cui le bellissime pievi di San Mauro e San Mainolo a Lumignano e San Vito a Secula. La grande devozione locale per l’eremita medievale San Teobaldo, di cui è conservata una sacra reliquia nella chiesa di Sossano, è testimoniata dal fiorire di cappelle gentilizie e capitelli a lui dedicati. Con il passaggio sotto la Repubblica di Venezia vi fu un fiorire di ville dagli splendidi giardini, collegate tra loro da un geniale sistema di condutture lungo circa sette chilometri, i “ventidotti”, che convogliavano nelle stanze l’aria fresca proveniente dalle grotte. La fresca brezza serotina è anche il principale motivo per cui nel 1565 il canonico e conte Paolo Almerico commissionò ad Andrea Palladio la sua villa in campagna, Villa Capra Valmarana detta La Rotonda, ispirata al Pantheon di Roma: della trentina di
ville progettate dal Palladio è forse quella che suscitò più ammirazione e ispirazione in tutta Europa, con le sue facciate neoclassiche affacciate su tutti i versanti della collinetta su cui è adagiata. E mentre il sole tramonta a ovest oltre paesi di Orgiano e Alonte, indorando coi suoi ultimi raggi i filari di vitigni di Garganega, Sauvignon, Cabernet, Pinot bianco, Chardonnay e Carmenere, è facile abbandonarsi ai racconti locali secondo cui il visitatore solitario di notte correrebbe il rischio di incontrare e disturbare le streghe vagabonde e danzanti per boschi e sentieri, o di essere attirato in qualche maligna trovata delle graziose anguane, che si offrono di accompagnare il viandante per poi farlo smarrire nelle grotte, mentre al chiaro di luna le fate stendono i loro panni di ragnatela su funi lunghissime, da una rupe all’altra.
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