Riflesso - Magazine sulla Cultura della Moda 2018

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Magazine sulla Cultura della Moda

Fashion Culture

Numero speciale


Via MonteNapoleone, 7 - Milan Via Maistra, 33 - Sankt Moritz Promenade Du Port - Porto Cervo Opening Soon Saint BarthĂŠlemy - December 2018 Sh o p o nl i n e at l ar us m i an i . i t I n s t a gr am : @ L ar u s m i an i


28/08/18 11:54




AresCollection We redifinied the kitchen. Nuove proporzioni e capienza maggiorata. Materiali tecnologici e ecosostenibili. Elettrodomestici a basso consumo e soluzioni living integrate. Uno progetto unico per tutti.



CONTRIBUTI Cristiano Gallo Klaus Davi Walter De Silva

DIRETTORE RESPONSABILE Mario Timio VICEDIRETTORE Carlo Timio DIREZIONE ARTISTICA Alessio Proietti COORDINAMENTO Francesco Brunacci Gabriele Moschin Francesca Pierucci EDITORE Ass. Media Eventi REGISTRAZIONE Tribunale di Perugia n. 35 del 9/12/2011 ISSN 2611-044X

Elisabetta Trincherini Paolo Belardi Elisa Giglio Giovanna Ramaccini Michela Proietti Marilena Badolato Carlo Trecciola Giulia De Corso Giulia Ratti Irene Orlandi Lavina Feliziani Michela Bevivino Maddalena Bartolini Baldelli Francesca Scarfone Giulia Bellandi Rebecca Baldanzini Veronica Zito Eleonora Maestrelli

IMPAGINAZIONE E GRAFICA R!Style - Francesca Beacci STAMPA Tipografia Pontefelcino Perugia CONTATTI direzione@riflesso.info editore@riflesso.info artdirector@riflesso.info info@riflesso.info SITO WEB www.riflesso.info Tutti i diritti di questa pubblicazione sono riservati

In collaborazione con

POLIMODA

Il buio e la luce, il naturale e l'innaturale, il reale e il surreale, il vecchio e il nuovo. La dualità è l'essenza stessa della moda in quanto espressione mutevole di uno spazio e di uno spirito del tempo. Questa immagine reinterpreta la doppia natura della moda, perché guarda al futuro e allo stesso tempo al passato. Il double face, che ritrae una nuova identità, rappresenta la fashion industry con le sue innumerevoli sfumature che consentono alla persona di evolvere nei e con i propri abiti, pur rimanendo intimamente se stessa. Istituto: Polimoda Photographer: Lorenzo Gomez Styling: Agnese Borgi, Belén López-Rúa, Sarah Maria Grepl Designer: Augusta Del Biondo Model: Ella Rawson Make-up artist: Isabela C. De Oliveira Hair stylist: Sabrina Carolina Da Silva


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Nel Principato di Monaco

svetta il lusso made in Italy

10 MonteNapoleone District 14 Il prestigio del made in Italy 18

The Form in motion

22 Contaminazioni nella moda

del movimento radicale

26 La Cosa-Mazzocchio 30 Roland Barthes 34 La metrica di Antonio Marras 38 L'essere green 42 Foulard'arte 46 La giacca 50 Fast fashion vs slow fashion 54 In quale direzione sta andando

la moda?

56 Le nuove frontiere delle sfilate 60 Il mondo delle app 62 Corpi di stoffa 64 L'offuscamento dei sessi 68 La moda che fa bene 70 Due declinazioni

di sostenibilitĂ

72 Eco friendly 76 La moda degli scarti 78 Il gioiello nella moda 80 Non solo gioiello,

ma anche moda

84 Percorso speciale

sulla moda a Firenze

88 Selezione Cover


Nel Principato di Monaco svetta la moda di lusso made in Italy a cura dell’Ambasciatore d’Italia nel Principato di Monaco

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MonteNapoleone District tra luxury boutique, eventi mirati e beneficenza a cura di Carlo Timio

Il Presidente Guglielmo Miani spiega che il vero lusso è un concetto estremamente esclusivo e parla delle attività intraprese dall’associazione per esportare all’estero l’idea di eccellenza

Guglielmo Miani

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on il coordinamento di oltre centocinquanta boutique, il MonteNapoleone District si posiziona al primo posto in Europa per la vendita di beni e prodotti di alta gamma. Un mix di elementi vincenti e innovativi ha permesso al quadrilatero della moda milanese di raggiungere questo significativo traguardo, anche grazie alla regia del presidente dell’associazione che ha saputo creare rilevanti sinergie sia con strutture ricettive che tour operator, incrementando così l’offerta di servizi per far sentire i clienti coccolati all’interno di uno dei più affascinanti shopping center di lusso al mondo. Presidente Miani, come nasce l’idea di dare vita all’associazione MonteNapoleone District e quali sono le attività di cui si occupa? “L’idea nasce da due esigenze, quella di promuovere iniziative comuni con il fine ultimo di rendere sempre più visibile e appetibile il Quadrilatero della moda di Milano per i globe shopper e di avere un unico interlocutore per dialogare con le istituzioni. Oggi MonteNapoleone District coordina le boutique di oltre centocinquanta Global Luxury Brand delle vie Montenapoleone, Sant’Andrea, Verri, Santo Spirito, Gesù, Borgospesso e Bagutta e incoraggia la formazione di un autentico spirito di collaborazione fra tutti gli operatori commerciali e turistici, creando partnership con hotel 5 stelle lusso, ristoranti, tour operator e società di servizi. Dal 2010, da quando sono presidente, abbiamo impresso un nuovo impulso che ha accresciuto e consolidato l’immagine di Montenapoleone quale shopping center di lusso a cielo aperto unico al mondo. L’o-


Asta benefica ‘Italian Masters’ di Christie's

Modello Isa Yacht, ‘MonteNapoleone Yacht Club’

Evento ‘La Vendemmia’

biettivo è di organizzare, pianificare e attuare eventi di varia natura, culturali, benefici e commerciali, utili all’incremento e alla qualificazione del commercio e dei servizi, sia nell’interesse degli associati sia dei loro fruitori. Per questo collaboriamo anche con le istituzioni cittadine, regionali e nazionali. Con il Comune di Milano, ad esempio, il 3 e 4 dicembre 2018 saremo insieme per la seconda volta a Cannes, in occasione di ILTM, per promuovere Milano come meta turistica di alto livello. L’evento “Unexpected Milan” viene organizzato con alcuni dei più prestigiosi hotel 5 stelle lusso della città - Armani Hotel Milano, Baglioni Hotel Carlton, Bulgari Hotel Milano, Excelsior Hotel Gallia, Four Seasons, Grand Hotel et de Milan, Mandarin Oriental, Park Hyatt, Principe di Savoia e Westin Palace, che sono parte dell’associazione. Quest’anno si sono aggiunte anche alcune strutture di Como tra cui Sereno, Castadiva Resort & Spa e Villa s’Este. L’obiettivo è mostrare al mondo del turismo più qualificato a livello internazionale cosa possa significare scegliere Milano e dintorni, non solo per scoprire le sue meraviglie durante eventi già affermati come le fashion week e la settimana del design, ma anche durante il resto dell’anno”. Il distretto di via MonteNapoleone risulta al primo posto in Europa per shopping. Quali sono gli ingredienti vincenti che hanno permesso di raggiungere questo importante traguardo? “Nel Quadrilatero della moda si respira un’aria unica al mondo, fatta di palazzi storici, di bellezza e di eleganza. Sicuramente il fatto che in poche esclusive strade nel cuore di una città raffinata come Milano si possano trovare centinaia di boutique, ristoranti, hotel, bar e pasticcerie

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Evento ‘La Vendemmia WineTasting’

MonteNaponeoneDistrict targa ©DanieleFragale

rende l’esperienza dell’acquisto unica e irripetibile. Niente a che vedere con i mall artificiali. Il nostro obiettivo è far conoscere le prestigiose vie del lusso non solo come tempio dello shopping e del lifestyle, ma anche come luoghi in cui si fondono tradizione, storia, creatività e innovazione. I servizi su misura e di alto livello che offriamo da anni nella MonteNapoleone VIP Lounge sono dedicati ad una clientela sofisticata e esigente. La nostra lounge è la prima al mondo ad offrire ai viaggiatori un ventaglio di benefit ed esperienze uniche tra cui un servizio di concierge esclusivo e la possibilità di spedire il bagaglio e lo shopping verso l’aeroporto di partenza, ricevendo assistenza VIP per espletare tutte le formalità di tax refund senza stress e code”. Da anni avete cominciato a puntare sugli eventi internazionali quali il ‘MonteNapoleone Design Experience’ e ‘MonteNapoleone Yacht Club’. Che tipo di ritorno procurano queste iniziative? “Oggi il lusso è fatto di esperienze. Gli eventi che organizziamo da otto anni, primo fra tutti ‘La Vendemmia’ ad ottobre, consentono di unire la moda, il vino, la nautica per esportare all’estero la nostra idea di eccellenza. Attraverso queste iniziative raccontiamo la bellezza dell’Italia e di Milano come ‘Italy’s best kept secret’ svelando le nostre migliori qualità e facendo vivere una tipica esperienza del lifestyle italiano. La soddisfazione dei nostri associati e degli sponsor che di anno in anno ci sostengono è crescente, perché gli eventi non hanno solo un ritorno di immagine, ma soprattutto economico sulla occupancy degli hotel e sul giro d’affari dei brand che si ripercuote a sua volta sulle migliaia di persone che lavorano nel distretto e sulla città stessa”. Tra gli eventi organizzati da MonteNapoleone District ci sono anche attività di beneficenza. Come si coniu-

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Modello Ferretti Yacht, ‘MonteNapoleone Yacht Club’

ga il mondo del luxury con quello della solidarietà? “La solidarietà è uno dei modi in cui si esprime il nostro essere milanesi. La nostra città da sempre è un esempio per tutti, a maggior ragione quando si parla di beni di lusso è importante non dimenticare chi ha più bisogno. Per l’ottavo anno consecutivo, MonteNapoleone District aderisce alla campagna a sostegno della LILT – Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori organizzando a fine settembre una giornata di shopping dove le boutique associate devolvono il dieci per cento dell’incasso per raccogliere fondi a sostegno delle attività di diagnosi precoce del tumore al seno. Un importante connubio che vede solidarietà e moda schierarsi dalla stessa parte in nome della prevenzione al femminile. Poi, in occasione de La Vendemmia, giovedì 11 ottobre c’è l’atteso appuntamento con l’asta benefica “Italian Masters” di Christie’s, il cui ricavato sarà interamente devoluto a favore dell’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano per la ristrutturazione del giardino a uso dei bambini malati”. Lei è anche titolare del marchio Larusmiani, il brand più antico di via Montenapoleone, quali sono, a suo avviso, i valori che contraddistinguono oggi il concetto del lusso? “Il concetto di lusso è spesso travisato. Per vero lusso intendo il massimo del massimo dal punto di vista artigianale, di know-how, di storia e di materiali. Un capo o un accessorio sono di lusso quando rispondono a questi requisiti. Per me il vero lusso è questo, un concetto estremamente esclusivo, soprattutto legato all’unicità. Non significa che una cosa debba essere necessariamente molto cara, quello che conta è il contenuto intrinseco dell’oggetto. Un’idea che con Larusmiani cerchiamo di portare avanti anche grazie al recente accordo con Aldo Lorenzi, amministratore unico della storica bottega G. Lorenzi. Con lui abbiamo riportato in vita e in Montenapoleone la tradizione dei suoi leggendari accessori”. Vista di Via Montenapoleone

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Il prestigio del made in Italy di Klaus Davi

La candidatura a patrimonio dell'Umanità prosegue con determinazione, mentre il tema dell'artigianato di eccellenza italiana è sempre più presente nel dibattito politico

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l valore aggiunto della moda e del lusso italiano è quello che ci tiene in piedi. Oggi fa la differenza il prestigio dell'Italia, la riconoscibilità dei prodotti, la filiera produttiva, il prestigio di come vengono prodotti. L'Italia è ancora in sé un valore aggiunto, ma deve difendere questo prestigio, deve difendere il made in Italy. Questo è quello che penso. È da qui che parte il progetto di candidatura del made in Italy a Patrimonio Unesco, iniziato l’anno scorso, ma con il ritardo e il cambio di governo sta procedendo lentamente, i tempi si sono allungati. Confido comunque che si possa avere un incontro con il ministro dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo Alberto Bonisoli a breve. Ci sono


già stati miglioramenti per quanto riguarda l'artigianato italiano nel dibattito politico. Più presa di coscienza, della propria unicità, del fatto che il made in Italy si debba rispettare, curare e tutelare. I politici ne parlano di più, c'è più sensibilizzazione; questo nuovo governo Conte ha già detto che l'artigianato occupa un tema centrale. La legge così come è stata scritta non aiuta tantissimo la piccola e media impresa artigianale, che vive anche di flessibilità: questo è un neo ma spero che in sede governativa nei prossimi mesi si risolverà. Il mercato ecosostenibile si sta allargando sempre di più: quasi il sessanta per cento degli italiani cerca l’abbigliamento eco-friendly. I tessuti

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hi-tech stanno entrando nei nostri mercati. La tecnologia aiuta a valorizzare lo spirito artigianale delle creazioni italiane. Inoltre, l'Italia si contraddistingue per correttezza etica e tracciabilità dei tessuti e quindi la mia idea è che la tecnologia possa valorizzare il prodotto artigianale e la creatività. Qualche giorno fa il Sole 24 Ore ha dedicato una pagina all’impatto delle tecnologie 4.0 sulla piccola e media impresa. Tutte le testimonianze raccontano di un’offerta che grazie al digitale si fa sempre più personalizzata e "su misura". Ritengo che sia un po' la tendenza

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delle offerte tailor made, che sia un po' la tendenza del futuro ed è sicuramente la direzione dove molte aziende stanno andando, però non si può individualizzare tutto. Noi comunque siamo bravi anche a produrre i prodotti per i target più ampi, cioè coniugare l'interesse generale con gusti mirati. Sta proprio qui la capacità italiana. Ma la capacità industriale non va dimenticata ed è importante coniugare la grande impresa che va da sola con le realtà più piccole che invece hanno bisogno di aiuti per trovare la loro strada.

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The Form in Motion di Walter De Silva

Dal design delle più affascinanti auto in circolazione alla realizzazione di modelli di scarpe da sera senza tempo per donne amanti dello stile e della raffinatezza

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er comprendere meglio il mio atteggiamento nei confronti del design, passione e professione che mi accompagna da quasi mezzo secolo, è indispensabile premettere quale sia la mia relazione con la bellezza. Per estetica si intende dare un senso alla forma, ovvero percepire la bellezza attraverso la mediazione dei sensi. L’estetica è per me un valore assoluto per raggiungere i confini dell’essere. Oggi viene spesso sostituita dall’appariscenza, insensibilità alla forma, ovvero la percezione del brutto come espressione di bellezza da consumare. Fin da piccolo sono stato attratto dalla velocità e dalla sua espressione più reale e tangibile: l’automobile, la sua forma in movimento assolutamente diseguale da qualsiasi altro vettore (treno, aereo, motoscafi, vele, ecc.), in quanto raggiungibile da tutti. Automobile che racchiude nelle sue forme tutti i desideri, spesso inespressi, dell’individualità come eros, passione, seduzione, desiderio, felicità, libertà. E così, la mia volontà si trasforma in realtà, ma per arrivare ad interpretare le forme della mia mente ho capito che, oltre alla creatività, serviva disciplina. Dopo un lungo periodo formativo, incontrando e lavorando con personaggi straordinari da Rodolfo Bonetto, passando per Franco Mantegazza, a Renzo Piano, l’auto assume per me un’altra dimensione: quella del progetto, dei vincoli e di tutte le componenti del disegno industriale. Io continuavo però a sognare e il sogno si avvera: vengo chiamato a dirigere il design dell’Alfa Romeo, il marchio

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Schizzo WDS 092 SHARON

Schizzo WDS 023 CAMY


“L’estetica è per me un valore assoluto per raggiungere i confini dell’essere” Alfa 156

Audi A5

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A sinistra, WDS 040 CLOE Ph©MatteoPlatania Al centro, WDS 092 SHARON Ph©MatteoPlatania Nella pagina a fianco, In alto, WDS 000 RAFF Craken White Ph©MatteoPlatania In basso, WDS 050 MARY (famiglia) Ph©MatteoPlatania

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che più ho amato. L’Alfa Romeo non è solo una storia di automobili, ma una storia di uomini, passioni, corse, vittorie. L’Alfa Romeo appartiene già al mito, il nuovo corso diventa un fiume in piena e il suo apice lo raggiunge come team e come prodotto con la 156 (car of the year 1998), un’auto che racchiude in se stessa tutti i valori del marchio milanese. Seguiranno nuvola, 147, 156 sportwagon, 166. Questo amore si interrompe bruscamente. La mia sempre più forte insofferenza verso il management Fiat, che vuol dare un corso ad una struttura centralistica, miope e poco orientata alla valorizzazione dei marchi, mi porta alla Seat. Un lavoro intensissimo che in breve tempo continuerà in Audi e poi definitivamente alla direzione del design del gruppo Volkswagen. Dodici brand, 21 design studios internazionali, 2.000 addetti, più di 100 modelli disegnati e portati al pubblico. Le più conosciute vetture come Seat Leon, Audi A5, A6, Q5, TT, R8, Volkswagen Golf, Polo, Passat, Porsche Macan, Lamborghini Huracan, Bugatti Chiron e molte altre. Questa sfida, con la gestione della complessità di un’attività interdisciplinare molto articolata, ridefinisce il mio ruolo


attraverso la conoscenza dei processi e degli uomini, portando sempre con me l’esperienza del designer che è in me. Alla fine della mia carriera, da questa esperienza, dall’amore per il disegno e dalla storia della mia famiglia si riaccende la passione che fu di mio nonno: dare vita, insieme a mia moglie Emmanuelle, ad un concetto e ad un mio brand di scarpe da sera per donne eleganti e raffinate. Come per l’auto, la seduzione della forma in movimento mi ispira e mi attrae. Così nasce la mia prima collezione di scarpe da sera, dove c’è tutto il mio universo: questo passaggio di vita mi porta ad esplorare vie nuove, basate su esperienze formali raffinate e sofisticate. Scarpe leggerissime (150/170 gr.), dove il tacco rappresenta l’elemento architettonico di assoluta novità. Sempre altissimo e slanciato, armonico, scultoreo e sensuale. Si spinge verso la base del tallone e in senso opposto, con forza e dinamismo, ispirandosi alla tensione della caviglia. Da il concetto, il design, la storia, la memoria delle mie forme “da toccare” nascono modelli con proporzioni senza tempo, per dare vita ad una bellezza sognata, ad uno stile per donne affascinanti che inseguono un solo pensiero di libertà, passo dopo passo.

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Contaminazioni nella moda del Movimento Radicale di Elisabetta Trincherini

Archizoom Associati, Vestirsi è facile, Ph. Dario Bartolini, 1973 Ettore Sottsass, serie Superbox "Torno Subito", progetto 1965, realizzazione edizione limitata, Centro Studi Poltronova, 2005

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hi lavorava sul progetto in quegli anni ha cercato di farlo uscire dalla noia mortale del progetto esecutivo per farlo tornare a essere un linguaggio di comunicazione, colto, in divenire: Ettore Sottsass ha insegnato con il suo lavoro tutto a tutti”. A parlare è Gianni Pettena (storico, teorico e autore del Movimento Radicale), gli anni sono quelli a cavallo tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, l’area geografica è, in prima battuta, quella limitrofa alla

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Cristiano Toraldo di Francia, Aurora e Boreale, anelli componibili in metacrilato, 1965, edizione 2016, Centro Studi Poltronova, Ph. Cristiano Toraldo di Francia

Facoltà d’Architettura dell’Università di Firenze, per poi irradiarsi, a mo’ di virus, in altri centri della penisola tra cui, non ultimo, Milano. Il superamento degli specifici disciplinari è stato uno degli obiettivi perseguiti e sdoganati dai seguaci del Movimento Radicale: molti di loro, pur partendo dal linguaggio dell’architettura e del progetto, si sono cimentati con le più svariate forme espressive. Archizoom Associati collaborano dal ’70 al ‘73 con la ditta Brevetti Berné, specializzata in prodotti ortopedici, per realizzare dei costumi. I prodotti sgambati e unisex che sono il frutto della collaborazione non sono tanto costu-

mi tradizionali da indossare sulle spiagge, ma “abiti” per vivere la città artificiale e infinita che gli Archizoom stavano via via definendo col progetto della Non-stop city (Domus n. 496, marzo 1971). Una certa ambivalenza e il conseguente superamento di identità definite, femminile e maschile, ben riscontrabili in quei progetti, immortalati anche in alcuni preziosi scatti d’epoca, sono certamente divenuti un tratto distintivo della postmodernità nel campo della moda. Basti pensare alla dimensione androgina che ne ha fortemente caratterizzato l’immagine a cavallo tra la fine del XX secolo e l’inizio del XXI, con stilisti che si sono sbizzarriti su corpi che assommavano le caratte-

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Archizoom Associati, Dressing Design, Calze Pelose, (Kitti Bolognesi, Klaus Bachschmid), Ph. Dario Bartolini, 1972

ristiche unisex: ragazze “mannish” ed efebici ragazzi decisamente “girlish”. Stesso discorso per le Calze pelose, sempre Archizoom, indossate dalle donne e volute da Elio Fiorucci, insieme ai costumi, per il suo celebre store di Milano e le Sfilate Moda Mare Capri. Verso la fine del ’72 gli Archizoom, e in particolare Lucia Bartolini, sulla scorta di un loro scritto precedente, Proposta per un programma di progettazione di un sistema razionale di abbigliamento, 1970, lavorano a un progetto che consegna all’utente gli strumenti per costruirsi l’abito. Il progetto si concretizza in una scatola di montaggio (do it yourself) contenente il necessario e il suggerimento di un metodo basato sulle possibilità combinatorie del quadrato di tessuto per confezionare abiti. È possibile riscontrare delle influenze in una certa concezione geometrica sartoriale, si pensi a Nanni Strada, a proposito della quale Beppe Finessi parla di “moda intesa come disciplina progettuale” e di “vestito che diventa architettura” (Abitare n. 415, marzo 2002).

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Gianni Pettena, Poltrona Ombra, Galleria Speciale, Bari 1986

Come ha avuto modo di specificare in seguito Dario Bartolini, se Vestirsi è facile ‘73 è un sistema rigoroso di progettazione dove la combinazione di un unico modulo quadrato genera nuove possibilità, Dressing Design ‘72, a partire dai prodotti per la Brevetti Berné, è invece un sistema di abbigliamento basato sull’associazione selvaggia degli indumenti. In Aurora boreale gli anelli progettati con gli scarti della produzione del plexiglas, nel 1966, da Cristiano Toraldo di Francia (Superstudio), oggi in produzione Poltronova, sono stati l’elemento sommativo e combinatorio che ha anticipato alcune successive tendenze nella moda. I ben quindici pezzi sono in grado di essere intercambiati a seconda dei gusti, micro fenomeni ottici, “da indossare sulle dita di mani pallide, rosate, scure, gialle, lisce o rugose” (Cristiano Toraldo di Francia, 2016). Se con Vestirsi è facile si rendeva l’abito un’architettura, Ettore Sottsass ha mosso in direzione opposta realizzando un mobile, i Superbox (progettati nel ’65 ed editati in serie

limitata dal Centro Studi Poltronova nel 2005), deducendoli dall’approccio al vestire delle giovani ragazze francesi. “È stato a Parigi, l’altro giorno al primo piano di Vog […] guardavo le ragazzine […] si stavano vestendo come si mettono insieme i pezzi di un meccanismo o di una carrozzeria” (Sottsass, Mobili, 1966). Più concettuale la contaminazione nella moda di Gianni Pettena con un lavoro come la Poltrona Ombra (’86): elementi flessibili, inseriti tra fodera e tessuto di un cappotto dell’artista, consentono a chi lo indossa di potercisi sedere ma permettono anche una loro performatività autonoma. Pensato come abito che diviene luogo dell’abitare tout court e che, come normalmente accade, conserva una memoria, un riflesso, un’ombra di chi l’ha vissuto, anche in sua assenza. L’influenza lasciata in eredità al mondo della moda, e non solo, è quella dell’idea del cambio di pelle, l’uomo lascia il suo abito che ha vita propria e che evoca il corpo e il fantasma dell’esserci.

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LA “COSA-MAZZOCCHIO” di Paolo Belardi

A sinistra, Firenze, chiesa di Santa Maria Novella, Storie di Noè, Diluvio, particolare (Paolo Uccello, 1447-1448 ca.) A destra, Washington, National Gallery of Art, Lorenzo de’ Medici (Andrea del Verrocchio, 1478 ca.)

Quando l’arte conferisce alla moda una dignità pari alla scienza

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allo studiolo del palazzo Ducale di Urbino al chiostro Verde della basilica di Santa Maria Novella a Firenze, dalle mura di porta Frascati a Prato al museo dell’Ara Pacis a Roma, la “cosamazzocchio” attraversa tutti i luoghi dell’arte moderna, serrando idealmente l’opera di grandi artisti del Quattro/Cinquecento (Paolo Uccello, Piero della Francesca, Leonardo da Vinci) con quella di grandi artisti del Novecento (Oscar Piattella Mimmo Paladino, Ben Jakober, Yannick Vu). Ma che cos’è la “cosa-mazzocchio”? e perché il mazzocchio ha sempre sollevato e continua a sollevare tuttora l’interesse degli artisti? L’argomento è talmente intricato da imporre un preambolo etimologico che peraltro, così


New York, Metropolitan Museum of Art, Ritratto di donna (attribuito a Paolo Uccello, 1430 ca.)

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Cell Cycle Jewelry (Nervous System, 2012)

Prato, mura di Porta Frascati, Mazzocchio (Ben Jakober, Yannick Vu, 1994)

come è proprio delle questioni più fascinose, lo rende ancor più intrigante. Stando all’Enciclopedia Treccani, infatti, il vocabolo “mazzocchio” deriva dal latino maxuca tramite il suo diminutivo maxuculus: “quantità di cose strette insieme in guisa di mazzo”. Il che, tuttavia, riguarda sia il mondo dell’agricoltura, laddove indica “l’ingrossamento a forma di testa che si forma nei fusti di alberi capitozzati (nocchio)” e “il germoglio giovane di una varietà di cicoria, molto gustoso in insalata (puntarelle)”, sia il mondo del costume, laddove indica “l’acconciatura femminile fatta raccogliendo i capelli in crocchia e legandola con nastri, fiocchi e altri ornamenti”, e soprattutto “il copricapo, composto da un cerchio di borra rivestito di panno, che cingeva il cappuccio medievale”. Copricapo che, nella versione diventata di moda tra la borghesia fiorentina del Quattrocento, era panneggiato su un cer-

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chio imbottito e avvolto con una fascia (foggia) di cui la cima, più larga e corta, si portava a sinistra, mentre la punta finale (becchetto), lunga e stretta, pendeva sulla spalla destra e si girava sulla parte sinistra della schiena. Tuttavia, a ben guardare, al di là del valore del mazzocchio come accessorio prêt-à-porter, è il solido anulare a sezione poligonale che fungeva da sottostruttura (e che ne incarnava la trasposizione geometrizzata) a serrare in un nodo borromeo la triade arte/moda/scienza, ispirando i virtuosismi disegnativi dei più grandi artisti quattro-cinquecenteschi, che lo hanno citato continuamente (e spesso gratuitamente) nelle proprie opere per consacrare il proprio primato nella pratica della prospettiva scientifica. Basti pensare al caso emblematico delle Storie di Noè affrescate da Paolo Uccello nel chiostro Verde della basilica di Santa Maria Novella a Firenze


Urbino, Palazzo Ducale, studiolo, particolare (attribuito a Giuliano e Benedetto da Maiano, 1473-1476)

Leonardo da Vinci, Struttura del mazzocchio, in Codice Atlantico (1478), f. 710r, Milano, Biblioteca Ambrosiana

(1447-1448), dove la “cosa-mazzocchio” svolge con indifferenza la funzione di ciambella-copricapo e di ciambella-salvagente. Geometria, algebra, intarsio e pittura da un lato; ottica, prospettiva, scultura e disegno dall’altro. Così come notato con acutezza da Roberto Berardi, “è in questo universo di ‘pratiche’ che la figura del mazzocchio (…) viene costruita, disegnata, dipinta e intarsiata come se rappresentasse veramente una cosa, mentre invece costituisce una prova estrema del pensiero algebrico sui ‘limiti’ e di quello geometrico sugli ‘inviluppi’. Gli attributi di questa cosa (…) sono, negli studi grafici, la trasparenza perfetta e l’impossibile perfezione geometrica, il risultato imprevedibile di una sommatoria di eguali, e dunque la scoperta”. D’altronde è innegabile che, malgrado le infinite varianti di acconciature di vimini e/o di stoffa importa-

te dalla Borgogna e acconciate in guisa di ghirlande nel mercato fiorentino della Porta Rossa, la “cosa-mazzocchio” non sarebbe mai esistita di per sé, se non avesse invaso le pagine dei trattati e le tarsie degli studioli del XV secolo. Perché, mediante la rappresentazione del mazzocchio, la realtà del mondo, la realtà dell’universo e la realtà degli artefatti trovano nella matematica un formidabile strumento di comprensione e di condivisone ideologica, naturalmente trasmissibile a quanti praticano scienza ed esperienza. Così che l’esperienza non rimane un mero “lavoro meccanico”, ma assurge a “pratica di conoscenza” (tanto che l’artista, da artigiano diviene professore) e la moda, tramite il medium dell’arte, assume una dignità pari alla scienza. Il che, nell’epoca del fashion parametrico e dei gioielli stampati in 3D, non può non stimolare l’esplorazione di nuovi orizzonti disciplinari.

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La semiologia della moda secondo Roland Barthes di Elisa Giglio

Il sociologo strutturalista elabora un’attenta analisi della moda, dimostrando che parlare di Chanel o del colore in voga per l’estate non è cosa da donne superficiali e materialiste, ma vero e proprio fondamento del vivere sociale

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ttraverso la moda la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo”. Questo è uno dei tanti estratti del libro “Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento” di Roland Barthes, saggista e semiologo francese che visse a metà del secolo scorso (1915 - 1980). Il libro riunisce per la prima volta tutti i testi – saggi, articoli, recensioni, interviste – nei quali Barthes affronta un tema e un problema centrali della vita sociale contemporanea: il multiforme e poliglotta universo semantico vestimentario – che si forma e si riforma senza sosta, nel momento in cui l’abito incontra il corpo costituendolo come struttura di senso – diventa oggetto del desiderio. L’intera opera del saggista d’oltralpe è cosparsa di osservazioni, sempre attuali, sui significati sociali dell’abbigliamento e del costume. Inoltre, l’autore porta avanti un’approfondita riflessione sul coprirsi e il denudarsi, sull’esibizionismo e la vergogna, sull’identità e i suoi mascheramenti. “La semiologia del vestito – afferma Barthes – mette in relazione il vestito con la psiche di chi lo indossa, presume cioè che l’indumento esprima una profondità psichica”. Nel suo celebre libro “Sistema della moda”, pubblicato nel 1967, il sociologo prende in esame alcuni vestiti emblematici, per scopi commerciali ed estetici, meditando sul modo in cui la moda viene presentata sulle riviste. Sofferma la sua attenzione sulle didascalie, che sono il perno efficace in cui si produce e si nasconde il senso della moda: un punto necessario che trasforma un semplice capo d’abbigliamento in un oggetto quasi mitico, rende


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desiderabile al tempo stesso l’abito e chi lo indossa. La tesi del libro è che la moda è un perfetto meccanismo appartenente alla società con cui è diffuso il sentimento di desiderio tra la gente. Applica le sue categorie semiologiche – espressione e contenuto – a diversi oggetti, tra cui la moda. Argomenta con buona dialettica tra gusti individuali e usi sociali, per esempio il dandy e l’importanza del dettaglio. Barthes si trova in difficoltà nell’applicare al mondo del vestiario la coppia significante (espressione) – significato (contenuto). Mentre il piano dell’espressione è dato dagli elementi minimi del vestito (il colletto, la piega, il risvolto), dove si trova il piano del contenuto ovvero il significato del vestire? Trova la soluzione nella lessicalizzazione dei significati che compaiono nelle riviste. Le didascalie dei servizi di moda sono la chiave di volta, in quanto esprimono significato, rendendo pertinenti certi aspetti del vestito. Quindi vi è autoreferenzialità nel sistema moda, che rappresenta il significato stesso che fa vendere. In tal senso, da un lato si creano indumenti/mondo che presentano un legame con il reale, anche se costruito, e dall’altro si realizzano indumenti/moda caratterizzati per la loro esclusiva autoreferenzialità. Ad esempio, se pronunciamo una frase del tipo “Quest’anno il blu in spiaggia”, ci troviamo di fronte a un’espressione puramente arbitraria e autoreferenziale, mentre un’affermazione come “La moda è di moda” fa riferimento alla categoria in questione che crea un proprio mondo a sé stante. Infine, Barthes individua delle “figure retoriche” dell’immagine mediante la creazione di un’interazione tra aspetto linguistico e aspetto visivo in cui il linguistico “ancora” il visivo. Il saggista analizza per esempio una pubblicità del suo tempo, quella della pasta Panzani, che rappresenta una scena “naturale” di vari pacchi di pasta con colori e scritte che richiamano l’italianità, la sua ideologia e cultura. Per concludere, secondo il sociologo francese si può affermare il primato del verbale sul visivo, come accade nella pubblicità e nella moda. La sua analisi della cultura di massa in termini di connotazioni ideologiche e culturali rimane ancora oggi molto attuale e oggetto di studio e dibattiti.

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ACCUMULARE, OSSERVARE, COMBINARE: la metrica di Antonio Marras di Giovanna Ramaccini

Antonio Marras, Agenda Patrizia, 2013, © Antonio Marras 2016

Ed è quello che risulta con grande evidenza a partire dall’osservazione dei numerosi bozzetti di studio, in cui la combinazione tra elementi fortemente eterogenei invita a riflettere sulle innumerevoli possibilità di relazione reciproca e sulle inedite interpretazioni che tale rapporto scatena

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n riferimento alla natura illusoria delle apparenze espressa dal proverbio “l’abito non fa il monaco”, Antonio Marras afferma: «Nella mia esperienza le apparenze, molto spesso invece rivelano le persone e in particolare, occupandomi di stracci, i vestiti dicono molto di noi, anzi, come scrive Jacques Lacan, “l’Abito ama il monaco, dato che in tal modo essi sono uno”. Il vestito è per me un foglio, un libro, un diario, insomma un testo, un insieme di segni che comunicano, parlano, narrano secondo regole precise, secondo un codice che mi piace trasgredire attraverso l’uso libero dei tessuti, scelti, combinati, accostati in modo inconsueto così da creare giochi analogici e provocare esplosioni di significati». (Antonio Marras, L’abito non fa il monaco, in AA.VV., Il pregiudizio universale. Un catalogo d’autore di pregiudizi e luoghi comuni, Laterza, Bari 2016). Ed è quello che risulta con grande evidenza a partire dai numerosi bozzetti di studio, espressione diretta del percorso creativo attuato dal poliedrico stilista sardo, in cui


Antonio Marras, 4x4.1, 4x4.4, 4x4.7, 4x4.6, 2012, Š Antonio Marras 2016

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Antonio Marras, I 7 giorni, 2004, La scelta, 2000, Š Antonio Marras 2016

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Antonio Marras, realizzazione dei bozzetti di studio, © Antonio Marras 2016

la combinazione tra elementi fortemente eterogenei invita a riflettere sulle innumerevoli possibilità di relazione reciproca e sulle inedite interpretazioni che tale rapporto scatena. Che si tratti di opere di piccole dimensioni (come quelle contenute nei vecchi taccuini e agende di una decina di centimetri di lato) o di grandi formati (come nel caso delle tavole che talvolta si sviluppano per oltre cento centimetri) ciò che maggiormente colpisce nel lavoro di Antonio Marras è la profonda capacità di osservazione che, con una straordinaria visione d’insieme, porta all’individuazione di un legame anche tra cose apparentemente lontane. Il particolare viene accolto, recuperato, combinato e assemblato. Si tratta quasi sempre di oggetti non accomunati da alcun parametro, differenti per tecnica, forma, funzione, materiale, colore, per appartenenza storica e culturale. Frammenti accumulati nel tempo, quali mappe geografiche usurate, cartelline di vecchie foto, fogli con vecchi appunti e annotazioni, diventano superfici generatrici di nuove idee. In questo senso, l’azione del comporre regola la relazione tra le parti stabilendo nuove gerarchie all’interno delle quali gli elementi assumono un senso specifico. Le forti linee nere definiscono la figura umana e individuano, con più o meno precisione, il limite all’interno del quale vengono assemblate le singole componenti, a volte segnate da una potenza tale da uscire prepotentemente dai confini. Se in alcuni casi viene costruita una rappresentazione armonica, in cui gli oggetti, per quanto difformi, risultano uniti e ordinati, in altri l’incoerenza viene esaltata, ottenendo immagini aspre, stridenti, ostili ma al contempo straordinariamente evocative, vigorose e vive. Tale aspetto viene accentuato dal contrasto materico comunque orientato da una forte caratterizzazione fisica e sensoriale: materiali liquidi, fluidi, quali i residui di caffè o l’acqua, oppure solidi, compatti, quali la stoffa o i ritagli di giornali. L’incerto, lo scarto, l’errore, diventano fattori inventivi, cui vengono restituiti identità e valori rinnovati. Come trasmesso, a mio avviso, dall’immagine, potentissima, proposta per l’ingresso a Nulla dies sine linea, la mostra ospitata dal Triennale Design Museum nell’ambito della Triennale di Milano del 2016, in cui i tradizionali campanacci da pascolo vengono appesi a mandrie apparentemente indistinte di camicie bianche o giacche nere. Ogni nostro passaggio emette un suono. L’opera di Antonio Marras educa all’ascolto.

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L’essere green, riciclare un abito o scegliere il vintage: è questa oggi la vera moda di Michela Proietti

Come testimoniano dive italiane e internazionali, l’impatto del fashion-system sull’ambiente sta diventando sempre più determinante nella scelta di capi di abbigliamento per un red carpet, una celebrazione ufficiale, ma anche nella vita di tutti i giorni

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osa significa essere «green» e sostenibili? Magari anche riciclare un abito e scegliere per un red carpet non un abito fresco di sfilata, ma un pezzo vintage nel proprio armadio. La lezione è arrivata dai recenti Green Carpet Fashion Awards, che a conclusione della settimana della moda milanese, hanno premiato i marchi e gli imprenditori più virtuosi ecologicamente. In piazza Scala trasformata in un giardino, con la facciata del teatro milanese ricoperto da un arazzo in materiali eco sostenibili, hanno sfilato dive italiane e internazionali, da Cate Blanchett a Julianne Moore, impegnate a veicolare il messaggio dell’impatto sull’ambiente del fashion-system. Gli ospiti non hanno solo condiviso le loro regole etiche di lavoro e produttività, ma sono scesi sul pratico, sfoggiando abiti di provenienza «certificata», come quelli della stilista ambientalista Stella McCartney. In alcuni casi hanno optato proprio per un capo vintage. La modella Marica Pellegrinelli, moglie di Eros Ramazzotti, ha spiegato così la scelta di indossare un vintage Dolce & Gabbana: «La filosofia eco parla di abiti di nuova produzione creati nel rispetto dell’eco-sostenibilità e di capi personali scelti dal proprio armadio». Così per il red carpet più esclusivo della settimana della moda, Marica ha scelto un vestito utilizzato la prima volta nel 2009, poi nel 2012, nel 2014 ed infine ai Green Fashion Awards. Una scelta condivisa


La principessa Kate Middleton in abito Alexander McQueen

da molte celebrities, che da tempo preferiscono rispolverare i vecchi cavalli di battaglia appesi nell’armadio. L’ambasciatrice più autorevole del genere è senza dubbio Kate Middleton: grazie a lei e ai suoi look riproposti in più occasioni, riciclare non è più considerato un fatto disdicevole. Anzi, nel caso specifico è diventato subito un messaggio etico: indossare più volte un abito significa non sperperare e ammortizzare il costo di un capo di lusso. Una tendenza subito imitata da altre teste corona-

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Michelle Hunziker in abito Trussardi ecologico ai Green Carpet Fashion Awards 2018

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te come la Regina di Spagna Letizia che ha indossato un tubino color ciclamino firmato Felipe Varela tre volte: ai National Culture Awards di Valencia, a una cerimonia a Toledo nel 2014 e in una visita a Lima con il marito Felipe nel 2011. Celebrities e star hanno subito preso la palla al balzo e hanno cominciato a riproporre look già collaudati. Fino alle estreme conseguenze, con Keira Knigthley che ha sposato James Righton con un abito di Chanel già indossato a un party. L’idea del vintage è etica e anche stimolante: un capo può rinascere una seconda volta semplicemente giocando su accessori e dettagli. Ma a volte può anche far commettere qualche errore di stile, come è successo proprio a Kate Middleton in occasione del matrimonio del Principe Harry con Meghan Markle. La Duchessa di Cambridge ha scelto per la cerimonia un abito di Alexander McQueen indossato altre tre volte, in altrettante occasioni pubbliche. Al Royal Wedding dello scorso 19 maggio ha rinnovato l’abito con un cappellino Philip Treacy e un paio di pump Jimmy Choo, ma a pochi è sfuggito che lo stesso vestito era già stato indossato il 1 luglio 2017, durante una visita di Stato in Belgio, per le celebrazioni del centenario della battaglia di Passchendaele, e ancora prima al battesimo della secondogenita Charlotte, il 5 luglio 2015. La mania di riciclare in questo caso è apparsa eccessiva, anzi, addirittura fuori luogo: l’occasione importante probabilmente richiedeva un abito ad hoc. Ma superati gli estremismi, riesumare un vecchio outfit oggi ha acquisito una caratteristica coolness sconosciuta in passato, quando si incaricavano le sartine di famiglia di dare un tocco nuovo a un abito vecchio, per poterlo riutilizzare senza essere guardati dall’alto in basso. Il nuovo corso del riciclo non ha solo una connotazione materiale, ma anche temporale: scegliere una cosa già indossata significa non perdere tempo prezioso per selezionare un nuovo capo. Fa scuola, in questo caso, la storia di Matilda Kahl, direttrice artistica presso la Saatchi & Saatchi: stufa di dover frugare ogni mattina nel suo armadio alla ricerca di un vestito diverso per andare in ufficio, ha scelto di indossare per tre anni di seguito lo stesso outfit. Ogni singolo giorno la sua «uniforme» è consistita in una camicetta di seta bianca con un nastro di pelle nera attorno al colletto, dei pantaloni neri e una giacca nera. «Non voglio prendere decisioni su cosa indossare perché ho troppe altre decisioni importanti da prendere», ha spiegato la manager. Prima di lei ricordiamo un altro esempio illustre: Steve Jobs, con i suoi dolcevita seriali firmati Issey Miyake.

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FOULARD’ARTE di Marilena Badolato

La moda che avvolge con forme, colori, estro e fantasia creando un irresistibile accessorio elegante e charmante

Modigliani, Jeanne Hebuterne (con foulard)

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orma e colore, estro e fantasia. E una nuova dimensione: portare con sé, magari avvolta attorno al collo, un’opera d’arte. Estremamente morbida e dall’incantevole drappeggio. Così nasce il foulard d’arte che riproduce il quadro di un artista e lo rende fazzoletto elegante, scialle, carrè, gavroche. Ogni pezzo di stoffa può infatti riproporre un mondo d’arte e permettere a ognuno di indossare un quadro del pittore preferito. Il fazzoletto, nato come protezione per il capo o utilizzato a scopo militare avvolto attorno al collo come grado e simbolo di appartenenza, passò lentamente ad essere indicatore di un determinato status sociale. Nel Medioevo diventò addirittura, per le donne, elemento indispensabile da indossare come copertura del capo nelle funzioni religiose e nel Rinascimento sarà sempre più prezioso, arrivando al pizzo e alla trina. E il velo rimasto ancora oggi a raccontare una lunga storia è quello da sposa. Più tardi dalla testa passò anche al collo, utile alle signore per velare una scollatura troppo sfacciata. Nel Settecento il fazzoletto era chiamato “ritratto tessuto” e riproduceva i temi in voga nel momento, da quelli militari a quelli civili, sino ai satirici così diffusi nel periodo. Un mezzo quindi per divulgare un messaggio e con la pretesa di insegnare, a scopo pubblicitario diremmo oggi. La parola foulard sembra derivare dal provenzale foulat, pezzo di stoffa follata, cioè resa impermeabile e resistente alle intemperie, adatta quindi agli eserciti napoleonici. Nel 1937 a Lione due produttori di sellerie e di accessori per l’equitazione, Emile Hermès e Robert Dumas, pensarono di farsi pubblicità producendo un foulard in seta quadrato, un carrè, prendendo spunto dal mondo dei cavalli e delle carrozze. Nacque così il primo Foulard Hermès, chiamato “Jeau des Omnibus et Dames Blanches”, ispirato a un gioco da tavola francese molto popolare nella seconda metà del 1800, simile al nostro Gioco Dell’Oca, e a Dames Blanches, il


Foulard Hermès

nome di una compagnia di vetture pubbliche. La tavola del gioco è ancora custodita nel Museo Hermès, situato sopra allo storico negozio di Parigi al 24 di Faubourg Saint Honoré. Il foulard diventerà voce importante anche in affermate griffe come Dior, Saint-Laurent, Chanel, Givenchy e Louis Vuitton. In Italia nomi antesignani del foulard d’autore sono stati Gucci, Ferragamo, Valentino e Roberta di Camerino seguiti poi da Mila Schon, Armani, Ferrè. E sembra sia stato Marcel Gandit, un tessitore di Lione, a mettere a punto un sistema con cui era possibile riprodurre su seta stampe elaborate anche nei minimi dettagli. Il foulard oggi è realizzato in vari materiali, in seta naturale da composizione proteica dei bachi da seta, o vegetale come la viscosa da canapa o paglia, o ancora in modal ottenuto a partire dalla polpa degli alberi di faggio, o in cupro, la fibra di cellulosa rigenerata mediante soluzione cuprammoniacale (rame e ammoniaca), o in cotone

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Foulard Hermès in mostra a Courmayeur nel 2016

o lana. Per disegnare un foulard complesso si possono impiegare fino a 600 ore, lo stesso per la scelta dei colori e per la preparazione della stampa. Gli artigiani foto incisori impiegano fino a un mese per realizzare un disegno. Anche le misure di un foulard possono essere diverse e ne condizionano il nome: si va dallo “scialle” 140 x 140 cm, al “carrè” classico 90 x 90 cm, ai tagli più diffusi di 100 x 100 cm e 70 x 70 cm, fino alla taglia piccola e “impertinente” del “gavroche” 45 x 45 cm, il cui nome deriva dal famoso monello di strada de “I miserabili” di Victor Hugo. Si dice che siano 36 i modi per indossare e legare un foulard: dal più classico al collo, sulla tracolla di una borsa, sotto una giacca sportiva o come fusciacca con un tubino elegante, come pareo, annodato come foulard a incorniciare

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Foulard Salvatore Ferragamo

il viso come le dive di un tempo. O ancora a circondare la fronte come bandana, trasformato in sensuale top o stretto in vita alla stregua di una cintura, legato al polso. Ma i foulard si possono ammirare anche appesi in parete come affascinanti quadri di seta. Una curiosità : a Courmayeur nel 2016 ha avuto luogo una mostra sulla storia dei foulard in montagna, dedicati agli sport invernali come lo sci. Erano ben 70 i foulard in esposizione di famosi disegnatori e griffe: quello di Stoffelo per i Giochi invernali di Saint- Moritz del 1948, o di Cattaneo Cravatte per i Giochi di Torino 2006 e l’ultimo, del 2016 proprio per la mostra Monte Bianco, creato dall’artista Maurizio Rivetti. Splendido in mostra un pezzo di seta del 1920 realizzato per gli albori dello sci alpino.

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La regina sempreverde dell’eleganza: la giacca di Carlo Trecciola

Sono centinaia le tipologie esistenti, dalle sportive destrutturate ai blazer, dai tuxedo ai modelli più tecnologici, rappresentando un must immancabile nel guardaroba di ogni gentleman

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on è così scontato come può sembrare, perché pochi, anzi pochissimi, conoscono la tipologia esatta di giacca da utilizzare per le varie occasioni. Se ne trovano svariate centinaia, da quelle sportive destrutturate, passando per i blazer, i tuxedo, per arrivare alle Norfolk e ai modelli più tecnologici che impiegano fibre intelligenti, ma qua entriamo nel campo dell’high tech e del fashion design più estremo, quindi lasciano per noi lo spazio che trovano, giacché siamo istruiti a seguire l’eleganza, non la scienza. Innanzitutto ricordiamo come nacque questo capo che ormai è divenuto un must immancabile nel guardaroba di ogni gentleman che si rispetti. Il termine giacca deriva da “Jacques”, soprannome dato


alla plebe francese, che durante le rivolte del ‘300 era solita indossare un vestito corto, di taglio semplice. Solo molti secoli dopo però, in Inghilterra, si ha l’affermazione universale di questo straordinario capo, altamente versatile e comodo, che permette ai lord di cacciare a cavallo in estrema semplicità. In funzione di questo utilizzo la giacca lunga (fino alla coscia) è stata appositamente rivista e accorciata, rendendola perfettamente ergonomica alle faticose cavalcate e all’esigenza di contenere munizioni e vivande in ampie e pratiche tasche aperte. Senza stare ad elencare tutti i tipi di giacca esistenti (per non risultare prolissi e poco interessanti), mi limiterò a fornire le principali caratteristiche che un capo di fondamentale importanza deve avere. Iniziamo subito con i revers, che dovranno essere larghi

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Modelli a Pitti Uomo

almeno 10 cm; di taglio classico per chi preferisce presentarsi in maniera più formale, a lancia invece per chi non ha problemi di personalità spiccata, magari abbinati ad un temperamento giovanile e dinamico, da perfetto dandy. Monopetto per il lavoro e le frequenti cene con amici e colleghi, doppiopetto invece per le serate più eleganti e formali (per quelle di gala ovviamente è meglio indossare un tuxedo). Sicuramente il 2018 sarà l’anno del gessato, largo in stile ganster anni ‘20 - ‘30 e, per i più audaci, sono consigliabili le cromie più sgargianti, perché l’uomo, da animale qual è, deve conoscere e far riferimento alla legge naturale del dimorfismo sessuale. Ispiriamoci quindi alla natura e non titubiamo di fronte ad una giacca rosso vinaccia, rosa pallido, giallo Modena, da

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Giacche uomo Tagliatore

accostare al jeans giusto, jeans aderente o ad un pantalone bianco. Per gli instancabili business man invece il colore chiave sarà sempre e solo il blu, nelle più disparate tonalità, perché è la bandiera del lavoro. Prediligete, se potete, sempre giacche sartoriali, visto che cadono a pennello, nascondendo perfettamente i difetti fisici. Un ultimo appunto doveroso ai neofiti dell’eleganza maschile e del buongusto: mai allacciare il bottone inferiore di un monopetto e di un doppiopetto. Inoltre, nelle giornate più torride e afose potete sempre riparare nella freschezza del lino o della lana più leggera, sempre e solo di qualità però, perché chi spende bene, risparmia sempre.

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Fast Fashion vs Slow Fashion Dante’s Autunno/Inferno

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di Giulia De Corso

a moda è caos infernale. Essa è tremendamente cosparsa di protagonisti peccaminosi e i tanto adulati brand non sono altro che anime colpevoli. La moda è un campo ardente che nasconde i suoi peccati sotto glitter e velluto. Analizzando la Divina Commedia scritta da Dante Alighieri agli inizi del 1300, è possibile individuare una schiera di personaggi simbolici che incarnano a pieno i due principali attori della scena moderna: Fast Fashion e Slow Fashion. Generalmente siamo portati a concepire la più alta perfezione nella moda tramite il concetto di Haute Couture. Questa innata tendenza è indelebilmente connessa alla durata del processo creativo. I couturiers del passato necessitano di diverse settimane per realizzare un singolo vestito: l’obiettivo prefissato è quello di raggiungere la perfezione in ogni dettaglio. Plasmano la vita da un tessuto inanimato. Il designer diventa Dio, capace di modellare un pezzo di stoffa piatta in una scultura vibrante. La sua ispirazione è originale e proviene dalla sua mente divina. Egli è colui che inizia il tutto. Conseguentemente, se i lenti couturiers sono perfezione divina, non è forse il Fast Fashion allegoricamente rappresentato in pieno da un’anima pigra? I pigri, localizzati nell’anti-Inferno dantesco, sono anime che nella loro vita non hanno mai preso decisioni, evitando di originare opinioni personali e limitandosi a supportare i più forti. Non hanno mai scelto. Né in bene, né in male. Analogamente, i brand di Fast Fashion sono lontani dal processo creativo, nel puro senso etimologico della parola. Creazione, dunque, significa che qualcosa di nuovo viene originato a partire dal nulla. Come conseguenza della loro veloce produzione, questi brand non sono però capaci di generare idee fresche ed originali. Perciò, la loro ultima scelta strategica si incentra nel copiare gli altri. I marchi di Fast Fashion non fanno veramente moda, ma copiano-ed-incollano la moda dei più forti. Questi non fissano mai il loro stile e non hanno lo stesso potere creativo degli Dei dell’Haute Couture. Se ci focalizziamo sul rovescio della medaglia, però, si può analizzare come anche la divina Haute Couture abbia un suo lato diabolico. In particolare, l’arroganza di poter raggiungere la perfezione di Dio sarà il peccato letale. Il male, sfortunatamente, nasce dal bene. Lucifero,

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In bianco, Chistian Dior Haute Couture, in rosso Zara

ad esempio, è un angelo descritto dal poeta fiorentino, il cui nome significa “portatore di luce”. La sua elevata perfezione lo portò a compararsi presuntuosamente a Dio, peccando di arroganza e precipitando inesorabilmente al centro della terra. Similmente, i marchi di “Slow Fashion” potrebbero perdere la loro posizione celestiale a causa di un orgoglio esagerato. Essi sono guerrieri in un terreno politeista e i credenti del glamour potrebbero facilmente passare ad un’altra religione. Essere consapevoli delle

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In alto Amancio Ortega, fondatore di Zara, in basso il designer francese Christian Dior

proprie capacità è fortemente necessario, ma conoscere i limiti del brand è ancora più indispensabile. Pena, la caduta sciagurata al centro del pianeta, dove nessuno potrà vederli o ricordarsi di loro. La moda è caos e le regole non sono permesse. Quindi, che si parli di Slow Fashion o di Fast Fashion, indipendentemente dalla velocità della creazione, tutti siamo demoniaci di fronte a Dante. Nessuno si salva, perché la moda è una struttura crudele. La moda è Inferno.

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In quale direzione sta andando la moda? di Giulia Ratti

Ospiti presenti alla sfilata di Roberto Cavalli SS19 intenti a riprendere e postare l’evento al momento stesso dello svolgimento piuttosto che a viverlo

L’innovazione sta entrando sempre più nella quotidianità con nuove tecnologie pronte a stupirci

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a comunicazione è l’atto fondamentale del vivere sociale e all’interno della realtà comunicativa in cui gli esseri umani si trovano, esiste il complesso fenomeno della moda che da sempre rappresenta il simbolo della cultura del proprio tempo, essendo essa stessa lo specchio della società, in quanto capace di raffigurarne usi e costumi. Viviamo in un’era digitale in cui il settore della moda è totalmente differente da come lo era in passato, poiché tutti possono avere completa visione delle collezioni presentate in tempo reale grazie all’invenzione di social media come Instagram. Le aspettative dei consumatori stanno radicalmente cambiando, in quanto tutti sentono di avere diritto al lusso: da un lato le nuove tecnologie incrementano l’impatto dei processi in corso rendendoli più facili e veloci per i brand, dall’altro il mondo del lusso non vede più internet come una minaccia, bensì una possibilità.


Instagram influencers, socialite e modelli alla sfilata di Roberto Cavalli SS19

Oggi l’esclusività delle sfilate non rappresenta più una priorità, in quanto venendo trasmesse in diretta riescono ormai a raggiungere un pubblico internazionale a cui vengono mostrati anche i backstage. La maggior parte dei brand è presente sulle reti sociali più influenti e tutte quante condividono la stessa strategia di comunicazione, basata su contenuti esclusivi pubblicati in diretta su siti prescelti e hashtag appositamente dedicati. Questo modus operandi molto interattivo fornisce alle case di moda la possibilità di creare una vera e propria comunicazione fra venditore e cliente, l’obiettivo consiste nel creare una sorta di relazione diretta con il cliente coinvolgendolo non solo in presentazioni delle collezioni ma anche dandogli la possibilità di assistere a esplicazioni riguardanti le ispirazioni che si celano dietro ad una collezione, fornite in prima persona dal direttore creativo della maison. Il front row delle sfilate appare sempre più frammentato ed allo stesso tempo elitario. É facile trovare redattori, celebrità e fashion blogger seduti gli uni accanto agli

altri, implicando che il futuro delle grandi marche si trova nelle mani di persone nettamente diverse fra loro. La scelta del front row e dei modelli avviene in modo accuratissimo. Le star di Instagram sono le prescelte in moltissimi casi, basti pensare a Dolce & Gabbana che sulla parola Millenial, indicante la categoria di giovani capaci di stravolgere la comunicazione contemporanea ha ampliato il suo impero. I modelli scelti sono giovani, belli, ricchi e sopratutto seguitissimi, sono l’esempio che l’anima digitale, sta riuscendo ad imporsi nel mondo reale. Il coinvolgimento di un pubblico così vasto online a questi eventi, anche se aumenta il seguito del brand sui vari canali online, amplia anche le aspettative dei consumatori in quanto cercano sempre la novità e l’effetto scenico migliore. Molto probabilmente nel futuro la presentazione delle collezioni sarà ancora più ludica e teatrale volta a coinvolgere lo spettatore più che a esprimere la creatività del designer.

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Le nuove frontiere delle sfilate con la tecnologia applicata: next level models di Irene Orlandi

Anno dopo anno le case di moda si sono affidate sempre di più ad apparati tecnologici per stupire e coinvolgere il proprio pubblico, anche con dirette in streaming, ed è per questo che oggi si può parlare di inclusività piuttosto che di esclusività

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a moda plasmata dalla tecnologia. La tecnologia plasmata dalla moda. Tutto si accelera arrivando nelle mani e negli occhi di tutti. Negli ultimi anni il prorompente ingresso della tecnologia nel sistema moda ha fatto sì che le barriere fra di essa e la gente comune venissero totalmente abbattute. La passerella diventa il luogo di coesistenza fra modelle, abiti, accessori, robot e droni. La tecnologia, medaglia dalla doppia faccia, segna la svolta sulle passerelle e contemporaneamente genera perplessità, negli addetti ai lavori e non. Esiste ancora il binomio esclusività e moda? A Londra nel 2010, durante la settimana della moda, si

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Iris Van Herpen, Syntopia, couture fall winter 18/19 + Dolce e Gabbana fall winter 18/19 + Philip Plein, fall winter 18/19 +Â Maison Marginal Artisanal, couture fall winter 18/19

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è dato il via per la prima volta, alla trasmissione in streaming delle sfilate. Anno dopo anno le case di moda si sono affidate sempre più alla tecnologia per stupire e coinvolgere il proprio pubblico. Pubblico che ormai non si limita più ai pochi scelti seduti ai lati della passerella, ma bensì si espande fino a coloro che si godono la sfilata in streaming, seduti sul divano di casa propria dalla parte opposta del mondo. Dopo otto anni circa, Dolce e Gabbana, per l’autunno/inverno 2018-2019 presenta le borse della nuova collezione appese a dei droni che si destreggiano sopra la passerella in una danza pilotata, provocando stupore e perplessità. A New York, per Philip Plein, la modella Irina Shayk apre la sfilata immersa in un’atmosfera alla Blade Runner varcando la passerella tenendo per mano un Transformer gigante marcato Plein. A Parigi, è il turno di Maison Margiela che per la couture autunno inverno 18/19, presenta Artisanal Collection di John Galliano. Qui la realtà virtuale è il tocco finale alle nove silhouette presentate in passerella. Il direttore creativo porta avanti il Glamour Nomade delle precedenti collezioni inserendo elementi futuristici; iPhone alle caviglie e agli avanbracci delle modelle, visori di realtà aumentata al posto di occhiali da sole e infine un televisore a schermo piatto indossato sulle spalle di una delle modelle che trasmette la sfilata direttamente in streaming. I tessuti sintetici dall’atteggiamento camaleontico mutano ai flash degli smartphones. Tutto studiato e creato in un rapporto di causa-effetto. Domanda e risposta. Qualche giorno dopo a Parigi, Iris Van Herpen, con Syntopia presenta la perfetta sinergia fra tecnologia e natura al fine di rappresentare l’uomo che può volare, grazie alla collaborazione con Studio Drift che ha realizzato l’istallazione 20 step per la sfilata. La tecnologia in vetro fluttua in simbiosi con gli abiti delle modelle richiamando il movimento delle piume degli uccelli in volo. Oggi la tecnologia ha un ruolo decisivo riguardo l’accessibilità alle sfilate, porta cambiamento, innovazione e maggior visibilità ai brand. È il mezzo con cui lo spettacolo viene messo in scena e prende forma. Lo spettatore viene trasportato nel mondo del brand come se in certi casi avesse una parte all’interno dello show. Guardando al sistema moda oggi, più giusto dunque parlare di inclusività piuttosto che esclusività. E se la rivoluzione non sarà trasmessa in televisione, probabilmente sarà trasmessa dai nostri smartphone.

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www.parisricci.com


Il mondo delle app tra creatività e sviluppo nella moda: le applicazioni fashion più innovative di Lavinia Feliziani

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ivoluzionaria e sempre più innovativa, la tecnologia ha rappresentato per anni non solo uno strumento indispensabile, ma anche una concreta minaccia del sistema moda. Il tramonto delle riviste cartacee e il potere delle piattaforme online nell’aver surclassato lo shopping in negozio, sono solo alcuni esempi di come la tecnologia si sia pericolosamente insidiata nel settore. Sono le attività commerciali ad averci rimesso maggiormente, soffrendo della praticità delle piattaforme oramai proposte dalla quasi totalità dei brand. A dar loro ancora più forza, sono state le funzioni sviluppate negli ultimi anni, che, volte allo scopo di soddisfare i desideri del cliente, offrono non solo un metodo di shopping efficiente ma ci rendono anche spettatori della cosiddetta realtà aumentata. Uno dei marchi intramontabili ad averne preso parte, è Converse, con la sua app chiamata The Sampler. Progettata allo scopo di facilitare la scelta tra tutta la gamma di modelli di sneakers, permette di indossare virtualmente ogni modello del catalogo digitale inquadrando il nostro piede con la fotocamera del cellulare. Prima di procedere all’acquisto, offre la possibilità di scattarci una foto e condividerla sui social, per rendere l’esperienza virale.

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Ad essersi aggregati a queste tecnologie, troviamo anche giornali e riviste. Una delle tante è la statunitense W Magazine, che per la copertina del numero di Settembre 2017 ha optato per uno scatto del fotografo Steven Klein della cantante Katy Perry. In collaborazione con lo studio di produzione di effetti visivi The Mill, W Magazine ha proposto una scansione 3D della copertina mediante la loro app, Beyond the Page. Attraverso la fotocamera del dispositivo infatti, la fotografia raggiunge sembianze 3D inaspettate che prendono vita nei nostri schermi. Nel rivoluzionare il mondo della moda influiscono inoltre numerose aziende, come la giapponese Zozo. Quest’ultima ha progettato una tuta, la Zozobodysuit, che grazie a circa quattrocento markers è in grado di tracciare ogni misura del nostro corpo ricostruendolo a 360°. Fotografando poi con il telefono le zone che ci interessano e utilizzando la app, potremmo salvare i dati e averli sempre disponibili per i nostri acquisti. Nonostante l’indubbia utilità di queste applicazioni, non mancano le opinioni contrastanti. Due sono le principali correnti di pensiero, che vedono rispettivamente un’innegabile rivoluzione da parte di queste piattaforme ma anche un declino dell’importanza della qualità dei prodotti di moda. Nonostante infatti la pigrizia del compratore tragga giovamento dal metodo di acquisto offerto dalle app, va riconosciuto quanto esse allontanino il cliente dall’esperienza in negozio, unica a poter garantire un contatto diretto con l’indumento, il materiale, e la prestigiosità di un capo artigianale. Che sia necessario limitare queste piattaforme per lo shopping online ai marchi low cost, così da poter tornare ad apprezzare per esempio l’incanto dell’alta moda e l’esperienza in negozio? Questa è solo una delle tante opinioni popolari, alimentata dal secondo maggiore svantaggio evidenziato dagli amanti della moda, ovvero la limitazione della fidelizzazione del cliente ad un determinato marchio. Infatti, come ben si sa, uno degli obbiettivi principali delle case di moda è quello di instaurare un solido rapporto con il cliente, puntando sulla continua alimentazione del desiderio dei propri prodotti. Che la facilità con la quale possiamo raggiungere ogni prodotto desiderato porti alla minimizzazione della credibilità di un marchio, è un timore condiviso da molti, con l’aggravante dell’affievolimento del legame psicologico che si instaura con il marchio stesso. In conclusione il dibattito è ancora aperto. La controversia impera. Nel frattempo...teniamo d’occhio l’Apple Store.

Il make-up store Sephora e l'esperienza di realtà aumentata, Ph. Lavinia Feliziani

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Corpi di stoffa di Michela Bevivino

Oggi la moda si impone di modellare le silhouette a colpi di forme e volumi da sottrarre o da aggiungere che pur non modificando la figura, ne alterano comunque la percezione

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a moda è liquida e non è in grado di conservare la propria forma né di tenere a lungo la rotta. Ciò che indossiamo oggi diventa obsoleto prima che si consolidi in piacevole abitudine. Si ha perennemente il timore di essere colti alla sprovvista, di non riuscire a tenere il passo con cambiamenti così rapidi, di appesantirsi con qualcosa che non è più desiderabile. Mai come nello scorso secolo si è assistito a cambiamenti così frenetici del guardaroba femminile che per lungo tempo era rimasto ibernato in una quieta e rassicurante immobilità. In questi ultimi cent’anni si è evidenziato un forte legame nel rapporto della moda con il corpo: una relazione non pacifica che si esprime nella zona di confine tra tagli che valorizzano la figura e linee che la spezzano. La moda si impone di modellare le silhouette a colpi di forme e volumi da sottrarre o da aggiungere a suo piacimento che pur non modificando la figura, ne alterano comunque la percezione. La moda diventa così illusoria, corruttibile e conflittuale: si scontra nell’insonne duello tra la necessità di plasmare il corpo e l’impossibilità di cambiarlo. Questa è la storia di una testa, un busto, due braccia e due gambe che da cent’anni delineano la sagoma sulla quale tessere la trama di un altro corpo di stoffa. L’abito diventa così la voce del corpo e comunica laddove quest’ultimo è muto. Un grido rivoluzionario che ha portato radicali cambiamenti nei costumi sociali, trasformando il concetto di eleganza femminile. Dalle donne strette in dolci amari bustier, si è passati repentinamente allo stile garçonne: seni piccoli, fianchi stretti e capelli corti, propri di una donna che pretende di governare la sua vita più liberamente. Da quel momento si assiste ad un rapido e incessante susseguirsi di metamorfosi dell’abbigliamento femminile, veicolato dalle novità tecnologiche rappresentate dal cinema, dalla fotografia, dai giornali e dalla televisione.


Photographer: Michela Bevivino Make up artist: Michela Bevivino Stylist: Michela Bevivino Model: Pamela Laura Guidi Stola: model’s own

Il costume femminile va completamente al di là dei canoni prestabiliti e si modella su corpi che pretendono di affermare un proprio stile di vita e di pensiero. Questi corpi di stoffa, in un secolo di cammino dilaniato da guerre, rivoluzioni industriali, progressi tecnologici inimmaginabili, emancipazione femminile e viaggi nello spazio, portano con loro l’essenza culturale di un’epoca interpretando tendenze individuali e sociali che si palesano nelle fantasie dei tessuti, nei colori, nelle forme dei

modelli, nelle lunghezze degli orli, nelle imbottiture o a volte nella ricerca della stravaganza, dell’ostentazione del potere o del proprio status sociale. La moda ha affrontato sfide inaudite contro le convenzioni e la morale dello scorso secolo e, tra seduzione e pudore, tra desiderio di mostrare il corpo e quello di coprirlo, ha trovato nella bellezza il fil rouge che mette in relazione le diverse facce dell’espressività corporea in ciascun periodo storico e in ogni contesto sociale.

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L’offuscamento dei sessi attraverso il vestiario di Maddalena Bartolini Baldelli

Oggi l’abbigliamento non è solo fonte di espressione, ma è anche una protesta che crea esperienza al di fuori delle barriere imposte dalla società

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e bambine scendono le scale cercando di non stropicciare i volant rosa del vestitino, tenendo delicatamente in una mano la borsetta e nell’altra sventolando la bacchetta magica della fata ricoperta da brillantini. I bambini d’altro lato, sono più predisposti a prendere in mano una macchinina blu con delle fiamme ai lati mentre spingono assieme le labbra per buttar fuori un “brum brum”. Durante il periodo dell’infanzia non ci chiediamo mai perché siamo attirati più dal blu o più dal rosa, perché preferiamo i supereroi o le bambole, ma la domanda sorge quando questi due mondi all’apparenza cosi diversi, vengono travolti uno dall’altro. Un maschietto che indossa un vestito da principessa fa scalpore, viene visto come sbagliato, non naturale, e come conseguenza viene ridicolizzato. In realtà ciò che non è naturale, è giudicare un ragazzo


perché indossa un vestito, una gonna o qualsiasi indumento o accessorio targato “femminile”. Per questo motivo il vestiario non è solo fonte di espressione, ma di protesta, una protesta che va contro i ruoli imposti dalla società. Molte marche e negozi hanno iniziato ad adottare il genderless fashion, tra i tanti nomi Selfridges è uno di quelli che risalta. Il negozio ha preso una posizione avanguardista con la sua iniziativa “Agender” per creare un’esperienza al di fuori delle barriere imposte dalla società. Agender offusca l’idea che circonda il concetto del sesso femminile e maschile, levando i pronomi lui e lei, e sostituendoli con il pronome io: il sesso di ogni persona diventa irrilevante quando paragonato a come la singola persona si identifica e si manifesta. Il vestiario unisex è creato sia per uomini che per donne, gli abiti agender invece non sono prodotti con in men-

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te un sesso specifico, ma sono realizzati con l’intento di soddisfare il rifiuto dei sessi. Una maglia unisex potrebbe benissimo essere di un colore unico con magari qualche fantasia che rientra in quel piccolo pezzo grigio di elementi in comune tra il sesso femminile e maschile. Agender al contrario, vuole creare uno status, uno sfogo, vuole rendere concreto ciò che uno sente o col quale si associa. Negli ultimi anni non parliamo più di un crossover nell’unisex, ma nell’agender: sono sempre di più i designer che adornano i modelli con gonne eccentriche e vestiti smisurati, e le modelle che comandano la passerella in giacca e cravatta. Attraverso il vestiario impariamo che ognuno è libero di esprimersi come gli pare, senza due sezioni diverse, senza etichettare ciò che è per uomini o ciò che è da donna: si crea un modo nuovo di vedere se stessi al di fuori di limiti. I ruoli che hanno dominato i nostri modi di fare, di pensare e di vivere stanno prendendo una svolta con l’aiuto della moda in primis. Per questo motivo ho deciso di fotografare una madre che attraverso la sua immagine e il suo vestiario prende una posizione di potere, di forza: è pronta a tutto in pantaloni, gilet, giacca e tacchi, anche a rompere le barriere tra il mondo maschile e femminile.

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La moda che fa bene di Giulia De Corso

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oda e benessere sono ormai congiunti in un’unica soluzione, come l’inchiostro che per diffusione si mescola inesorabilmente all’acqua, sfumando ogni suo contorno finché non si possa più distinguere l’uno dall’altra. Il tema della salute personale, infatti, è molto spesso affiancato a quello del fashion system di oggigiorno. E non si tratta meramente di passerelle ispirate al mondo dell’hockey o del basketball, in cui le forme e lo stile delle divise sportive vengono tradotte dal designer in curve e materiali. E non si ferma neanche ad indossare un paio di sneakers bianche sotto un lungo abito nero di seta durante una cena di gala. Viceversa, tutto ruota intorno ad un’alchimia in cui lo sport diventa un vero e proprio stile di vita. Rappresenta un’attitude ed è pura appartenenza ad una tribù. La “Moda” non è fatta solo di velluto, bottoni e lustrini: questo concetto include, dunque, tutto ciò che riguarda il proprio lifestyle e le scelte personali dell’individuo. Dietro

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l’onda salutista degli ultimi anni, non a caso, “Moda” implica anche – o soprattutto – prendersi cura di se stessi. Benessere significa quindi attività fisica e dieta bilanciata, affiancati da amore e ascolto per il proprio corpo, da cui trae equilibrio anche la mente. È evidente, dunque, che tutto ciò confluisce nel riproporre un mood informale e incentrato sul comfort, ma non possiamo limitare la connessione tra i due concetti ad un puro riferimento di stile. Cosa succederebbe se la moda venisse considerata come una pillola per curare il nostro corpo? Non è forse anche questa un’espressione dell’interesse che proviamo per noi stessi? E se la moda fosse una terapia alternativa che nutre corpo e mente tramite un sottile effetto placebo? Il termine “placebo” deriva, infatti, dalla coniugazione del verbo latino placere e significa letteralmente “io piacerò”. Molto comunemente viene utilizzato in medicina per indicare la reazione psicologica e/o fisiologica dell’individuo alla somministrazione di terapie alternative. L’organismo, nonostante non vengano forniti reali medicinali, reagi-

sce rilasciando endorfina ed adrenalina, “auto-curando” eventuali sintomi fisici. Il corpo, dunque, crede erroneamente di essere stato sottoposto ad una terapia medica, e reagisce di conseguenza. Pertanto, è possibile notare come curare il corpo significhi curare la mente: il benessere fisiologico è scatenato da una salute psichica in primis. Allora, perché non utilizzare la moda come terapia alleata della medicina moderna?! Ammettiamolo: chi non è ricorso, almeno una volta nella vita, ad un pomeriggio di shopping sfrenato dopo una delusione amorosa? Probabilmente, lo svolgimento di attività adrenaliniche comporta il rilascio di scariche ormonali che ci permettono di riscattarci e ribaltare la nostra salute psico-fisica. Magari, acquistare quella pochette in similpelle rossa che tanto bramiamo non ci farebbe poi così male. La moda, quindi, fa bene. Non solo grazie al nuovo trend sportivo che ci spinge a mantenerci in forma per essere al passo con i tempi, ma anche grazie al suo intrinseco potere curativo. Un po’ costoso effettivamente, ma senza dubbio estremamente efficace.

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Due declinazioni di sostenibilità di Francesca Scarfone

L’impegno per l’ambiente che incontra quello per il sociale che si prende cura delle fasce più deboli e si impegna nel riscatto del territorio. Sono questi gli elementi attraverso cui l’artigianalità dei tessuti prodotti ancora a mano sposa le tecniche tramandate di generazione in generazione dando vita ad un lifestyle raffinato che si fonda su valori antichi

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ostenibilità e tecnologie eco-friendly, oggi, non solo costituiscono le basi per una solida presenza e competitività a lungo termine nell’articolato mercato della moda, ma sono proprio quegli elementi cruciali che garantiscono alle future generazioni una buona qualità della vita. Nell’ambito moda la creatività è padrona, ma come un abito di Alexander McQueen e uno di Moschino talvolta nascono dallo stesso tessuto grezzo, così due aziende, entrambe italiane, ma concettualmente differenti, con un proprio ed unico Dna, mettono al centro il medesimo valore: l’eticità, dal principio del processo fino al risultato. “Greenest textile company in the Blue World”: questa la definizione attribuita a Candiani Denim, marchio milanese fondato nel 1938, ancora oggi a conduzione familiare. Made in Italy, sostenibilità e innovazione sono i tre valoripilastro per l’azienda, che hanno portato alla creazione e al consolidamento della categoria di tessuto Premium Denim. Nonostante il primato come più grande impianto di produzione europeo, Candiani, attraverso una forte consapevolezza ambientale e fidati collaboratori, garantisce


Candiani Denim in collaborazione con Fabio Quaranta e Roberta Colla, capispalla dalle forme unisex che evocano l’idea del Kimono, mostra Crafting the Future, Mudec Milano, 2016

Cangiari, antico telaio a mano calabrese, mostra Crafting the Future, Mudec Milano, 2016

una ricerca responsabile di fornitori, supporta Bci (Better Cotton Initiative) – il cui cotone è impiegato nel quaranta per cento della produzione dell’azienda –, ricicla i filati scartati nella produzione e ritiene centrali la salute e la sicurezza dei propri lavoratori. Ciò che fa la differenza è la ricerca che avviene nel Centro di sviluppo prima della commercializzazione del tessuto, dove nuove tecniche di lavaggio e tessuti vengono implementati per una rinnovata ed innovativa sostenibilità. Al polo opposto, in Calabria, Cangiari – “cambiare” in idioma calabrese – è il primo marchio di Moda etica di fascia alta in Italia. Qui, la sostenibilità ambientale incontra una sostenibilità sociale. L’artigianalità dei tessuti prodotti all’antico telaio a mano calabrese unita alle tecniche tramandate dalle anziane “majistre” – maestre –, la sostenibilità in tutti i tessuti e capi, realizzati con materiali e colorazioni biologiche, e l’etica posta nella filiera di produzione, totalmente made in Italy e formata dalle cooperative sociali del Gruppo Goel, che si prende cura delle fasce più deboli e si impegna nel riscatto del territorio. Sono questi gli elementi al cuore della creazione, volta ad un lifestyle raffinato che si fonda su valori antichi.

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Amy’s design collection, EcoChic Design Award ©Redress

Quale sarà il prossimo passo verso l’eco-friendly? di Giulia Bellandi

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a moda? Un’industria internazionale con un valore di miliardi di euro, che contribuisce sostanzialmente all’economia globale. Oltre ad essere un enorme business, possiede un altro valore notevole: ci consente libertà d’espressione, rispecchiando profondamente la personalità e le caratteristiche individuali - quali la cultura e l’etnia, il genere e la sessualità, la religione, le preferenze musicali, la nostra vita nella sua interezza. In un tempo nel quale l’outfit perfetto è a portata di click, l’incessante richiesta di abiti all’ultima moda, è diventata un grave problema per la nostra Terra. A causa di una forte sovrapproduzione, le discariche stanno accumulando gli sprechi dei consumatori in materiali che inquinano il nostro pianeta ed il processo di lavorazione - in condizioni spesso disumane - ha scatenato più volte polemiche nel settore della moda.

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Braccialetto 4Ocean

Diversi gli enti che stanno intervenendo per sottolineare la serietà della situazione tra cui National Geographic, la rivista mensile che invita i suoi lettori ad esplorare il mondo e prendersene cura. Proprio quest’ultimo ha lanciato lo scorso giugno un video shock con lo scopo di sollecitare il pubblico a ridurre l’uso della plastica, la quale sembra ormai aver sommerso la nostra Terra. Secondo i dati registrati su www.sciencemag.org, circa 7 miliardi di chili di plastica finiscono nell’oceano ogni anno. Tutto questo non significa che siamo necessariamente destinati alla catastrofe: collaborando e coinvolgendo le parti interessate, diverse soluzioni sono state trovate. 4Ocean è nata come iniziativa che si impegna nel ripulire i nostri mari realizzando braccialetti: ogni acquisto promette di rimuovere circa mezzo chilo di spazzatura dall’oceano e dalle coste. Con lo stesso obiettivo, Pelacase è un’altra impresa sostenibile che vende invece covers “eco-friendly”.

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Organic by John Patrick, Fall 2016

Esistono adesso mille modi per fare acquisti senza danneggiare l’ambiente: negli ultimi anni, numerosi stilisti - affermati ed emergenti - si sono impegnati nella sostenibilità con grande fervore. Utilizzando tessuti organici, attuando una produzione etica e causando zero scarti, le aziende stanno mettendo i loro marchi all’avanguardia del cambiamento sostenibile, perché sanno che ci sono clienti disposti a pagare per un prodotto autentico, di alta qualità, che rispetti l’ambiente. Per citare solo alcuni esempi: Edun, Alternative Apparel, Organic by John Patrick, Bluer Denim, United by Blue, Pelcor, M Patmos, El Naturalista, StudyNY, Reformation, Riyka, Naja, where Mountains Meet. Il mondo sta cambiando. Sta diventando più responsabile: è in crescita quel segmento di mercato alla ricerca di soluzioni consapevoli che, allo stesso tempo, seguano le tendenze. I benefici per i consumatori non sono infatti di poco conto: oltre ad avere la coscienza a posto, investono i loro soldi in capi d’abbigliamento di altissima qualità, che dureranno a lungo nel loro guardaroba. Come ci insegna la Baronessa Lola Young, fondatrice e Presidente del Gruppo Parlamentare sull’etica e la sostenibilità “La moda può evolversi in maniera positiva, ma allo stesso tempo possiamo divertirci ed apparire splendidi”. Vediamo cosa succederà.

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cinzia verni

Cinzia Verni T. 340 4694094


Iniziare dalla fine: quando la moda si crea dagli scarti di Rebecca Baldanzini

Spesso guardare le cose col cannocchiale invece che col microscopio può far perdere di vista la verità. Ed è per questo che la moda, in quanto porzione delle cose del mondo, deve essere in armonia con esso, contribuendo a spingerlo nella direzione del progresso

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eci n’est pas une pipe”: è stata sufficiente questa frase a Magritte per scombussolare un mondo intero che pensava di saper riconoscere quale fosse la realtà. “Lo so che non è una pipa” pensa istintivamente lo spettatore davanti all’opera, ma a seguire un accenno di sorriso si affaccia da sotto i suoi baffi: “Sapevo che non fosse una pipa?”. Probabilmente avremmo bisogno di un Magritte anche nella moda, qualcuno in grado di farci capire che spesso guardare le cose col cannocchiale invece che col microscopio può far perdere di vista la verità. Capita col concetto stesso di moda: ci riferiamo ad essa come “arte”, “espressione”, “linguaggio” ed infinite altre filosofeggianti definizioni, fino a che non si perde il contatto con ciò che è tangibile, concreto, sotto gli occhi di tutti. Dire che moda significa abiti, o ancor più volgarmente “vestiti” sarebbe cosa da Magritte, ma per la maggioranza sarebbe un insulto da non ripetere. Tuttavia, è solo rendendosi conto dell’esattezza di questo tipo di definizione – innegabilmente meno poetica – che possiamo approcciarci alla moda come parte integrante di un sistema che ci coinvolge e che deve essere in grado di rispettare e sostenere. Così, tornando a concentrarci sulla moda che è abiti, tessuti, fili ed aghi riusciamo a comprendere che non è qualcosa che si trova lassù da qualche parte indefinita, ma che è qua, vicina, tra e su di noi. Ed in quanto porzione delle cose del mondo deve essere in armonia con esso, non ostacolarlo, ma anzi contribuire a spingerlo nella direzione del progresso. Questo è ciò che ha capito Maurizio Giani, così rendendosi quel Magritte del settore, di cui era attesa la venuta. Il suo punto di vista è il motore che ha portato al successo


la Waste Recycling un’azienda toscana di trattamento e smaltimento di rifiuti industriali che è riuscita a spiccare a livello internazionale per le straordinarie iniziative di cui si occupa. “Scart il lato bello e utile del rifiuto” è il modo concreto in cui la Waste Recycling è riuscita a connettere ciò che è lassù – tra le definizioni filosofeggianti – con qualcosa che è qua giù, in quanto dà la possibilità ad inventivi artisti di creare arte e moda con scarti di lavorazione di qualsiasi tipo. Vedere ciò che si pensava avesse finito il proprio corso come punto di partenza per qualcosa altro innesca una matrioska le cui potenzialità sono in gran parte da scoprire. Ma nella creazione degli abiti di Scart non si nota soltanto la volontà di riutilizzare, ma anche quella di creare bellezza, non vedendo la materia prima da cui cominciano come un ostacolo ma piuttosto come trampolino per risultati di indubbia originalità. Grazie a questa visione peculiare, sono negli anni arrivati i riconoscimenti e le grandi occasioni. Una tra tutte, quella di vestire i soprano che hanno accompagnato Andrea Bocelli nella Carmen al Teatro del Silenzio con dieci creazioni create con un patchwork di materiali di scarto del Comprensorio del Cuoio. Ma la moda in quest’azienda non è solo il punto di arrivo, bensì anche di quello di partenza. Grazie al progetto “Best Recycling” lavora con le più note firme a livello mondiale per trattare il cento per cento dei loro scarti di lavorazione: ritagli di pelle, plastica, materiali ferrosi, per portare a zero i loro rifiuti. Se quella non è una pipa, questo non è un sogno, riuscire in un miglioramento è possibile e la Waste Recycling ne è la prova. Fare del bello e fare del bene non devono necessariamente escludersi a vicenda. L’importante è solo riuscire a “scartare” un punto di vista obsoleto per poter riconoscere ciò che è, e soprattutto, ciò che potrebbe essere.

Collage composto da immagini di scarti industriali inserite nell’iconica pipa dell’opera “La Trahison des images” di René Magritte, 1928-29

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Il gioiello nella moda di Veronica Zito

Il monile vive nel tempo e acquista nuovi significati grazie al capo di moda cui viene associato, eterno interprete della contemporaneità. Oggi la richiesta è di poter possedere qualcosa di speciale e la personalizzazione e la creazione di limited edition sono valori aggiunti che vanno nella direzione dell’irripetibilità

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estita soltanto di “gioielli tintinnanti”, la donna di Baudelaire. Non solo ornamento, che riflette lo status sociale ed economico di chi lo indossa, ma oggetto del desiderio, con la duplice valenza di poter seguire le tendenze e al tempo stesso di porsi in una diversa dimensione. Il gioiello si muove con chi lo indossa, instaura un dialogo con il corpo e una relazione d’intimità tale da renderlo uno statement, oltre che una brama di possesso. Una vera e propria “caccia al tesoro”, quella di pietre, delle loro colorazioni e del design, che richiede tempo e minuzia nella ricerca per la creazione del gioiello, oltre all’inserimento di innovazioni dal punto di vista tecnico e dei materiali. Esclusività è la parola chiave. L’estremo valore delle pietre scelte, unito a raffinatissime tecniche di lavorazione, svolte ancora manualmente, celebrano il concetto del savoir-faire meticoloso e artigianale. Queste collezioni soddisfano il gusto di una clientela che sa apprezzare il dettaglio e il lavoro che l’haute joaillerie implica. Oggi la richiesta è di poter possedere qualcosa di veramente speciale, che nessuno ha, proprio per evidenziare una sorta di appartenenza del gioiello con il proprio corpo: la personalizzazione e la creazione di limited edition sono valori aggiunti che vanno nella direzione dell’irripetibilità. Ritmi sicuramente differenti rispetto a quelli che contraddistinguono l’irrefrenabile catena di montaggio del sistema moda, dove strategie marketing come il ‘see now buy now’ e il ‘fast fashion’ regnano sovrani. Ciò nonostante, la gioielleria classica ha dovuto adattarsi, con l’avvento della bigiotteria e del gioiello moda, presentando non più una sola collezione all’anno, ma due, con l’aggiunta delle numerose capsule collection proposte appositamente per le fiere del settore o per l’Haute Couture.


Incastonando idee

Ma allora esiste una sinergia tra collezione di moda e gioiello? “Il gioiello deve vivere di luce propria rispetto a una collezione di moda”. Sono le parole di Donatella Zappieri, luxury goods strategic consultant, esperta nel settore. “Nel mio percorso professionale ho sempre lavorato per marchi di gioielleria o bigiotteria, il mio compito era quello di contribuire alla creazione di collezioni che fossero slegate dall’abbigliamento ma che sapessero interpretare e mettere in risalto il concetto del gioiello”. E qualora ti fosse chiesto di creare una collezione di gioielli specificatamente per la moda, come procederesti? “ Sicuramente integrerei sempre una visione attenta dei

canoni legati al gioiello con la creazione di collezioni in linea con l’identità stilistica del brand e con il mood della stagione, ma con la messa in risalto dell’aspetto intimo del gioiello, inteso quindi non come mero accessorio, piuttosto come oggetto con la sua personalità e rispetto del dialogo che avrà con il corpo e caratteristiche di chi lo indosserà.” Smontato e rimontato, venduto e ricomprato, perso e ritrovato, il gioiello vive nel tempo e acquista nuovi significati grazie al capo di moda cui viene associato, eterno interprete della contemporaneità. Al passo con la moda dunque, ma su una via parallela.

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Non solo gioiello, ma anche moda di Eleonora Maestrelli

Nel sistema moda il gioiello, che rappresenta un ornamento spesso legato allo status symbol o a un legame affettivo, serve per veicolare le emozioni del cliente, creare e rafforzare l’identità che contraddistingue ogni brand, accrescendone il potenziale Anello e orecchini in oro bianco e diamanti

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entre il gioiello per l’alta moda è indossato come una decorazione, il gioiello d’arte è la realizzazione tridimensionale di un’idea, la sua manifattura non riguarda i trend della moda e non ha necessariamente un corpo come fonte iniziale di ispirazione”. Grazie alle parole di Naomi Filmer, rinomata jewelry designer e attualmente insegnante presso la prestigiosa università inglese Central Saint Martins, è possibile evidenziare la differenza tra le varie tipologie di gioiello e la loro creazione. Il termine gioiello è molto vago dato che è impiegato per indicare molteplici modelli di ornamento per il corpo, dei più variegati materiali, preziosi o meno, spesso legati allo status symbol, al prestigio sociale a un legame di affetto e talvolta anche all’ultraterreno. Vista la genericità e imprecisione di questo termine e ancora peggio dell’epiteto di falso riferito a gioiello, quando si tratta di moda si parla di bigiotteria (fashion jewelry


Bracciale a maglia crescente in oro giallo, bracciale a maglia barbazzale in oro giallo e diamanti, collier oro giallo a più fili

in inglese), ovvero di gioielli realizzati con materiali non preziosi ma non per questo privi di creatività e maestria. Una delle pioniere dell’introduzione dei gioielli nel mondo della moda è Coco Chanel, la quale, sin dagli anni Trenta, chiamava la bigiotteria di sua produzione “vrais bijoux en toc”, veri gioielli falsi, sfruttando l’ossimoro e sdoganando così il concetto di falsità e imitazione. La piccola rivoluzione della stilista francese rispondeva alle esigenze del tempo che la moda seppe soddisfare. Un altro esempio di pronta reazione da parte del fashion system risale agli anni Novanta e ha consacrato l’ingresso ufficiale della bigiotteria firmata dai grandi brand. Tom Ford all’epoca della logo-mania direttore creativo di Gucci, disegna una semplice “fedina” in argento ricoperta all-over dal motivo della doppia G. La creazione di questi oggetti soddisfacevano il desiderio dei giovani di possedere un oggetto palesemente firmato Gucci, con l’entry-level, ovvero le linee di piccoli accessori e bigiotteria, esempi di brand extention, il lusso diventa affordable e i fatturati aumentano. All’inizio del III millennio, tutte le più rinomate case di

moda si trasformano in life-style brand, il gioiello gioca così un ruolo fondamentale e racconta la storia del brand da un altro punto di vista. Bottega Veneta, per esempio, propone il celebre intrecciato in bracciali formati da sottilissime lastre o disegnato dalle incisioni. Allo stesso tempo, per Louis Vuitton la funzione della bigiotteria va ancora più oltre. I bijoux vengono introdotti nei primi anni Duemila sotto la direzione creativa di Marc Jacobs, rispettando a tutto tondo la filosofia del brand, esempio più eclatante sono i bracciali in resina contraddistinti dalle famose LV in colori vistosi come il rosa shocking e il verde acqua. Negli ultimi anni LV, vista la saturazione del mercato causata dell’eccessivo impiego del logo, focalizzando la brand communication solo su di esso e non sulla qualità dei prodotti, ha rinnovato la propria linea di fashion jewelry. Il logo sparisce, sostituito da piccole borchie su base in metallo o pelle, nasce inoltre la linea Lockit, grazie alla quale per ogni pezzo venduto viene garantita una donazione alla Unicef, nobilitando e attualizzando così di gran lunga l’idea del brand. Un’altra rivoluzione è stata

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Orecchini chandelier stile vintage in argento, oro giallo e diamanti taglio rosetta e goccia. Anello di diamanti con rubino centrale e oro bianco. Collana di perle giapponesi, cuore in argento brunito, oro bianco, diamanti e rubini

Orecchini a pendente forma circolare in argento brunito, oro giallo e diamanti taglio rosetta. Anello a fascia bombata in oro giallo e diamanti taglio rosetta. Orecchini a goccia in argento brunito, oro giallo e diamanti taglio rosetta

effettuata nella Maison di Gucci, dove il binomio Michele Bizzarri ha stravolto il brand riscrivendone la storia. Il designer dona ai gioielli il ruolo di icone della sua estetica riproponendo le forme classiche della bigiotteria americana degli anni 50 e 60. Nel sistema moda il gioiello è servito quindi per veicolare le emozioni del cliente, creare e rafforzare l’identità che contraddistingue ogni brand e accrescerne il desiderio. Per quanto riguarda i gioielli preziosi, pochi brand hanno introdotto una fine jewelry line, come Chanel e Bulgari, essendo prodotti con prezzi altissimi e tendenzialmente simili stagione dopo stagione. Sicuramente anche le linee più classiche si sono adattate ai tempi, ma se una fedina firmata soddisfa valori terreni quali l’apparire, un gioiello prezioso possiede una capacità attrattiva diacronica, sia in termini di valore sia di pura bellezza.

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Percorso speciale sulla moda a Firenze di Giulia Ratti

Calzature esposte al Museo di Salvatore Ferragamo

I grandi nomi dell’arte e della moda propongono un iter artistico culturale capace di identificare i cambiamenti estetici e sociali avvenuti nel corso della nostra era

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irenze oltre ad essere capitale dell’arte e della cultura, possiede una tradizione secolare anche nel mondo della moda, contribuendo ad elevare il capoluogo toscano sul panorama internazionale. La città vanta ancora oggi grandi stilisti del calibro di Ermanno Scervino, Patrizia Pepe, Enrico Coveri, Gucci, Roberto Cavalli e molti altri che producono i loro prodotti famosi in tutto il mondo. Firenze inoltre rappresenta un ruolo chiave anche nel settore della pelletteria, che eccelle grazie alla presenza sul territorio di numerose botteghe artigianali che garantiscono la riuscita di un prodotto finale di eccellente manodopera. Firenze valorizza molto la relazione che ha con il settore tessile, è l’unica d’Italia a possedere un museo dedicato alla moda e alla sua storia: la Galleria del Costume di Palazzo Pitti, che contiene un patrimonio elevato di antichi costumi appartenenti alla storia del XVIII e XX secolo. Il percorso sulla Moda a Firenze può procedere con la visita al Museo Ferragamo, sorto per volontà della famiglia


Dipinto raffigurante Cleopatra Fondazione Franco Zeffirelli

Ferragamo, per documentare la storia, l’espansione e i progressi della maison nel mondo. Si possono ammirare le calzature realizzate per le star di Hollywood e il contributo dello stilista stesso in America. Il Gucci Garden situato nel palazzo della Mercanzia, rappresenta un’altra location dove la moda la fa da padrona. Si tratta di uno spazio voluto fortemente da Alessandro Michele direttore creativo di Gucci e concepito assieme

alla critica Maria Luisa Frisa, che ospita una boutique con articoli unici, il ristorante Gucci Osteria di Massimo Bottura, chef premiato con tre stelle Michelin e la Gucci Garden Galleria dove i visitatori e gli amanti del settore possono ammirare tutte le varianti creative e artistiche apportate alla maison dal 1921 fino ad oggi. Per gli appassionati di film, teatro e opera vi è la possibilità di visitare la Fondazione Zeffirelli, instituita per la

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Abiti esposti al Gucci Garden

volontà di Franco Zeffirelli nello storico complesso di San Firenze. La struttura mette a disposizione un patrimonio culturale e artistico di una carriera lunga quasi settanta anni con lo scopo di diffondere la cultura delle arti dello spettacolo secondo una grande tradizione italiana. Si possono ammirare abiti, retroscena e fotografie che esemplificano le tappe principali della parabola artistica di Zeffirelli. Non mancano inoltre in città gli innumerevoli eventi dedicati alla moda e all’arte come quelli organizzati durante

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la manifestazione di Pitti Uomo; inoltre Firenze possiede uno dei più grandi centri di documentazione a livello internazionale sulla moda e l’arte “Centro di Documentazione Matteo Lanzoni” all’interno dello storico istituto Polimoda, frequentato da professionisti e studenti. La presenza di istituzioni culturalmente elevate e scuole di livello eccellente unita alla valorizzazione del settore artistico è essenziale per l’immagine artistico-culturale che Firenze rappresenta non solo in Italia ma anche nel resto del mondo.


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Le immagini qui di seguito rappresentano una selezione di visual realizzati dagli studenti del Master in Fashion Styling e del Seasonal course in Fashion Photography del Polimoda di Firenze nel contesto del progetto didattico “Riflesso Fashion”.

Questa Cover esplora l’idea dell’attorcigliamento. Lo esprime come manifestazione fisica ed emotiva. Come espressione dei legami e dei flussi all’interno delle cose. Come ciò che lega un essere umano all’altro. O gli esseri umani alla natura. Da un punto di vista legato alla moda, tale Cover manifesta il rapporto che abbiamo con i vestiti come una forma fisica che in qualche modo ci impacchetta e come un processo nel quale il fluire può realizzarsi o meno.

Troppo timida per brillare. “Delle volte vorrei brillare, ma essendo davvero troppo troppo timida per farlo, spesso mi accorgo che non posso stare troppo a lungo in mezzo alla folla. È molto duro guardare le persone negli occhi, proprio perché sono timida”. Viviane Sassen Photographer: Lorenzo Gomez Styling: Mofei Wu, Wenxin Li, Xiaoyi Yu Model: Joao Gabriel Sanson Salina Green Jacket And Pants Jizhi Make-up & hair: Alice Imbriani

Photographer: Carolina Meyer Styling: Jane Durham, Flora McAlpine, Sarah Rajkotwala Designer: Jane Durham Model: Emma Margrini, Georgia Perussich Make-up artist: Isabela C. De Oliveria Hair stylist: Sabrina Carolina De Silva

Il riflesso delle emozioni rappresenta sostanzialmente lo stile di una persona che ogni giorno sente di essere costituita, creata da un’emozione principale. Ogni giorno noi diamo l’immagine di noi stessi, attraverso i nostri vestiti. È il nostro ritratto. Come ci sentiamo diventa lo stile di abbigliamento che riflettiamo attraverso la moda. Per esempio afferriamo precisamente i giochi di ruolo attraverso un’uniforme. Questa immagine ha il significato di uno specchio che sta riflettendo un’emozione attraverso la moda. Photographer: Lorenzo Gomez Styling: Lin Lin, Nisha Singh Designer: Zheng Xue Qi Model: Sofia Faralli Make-up & hair: Isabela C. De Oliveira, Sabrina Carolina Da Silva

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Moda come strumento di comunicazione è il tema affrontato nel visual di copertina. La potenza della fashion industry si pone come mezzo per veicolare messaggi di ogni natura, come campagne pubblicitarie piuttosto che ideali politici o slogan provocatori a supporto di movimenti di protesta. Abbinamenti cromatici impattanti, make-up stravagante e ironia completano la composizione. Photographer: Sinead Aoife Thomas Styling: Carmen Baniandrés, Isaa Geeratz, Marie Damie Designer e Graphics: Anna Dorian Model: Nancy Make-up artist: Isabela C. De Oliveira Hair stylist: Sabrina Carolina da Silva




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