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La deportazione in provincia di Modena

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dati ufficiali disponibili in provincia nel dopoguerra e non permettono di capire se si tratta di deportati politici o di civili rastrellati. Certo tra questi non figurano i 70 ebrei arrestati a Modena,8 prevalentemente provenienti da altre province italiani o profughi stranieri;9 sicuramente non figurano i detenuti del carcere di Castelfranco Emilia, importante luogo nella geografia repressiva del regime fascista prima, e del sistema nazista dal ’43 al ’45. Dei prigionieri di Castelfranco — politici e non — almeno 140 risultano dalle rubriche del penitenziario essere stati trasferiti in Germania, destinati al lavoro coatto. Questo dato è però molto lontano dalla realtà: la documentazione infatti è largamente incompleta a causa del bombardamento aereo subito dal vecchio “Forte Urbano” adibito a carcere il 17 settembre 1944, come si evince dal fatto che nel giugno del 1944 un contingente di ben 396 deportati provenienti da Castelfranco arriva a Magdeburgo per essere avviato al lavoro coatto.10 Infine, il campo di Fossoli viene utilizzato fino al novembre 1944 come punto di raccolta per il trasferimento coatto di lavoratori in Germania, oltre che per l’organizzazione dei trasporti verso Auschwitz.11

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Indubbiamente però il vuoto di conoscenza più importante riguarda i tanti deportati in seguito ai rastrellamenti, largamente prevalenti nella provincia, sui quali siamo in grado di fare solo ipotesi di massima e fare deduzioni, considerando che a livello regionale tra l’agosto e l’ottobre 1944 i grandi rastrellamenti nell’Appennino tosco-emiliano portano all’arresto di 59.148 persone delle quali circa 7.000 deportate in Germania. In provincia di Modena il rastrellamento di agosto, che interessa prevalentemente il bolognese, porta all’arresto di 500 persone di cui 192 deportate in Germania.12

La realtà quantitativa della deportazione dal modenese appare quindi sufficientemente delineata per quanto attiene la depor-

8 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1991. 9 K. Voigt, Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, p. 492, in questo volume. 10 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, p. 594. 11 Sul campo di Fossoli vedi in questo volume S. Duranti, Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi: percezione, ricordo e significato attraverso la sistemazione degli scritti raccolti nella bibliografia, pp. 531-545 e L. Ferri Caselli, Il campo di Fossoli: una ricognizione nella stampa quotidiana locale, pp. 546-552. 12 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia, cit., pp. 384-387, vedi anche C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Modena 1998, p. 233.

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tazione razziale, non così per la deportazione politica e per i rastrellati. Ugualmente non possiamo affermare di avere buone informazioni per quanto riguarda gli elenchi nominativi, per noi fondamentali dal momento che una delle intenzioni primarie della ricerca era la costituzione di un archivio della memoria sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti. Ora, prescindendo dagli elenchi nominativi del carcere di Castelfranco (dai quali non si evince la città di provenienza dei prigionieri, ma è molto probabile che i modenesi fossero pressoché assenti), dai nomi dei pochi ebrei della comunità modenese (dei quali purtroppo nessuno fece ritorno) e dai nomi degli ebrei di altre province o stranieri arrestati a Modena, i nomi di deportati o rastrellati a nostra conoscenza, risultano essere davvero pochi: 27 tratti dagli elenchi nominativi delle domande accolte per gli indennizzi a cittadini colpiti da misure di persecuzione nazionalsocialiste pubblicati dalla Gazzetta Ufficiale del 22 maggio 1968; 6 tratti dalle schede personali dell’ANED di Modena, delle quali 1 sola relativa ad un superstite; 84 relativi a deportati modenesi caduti nei campi. Complessivamente perciò siamo riusciti a costruire un elenco di 117 nomi di modenesi deportati in Germania. Di questi ben 89 non fecero ritorno dai lager e altri 10 sono mancati nel corso del dopoguerra. Restano così solo 18 persone potenziali testimoni.

Ciò spiega l’impossibilità di andare oltre la dozzina di interviste — alcuni, infatti, non godono di una condizione di salute sufficiente ad affrontare un’intervista, uno solo ha rifiutato — cui si aggiungono 3 interviste a membri della comunità ebraica che sono testimonianze di come gli ebrei modenesi subirono la discriminazione fascista, la persecuzione nazista e la deportazione, ma soprattutto confermano il profondo radicamento di quella comunità nella società modenese, reso evidente dall’altissima percentuale di ebrei non arrestati. A fianco di queste interviste, davvero di straordinaria intensità, si sono reperiti diari, manoscritti, memorie e documentazione sulla deportazione modenese che contribuiscono a fornire elementi di valutazione nuovi rispetto ad una vicenda a lungo completamente trascurata nella nostra realtà.

Il dato più evidente che balza agli occhi è il peso notevole che ebbero i deportati in seguito ai rastrellamenti collegati alle operazioni militari di controllo del territorio che, adottando un criterio rigido, potrebbero non essere definiti tali. Sono i cosiddetti “deportati per caso”, che in realtà tanto per caso non sono, in un

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territorio nel quale l’attività partigiana è capillare — sia in montagna sia in pianura — e che confermano quanto affermato da diversi studi sulla deportazione13 circa la complessità del fenomeno e la difficoltà dei tentativi di operare nette distinzioni relativamente alle tipologie di deportazioni: il reclutamento coatto di civili per il lavoro, gli spostamenti forzati di popolazione differiscono infatti sottilmente dalla vera e propria deportazione politica e spesso nelle vicende personali gli elementi si intrecciano e rendono meno efficaci le grandi suddivisioni.

La politica, infatti, è sempre un elemento che rimane sullo sfondo, patrimonio della tradizione familiare: “eravamo antifascisti, avevano anche arrestato mio padre e io andavo davanti al carcere a portargli la roba da mangiare […] eravamo dei mezzadri […]. Quindi mio padre aspirava, aveva bisogno di terra e quelli che volevano la terra erano comunisti, era chiaro questo!”14 Oppure: “Io ad esempio conoscevo i partigiani perché quelle cose lì si erano cominciate a capire, ma non è che sapessi molto di più!”15 Ma più spesso è addirittura assente, “Non sapevo neanche cosa fosse la politica!”16, se non nel caso di Carlo Andrea dell’Amico che è un vero e proprio deportato politico arrestato perché sceglie consapevolmente, “Una scelta quasi istintiva: finalmente si combatte contro i fascisti e contro i tedeschi e quindi si stava dalla parte del giusto. Quella diventava finalmente una guerra giusta! […] io non avrei disertato dall’esercito italiano per passare nelle linee inglesi, ecco! Però avvenuto questo: l’esercito italiano non c’era più, la famiglia reale era scappata, i grandi generali avevano tagliato la corda… e allora ho pensato: adesso faccio la guerra con chi dico io!”17

Nella provincia di Modena i rastrellamenti, operati dai tedeschi con il supporto delle strutture istituzionali e militari della repubblica di Salò, rispondono a più di un obiettivo: la necessità di manodopera è certo un’esigenza prioritaria per l’economia di guerra tedesca, ma non è da meno l’esigenza di fare terra bruciata intorno ad un movimento resistenziale che gode di un vasto ap-

13 E. Collotti, P. Dogliani (a cura di), Arbeit macht frei: storia e memoria della deportazione, Carpi 1987; F. Cereja, B. Mantelli, La deportazione nei campi di sterminio, cit.; A. Bravo-D. Jalla, La vita offesa: storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, cit. 14 Intervista a Giorgio Angelantonio. 15 Intervista a Tullio Neri. 16 Intervista a Ettore Malpighi. 17 Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico.

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poggio e supporto popolare, in pianura in modo particolare, e quindi di rendere sicure le retrovie della linea Gotica e le vie di comunicazione; inoltre è presente la volontà di colpire duramente i renitenti alla leva, in un groviglio di casi personali nei quali è difficile soppesare quali siano le ragioni principali che poi conducono al lavoro coatto in Germania.

La netta prevalenza di questo tipo di deportazione nel modenese, rispetto a quella politica, è spiegata dalla relativa debolezza numerica dell’antifascismo organizzato fino alla fine del 1943 e, successivamente, proprio alla forza del movimento resistenziale armato.

I nostri intervistati sono rastrellati in coincidenza di azioni partigiane (in montagna) o in zone in cui l’attività resistenziale è diffusa capillarmente (in pianura). Racconta Annibale Tintorri che a Sestola, nell’appennino modenese, “i partigiani presero il paese e allora sa tra repubblichini e una cosa e l’altra. Da Pavullo partirono i repubblichini, poi tutti i tedeschi hanno accerchiato il paese. Io ho cercato di scappare con il cavallo verso la rocca, poi mi hanno sparato e sono tornato indietro e ho preso la strada del Cimone. […] Da lì sono arrivato a casa e hanno preso me e mio padre, ci hanno tenuto un po’ qui in veranda, poi ci hanno portato a Pieve ed infine a Fossoli”18 e Ettore Malpighi ricorda che “sono stato catturato l’8 giugno 1944 in un rastrellamento a Soliera hanno circondato il paese: io venendo fuori dal cinema ho visto che c’era un po’ di subbuglio, ho tentato di uscire fuori dal paese però non ci sono riuscito, […] erano tedeschi però nel paese c’erano anche i repubblichini, erano misti cioè era un rastrellamento fatto insieme, e poi senz’altro i fascisti erano quelli che guidavano i tedeschi”19 .

L’altro aspetto che emerge con evidenza dal materiale documentario e dalle interviste rappresenta una conferma di quanto sostenuto dalla storiografia più avvertita sulla deportazione. La deportazione non razziale, e in particolare quella dei “non politici” destinati al lavoro coatto, è il fenomeno che meglio ci permette di capire la razionalità del sistema nazista durante la guerra e del progetto di nuovo ordine europeo, contribuendo così a sgretolare l’ancora forte senso comune — anche storiografico — del nazismo

18 Intervista ad Annibale Tintorri. Analoga testimonianza sulle modalità del rastrellamento si trova nell’intervista di Romolo Tintorri. 19 Intervista a Ettore Malpighi.

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come fenomeno inspiegabile se non ricorrendo alle categorie dell’irrazionalità. Gli zingari e gli ebrei sono le prime vittime della tragica ideologia razziale del Reich nazista e della “nuova Europa” da loro immaginata, nel cui quadro rientra razionalmente l’utilizzo del lavoro schiavistico delle razze inferiori e l’eliminazione attraverso il lavoro degli uomini destinati a sostenere lo sforzo bellico e il sistema industriale della Germania nazista.

Ricorda Sergio Lugli, carabiniere deportato a Dachau perché ritenuto un partigiano: “Quello lì è stato un disastro, è stato proprio un terrore, era una eliminazione, era una eliminazione completa! Lei non aveva voglia di parlare con nessuno, con nessuno, neanche fra di noi si parlava mai… no niente! La disperazione era tale che… non so come ho fatto”20 .

Le interviste restituiscono tanti aspetti e una varietà di esperienze spesso drammatiche che però non cadono mai in una sorta di soggettivismo fine a se stesso, bensì rappresentano un percorso indispensabile per chi voglia davvero cogliere la giusta dimensione di cosa ha significato per tanti uomini e per intere comunità la scelta della guerra totale nazista. E anche se un ex deportato piemontese ha esemplarmente affermato che “nessuno libro e nessun oratore riuscirà mai a dire che il freddo è freddo e la fame è fame”, queste testimonianze ci trasmettono una serie di straordinarie vicende personali, piene di forti valori umani che non possono non coinvolgere anche chi le ha raccolte cercando di fare prevalere gli aspetti professionali del lavoro. Non si tratta solo di pezzi di storie soggettive, ma di un affresco che aiuta a capire come una cultura sociale, spesso di estrazione popolare, ricca di una straordinaria forza morale, abbia tenacemente resistito, nonostante le continue umiliazioni e i tentativi di annullamento della dignità umana e personale, ad una forza che sembrava schiacciante ed invincibile.

Le condizioni al limite del possibile durante la prigionia sono descritte con grande dignità, le strategie di sopravvivenza rivelano, come detto, una forza umana certamente non comune, anche quando si deve anteporre la propria salvezza a quella degli altri. Gli spazi per la solidarietà verso i compagni o per l’aiuto reciproco si riducono drasticamente, resta solo una disperata battaglia

20 Interviste a Sergio Lugli.

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per la sopravvivenza. Racconta Sergio Lugli, “c’era uno lì nel coso della morte che non capiva mica più niente, cioè la testa era andata: ci aveva le fette del pane lì di fianco perché ormai non mangiava neanche più e allora io ho detto: solo che muoia. A questo si arrivava! Infatti è morto e io sono arrivato e ho preso su il pane. Sono andato poi a mangiarlo di nascosto perché se uno mi vedeva ne voleva anche lui. […] Uno pensa per sé! Lì pensava per sé. Mica tutti per uno!”21 E Marino Ragazzoni: “Non c’era rispetto per gli esseri umani, non ho le parole per dirglielo, c’era un affetto impressionante invece verso i tuoi amici ma che cosa si poteva fare?”22

La durezza della vita nei campi non è mai pretesto per atteggiamenti vittimistici, anzi emerge una solidità morale straordinaria. La fame, il freddo, la pesantezza del lavoro, le punizioni inutili, l’accanimento nella disciplina, i bombardamenti e le umiliazioni subite costituiscono la trama di un racconto il cui spessore e qualità è difficilmente esprimibile in poche citazioni. Con semplicità si racconta dei rischi per riuscire ad avere qualche patata in più, “Morire di fame o prendere una fucilata per noi ormai era uguale”23, lo sforzo per non crollare psicologicamente di fronte a condizioni estreme, “Arrivi in questo posto scuro, vedi della gente vestita di stracci, vedi della gente che è la metà di noi di peso, vedi quelle facce, quelle facce… e ti rendevi conto che i pensieri, le idee che ti eri fatto durante il viaggio non corrispondevano alla realtà, che Mauthausen era tutt’altra cosa! […] Ci siamo resi conto e alcuni ebbero proprio un crollo immediato. Io ebbi una reazione contraria e mi dissi che il mondo che avevamo conosciuto fino ad allora qua non c’era più. E adesso ce n’era un altro e bisognava imparare a stare in questo posto!”24 Ma i momenti più drammatici sono le testimonianze sull’umanità umiliata nei campi e sono anche i momenti in cui emerge la forza dei nostri protagonisti. “Quanti morti, quanti morti che ho visto, a migliaia, a migliaia dentro a quelle baracche tutte le mattine ce n’erano: magri, sporchi; c’era nell’ultimo campo lì che non c’erano i forni, una mattina andiamo dentro nel bagno ce n’erano due, perché i bagni erano tutti fatti con delle assi di legno e poi c’era una fila di rubi-

21 Intervista a Sergio Lugli. 22 Intervista a Marino Ragazzoni. 23 Intervista a Annibale Tintorri. 24 Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico.

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netti ce n’era sotto i bagni tutti lì in terra, tutti... e io pensavo: — Guarda che ci ha famiglia, ci avrà moglie, ci avrà dei figli a casa, guarda come l’hanno ridotto e umiliato una persona, un corpo portarlo a quei livelli lì! […] Una persona viene eliminata, viene sciolta, la personalità non c’è più. Lì non eri più una persona eri un oggetto”25. E ancora: “Ci hanno rasato come le pecore, ti trattavano come le bestie, peggio delle bestie e solo per umiliarti”26 . Nei confronti dei tedeschi l’atteggiamento non è univoco: alcuni sottolineano la fortuna di avere incontrato anche persone in grado di aiutarli al momento delle selezioni per il lavoro, nella malattia o nel reperimento del cibo; altri cedono al risentimento e non riescono ad operare nessuna distinzione. L’amarezza più grande è però quando si incontra l’indifferenza. Racconta Romolo Tintorri, deportato in un sottocampo di Neuengamme: “quelle che mi sono rimaste impresse sono le lunghe camminate che facevamo dal campo alla fabbrica che era un po’ lontana, dovevamo attraversare la città e allora mi ricordo che tutti, specialmente nel ritorno, perché al mattino andavamo via molto presto e le famiglie tedesche dormivano forse ancora e io guardavo, ad esempio, la sera attraverso queste finestre se c’era uno sguardo, qualcuno che ti, non so, uno sguardo di compassione, che capissero, insomma, la nostra tragedia e così... perché passavamo attraverso la città e attraverso queste finestre, con queste tendine tutte ben addobbate con i fiori pensavamo che ci fosse un’umanità che poi non c’è mai stata e non ci sarà mai!! Ecco! Pensavo che qualcuno ci pensasse, che pensasse alla nostra condizione invece non abbiamo mai visto uno sguardo che ci potesse rasserenare oppure ci potesse dare... e dei bambini durante specialmente nel ritorno mi ricordo che ci sputavano addosso, pensi un po’ che cosa!”27 Nonostante tutto questo nelle testimonianze raramente si parla di vendette al momento della liberazione. Anche se sia i Russi sia gli Americani lasciano per qualche giorno “carta bianca”, sono soprattutto i prigionieri russi ad approfittarne esasperati dal durissimo trattamento subito — “Noi usavamo dei cucchiai per mangiare e li avevamo fregati e così abbiamo fatto. O meglio, ho visto fare delle laparatomie, cioè entrare, aprire la pancia. Me ne ricordo una in modo particolare: un kapò tedesco sventrato dai russi!

25 Intervista a Sergio Lugli. 26 Intervista a Ernesto Vuch. 27 Intervista a Romolo Tintorri.

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Quel kapò era stato veramente terribile soprattutto con loro e loro lo hanno fatto fuori”28 —, gli italiani il più delle volte vanno nelle case abbandonate dai tedeschi in fuga per recuperare cibo e vestiario.29

Quando finalmente arriva la liberazione non c’è solo gioia. Naturalmente è un momento indimenticabile, descritto con un emozione difficile da controllare anche a distanza di tanto tempo. “E io quel giorno lì, quello della liberazione non me lo scorderò mai perché quando si è aperta la porta della baracca ed è entrato questo soldato americano, nessuno di noi parlava americano e siamo riusciti solo, quelli che camminavano, a baciarlo, chi le mani, chi la faccia: abbiamo capito che era finita! E lui con questo elmetto, armato, così di tutto punto, ci ha guardato e poi si è messo a piangere, piangeva come un bambino a vederci ridotti così”30. Alle fatiche di un lunghissimo viaggio di ritorno, atteso per mesi, spesso senza ricevere aiuti ritenuti indispensabili — “Siamo venuti a casa a righe”31 — si aggiunge la scoperta che il ricordo delle sofferenze subite nei campi accompagnano i sopravvissuti anche in Italia. “Anche adesso mi sogno delle volte alla notte, mi sogno che dicevo: ma guarda, Dio bono sono stato fatto prigioniero un’altra volta, ma come facciamo? Adesso non riusciamo mica più ad andare a casa!”32 Oppure: “io qui dentro, in questa stanza, quando sono da solo mi metto a leggere. Io sa quanti pianti ho fatto qui dentro io! Però ho sempre cercato… mia moglie non mi ha mai visto, mai, mai”33. Anche subito dopo la liberazione, rientrati in Italia, è difficile partecipare del clima di gioia del paese, risulta quasi una realtà incomprensibile: “Dopo la liberazione quando vedevo tutta la gente contenta, che si abbracciava… io non ci potevo credere, io non ci riuscivo. Non mi veniva per niente l’allegria”34. E, ancora

28 Intervista a Carlo Andrea Dell’Amico. 29 Rappresenta un’eccezione nel gruppo degli intervistati Carlo Andrea Dell’Amico che ricorda con rimpianto: “Il 5 maggio arrivarono i carri armati, però lo stesso ci venne data la libertà di fare un po’ di giustizia: io stesso ho inseguito uno dei Kapò e gli ho sparato, gli ho sparato con una pistola automatica da 16 caricatori. Tenga presente che io pesavo alla liberazione, quando sono stato nell’ospedale americano di Linz mi hanno pesato ero 35 kg, quella pistola lì pesava quasi più di me era una pistol-machine. Gli sparai alle gambe, gli arrivai addosso, vidi le decorazioni naziste che aveva addosso e gli sparai in testa! E dopo tornai nel blocco. Questo eravamo diventati!” 30 Intervista a Erneto Vuch. 31 Intervista a Tullio Neri. 32 Intervista a Sergio Lugli. 33 Intervista a Ettore Malpighi. 34 Intervista a Ernesto Vuch.

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peggio, si scopre l’incredulità degli altri per la propria esperienza, un’incredulità che crea un effetto di distanza molto difficile da colmare anche dopo tanti anni. “Mah noi abbiamo visto delle robe che sembrano impossibili e invece sono proprio capitate! Cioè quelli che erano là come c’ero io le hanno viste e vissute anche loro quelle robe lì perché invece delle volte quando si discute, si parla con qualcuno di queste cose qui ti dicono: — Mah, mah! Non è mica vero! — oppure ti dicono che siamo stati degli... come degli stupidi perché, secondo loro, saremmo dovuti scappare”35 .

La disattenzione delle istituzioni repubblicane nel dopoguerra nei confronti dei deportati e rastrellati è uno degli aspetti più dolorosi per i nostri protagonisti. Il paese vuole dimenticare le sofferenze e in questo senso la loro esperienza ha aspetti di similitudine con quella dei soldati internati in Germania e nei territori occupati.36 Il prigioniero difficilmente riesce ad essere al centro dell’attenzione, è il figlio di una guerra perduta che si vuole rimuovere; l’unico mito positivo diviene così il partigiano combattente, e la resistenza compiuta da questi uomini nel cuore del sistema nazista viene per lunghi anni dimenticata: “non è che la nostra sofferenza, la nostra odissea ci abbia portato a dei grandi… ha capito? Perché sì anche quando si raccontavano le cose che avevamo subito non ci credevano mica! Perché erano cose proprio al di fuori della realtà […]. Sì, stavano ad ascoltare poi la guerra era finita, avevano bisogno di divertirsi, di ritornare alla vita e quindi non avevano più i problemi di sentire uno che era stato in prigionia per tanto tempo”37 .

Così, come notano bene Bravo e Jalla, l’indisponibilità della società italiana del dopoguerra a fare propria la loro esperienza è vissuta come una bruciante ingiustizia, aggravata dalla passività delle istituzioni e dal mondo della politica che, da parte governativa, relativizza l’intera esperienza resistenziale oppure, nelle opposizioni di sinistra, punta esclusivamente sul partigiano combattente come figura emblematica di un “antifascismo vincente”. Dovranno passare decenni per attendere un rinnovato interesse della storiografia e dell’opinione pubblica anche sulla deportazione di civili in Germania e per ampliare l’orizzonte di una resistenza al

35 Intervista a Alberto Mario Vescovini, deportato a Dachau perché ritenuto un partigiano. 36 Vedi in questo volume G. Procacci, Gli internati militari italiani. Le testimonianze degli Imi della provincia di Modena, pp. 15-42. 37 Intervista a Romolo Tintorri.

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fascismo e al nazismo finalmente popolato di tutti i suoi protagonisti.

Infine, le tre testimonianze di membri della comunità ebraica rappresentano un contributo utile per seguire le vicende degli ebrei modenesi — 550 al censimento del 1938 — durante la seconda guerra mondiale e sulle strategie messe in atto per sfuggire alle persecuzioni nazifasciste. Klaus Voigt descrive nel dettaglio anche la sorte degli ebrei italiani non modenesi presenti sul territorio provinciale e dei profughi ebrei stranieri,38 ma ciò che è bene mettere in evidenza è come della comunità modenese solo due persone furono arrestate e deportate dalla provincia di Modena. Ciò conferma il forte radicamento della comunità in città e la scarsa adesione dei modenesi all’ideologia razzista, resa ancor più palese dall’atteggiamento non certo rigido adottato anche dalle autorità.39

Afferma Silvana Formiggini che “noi ci siamo sempre sentiti molto italiani”, “eravamo molto mischiati alla città”, tanto che si ricorda il caso dell’arresto di un membro della comunità, Guido Melli, che rifiuta di nascondersi nella convinzione che non potesse accadere nulla: “Me. Io, modenese, nessuno mi farà niente. E invece un giorno, lui antifascista da sempre, conosciuto, era andato a farsi tagliare i capelli, usciva dal barbiere, l’hanno preso e poi l’hanno mandato ad Auschwitz e poi da Auschwitz non è più tornato”40. Conferma Vittorio Sacerdoti: “anche proprio la comunità ebraica di Modena era ben integrata nella città. Perbacco se era ben inserita… si, sì, sì ma ci volevano tutti bene anzi molti si sono salvati perché lo devono a dei modenesi perché molti li hanno aiutati se no non si salvavano mica eh!”41

Ricorda Luisa Modena che “Il fatto di essere stati avvertiti: una cosa assolutamente unica si è verificata a Modena, quindi le autorità o qualcuno delle autorità che comunque aveva conoscenza dei fatti e che comunque poteva disporre; quindi a Modena non è stato deportato nessuno, tutti sono potuti tranquillamente fuggire, salvo il Melli che non ha voluto […] non c’è stato nessun atto

38 K. Voigt, Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese, in questo volume, pp. 488505. 39 Inoltre uno dei martiri del fascismo modenese era proprio un ebreo, Duilio Sinigaglia: vedi Claudio Silingardi, Una provincia partigiana, cit., p. 150 e in questo volume C. Silingardi, M. Storchi, La Resistenza a Modena e a Reggio Emilia, p. 477. 40 Intervista a Silvana Formiggini. 41 Intervista a Vittorio Sacerdoti.

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di violenza né verbale, né materiale dalle autorità”42. In effetti, gli avvertimenti di persone influenti all’interno della Questura di Modena è decisivo per permettere agli ebrei modenesi di organizzarsi per la fuga, ma anche per avere notizie sul futuro che poteva aspettarli, in modo che chi non è più in tempo per espatriare può rifugiarsi in montagna o, talvolta, unirsi ai partigiani: “quando abbiamo pensato di scappare, non si riusciva più ad andare in Svizzera, perché ti prendevano di sicuro e allora abbiamo deciso di andare in montagna perché ormai era chiaro che se ci avessero preso ci avrebbero deportati, poi ci siamo convinti di più che era meglio morire con un’arma in mano che rimanere proprio presi così come stupidi, e allora siamo andati in mezzo ai partigiani, ecco!”43

Lo stretto legame con la città, la rete capillare di aiuti in tutta la provincia da parte della popolazione e del clero permettono agli ebrei modenesi di salvarsi — molti fuggendo in Svizzera — in un intreccio di storie che completa e rende esemplare, proprio perché risulta così non un’eccezione, la vicenda dei ragazzi di Villa Emma, un gruppo di oltre cento ragazzi profughi ebrei nascosti dalla popolazione a Nonantola e successivamente riparati in Svizzera.44 Sono testimonianze che possono così contribuire, oltre che alla ricostruzione diretta delle vicende della comunità ebraica, a fornire ulteriori elementi anche sulle ragioni del progressivo e ampio distacco che la società italiana — e modenese in questo caso — dal regime fascista in particolare dopo l’emanazione delle leggi razziali del 1938.

Sono questi tutti temi che vengono ripresi negli interventi alle giornate di studio dell’ottobre 1999 e qui pubblicati. Brunello Mantelli dopo avere puntualizzato le diverse tipologie di deportazione, evidenzia il ruolo importante ricoperto dal sistema concentrazionario fascista nella deportazione, ricostruisce poi le vicende dell’emigrazione dei lavoratori italiani in Germania tra il 1938 e il 1943 e del lavoro coatto nell’ultimo biennio di guerra. Bruno Vasari, ex deportato, ricorda le attività culturali e scientifiche dell’ANED

42 Intervista a Luisa Modena. 43 Intervista a Vittorio Sacerdoti. 44 Sui ragazzi di Villa Emma vedi I. Vaccari, Villa Emma. Un episodio agli albori della Resistenza modenese nel quadro delle persecuzioni razziali, Modena 1969; Comune di Nonantola, Villa Emma. I luoghi e le persone. Un episodio della Resistenza che cinquant’anni dopo va alle radici della solidarietà, Nonantola 1993 e il bel romanzo di G. Pederiali, I ragazzi di Villa Emma, Milano 1989.

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piemontese e la produzione bibliografica frutto della collaborazione con gli Istituti storici della Resistenza piemontesi, l’Università di Torino e gli enti locali. Alberto Cavaglion sposta l’attenzione sul problema della memoria e della rimozione della deportazione e della Shoah sostenendo che il periodo immediatamente successivo al termine del conflitto non sia un momento di silenzio, come spesso si afferma, ma al contrario un periodo caratterizzato da un discussione attenta i cui protagonisti — Bonaiuti, Croce, Jemolo, Lattes — si dividono, suscitando stimolanti interrogativi, sui nessi tra persecuzione, diversità, assimilazione con una franchezza che — sottolinea Cavaglion — probabilmente non si riscontra negli anni a seguire. I lavori di Klaus Voigt e di Giovanna Caroli, rispettivamente sulla deportazione e il salvataggio degli ebrei in provincia di Modena e sulla deportazione di civili dalla montagna reggiana, sono ricostruzioni analitiche di una realtà territoriale, come quella dell’Emilia centrale, investita pesantemente per venti mesi dall’occupazione nazista e dove la lotta armata del movimento resistenziale si avvale di un forte sostegno della popolazione come si evince dall’intervento di Claudio Silingardi e Massimo Storchi. Infine, gli interventi di Brunetto Salvarani, Simone Duranti e Letizia Ferri Caselli sul campo di Fossoli sottolineano l’importanza della ricerca sui luoghi più significativi per la memoria e l’identità di un territorio e rappresentano solo una tappa del lavoro scientifico più ampio intrapreso dalla Fondazione ex campo Fossoli impegnata in una ricostruzione complessiva delle vicende legate al campo.

DEPORTATI E RASTRELLATI QUINDICI INTERVISTE

a cura di Lorenzo Bertucelli

GIORGIO ANGELANTONIO - 1924

Faccio fatica a raccontarlo, faccio fatica a parlarne perché devo riandare con la memoria a tutto quel periodo e ripercorrere tutti quei famigerati trattamenti, quei brutali maltrattamenti a cui sono stato sottoposto dai tedeschi e che adesso sono finiti, se si può dire che siano finiti, cioè i segni visibili sono scomparsi adesso almeno esteriormente, ma in me sono presenti dentro e tirarli fuori adesso mi fa molto male. Questa è la prima intervista che faccio. Ma le devo dire subito che il peggiore maltrattamento ci venne fatto dagli italiani. Sa che noi siamo completamente dimenticati? [...] Questo è molto doloroso, non ha aiutato a risollevarci, anzi. [...] Io ero al 63° reggimento di fanteria a Vercelli, l’8 settembre la caserma venne circondata dai carri armati, noi avevamo solo dei fucili. Mi chiamò il comandante di battaglione che mi disse: “Giorgio che facciamo? Scappiamo?”, e io gli dico: “Scappiamo? E come facciamo a scappare. Se la caserma è circondata dai carri armati tedeschi!”, e lui disse: “C’è una possibilità, se tu sei d’accordo”, e io: “Ma certo che sono d’accordo”. [...] Ci siamo rifugiati nella chiesa e lì ci hanno aiutato. Io ero riuscito a mettermi già in borghese perché avevo i vestiti borghesi, ma non avevo le scarpe da civile. [...] Pensai di mettermi in viaggio insieme agli altri che andavano a Milano, perché loro erano milanesi e mi dissero: “Vieni con noi Giorgio, vieni con noi”, e difatti quando arrivammo a Milano e dissero che non dovevo andare a Bologna, ma poiché appariva tutto tranquillo dissi: “Io voglio continuare il viaggio”. [...] Senonché, quando arrivai a Modena, incominciarono le mie disgrazie. A Modena fecero fermare, si fermò un treno adesso non ricordo, ma salirono dei tedeschi armati sul... e io avevo i capelli tagliati da poco e quindi mi guardarono attentamente, poi mi guardarono le scarpe e mi dissero: “Ah! Militare! Militare!”, mi ordinarono di scendere e una bella signora così sui... poteva avere sui cinquant’anni, proprio bella, l’esempio tipico emiliano, le venne una lacrima, aprì la borsa e volle che per forza prendessi dei soldi, a forza me li volle dare e mi disse: “Li prenda, li prenda. Ho anch’io i figli sotto le armi”. Io li presi e poi una guardia mi prese in consegna e mi portò dov’erano già radunati degli altri militari che avevano subito la stessa fine. Proprio sotto la pensilina del treno, non molto lontano dal caffè, tanto è vero che 2 donne giovanissime che

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25-26 anni, 24 più di tanto non potevano avere a guardarle, si vede che parlavano tedesco e parlavano con la sentinella, con la guardia che stava lì a sorvegliarci e si vede che io dovevo essere molto impallidito perché queste ragazze convinsero la guardia a portarmi al bar per prendere qualche cosa... e io guardavo in faccia la sentinella, io guardavo alle donne, e vidi che stavano facendo tutto il possibile così per rendersi simpatiche, ecco diremo così, con il soldato e capii che si adoperavano per... e difatti fu così, a un certo momento gli dissi di voler scappare e dissi: “Ma la sentinella?”, “La sentinella è d’accordo, scappa”, e mi fecero uscire per la porta, e io stavo per raggiungere la parte opposta dove, ai miei tempi, c’era un negozio. [...] Stavo proprio per raggiungere il porticato, proprio in quel punto, quella guardia tedesca, quel soldato tedesco mi punta il fucile e prima lanciò un grido terribile e poi mi puntò il fucile e io mi volsi a guardare: “Ma che succede?”, e vidi che ce l’aveva proprio con me che dovevo fare? Scappare? Ma quello aveva il fucile puntato e io ero a cinque metri. [...] Lì fummo rinchiusi c’erano già tanti altri soldati italiani rinchiusi, prigionieri, e così stetti lì circa, 20 giorni, anche da lì tentai di fuggire. [...] Fummo gli ultimi a tentare la fuga perché dopo le fogne furono completamente bloccate. I primi erano riusciti a scappare, ma poi non ce la fece più nessuno. Era l’inizio di ottobre. Così all’improvviso prima ci venne richiesto nei giorni che precedettero quello della partenza, ripetutamente vennero a chiederci di collaborare e ci furono anche quelli che accettarono, anche se per la verità non mi sembrarono molti comunque, ma la massa non accettò. Una mattina tutti quanti quelli che eravamo lì ci misero nelle tradotte e ci avviarono verso il Brennero. A noi non ci dicevano dove, ma avevamo il sospetto che... quando arrivammo a Verona e poi quando arrivammo proprio al Brennero lì non avemmo più dubbi. Eravamo ammassati dentro alla tradotta, eravamo... le sentinelle stavano nelle loro garitte, i vagoni erano piombati quindi. [...] Fu piombato a Modena e fu aperto solo quando arrivammo a destinazione. Non andammo molto lontano perché andammo, mi sembra, a Mosbach. [...] La gente qui a Modena fu molto generosa, in modo particolare i contadini che venivano con i carri con l’uva e roba di ogni genere, qualcuno poi riuscì anche a fuggire infilandosi dentro i carri quando questi, dopo aver scaricato, uscivano dal cortile della caserma e qualcuno è riuscito anche a fuggire. E così una mattina già freddo ci trovammo a Mosbach, ma non c’era niente di pronto per noi; le baracche: avevano preparato solo il terreno con dei pagliericci da stare così all’aperto, dovevano ancora costruirle le baracche. E così noi eravamo all’aperto. E a ottobre era già freddo. Era abbastanza freddo però noi lì eravamo, diciamo così, equipaggiati ancora discretamente perché ci lasciarono portare tutta la roba che avevamo. Noi non conoscevamo l’inganno perché non è che ce la facessero portare per farci stare meglio, ma ce la fecero portare e poi dissero: “Voi ce la consegnerete”. Quando ci immatricolarono infatti dovemmo consegnare tutto quello che avevamo portato e ci lasciarono solo quello che loro vollero lasciarci. Ben poca cosa. Già lì c’era una fame terribile nel campo, era un campo centrale, c’erano prigionieri di ogni genere, ma noi eravamo isolati cioè i prigionieri qua erano isolati gli uni dagli altri per nazionalità. L. BERTUCELLI (a cura di)

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