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3. Contro il “mito di Roma”
3. Contro il “mito di Roma”
Tutto quello che scrive Levi sulla “NdP” fa pensare prima di tutto a un progetto di rinnovamento della politica, ossia a una revisione della sostanza e delle forme dell’impegno politico, un rapporto diverso tra militanza e vita quotidiana, e di conseguenza delle priorità e dei luoghi della politica. In questo senso, la polemica contro il governo centrale si volgeva in quella contro il luogo simbolico di quel potere: Roma. Come già ricordato, Levi descriveva in termini brutali il rapporto della capitale con il resto d’Italia: il Paese era diventato “una colonia di Roma, e le città erano governate da funzionari coloniali”
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Il tema era diventato ricorrente quanto la mobilitazione contro il prefetto, e del resto il legame andava nei due sensi: l’antifascismo doveva fare i conti tanto con le vecchie istituzioni quanto con la capitale di Mussolini, con la città incrostata della retorica imperiale. Il 25 settembre 1944, Carlo Furno faceva una proposta dal tono paradossale: traslocare il governo da Roma.
Trasferire la capitale in una città piccola e modesta (non sarebbe opportuno, con tante che ne abbiamo, costruire una città nuova solo per farne la capitale: potrebbe benissimo servire a tal scopo, ad esempio, Perugia, oppure Aquila degli Abruzzi, o Urbino etc.) vorrà dire per noi italiani liberare dalla trappola romana la vita politica e morale del paese, decongestionare i ministeri, purificare l’ambiente burocratico e diplomatico. In una piccola città, simile a tante altre, lo Stato ritroverà, e magari troverà per la prima volta nella nostra storia, quell’ambiente di semplicità e di dignità che è indispensabile per far nascere nei cittadini la fiducia e la speranza.
“È necessario togliere a Roma il falso primato morale e politico sulle altre città italiane. È necessario spazzar via il mito di Roma”, concludeva: «“A Roma” fu il grido del Risorgimento; “via da Roma” dev’essere il nostro grido coraggioso di oggi, anche se qualcosa in gola lo fa uscire velato di mestizia»
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Tutti attingevano a un repertorio di immagini che richiama l’igienismo: su Roma grava una cappa di vecchia aria stagnante e insalubre, che nemmeno il “vento del Nord” sarebbe stato capace di spazzare via. “Un’atmosfera coloniale, levantina, come una
40 Levi, Rinascita del Comune cit. 41 Furno, Il mito di Roma cit.
coltre pesante […] qualcosa […] di vischioso, di molliccio”, diceva Mario Spinella nell’agosto 1944
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. Il 25 ottobre, il “Times” pubblicò una corrispondenza del suo inviato Christopher Lumby, in cui si raccontava lo scontro tra il CTLN e il prefetto Paternò; qualche settimana dopo, la “NdP” la riprese sotto il titolo L’esperimento autonomistico di Firenze. “L’aria politica che spira a Firenze è rinfrescante dopo quella di Roma”, esordiva l’articolo, in cui si contrapponeva la capitale, dove la presenza di funzionari statali e delle loro famiglie era causa di una certa “mancanza di serietà” verso i principali problemi nazionali, al resto dell’Italia, dove, a mano a mano che si procedeva verso nord, si avvertiva “uno spirito più vivace e realistico”
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La protesta contro il governo centrale rinnovava la polemica tra Nord e Sud d’Italia, e si saldasse con una tradizionale ostilità contro i meridionali, persino acuiti – come si è visto in precedenza, parlando di bombardamenti – durante la guerra. Sulle pagine della “NdP”, Firenze “libera per virtù propria” – come recitano i versi di Umberto Saba
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– si allineava all’Italia che continuava a combattere, e nella sua polemica contro la Roma dei palazzi di governo sembrava dimenticare che la popolazione di Roma aveva passato lo stesso inverno 1943/44 dei fiorentini, aveva condotto la stessa lotta di resistenza ed era stata liberata appena due mesi prima della Toscana.
Lo schema era già pronto prima che la Liberazione si realizzasse nei modi che conosciamo. Nel dicembre 1943, Giorgio Bassani arriva a Roma dopo aver lasciato Firenze. In quei giorni tiene un diario, e a fine gennaio annota un modo di dire che circola in città:
«Roma è come una gran puttana; aspetta di farsi fottere degli inglesi dopo essersi fatta fottere dai tedeschi.» Fra tutti i discorsi uditi in questi giorni d’attesa, qui a Roma,
42 Cfr. supra cap. 6, par. 1. 43 C. Lumby, L’esperimento autonomistico di Firenze, “NdP”, 17 novembre 1944. Lo stesso articolo pubblicato dal “Times” il 25 ottobre 1944, fu ripreso – con una diversa traduzione – nei giorni della crisi del governo Bonomi dall’edizione lombarda de “L’Italia Libera” (20 dicembre 1944). L’articolo fu intitolato Da Roma a Firenze: Dalla sterile diplomazia alla democrazia costruttiva, e collocato nella prima pagina che apriva col titolo La crisi dello stato in Italia e in Europa. 44 Saba, Teatro degli Artigianelli cit.
questo, sentito proferire da C. ieri, verso l’ora d’un tramonto rosa, stupendamente indifferente, m’è parso il più notevole
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Come è facile immaginare, il florilegio su questo tema sarebbe lungo quanto prevedibile. Vale la pena, forse, di ricordare la reazione di Cancogni al suo arrivo a Roma, pubblicata – in forma di lettera a un amico – dall’edizione milanese del quotidiano del PdA “L’Italia Libera”, nel settembre 1945. Cancogni si domandava come avrebbe potuto sopravvivere a Roma un governo come quello di Ferruccio Parri, il tentativo del “vento del Nord” di soffiare anche sulla capitale.
Non si comprende neppure come possa starci un governo a Roma, che non sia quello composto da un concistoro di alti prelati vigili custodi di leggi trascendenti ed extra-temporali, ma indaffarato intorno a provvedimenti urgenti e d’eccezione quali i bisogni del paese richiedono. E come potrebbe darsi un governo del genere, affiancato dall’interesse e dall’alacrità dei cittadini, se anche il senso di un’attività che non sia quella rivolta a soddisfare le cure più meschine e private, sfugge alla mente degli abitanti e par quasi impossibile? Il “tira a campà” è pur sempre il verbo di questa popolazione, per cui il governo è e sarà sempre “er governo”, una maledizione, un peso, fra i mille altri che la vita dipinge nella loro pigra immaginazione.
La diffidenza e l’insulto non erano più riservate ai palazzi, ma colpivano la popolazione, la “folla multiforme ma inerte delle bellissime case gialle e arancione, delle infinite chiese di grigio ed eroso travertino, delle fontane, delle cupole, e dei giardini” refrattaria e indifferente a ogni cambiamento e a ogni tipo di governo.
Da Roma si governa dunque, ma non per Roma, la cui popolazione pare goda di una specie di immunità politica, che dopo il governo dei Papi, la burocrazia umbertina e quella fascista, sopporta con la massima indifferenza anche il governo che la resistenza popolare del Nord le ha regalato.
L’anonimo amico a cui si rivolgeva Cancogni doveva essere proprio Carlo Furno:
45 G. Bassani, Roma inverno ’44 (pagine di un diario inedito), “La Rivista Trimestrale”, a. III, n. 9, marzo 1964, pp. 102-116, ora ripubblicato col titolo Pagine di un diario ritrovato, in Id., Opere cit., pp. 965-983, da cui si cita p. 965.
Ti invito perciò a fare per iscritto quella proposta altre volte ventilata per ischerzo, ma che mi pare invece assai seria: di trasportare cioè la capitale in una piccola cittadina, che sia la più anonima di tutte, senza lusinghe né del passato né del presente, e dove l’attività sia il rifugio naturale per chi non vuole morire di noia. Montecatini a esempio, con tutti i suoi alberghi che la guerra, credo, ha risparmiato, farebbe benissimo allo scopo.
L’articolo prosegue sullo stesso tono.
La balcanizzazione dell’Italia, specie di quella centro-meridionale, non è dunque una frase fatta; cominci ad accorgertene da Roma. Fino ad ieri, per suggestioni retoriche e sforzi propagandistici, i monumenti del nostro passato entravano ancora a far parte della vita di ciascuno e dell’immaginazione popolare: erano storia per davvero. Ma ora essi reggono, sì, ma come quinte di cartapesta sull’agitazione inutile e distratta della gente. La Cupola di S. Pietro non tarderà molto ad assomigliare alle colonne del Partenone […].
Cancogni evoca dunque una città in rovina, sudicia, caotica, dove si vive di misere attività parassitarie, come il mercato nero che si fa a ogni angolo di strada, “e non ha nulla di fervido, e subito rivela la miseria e l’ozio che lo originano”.
La pigrizia dei romani, infrenata negli anni del mirabolante regime, in cui furono costretti al ruolo di cittadini di una grande capitale, e convenientemente convogliata nei polverosi e comodi uffici ministeriali, ha trovato oggi la occupazione e la fonte di guadagno più congeniale alla natura degli abitanti
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Riportando le sue prime impressioni sulla Roma del 1945 nel suo romanzo L’Orologio, Levi non esitò a ricordare la soddisfazione degli uscieri del Viminale all’annuncio della fine del governo di Ferruccio Parri che, per la sua dirittura morale e la sua efficienza, era del tutto incompatibile con le abitudini dei ministeriali. Eppure Levi fu ben attento e chiaro nel distinguere tra la Roma del potere, dei ministeri e della piccola borghesia impiegatizia e la Roma popolare delle borgate, che aveva conosciuto
46 M. Cancogni, Lettera da Roma, “IL”, Milano, 27 settembre 1945. Qualche mese dopo, con il gusto per il paradosso che, come vedremo, caratterizzò anche i suoi articoli fiorentini, Cancogni scrisse un
avventurandosi alla Garbatella, insieme a un amico, su una jeep americana rimediata chissà come
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Elogio storico del mercato nero nel secolo XX in Italia, per la rivista romana “Aretusa” (a. II, n. 11-12, luglio-agosto 1945, pp. 38-40, ora ripubblicato in Aretusa cit., pp. 181-184). 47 I due episodi in Levi, L’Orologio cit., pp. 143-144 e 109-121 rispettivamente. Su questo, si veda anche quanto scrive G. De Luna, “L’Orologio” di Carlo Levi e l’Italia del dopoguerra, in L’“Orologio” di Carlo Levi e la crisi della Repubblica, atti del convegno, a cura di G. De Donato, Lacaita, Manduria 1996, pp. 33-45; De Luna ha ripreso questo saggio in varie occasioni, l’ultima per introdurre alla lettura di Ward, Carlo Levi cit., pp. IX-XXIV.