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La deportazione nei Lager nazisti. Riflessioni sulla testimonianza, di Bruno Vasari
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vostro impegno relativo alla creazione in ogni comune di un archivio degli ex deportati locali, e nel rilascio di una documentazione alle famiglie degli ex deportati. Le nostre ricerche devono mirare alla documentazione più completa. Ringrazio i membri dell’ANED per questa importante iniziativa”.
Nella conclusione del convegno Il dovere di testimoniare il prof. Nicola Tranfaglia sostiene “il dovere di fondo degli storici: quello di andare avanti non solo nella raccolta delle testimonianze, ma soprattutto nel senso di utilizzare vecchie e nuove fonti per una ricerca storica più completa ed attendibile sul nazismo e sull’universo concentrazionario”.
La raccolta delle Storie di vita ha dato un risultato che non esito a definire splendido. Le interviste, in numero di 217, occupano circa 10.000 pagine e hanno una durata di circa cento ore di registrazione.
Non essendo possibile una pubblicazione integrale, si è ricorsi ad una antologia (438 pagine) dal titolo La vita offesa, a cura di Anna Bravo e Daniele Jalla (Franco Angeli / Storia 1986).
La critica è stata entusiasta e così gli studiosi. Guido Quazza mi scrisse: “Resterà, resterà”. Da una mia nota su “Nuova Antologia” dell’aprile-giugno 1992: “L’aggettivo ‘straordinario’ si trova in tre recensioni di diversi giornali: Lietta Tornabuoni su ‘La Stampa’ di Torino, Marco Revelli su ‘Il Manifesto’ e su ‘L’Unità’ Enzo Collotti. Norberto Bobbio così si è espresso su ‘L’Indice’: ‘Con tutti i libri che abbiamo letto sull’argomento credevamo di sapere tutto, di avere capito tutto, di non avere bisogno di sapere e capire altro. E invece ogniqualvolta ci riaffacciamo ci accorgiamo che c’è ancora qualcosa che non sappiamo e non abbiamo capito e forse non riusciremo mai a sapere e a capire”.
Dall’antologia è stato ricavato un testo più ridotto, rappresentato al Teatro Carignano di Torino con la regia di Ronconi. Una replica con la regia di Avogadro è stata registrata dalla RAI in una video cassetta. Le Storie di vita sono depositate in un Archivio presso l’Istituto di storia della Resistenza di Torino e vengono frequentemente consultate da studenti e ricercatori.
Scritti di memoria
Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993 formano un Archivio, anch’esso oggetto di frequenti consultazio-
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ni, presso l’Istituto Gramsci di Torino. La bibliografia a cura di Anna Bravo e di Daniele Jalla è contenuta in un volume di 544 pagine dal titolo Una misura onesta (Franco Angeli / Storia, 1994). La bibliografia ha inteso, secondo i curatori, “raccogliere e rendere disponibili per la ricerca tutti gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia stesi dal 1944 ai giorni nostri. Non solo le monografie e le antologie specifiche, ma anche i contributi presenti in raccolte dedicate ai temi affini e in una cinquantina di riviste storiche e di periodici dell’antifascismo e della resistenza, e infine gli inediti che è stato possibile reperire. Si tratta nel primo caso di 146 titoli, nel secondo di 488 spogli, nel terzo di 37 dattiloscritti e manoscritti: nell’insieme una mole di informazioni e suggestioni cui si deve gran parte delle conoscenze sulla deportazione”.
È nostro massimo desiderio completare la raccolta degli scritti di memoria con quelli numerosi e anche molto significativi comparsi dopo il ‘93.
Nella Testimonianza corale, nelle Storie di vita e negli Scritti di memoria sono presenti testimonianze di donne e di uomini. Per svolgere un’impresa come la nostra rivolta alla testimonianza, era necessario studiare attentamente l’opera di Primo Levi, il più grande dei testimoni. A Primo abbiamo dedicato due libri: Primo Levi. Il Presente del Passato. Atti delle giornate internazionali di studio (Franco Angeli / Storia, 1993) e Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, a cura di Alberto Cavaglion (Franco Angeli, 1997), e ora stiamo organizzando un convegno con la supervisione del prof. Marziano Guglielminetti, dai cui atti trarremo un terzo libro sul tema Al di qua del bene e del male: ricerca della visione del mondo di Primo Levi.
I nostri sono degli approfondimenti critici lontani dalla retorica e alieni da intenti meramente celebrativi.
Abbiamo studiato particolarmente, come risulta in sintesi dalla nostra introduzione al libro Primo Levi per l’ANED, l’ANED per Primo Levi, l’impulso a testimoniare, la memoria, il complesso del sopravvissuto, le cause della sopravvivenza, i caratteri e l’impatto della testimonianza.
Le conclusioni di Primo sulla sopravvivenza e sull’impatto della testimonianza sono state da noi raccolte nei due specchietti che seguono:
Sopravvivenza; le cause della sopravvivenza ne I sommersi e i salvati: — la fortuna e la forza di sopravvivere
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— coloro che in prigionia hanno fruito di qualche privilegio — i prigionieri privilegiati, minoranza entro la popolazione del Lager, forte maggioranza tra i sopravvissuti — salvati dalla fortuna… buona salute iniziale — opera del caso, di un accumularsi di circostanze fortunate — prevaricazione, abilità e fortuna.
Testimonianza; in Primo Levi la testimonianza ha diverse sfaccettature, diversi aspetti, fini differenziati: — obbligo morale e civile — bisogno primario liberatorio — promozione sociale — occasione unica e memorabile — fattore di sopravvivenza — ogni testimone è tenuto (anche per legge) a rispondere in modo completo e veritiero — ammonizione religiosa (in senso laico) — un atto di guerra contro il fascismo — taglio giuridico — atto di accusa — diritto dovere — assolvere un debito nei confronti dei miei compagni morti e nel medesimo tempo soddisfare un mio bisogno.
Veniamo ora alla attività culturale dell’ANED torinese nel complesso, a partire dall’inizio degli anni ‘80 al ‘99. Costituzione di: 2 archivi, 17 pubblicazioni di cui 7 atti di convegni, 3 atti di tavole rotonde, 7 volumi di studi, 3 Quaderni del Triangolo rosso; atti del convegno del 4 aprile ‘98 in preparazione.
Come è stata possibile una simile mole di lavoro e risultati così significativi?
Enzo Collotti nella prefazione agli atti del convegno Storia vissuta (1986), così si esprime: “…la collaborazione tra l’ANED, il Dipartimento di storia dell’Università di Torino e il Consiglio regionale piemontese si pone con un carattere di esemplarità che non trova ancora riscontro in alcun’altra parte d’Italia”.
Lo sviluppo del nostro lavoro ha comportato l’impiego di personalità già affermate, ma anche di giovani, agli inizi, oggi brillantemente maturati.
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Il nostro compito personale è stato organizzativo: predisporre le infrastrutture e curare la logistica.
Un eccezionale riconoscimento, che si aggiunge a quelli già citati di altri autori, per la raccolta della testimonianza, la mole, la tenacia, la qualità del nostro lavoro viene da Anna Rossi Doria ed è contenuto nel libro Memoria e storia: il caso della deportazione (Rubbettino Editore, 1998).
Dice Anna Rossi Doria: “…la sezione torinese dell’ANED, presentando nel 1983 il suo primo convegno internazionale, Il dovere di testimoniare, dichiara per bocca di Bruno Vasari, anche lui exdeportato, autore di uno dei primi libri di memorie su Mauthausen e infaticabile animatore di tutte le iniziative di ricerca storica promosse dall’associazione, che quest’ultima si prefigge un compito anzitutto scientifico, esulando da ogni proposito commemorativo”. E al congresso nazionale di Prato dell’ANED del 1990, lo stesso Vasari espone “il programma dei prossimi anni che coinvolgerà tutte le Sezioni in un’appassionata collaborazione e concentrazione per dare al paese la storia della Deportazione politica italiana che ancora manca”.
Esprimiamo la nostra più viva riconoscenza ad Anna Rossi Doria con il rammarico che la tirannia del tempo non ci consenta più estese citazioni del contenuto del libro, in tutte le sue parti del massimo interesse.
Veniamo ai complessi, alle preoccupazioni, alle timidezze del testimone consapevole di compiere un delicato lavoro.
Vediamo: — il dolore di dover richiamare alla memoria un dolore sofferto e in certi limiti di patirlo una seconda volta: “Infandum regina jubes renovare dolorem”; — l’angoscia del sopravvissuto di comparire al cospetto dei familiari dei caduti. Un episodio narrato da Erodoto — citato nel mio
A ciascuno il suo — poteva far pensare che il senso di colpa avesse lontana origine nel timore di una reazione violenta dei familiari alla delusione per il mancato ritorno del congiunto, quasi che il sopravvissuto fosse per loro la causa, con la sua presenza, del rinnovarsi di un insopportabile dolore. L’unico superstite della spedizione di Atene contro Egina, raccontava Erodoto, così aveva trovato la morte: “Raggiunta Atene, egli annunciò il disastro e a questa notizia le donne dei combattenti inviati contro
Egina, indignate che egli soltanto si fosse salvato, lo circonda-
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rono e lo straziarono con i fermagli delle loro vesti, chiedendogli dove si trovavano i loro mariti”. Mi è caro riportare a questo proposito il finale della poesia Il superstite:
“Indietro, via di qui, gente sommersa, Andate. Non ho soppiantato nessuno, Non ho usurpato il pane di nessuno, Nessuno è morto in vece mia. Nessuno. Ritornate alla vostra nebbia. Non è mia colpa se vivo e respiro E mangio e bevo e dormo e vesto panni”. Primo Levi - 4 febbraio 1984
— il timore che l’uditore o gli uditori abbiano l’impressione che il testimone si atteggi ad eroe; — il pudore di rappresentare se stesso in atteggiamenti o in momenti delicati e riservati (esempi Lausekontroll o rasatura integrale…); — il disappunto di trovare un uditorio impreparato e disattento.
Gli approfondimenti psicologici di Massimo Martini e Ilda Verri
Melo (vedi bibliografia) si soffermano particolarmente su questi stati d’animo del testimone. Ma non c’è soltanto la confessione di Enea, ma anche quella di Andromaca. Incominciamo da Edith Bruck nel suo libro Signora Auschwitz, in cui racconta come difficoltà, fatica, tensione del testimone, disattenzione dell’uditore, possono causare un disagio fisico e influire negativamente sulla salute.
La condizione delle donne nel Lager è così sensibilizzata da Anna Bravo nell’introduzione agli atti del convegno La Deportazione femminile.
Dalle sue parole possiamo dedurre le specifiche femminili della testimonianza: “Certo è una tortura della femminilità. Essere prigioniere vuol dire dover esporre in pubblico, a sguardi di aguzzini, corpi abituati dal costume di cinquant’anni fa a un pudore rigoroso; vedere quelli di altre, magari anziane, e restarne turbate; non potersi più riconoscere nella propria immagine fisica. Vuol dire vivere con bambini destinati a sparire, con compagne che arrivano incinte in Lager e si affannano per nutrire un figlio che verrà ucciso appena nato; scoprire nelle donne, anche in se stesse, una distruttività che non si sarebbe mai immaginata; subire, spinta all’estremo, una vita promiscua di cui non si ha alcuna espe-
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rienza, neppure quella che agli uomini viene dall’aver fatto il servizio militare e la guerra. Le protagoniste hanno scritto e parlato di questi e di molti altri aspetti della loro vicenda. Hanno ricostruito le diverse fasi della politica concentrazionaria, l’organizzazione e il funzionamento dei campi — quelli dell’est e quelli tedeschi —, la condizione delle deportate ebree e di quelle politiche. Hanno raccontato dei rapporti in Lager, smentendo con coraggio lo stereotipo per cui le donne sarebbero naturalmente estranee alla violenza. Ma hanno testimoniato anche dei tanti casi in cui quei rapporti hanno aiutato a non morire”.
Una particolare citazione merita l’Archivio di testimonianze soltanto femminili raccolte con il metodo del questionario, spesso arricchite da aggiunte spontanee delle intervistate, a cura dell’ANED di Milano, di cui è stata data notizia al convegno La deportazione femminile nei Lager nazisti, 20-21 ottobre 1994, da Miuccia Gigante, segretaria generale dell’ANED.
Le storie di cinque donne deportate residenti a Firenze sono raccolte nell’antologia della Deportazione toscana — La speranza tradita, 1992 — lavoro coordinato dal compianto prof. Andrea Devoto con la collaborazione di Ilda Verri Melo, che ne ha dato notizia al convegno sopra citato.
Sempre in tema di memorialistica femminile, ci è caro ricordare i libri di Maria Massariello Arata Il ponte dei corvi, di Giuliana Tedeschi C’è un punto della terra… e le testimonianze di Lidia Rolfi e di Anna Cherchi.
La testimonianza, come si deduce dagli scritti di Primo Levi, consiste nella rigorosa esposizione della cose viste individualmente, a fini di documentazione nonché a fini, direi, religiosi, anche in senso laico, di esorcizzare il pericolo che il danno si ripeta.
Certo gli avversi avvenimenti recenti in corso in Somalia, Bosnia, Serbia, Cecenia, Timor, vaste zone dell’Africa nera: Congo, Ruanda, Nigeria, Liberia, non sono incoraggianti, ma tuttavia attenuare la testimonianza sarebbe tradire il giuramento di Buchenwald.
L’annientamento del nazismo nelle sue radici è il nostro impegno. L’edificazione di un mondo nuovo, di pace e di libertà è il nostro scopo.
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Coltivo tuttavia la utopistica speranza che la sempre più estesa conoscenza e riprovazione dei crimini contro l’umanità possa avere nel tempo un effetto positivo di ripulsa.
Parlare della testimonianza è come avventurarsi in un oceano. Sempre nei limiti di una rigorosa comunicazione è inevitabile traspaia la personalità del testimone, nelle risposte alle domande e nella scelta degli argomenti. C’è chi si sofferma sugli aspetti più crudeli e terrificanti del Lager, chi invece ama ricordare civilissimi rapporti interpersonali, contenuti negli scambi intellettuali nelle pause che precedono il sonno: vari aspetti della Resistenza interna al Lager, che implica un eccezionale coraggio.
Sullo sfondo della promozione della testimonianza c’è l’ammonizione biblica: “Scrivi questo su un libro come un ricordo” (Esodo 17), ma anche l’incitamento del grido echeggiato durante la guerra di Spagna: “Raccontatelo ai vostri figli”.
Infine con emozione vi porto due testimonianze in senso evangelico, di due giustiziati: uno ad Auschwitz (da Primo Levi) che sul patibolo grida Kameraden Ich bin der lezte (Compagni sono l’ultimo), e di un altro di Gusen che sul patibolo grida Dobre notzca kamerad! (Compagni buona notte) (da Perché ricordare, di Quinto Osano), note di sublime eroismo nell’orrore del Lager.
Bibliografia
AA.VV., Un mondo fuori dal mondo. Indagine DOXA fra i reduci dai campi nazisti, presentazione di P. Caleffi, Firenze 1972. AA.VV., Il dovere di testimoniare perché non vada perduta la memoria dei campi di annientamento della criminale dottrina nazista, Torino 1983. AA.VV., Storia vissuta. Dal dovere di testimoniare alle testimonianze orali nell’insegnamento della storia della seconda guerra mondiale, Milano 1986 (con una prefazione di E. Collotti). A. Bravo, D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria dalla deportazione all’Italia 1944-1993, Milano 1994. A. Bravo, D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986. E. Bruck, Signora Auschwitz. Il dono della parola, Venezia 1999. A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi per l’ANED. L’ANED per Primo Levi, Milano 1997. A. Cavaglion (a cura di), Primo Levi. Il Presente del passato, Milano 1993.
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P. Levi, Se questo è un uomo, Torino 1983. P. Levi, Ad ora incerta, Milano 1984 (seconda edizione 1988). M. Martini, Il trauma della deportazione. Ricerca psicologica sui sopravvissuti italiani ai campi di concentramento nazisti, Milano 1983. M. Massariello Arata, Il ponte dei corvi. Diario di una deportata a Ravensbrück,
Milano 1995. L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti, Milano 1995. Q. Osano, Perché ricordare. Ricordi e pensieri di un ex deportato, Alessandria 1992. A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998. G. Tedeschi, C’è un punto della terra… Una donna nel Lager di Birkenau, Torino 1989. I. Verri Melo, La sindrome del sopravvissuto. Le conseguenze dell’internamento nei campi di concentramento nazisti, Firenze 1991. B. Vasari, “A ciascuno il suo”. Ricordo di Luigi Cosattini deportato, Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione, Trieste 1997. B. Vasari, La vita offesa: storia e memoria dei Lager nazisti, “Nuova Antologia”, n. 2182, Aprile-Giugno 1992, Firenze 1992.
NÉ MORTI… NÉ VIVI… DOPO CEFALONIA E CORFÙ. LA DIASPORA DEI SOPRAVVISSUTI DELLA “ACQUI” TRA PARTIGIANI, LAGER, BTL E GULAG (1943-1947)
di Claudio Sommaruga
Introduzione
Questa ricerca si fonda, come altre dell’autore, a numeri inevitabilmente approssimati ma orientativi, tuttavia adeguati a ricostruzioni storiche obiettive, non a spanne o emozioni. In assenza di dati esaurienti ed affidabili, si è fatto ricorso a stime ragionate, riscontri incrociati e mediati, somme e differenze, tarati sui pochi dati-base, iniziali, intermedi e finali più attendibili. Alla fine i conti devono quadrare, ma le cifre non sono che ordini di grandezza.
Il barbaro massacro della “Acqui”, perpetrato nel settembre del ‘43 dalla Wehrmacht (senza SS!) a Cefalonia e Corfù per ordine del Fuhrer, denunciato in Italia fin dal luglio del ‘44 dal cappellano padre Formato, moderatamente riecheggiato al processo di Norimberga, è stato ricostruito tardi da poche testimonianze, molte rimozioni e nel disinteresse di un popolo che voleva dimenticare una guerra. Eppure a Cefalonia e Corfù, come a Lero, era stata scritta la prima pagina della Resistenza, ma sottovalutata dai media e ignorata nelle scuole, non diversamente della “resistenza senz’armi” dei “600.000 volontari dei lager” e diversamente di altre risonanze come l’Armir, i campi di sterminio, l’epopea partigiana, le Ardeatine… Ma meno noti sono la diaspora e il calvario dei sopravvissuti della “Acqui” frazionati, dopo il massacro, tra collaboratori d’autorità del Reich e della RSI (pochi volenti, molti nolenti!), i veri prigionieri (KGF, “resistenti”) e gli internati (IMI, che hanno ceduto le armi), poi scampati a naufragi, mitragliamenti e decimazioni, quindi sfruttati nei battaglioni-lavoratori (BAU-BTL) dei fronti balcanico (senza retrovie!) e orientale, oppure datisi “alla macchia” o evasi dai lager e BTL e finiti, anche in ruoli alterni, come prigionieri o combattenti dei partigiani greci e
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slavi (monarchici e titini, contrapposti), per finire coi molti KGF già sfruttati dalla Wehrmacht e catturati dall’Armata rossa e che subirono una immeritata seconda prigionia (con ritardato rimpatrio) nei gulag di Bielorussia, Ukraina, Russia e Siberia. Quella del “dopo Cefalonia” è una storia paradossale e agghiacciante, lacunosa e ignorata, intricata e confusa… L’accesso, dopo la “caduta del muro di Berlino”, agli archivi di Mosca dell’ex-NKVD (poi KGB), ci fa scoprire e immaginare le insospettate peripezie di 12.250 prigionieri (KGF) dei tedeschi, ricatturati dai sovietici e schedati in cirillico, con pressapochismo fonetico dei cognomi (ed ora di ritrascrizione e riscontro in italiano) ma con molti dati anagrafici e militari, luoghi e date di cattura e di eventuale decesso che, sia pure incompleti, permettono di ricostruire pagine ignorate della storia. Sommando i rimpatriati (11.080, cfr. Min. difesa 1984/95) ai deceduti (1.136, dagli elenchi russi, cfr. Vicentini/UNIRR, 1999) e considerando i reparti, si ottengono i catturati dai russi (12.250) e molti dati parziali. Nel caso della “Acqui”, partendo da 188 (probabili) deceduti (145 certi) si possono presumere, per estrapolazione proporzionata, 2.050 catturati (con nessun ufficiale) in accordo con altri dati e dei quali 1.700 sul fronte orientale (1100 ex-Cefalonia e 600 ex-Corfù) e 330 sul fronte balcanico (tutti ex-Corfù). Detratti 200 deceduti, ne rimpatrieranno più o meno 1850. Con la stessa procedura si scoprono, tra l’altro, forse 850 “combattenti” e “ausiliari” del Reich e RSI, rimpatriati confusi negli 11.000 ex-IMI/KGF e i quasi 10.000 superstiti dell’Armir. Gli elenchi russi comprenderebbero in tutto 45.000 nomi di prigionieri (superstiti e deceduti) dell’Armir e degli ex-prigionieri dei tedeschi: sono in corso le laboriose trascrizioni e riscontri nei nostri archivi militari e anagrafici, condotte con encomiabile abnegazione dall’UNIRR (Un. naz. reduci dalla Russia) ed in particolare dal vice presidente Carlo Vicentini. Per gli ex-prigionieri dei tedeschi deceduti, i dati sono in corso di interpretazione anche da parte dello scrivente. Questa documentazione consente, per esempio, di chiarire che i 5.365 IMI, dati per dispersi dalla Wehrmacht nel luglio 1944 (molti della “Acqui”) e considerati probabilmente morti1 si erano invece salvati, catturati dall’Armata rossa, tranne forse 200 caduti per cause belliche.
1 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), Roma 1992 (seconda edizione 1998); G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, Munchen 1990; C. Sommaruga, Dati
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La resistenza nelle Ionie
Le forze contrapposte — I dati sono molto vaghi per la perdita dei diari dei reparti. I presìdi italiani delle Ionie contavano, al 13 settembre 1943, circa 25.000 uomini dei quali forse 16.600 della 33a Div. di Fanteria di Montagna “Acqui” (con unità aggregate): 11.560 a Cefalonia (con 525 uff.), circa 4.500 a Corfù (con 160 uff.) e poche centinaia nelle isole minori (forse 3-400 a Zante e 71 a Itaca).
Le altre divisioni contavano 8-9.000 uomini. Zante ne aveva 4.250, per lo più non della “Acqui” e si arrese la mattina del 9 settembre:2 dai conteggi sembra che 300 prigionieri siano rimasti nell’isola mentre 3.950 prigionieri vennero trasferiti sul continente (1.700 direttamente al Pireo e 2.250 imbarcati a Cefalonia). Dagli archivi di Salò3 risulterebbero 200 combattenti e 543 ausiliari (probabilmente prigionieri di Zante e S. Maura). Il presidio di S. Maura (Leuca), si arrese il 10 settembre e doveva contare oltre 1.000 uomini, non della “Acqui” (un gruppo di artiglieria, due battaglioni di fanteria e unità di servizi).
Ad accrescere lo scoordinamento delle unità italiane, dal 15 agosto la “Div. Acqui” era stata spezzata tra il XXVI° C.d.A. (Cefalonia e S. Maura) e l’VIII° C.d.A. (Corfù).
Dal 12 settembre, erano affluiti a Corfù, dall’Albania e nel vano tentativo di raggiungere l’Italia, almeno 3.500 militari (non della “Acqui”), con 120 ufficiali, le sole armi individuali, poche munizioni e la voglia del “tutti a casa!”: queste truppe non vennero coinvolte nella battaglia di Corfù, tanto che i tedeschi li considerarono, dopo la resa (25 settembre) e per loro fortuna, come disertori del nemico, ebbero salva la vita e vennero internati, come IMI, nei lager dei Balcani e dell’Europa Orientale, assieme ai catturati di Zante e S. Maura.
L’ordine di Hitler era di “non far prigionieri” nella battaglia delle Ionie, perché “traditori”. Tuttavia, alla fine, vennero graziati a Cefalonia, tra i “resistenti”, i collaboratori d’autorità (CC.NN.,
quantitativi sull’ internamento in Germania, Bergamo 1999 (sono gli Atti del convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1997). 2 Cfr. G. Rochat-M. Venturi (a cura di), La Divisione Acqui a Cefalonia. Settembre 1943, Milano 1993. 3 F. Duca (a cura di), Rapporto segreto sulle Forze Armate della Rsi (al 31 dic. 1944), “Storia del XX° Secolo”, ago. 1997, giu./set./dic. 1998; SME, Uff. Operazioni e Servizi, Sez. Situazione, fasc. 2,3,4, copia 9, genn. 1945: “Relazione complessiva della situazione della forza dell’esercito nazionale repubblicano e sue variazioni dal settembre 1943 al 31 dicembre 1944”.
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sud-tirolesi, friulani, istriani, dalmati e sloveni) inquadrati come “combattenti” e “ausiliari” della RSI al servizio dei tedeschi. Coi 400 muli, preda bellica, vennero graziati e trasferiti subito sul continente i loro conducenti; vennero graziati anche molti artiglieri e genieri inquadrati in battaglioni-lavoratori (BAU-BTL) a Cefalonia, Zante e nel continente, con lo status eccezionale di KGF (prigionieri di guerra senza tutela né facoltà di optare, perché “badogliani” e inaffidabili) al diretto servizio della Wehrmacht. Ma gli IMI e tanto più i KGF, testimoni dei soprusi, non dovevano aver contatti con la popolazione né con gli altri IMI. Inoltre, i testimoni diretti delle fucilazioni e delle sepolture vennero a loro volta fucilati. Tuttavia, i 132 ufficiali “graziati” di Corfù, dopo i 28 trucidati, finirono negli oflag IMI della Polonia, dove ci riferirono dell’epopea della “Acqui”: pertanto nessun ufficiale finì nei lager sovietici.
All’8 settembre le forze tedesche contavano appena 2.000 uomini, con 25 ufficiali,4 rinforzati a più di 3.000 al 15 settembre.
Le perdite — Italiane: oltre ai caduti sul campo, in rappresaglia o nei trasporti (oltre 10.100, menzionati) e alle armi pesanti e leggere: 2 cacciatorpediniere e 5 aerei (dei quali 4 della CRI).
Tedesche: 18 aerei, 17 natanti, 1.500 militari (di cui a Corfù: 200 caduti e 441 prigionieri5) trasferiti in Italia su pescherecci greci e che saranno gli unici prigionieri tedeschi, della guerra di liberazione, in mano a Badoglio.
Altri prigionieri tedeschi furono liberati a Cefalonia, alla resa degli italiani.
Nell’autunno del ’44, dei 1.076 soldati tedeschi in ritirata da Cefalonia sembra ne siano giunti a Linz solo 87, per i continui attacchi dei partigiani.6 Si ignora se con loro vi fossero anche “combattenti” della RSI.
I caduti sul campo — Dal 9 settembre si cercò di prender tempo, in mancanza di istruzioni e aiuti, cercando un compromesso onorevole e dopo aver respinto gli ultimatum tedeschi di consegnare le armi. Fu anche indetto un referendum nella truppa (il primo
4 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit.; G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, cit. 5 Cfr. C. Sommaruga, in E. Zampetti, La resistenza a Corfù (9-26 settembre 1943), Roma 1995. 6 Cfr. O. G. Perosa, Cefalonia 1943 e dintorni: Archivio COREMITE (Comm. Resistenza Militare Italiana all’Estero dopo l’8 sett.43), 3/202, 1986.
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della democrazia italiana!). Il 13 settembre iniziò la resistenza di Corfù, mentre a Cefalonia, per iniziativa di alcuni ufficiali (I. Caporali, R. Apollonio, A. Pampaloni e altri), il 13 mattina vennero affondate due motozattere tedesche, con un nutrito fuoco di artiglieria e morti e feriti da entrambe le parti: furono i prodromi della battaglia di Cefalonia (15-22 settembre) che seguiva quella di Corfù, iniziata prima e conclusa dopo (13-25 settembre). Fu una resistenza spontanea e disperata, affrontata con dignità e senza mezzi e scorte, con ordini ambigui e tardivi dall’Italia, senza piani, aiuti e rifornimenti italiani e alleati, in attuazione dell’ambiguo proclama di Badoglio, in uno status delicato di guerra non dichiarata: per i tedeschi, i resistenti italiani non erano che dei “franchi tiratori” (da “giustiziare” secondo le leggi di guerra tedesche) e non invece dei combattenti in divisa di un esercito legalitario nemico. Nelle battaglie delle Ionie cadranno in combattimento, o “giustiziati” alla cattura, 1.940 nostri militari: 1.315 (65 ufficiali) a Cefalonia e 603 a Corfù e poche decine nelle altre isole.
La rappresaglia tedesca — Dei 14.500 superstiti delle battaglie, 5.200 prigionieri catturati dai tedeschi (5.170, di cui 420 uff., a Cefalonia e 28 uff. a Corfù) vennero barbaramente trucidati fino al 27 settembre, in ottemperanza all’ordine personale di Hitler di “non far prigionieri”. Alla fine, i caduti della sola ”Acqui” furono 7.130 (al 27 settembre), privati di sepoltura regolare, arsi o infoibati o sepolti in fosse comuni o sotto frane o “zavorrati” in mare (soprattutto gli ufficiali, e senza piastrina); a questi vanno sommati i circa 2.966 affogati in naufragio o mitragliati o decimati (100) nei trasporti marittimi. Molte spoglie spiaggiarono e vennero pietosamente sepolte dalla pietà greca. Alle rimostranze di un cappellano, che invocava la sepoltura dei fucilati, un maggiore tedesco osservò: “dopotutto non sono che degli italiani!”.
I “graziati” — Dopo il bagno di sangue, vennero “graziati” i superstiti: 9.400 della “Acqui” (e gli 8.500 delle altre divisioni catturate) e qualificati dai tedeschi, per loro fortuna di sopravvivenza, come disertori arresi senza combattere: in realtà non poterono combattere, specie i 3.500 affluiti a Corfù dall’Albania al 12 settembre, perché male armati, senza munizioni o non coinvolti nelle linee di fuoco. Tranne un paio di centinaia dei citati “collaboratori d’autorità”, i prigionieri vennero inquadrati in battaglioni di lavoratori militarizzati (BAU-BTL, ARB-BTL) di IMI (internati senza tutele, con facoltà di “optare”) o di KGF (prigionieri di guerra, pu-
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re senza tutele né facoltà di “optare”, perché “inaffidabili”) a seconda del loro comportamento resistente, passivo o attivo. Comunque furono tutti inquadrati a disposizione delle forze armate tedesche, a Cefalonia o nei Balcani e, in un secondo tempo, sul fronte orientale a scavare trincee o ripristinare linee ferroviarie, affiancati a una minoranza di ausiliari volontari della RSI.
Differenziati dagli IMI, i KGF italiani in mano al Reich, sembra siano stati 21.000: 3.000 impiegati al fronte occ., 6.000 al fr. balcanico (con 2.200 ex-partigiani catturati senza armi e considerati disertori) e 12.000 transitati al fronte or. e per metà catturati dai russi.
A Cefalonia saranno trattenuti 900 prigionieri e collaboratori inquadrati in BTL del genio, per manovalanza e manutenzione dell’artiglieria costiera e come sanitari negli ospedali da campo.
Dalle poche testimonianze disponibili, sembra che lo sfruttamento dei prigionieri trattenuti a Cefalonia fosse pesante, ma non inumano come nei lager del Reich. I casi di morte sono limitati a malattia, postumi di ferite o incidenti.
Dopo il massacro
I rimasti nelle isole: collaboratori “obbligati”, prigionieri e partigiani — Gli “optanti” volontari, dopo il massacro, furono certamente pochi: gli altri furono costretti con minacce o di autorità perché oriundi dei due nuovi Governatorati orientali germanici dei territori italiani nord-orientali (sud-tirolesi, friulani, istriani, dalmati e sloveni), nonché i presunti “fascisti” (ex-MVSN, CC.NN, ma qualcuno esibì, a prova, la tessera, col fascio, del dopolavoro!), poi sanitari e cappellani, considerati in missione umanitaria.
Degli ufficiali di Cefalonia, tutti condannati a morte, vennero graziati in extremis solo “i 37 della ‘casa rossa’, per intervento di padre Formato e dopo una firma di impegno moralmente non valida perché estorta dopo due giorni davanti a tre plotoni di esecuzione e cataste di cadaveri: i firmatari vennero trasferiti in Germania, a Munsingen, in addestramento nella divisione “Monterosa” della RSI e quindi rimpatriati, a metà del ’44, in Italia dove una metà disertò e tutti, per anni, rimossero la memoria e cucirono la bocca anche coi commilitoni, complessati dall’aver dovuto “aderire” sia pure in stato di necessità. A Corfù vennero graziati 132 ufficiali della “Acqui”, “non optanti” e poi internati in Polonia (con
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C. SOMMARUGA
gli ufficiali della resistenza nell’Egeo (Lero, Rodi, ecc.) negli Oflag degli IMI e che ci informarono della resistenza delle isole, rafforzando quella nostra, morale!
Dagli archivi della RSI7 figuravano nelle Ionie, al servizio delle forze armate germaniche, 4 battaglioni della RSI per complessivi 3.000 uomini (2.000 “combattenti” + 1.000 “ausiliari”) senza precisazione di provenienza: in realtà le Ionie erano state abbandonate dal settembre 1944 e la citata registrazione poteva risentire di ritardi burocratici. In particolare sono menzionati, tra i “volontari” e “reparti vari”, 632 artiglieri, genieri e sanitari a Cefalonia, 48 sanitari a Corfù e 756 artiglieri e mitraglieri a Zante. Questa “forza” sembra fornita per lo più da “graziati” della ”Acqui”, volontari, obbligati e soprattutto da prigionieri (KGF), ma considerati, forse per propaganda, combattenti e ausiliari dalla RSI. In realtà i prigionieri (e forse anche dei collaboratori d’autorità) svolsero un doppio gioco clandestino di sabotaggi, d’intesa coi partigiani greci e dei “Banditi Acqui”. Questo raggruppamento comprendeva oltre 100 uomini sfuggiti alla cattura (con 10 uff.), diversi evasi e vari nuclei clandestini tra i prigionieri: li coordinava il cap. Renzo Apollonio, già condannato a morte dai tedeschi (per avere anticipata la resistenza di Cefalonia, fin dal 13 settembre, affondando due motozattere tedesche), poi graziato e coordinatore di due compagnie ausiliarie di artiglieri addetti a manovalanza e manutenzione. Ma Apollonio era anche il fondatore dei “Banditi Acqui”. I prigionieri alloggiavano nei campi di Argostoli (carceri e caserma), Chelmata, Pessades, Capo Munta, Fiscardo, Minies, ecc. Il raggruppamento partigiano “Banditi Acqui”, così battezzato dai tedeschi, operò a Cefalonia e sul continente, coi partigiani greci dell’ELAS, dell’EDES e la Missione segreta inglese in contatto col Comando alleato del Cairo: col doppio gioco dei KGF in mano tedesca, i “Banditi Acqui” compirono sabotaggi e presero parte alla liberazione di Cefalonia: il 17 settembre vi issarono il tricolore e il 14 novembre 1944 sbarcarono a Taranto in 1.286 superstiti come “Div. Partigiana ‘Acqui’“ e, caso unico, con armi e bandiera.
Il trasporto dei prigionieri sul continente e il loro sfruttamento tra lager e partigiani — 8.300 prigionieri della “Acqui”, vennero fortunosamente trasportati sul continente, in ottobre e novembre, in acque minate e con navi e natanti anche di fortuna. Ne perirono quasi
7 Cfr. F. Duca (a cura di), Rapporto segreto sulle Forze Armate della Rsi, cit.
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3.000, affogati in mare o per chiusura dei boccaporti o mitragliati: 1.264 da Cefalonia (navi “Ardena” e “Marguerita”), 1.302 da Corfù (nave “Rosselli”), altri probabili 200 con la nave “Alma”, un centinaio su natanti di fortuna e un altro centinaio decimati allo sbarco.8
I 5.300 sbarcati (della “Acqui”), vennero sfruttati come manovali, ferrovieri, genieri, mulattieri e minatori, al fronte senza retrovie greco-balcanico, per il 45% come IMI nei lager greci di Agrinion, Patrasso, Atene e Salonicco e per il 55% in quelli serbi di Bor, Zaiciar, Kracovaz, ecc., e nei BAU-BTL itineranti di KGFlavoratori. Si può presumere ne siano deceduti almeno 400 (il 7,5%) per fame, malattie, violenze e postumi di ferite.
Dalla detenzione tedesca evasero in diversi, finendo come prigionieri-lavoratori o come combattenti (o in successioni alterne) in questa o quella fazione di partigiani balcanici in competizione anche tra loro (“ustascia” fascisti, “cetnici” nazionalisti e monarchici, “titini” comunisti, ecc.) ed anche tra i partigiani greci vi erano i “nazionalisti” (Edes) e i “comunisti” (Elas). Se catturati dai tedeschi, i partigiani armati venivano giustiziati come “banditi”, mentre i disarmati, considerati disertori, venivano inquadrati KGF (in tutto 2.200); poi qualcuno rievadeva. Si può presumere che gli evasi della “Acqui” siano stati oltre un centinaio.
È emblematica, fra tutte, la testimonianza del fante Remigio Albenga, del 17° F. “Acqui”9, che rievoca l’eroica resistenza della “Acqui” a Cefalonia, la resa, la cattura, il naufragio di mille prigionieri nel trasporto sul continente, la sua fuga e l’arruolamento nei partigiani greci; poi, nuovamente catturato senz’armi dai tedeschi e graziato come “disertore partigiano”, rifiuta la collaborazione armata e civile e viene deportato nei BTL di KGF a Linz, Budapest, Bucarest e Skopje. Segue una nuova fuga romanzesca, prima “alla macchia”, poi imprigionato dai partigiani e infine partigiano lui stesso per otto mesi, prendendo parte a duri combattimenti e ricoprendo incarichi di fiducia. Finalmente il rimpatrio.
Di queste numerose e tutte diverse peripezie individuali, mancando i documenti, si hanno solo rare e casuali testimonianze e per lo più inedite: i reduci non parlano e tanto meno confessano
8 Cfr. G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit.; G. Schreiber, Italienischen Militarinternierten im Deutschen Machtbereich 1943 bis 1945, cit.; ma esistono anche altre fonti. 9 Testimonianza di R. Albenga, in C. Sommaruga, Uno dei tanti. Diario di un superstite di Cefalonia, inedito, in Arch. IMI.
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eventuali comportamenti fraintendibili se non si conoscano le circostanze, lo stato di necessità e la debolezza di uomini soli e tanto provati.
I prigionieri in Polonia e nelle retrovie del fronte orientale — Nella primavera del ’44, una parte dei KGF venne trasferita dal fronte balcanico alle retrovie del fronte orientale in ritirata. Molti furono catturati dall’Armata rossa: almeno 5.650 IMI/KGF (distinzione spesso indefinita) furono catturati sul fronte orientale, a Vilno, Minsk ma anche a Lida, Glukol, Veleika, Tolocino, Grodno e altre località, durante le battaglie dall’aprile all’agosto del ’44. In questo periodo, dalle statistiche Wehrmacht sono registrati, nel solo luglio 1944, 28 decessi, 45 evasioni e 5.365 IMI (forse KGF) dispersi in azioni belliche, forse deceduti10. Ma, dagli archivi russi risultano quasi tutti catturati, “in rieducazione” oppure al lavoro coatto, per es. nelle piantagioni di cotone della Siberia o in lager-ospedali; ma separati in genere dai prigionieri della “guerra fascista” dell’Armir, come la consideravano i russi.
Fra i “superstiti… dei superstiti… dei superstiti…” almeno 2.050 prigionieri risulterebbero della “Acqui” (con nessun ufficiale): 1.700 catturati sul Fronte Orientale (1.115 ex-Cefalonia e 575 ex-Corfù) e 330 nei Balcani (tutti da Corfù); 188 si calcolano i deceduti (145 accertati dagli elenchi) per malattie o postumi di ferite.
Nella battaglia di Minsk (luglio 1944), 152 IMI/KGF delle Ionie e dell’Egeo (58 della “Acqui”, dei quali 40 ex-Cefalonia e 18 exCorfù), guidati dal serg. mag. Franco Trusso Zima, superstite di Cefalonia, evasero dal lager tedesco 240 di Borisov, raggiunsero i russi dai quali ottennero di farsi armare (dati i loro precedenti di Cefalonia, Corfù, Lero e Rodi), collaborarono nella vigilanza dei prigionieri tedeschi e chiesero di combattere. Non sembra confermata11 una loro partecipazione alla battaglia di Berlino, come alcuni vorrebbero, addirittura “con armi e bandiera”, fino a 60 km da Berlino, leggenda che potrebbe nascere da confusione col rimpatrio da Cefalonia dei “Banditi Acqui” con “armi e bandiera”.
Per contro, i prigionieri non coinvolti in atti di resistenza antitedesca ed in particolare quelli non della “Acqui”, considerati disertori di Badoglio, vennero internati (IMI) in lager dei Balcani
10 Cfr G. Schreiber, I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich (1943-1945), cit..; C. Sommaruga, Dati quantitativi sull’ internamento in Germania, cit.. 11 Cfr. Ministero della Difesa-COREMITE (Comm. Resistenza Militari Italiani all’Estero dopo l’8 sett. 1943), La resistenza dei militari italiani all’estero, v. II, Grecia continentale e isole dello Jonio, Roma 1995.
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(molti come minatori a Bor) e poi in parte trasferiti in Polonia. Quando li liberarono, i russi li consegnarono agli anglo-americani che li rimpatriarono nell’autunno del ’45. In definitiva gli IMI della “Acqui” furono i 132 ufficiali graziati di Corfù (che ritrovai negli oflag di Deblin, Oberlangen, straflager di Colonia, Wietzendorf, a cui vanno aggiunti Sandbostel e Fallingbostel); 3.200 soldati e sottufficiali (ridottisi a fine guerra a 2.800, considerando un 7,5% di decessi) e non contando gli 8.000 IMI delle Ionie non appartenenti alla “Acqui” (i 3.500 affluiti a Corfù e gli altri di Zante e S. Maura).
La “seconda prigionia” dei KGF dei tedeschi, catturati dai russi — Nel 1946 (e qualcuno l’anno dopo), con i quasi 10.000 superstiti dell’Armir, rimpatriarono dalla Russia (dato ufficiale) 11.080 dei 12.220 italiani, già prigionieri dei tedeschi (KGF) o loro collaboratori (forse 850) catturati dall’Armata rossa nel 1944, sui fronti orientale e balcanico ed avviati come “ausiliari”-Wehrmacht (anche se i più non lo erano) nei lager e lazzaretti della Bielorussia, Ukraina, Russia e Siberia.
L’accesso, oggi possibile, agli archivi segreti di Mosca (allora NKVD, poi KGB) consente di far luce su questa paradossale e poco nota seconda prigionia che coinvolge quasi 2.000 sopravvissuti della “Acqui”. Si tratta di elenchi redatti in cirillico, con lacune, ripetizioni e approssimazioni fonetiche, che l’UNIRR (Ass. Naz. It. Reduci Russia) ha trascritto in italiano e sta pazientemente vagliando, riscontrando i cognomi (inevitabilmente distorti) con quelli degli archivi anagrafici e militari italiani12, grazie alla abnegazione del vice presidente Carlo Vicentini che ha trasmesso l’elenco degli ex-prigionieri dei tedeschi deceduti, per una loro analisi. Oltre che all’UNIRR, gli elenchi dei dispersi in Russia (exArmir + ex-KGF dei tedeschi) sono esistenti presso Onorcaduti (Min. difesa, Roma) e presso il “Museo permanente del combattente” di Palazzolo Milanese (Mi) con 20.000 nomi.
L’elenco dei KGF deceduti in Russia comprende, spesso incompleti ma variamente sfasati, i dati anagrafici, militari, di cattura e di decesso di 1.136 nominativi (637 con dati completi), tutti di uomini di truppa e di nessun ufficiale; 1.052 con la divisione e/o il reparto, 94 campi e date di decesso (48 campi più 46 ospe-
12 Cfr. C. Vicentini-UNIRR, I prigionieri italiani in Urss negli archivi russi, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 51, Istituto Bergamasco per la Storia della Resistenza e dell’età contemporanea, Bergamo 1999 (sono gli atti del convegno “Internati, prigionieri e reduci”, Bergamo, 16-17 ott. 1998).
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dali, sui 189 — 117 campi più 72 ospedali — che hanno, anche in tempi diversi, ospitato anche prigionieri dell’Armir)). Sono precisati inoltre 585 luoghi e date di cattura, di cui 266 sul fronte orientale (lug-ago ’44), 247 nei Balcani (ott. 44), 32 rastrellati nei territori orientali, 40 “combattenti” e “ausiliari” Wehrmacht/RSI (molti dalla Romania) e perfino un partigiano titino.
Per inciso, tutti i KGF in mano tedesca, ma non sempre amministrativamente distinti dagli IMI, sono dell’ordine di 21.000 così distribuiti: 3.000 al fronte occidentale, 6.000 a quello balcanico (con 2.200 ex-partigiani catturati senza armi) e 12.000 transitati al fronte orientale. Tutti quelli catturati dai sovietici risulterebbero 12.220, somma dei rimpatriati (11.080) e dei deceduti (1.136) compresi 840 (calcolati) combattenti e ausiliari del Reich/RSI. I rimpatriati vennero inizialmente confusi, nelle statistiche, coi 10.000 superstiti dell’Armir.
Nella casistica delle doppie prigionie, è clamoroso il caso decennale del ten. Enzo Boletti del V° Alpini, catturato dai tedeschi in Balcania, internato (IMI) a Deblin, evaso il 13.3.44 dalla tradotta per Oberlangen, combattente coi partigiani polacchi, “eroe della Resistenza” polacca e tenente colonnello dell’esercito polacco, arrestato nell’aprile 1945 dai sovietici, sospettato di essere “al servizio della borghesia occidentale, spia e agente provocatore anticomunista”. Tenuto in isolamento per un anno e mezzo alla Lubianka, poi relegato ai lavori forzati nel gulag di Vorkuta (Siberia, oltre il circolo polare), venne infine rimpatriato, tra gli ultimi prigionieri, il 26 novembre 1954. Dopo il suo rientro, il Boletti fu per 17 anni sindaco di Castiglione delle Stiviere e fondatore, in quella città, del Museo internazionale della Croce rossa; ma non ha mai voluto scrivere la sua drammatica decennale esperienza, per altro registrata agli amici.
Militari e lavoratori “ausiliari” della Wehrmacht e della Rsi catturati dai sovietici — I tecnici minerari dell’AGIP, fino al 1942, si erano fatte le ossa nei campi petroliferi della Romania, allora i più importanti d’Europa dopo quelli del Caucaso (URSS). Dal 1940 al settembre 1944 i campi romeni, in particolare quello di Ploesti, passarono sotto il diretto controllo tedesco.
Dagli elenchi dei militari italiani ex-prigionieri (KGF) o “ausiliari” dei tedeschi, ma poi deceduti nei lager sovietici, ne figurano 23 catturati a Ploesti tra il 26 agosto e il 3 settembre 1944. In particolare uno della Wehrmacht, tre delle CC.NN./MVSN, quindici
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“ausiliari” dei BTG-LAV. della RSI e sei possibili IMI/KGF, a presidio delle strutture petrolifere o rastrellati.
Fuori Romania risultano altri 2 italiani della Wehrmacht deceduti, uno catturato al fronte orientale (Beresina, 3.7.44) e uno a fine guerra, in Cecoslovacchia (9.5.45). Altri 15 uomini della RSI risultano catturati al fronte orientale, Ungheria, Jugoslavia e in località imprecisate.
In totale sono 40 accertati i “collaboratori” del Reich/RSI deceduti. Considerando un rapporto deceduti/catturati del 9,3% ed estrapolando i dati anche ai senza reparto, si possono stimare 830 possibili “collaboratori” catturati (quasi 600 a Ploesti) e rimpatriati confusi coi KGF.
Il dopoguerra
I reduci e la memoria della “Acqui” — Tra il ’44 e il ‘46 rimpatriarono, dalla Germania, dalle Ionie, dai Balcani, dall’Europa orientale e dalla Siberia, arrotondando le cifre, 6.000 superstiti, dei 16.500 militari della “Acqui” essendone deceduti 10.500 in combattimento o come prigionieri massacrati per rappresaglia, o affogati nei trasporti marittimi o deceduti nei lager e nella guerra partigiana balcanica, o nelle retrovie del fronte orientale od infine in una seconda prigionia in Russia o in Siberia.
Indicativamente ne sarebbero rimpatriati almeno 1.850 dalla seconda prigionia nei gulag sovietici, 1.400 ex-partigiani dalle isole ioniche e dai Balcani (“Banditi Acqui”, ecc.), 2.800 ex-IMI dei lager dell’Europa orientale e dei Balcani, non considerando gli 8.000 superstiti di altre divisioni delle Ionie.
Perché “l’Italia sapesse” ed onorasse i “martiri di Cefalonia”, per iniziativa del cappellano padre Formato fu costituita l’Ass. Naz. Div. “Acqui”, proposta già avanzata il 4 luglio 1944, e realizzata nel settembre 1945, dai superstiti e dai familiari dei caduti. L’associazione nel 1984 comprendeva 29 sezioni, su tutto il territorio nazionale e 5.360 soci (reduci e familiari), ormai ridotti a un terzo.
Nel 1948 (22 ott.- 4 nov.), si è potuta svolgere la “Missione militare governativa” a Cefalonia, ritardata per la crisi interna greca. Ma contravvenendo ai divieti tedeschi, fin dal 1943 don Luigi Ghilardini si era dedicato all’individuazione dei caduti e delle sepolture. Accantonata l’idea, nel ‘51, di realizzare un ossario a Cefalo-
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C. SOMMARUGA
nia, fu possibile effettuare nel ‘52 la ricognizione e nel ‘53 la traslazione delle salme nel Sacrario militare di Bari (sistemazione definitiva nel 1967), dove riposano con gli altri caduti d’Oltremare. Ma fu possibile ricuperare solo una parte delle spoglie di Cefalonia: i tedeschi, infatti, negando la sepoltura ai “traditori della Acqui” e per fare sparire le prove, tentarono prima di bruciare le salme (operazione presto sospesa perché visibile dalla popolazione), poi li gettarono in fosse, foibe o sotto frane o li affondarono “zavorrati” (gli ufficiali senza piastrina) in mare, dove finirono pure i 3.000 annegati nei trasporti, solo in parte spiaggiati nelle isole ioniche e quindi sepolti dalla pietà greca. Nella sola località Francata vennero estratte da cinque fosse i resti oramai irriconoscibili di 500 italiani.
Le decorazioni concesse alla memoria o a viventi furono 114: cinque medaglie d’oro alle bandiere del 17°, 18° e 317° Fant., allo stendardo del 33° Art., alla bandiera del 1° Battaglione della Guardia di Finanza e medaglie ai singoli combattenti: 20 d’oro, 53 d’argento, 29 di bronzo, 7 Croci di guerra, tutte al V.M., 4 promozioni M.G. e l’Encomio solenne alla memoria dei caduti ed ai superstiti delle battaglie di Cefalonia e Corfù.
Tra i monumenti ai ”Martiri della Acqui” si ricordano quelli di Cefalonia (a Punta S. Teodoro, Argostoli, del 1953 e 1979), di Acqui Terme (alla “sua” Divisione), quello “Nazionale della Div. Acqui” a Verona (1966) e gli altri in molte città d’Italia: a Parma, Bologna, Bergamo, Brescia, Budrio, Cremona, Milano, Palermo, Pisa, San Remo, ecc. e numerose vie intitolate ai “Martiri di Cefalonia”.
La bibliografia essenziale è riportata in appendice e comprende meno di 50 titoli, omettendo le testimonianze brevi, gli articoli di stampa e le scarse fonti d’archivio statali italiane e tedesche. La memorialistica (molto limitata) e la saggistica iniziarono sommessamente fin dal ’46, con 15 titoli nei primi 35 anni (meno di uno ogni due anni) e si svilupparono tardivamente negli anni ’80 e ‘90 con 35 titoli (quasi due all’anno).
Negli anni ’50, alcuni familiari di vittime di Cefalonia denunciarono, al Tribunale militare territoriale di Roma, il cap. Renzo Apollonio e altri ufficiali, per avere innescata la resistenza italiana e perciò la rappresaglia tedesca, che si sarebbe evitata con la resa e la consegna delle armi. È una tesi che riapre discussioni, riaffiorata ancora di recente,13 come se il dovere di un soldato fosse
13 M. Filippini, La vera storia di Cefalonia, Casteggio 1998.
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quello di consegnarsi con le armi al nemico per salvare la pelle, vanificando il fine stesso di un esercito. Comunque, dopo lunga istruttoria, l’8 dicembre 1957 veniva depositata la sentenza che ricostruiva la battaglia di Cefalonia, che dimostrava che nessun ufficiale fu reo di “rivolta continua, cospirazione, insubordinazione con minacce ai superiori” e riabilitava Apollonio.
In Germania, invece, l’istruttoria avviata dalla Procura generale di Stato di Dortmund, per individuare e processare i responsabili tedeschi dei massacri finì nel nulla, con molta burocrazia, dilazioni e l’archiviazione, nel ’69, dopo aver interrogato solo due testimoni italiani (uno indiretto), due greci e 227 ex-militari tedeschi ovviamente evasivi. Ogni commento è superfluo.
Un commento
Le vicende agghiaccianti degli scampati al massacro della “Acqui”, ricostruite da scarse fonti e aride cifre, si commentano da sole, ma proviamo a immaginare il trauma di chi, sopravvissuto anche sei-otto volte, prima in battaglia, poi non “giustiziato” sul campo e poi al massacro di rappresaglia dei prigionieri, ebbe la fortuna — o la sfortuna? — di non affogare o venire decimato nei trasporti marittimi dalle isole, quindi di sopravvivere nei lager e BTL dei Balcani, alternando magari il lavoro coatto sotto i tedeschi con evasioni e prigionie od arruolamenti in contrapposte fazioni partigiane balcaniche, nazionaliste o comuniste, per poi venire trasferito al fronte orientale dove scampa alla battaglia di Minsk e conclude la lunga e traumatica odissea in un gulag, o peggio un ospedale siberiano e finalmente rimpatria con un anno di ritardo, miracolosamente “non morto”…
Poi, finalmente in patria ammutolisce e si chiede “perché?” nel disinteresse degli altri, stufi di sentir parlare di guerra… Eppure a Cefalonia fu scritta la prima pagina emblematica della Resistenza armata ma che non fa notizia, sottovalutata come quella “senz’armi” dei 600.000 volontari dei lager.
“Se questo è un uomo”, direbbe Primo Levi; ogni altro commento non trova parole; c’è solo da chiedersi se più fortunati siano stati i “martiri di Cefalonia” o i sopravvissuti, “né morti… né vivi…”.
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Appendice (V. Tab. 3)
I militari delle province di Modena e Reggio Emilia già prigionieri dei tedeschi e deceduti in 2a prigionia nei lager russi
Come esempio, si sono stralciati i dati degli archivi russi, dell’NKVD (1944-46), riguardanti i prigionieri di guerra dei tedeschi e deceduti in seconda prigionia nei lager sovietici.
In particolare si sono individuati 36 militari (22 della provincia di Modena e 14 di Reggio Emilia), 12 dei quali della Div. “Acqui” e catturati dall’Armata rossa nella battaglia di Minsk-Vilno e in Galizia (giu.-lug. ’44) e in Serbia (lager di Bor e Kracovaz, ott. ’44), considerati dai russi, anche erroneamente, non come prigionieri dei tedeschi ma “ausiliari” della Wehrmacht, reimprigionati in Ukraina, Russia e Siberia e deceduti, tra l’ottobre del ’44 e l’ottobre del ’45, in 13 gulag di lavoro e ospedali, per malattie e postumi di ferite.
Se vale il rapporto tra deceduti e rimpatriati, si può stimare che circa 400 militari modenesi e reggiani, potrebbero aver subita la doppia prigionia tedesco-russa.
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FIGURE SPETTRALI COME I NUMERI NEGATIVI IL RITORNO DEI DEPORTATI EBREI IN ALCUNE TESTIMONIANZE (1945-1948)
di Alberto Cavaglion
La mia comunicazione non intende analizzare l’atteggiamento assunto da parte di tutta quanta la cultura italiana, ma soltanto alcuni giudizi che nel momento in cui vennero pronunciati furono ritenuti scandalosi sia per l’autorevolezza di chi li pronunciò sia per l’imbarazzo che essi determinarono (o possono ancora determinare). Sul periodo che è oggetto di questa sessione del convegno, ossia gli anni della riconquistata libertà, almeno per ciò che concerne la deportazione razziale gravano le conseguenze di perduranti luoghi comuni, di uno in modo particolare.
Secondo questo diffuso luogo comune gli ultimi anni Quaranta sarebbero gli anni della rimozione, del silenzio. A sostegno di questa tesi viene di solito esibito, quasi ad ammonirci della vanità d’ogni indagine ulteriore, il rifiuto di Einaudi nei confronti di Se questo è un uomo, quasi un emblema, si suole dire, della sordità nei confronti dell’esperienza concentrazionaria.
Non sono convinto che sia così. La mia tesi è che nel periodo 1945-1949 si riservò al problema un’attenzione che poi non si riscontrerà più, per molti anni. Di solito si pensa il contrario, ma non penso sia del tutto vero: in questo mi conforta vedere, nell’ultimo libro di Enzo Traverso, che anche per la Francia si possano esprimere delle perplessità.1
Come ho detto non ritengo l’episodio del no einaudiano a Levi indispensabile per capire l’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana nei confronti dell’ebraismo all’indomani della Shoah. Ritengo anzi questo episodio del tutto marginale rispetto ad altri interventi di cui desidero parlare (penso per esempio al coraggio
1 E. Traverso, L'histoire déchiréé. Essai su Auschwitz et les intellectuels, Paris 1997.
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di chi nel 1947 volle tradurre il libro di David Rousset sull’universo concentrazionario).
Per farmi capire meglio vorrei partire dall’onestà intellettuale di un personaggio oggi dimenticato, un poeta ed un critico, Giacomo Noventa, il quale, poco prima di morire, aveva progettato di scrivere un’introduzione alla Silerchia del Saggiatore dove sarebbe stato inserito Otto ebrei di Giacomo Debenedetti, il testo nel quale, a mio giudizio, meglio si ritrova il clima che si respirava nell’Italia appena liberata. Noventa, ai limiti quasi dell’ingenuità, “si poneva il problema di come gli Ebrei, dopo le persecuzioni, avessero la capacità di ricominciare a vivere”2 .
La capacità di “ricominciare a vivere” rimane il problema centrale nell’immediato dopoguerra: un problema che Noventa espone con un candore che sfiora l’ingenuità, ma rimane “il” problema su cui, bene o male, si è fondata la ricostruzione dell’identità ebraica dopo la Shoah, non solo in Italia. Se lo poneva, a modo suo e con immensa dottrina, un grande filologo come Giorgio Pasquali, il quale, per una faccenda editoriale assai meno sensazionale di quella che vide coinvolto Primo Levi, ebbe anche lui a subire alcuni dinieghi, per un libretto uscito solo pochi anni fa: i Ricordi di giovinezza di un professore tedesco di Marc Lidzbarski. Prima di rassegnarsi Pasquali batté l’uscio di quattro o cinque editori. Invano. Nel 1949 sulla “Rassegna d’Italia” pubblicò allora un lungo saggio che è qualcosa di più di una recensione a Lidzbarski: è una vera e propria rievocazione dell’ebraismo orientale massacrato da Hitler, un appassionante affresco di storia culturale e letteraria scritto una trentina di anni prima che avvenisse, con Magris, la scoperta italiana degli ost-juden. Segno evidente che, volendo, disponendo dei mezzi adeguati, anche nel ‘47-‘49 si poteva analizzare con equanimità l’ebraismo polacco e darne conto, in un articolo, che certo avrà avuto circolazione solo accademica, ma ha un suo spessore umano notevole.3
2 G. Debenedetti, Nota a 16 ottobre 1943 e Otto ebrei, Roma 1977, p. 66. A Noventa, che fu amico di Fortini, dedica pagine assai precise G. Fubini, Viaggio attraverso il pregiudizio, Torino 1996, pp. 72-73 e 82-83. 3 Bene ha fatto Marino Raicich a ristampare il saggio di Pasquali come postfazione ai Ricordi di M. Lidsbarski finalmente usciti nell'88 per i tipi di Passigli (ivi anche un bel saggio introduttivo dello stesso Raicich, con acute osservazioni sul clima del secondo dopoguerra e i reiterati rifiuti che ebbe Pasquali). Il saggio, Autobiografia anonima di un Giudeo polacco, primamente uscito su "La Rassegna d'Italia”, 1949, IV, n. 10, pp. 981-992, fu poi raccolto in G. Pugliese Caratelli (a cura di), Pagine stravaganti, vol. II, Firenze 1968, pp. 397 e ss. Di Pasquali non si dimentichi la
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Vorrei pormi anch’io il problema di Noventa, sia pure lievemente modificandolo — ossia vorrei chiedermi come, e in quali termini, alcuni intellettuali italiani di grande prestigio, dotati di altissima tensione etico-civile, come Cajumi (che fu il primo a recensire sulla “Stampa” l’edizione antonicelliana di Se questo è un uomo) o Pasquali, si siano posti la domanda fatidica sul come gli Ebrei potessero ricominciare a vivere.
Per svolgere questo compito vorrei prendere il discorso alla lontana, citando, quasi ad epigrafe, un passaggio a modo suo “scandaloso” ma al solito lungimirante dell’autobiografia di Leo Valiani, Tutte le strade conducono a Roma: in questi giorni in cui, pressoché nel silenzio generale dei media, Valiani se ne è andato, preparando questa breve comunicazione, l’occhio mi è caduto su una sequenza di quel suo straordinario libro. Si tenga presente che, al momento della prima edizione, eravamo nel 1947: “Dai campi di concentramento sono stati rimossi i forni crematori e i seviziatori, ma son rimasti campi di concentramento per le nazioni vinte e per gli individui indifesi. Metà dell’Europa si è trasformata in una nuova razza ebraica, priva di diritti politici e spesso anche civili, che deve essere contenta, se le si concede il nutrimento”4 . Accanto alla spietata inattualità di un passaggio come questo di Valiani vorrei accostare un passaggio della Storia di Elsa Morante, che è di parecchi anni dopo, sulle storie dei reduci e sulla loro volontà di ricominciare a vivere:
Presto essi [gli ebrei] impararono che nessuno voleva ascoltare i loro racconti: c’era chi se ne distraeva fin dal principio, e chi li interrompeva prontamente con un pretesto, o chi addirittura li scansava, quasi a dirgli: “Fratello, ti compatisco, ma in questo momento ho altro da fare”. Difatti i racconti dei giudii non somigliavano a quelli di capitani di nave, o di Ulisse l’eroe di ritorno alla sua reggia. Erano figure spettrali come i numeri negativi, al di sotto di ogni veduta naturale, e impossibili perfino alla comune simpatia. La gente voleva rimuoverli dalle proprie giornate come dalle famiglie normali si rimuove la presenza dei pazzi o dei morti. E così, avviene alle figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite nere, molte voci accompagnavano le solitarie passeggiatine dei giudii, riecheggiando enormi dentro i loro cervelli in una fuga a spirale, al di sotto della soglia comune dell’udibile.5
precoce presa di posizione contro il razzismo tedesco nel mirabile articolo I purosangue, in Pagine stravaganti, cit., vol. I, pp. 281 e ss. ora riprodotto anche in A. Cavaglion, Gli aratori del vulcano, Milano 1994, pp. 35 ss. 4 Cito dalla prima edizione L. Valiani, Tutte le strade conducono a Roma, Firenze 1947, p. 357. 5 E. Morante, La storia, Torino 1974, pp. 376-377.
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Una descrizione pressoché perfetta, un capolavoro di penetrazione psicologica, sia per ciò che concerne le “figure illeggibili brulicanti nelle loro orbite nere”, sia per ciò che concerne i loro distratti interlocutori. Una situazione storica, quella del ‘45-‘49, oggettivamente “illeggibile”, anzi collocabile “al di sotto della soglia comune dell’udibile”. Illeggibile, inudibile sì, è vero. A meno che non si possedessero le speciali antenne ricettive di un Noventa o di un Pasquali o di Valiani. Non tutti le possedevano però, queste particolari antenne ricettive. Qualcuno, constatata l’illeggibilità, passò oltre. La maggior parte degli intellettuali italiani nel 1945 preferì non voltarsi indietro. Presi dall’euforia della Liberazione, guardarono avanti. Altri, furono pochissimi — ma è di loro che si deve parlare — dimostrarono più coraggio proprio perché ebbero la fermezza di riflettere. Certo, così come si configurava nel ‘45, il problema era un vero rompicapo; per seguire la traccia della Morante, erano mesi in cui gli ebrei e la loro storia dovevano proprio configurarsi come “numeri negativi” per comprendere i quali ci voleva forte coraggio. I più preferirono nascondersi dietro un cordoglio lacrimoso, questo sì molto udibile, molto leggibile (perdura fino ai nostri giorni).
Se si eccettuano le Scorciatoie e raccontini di Umberto Saba,6 il primo esempio di questa capacità, nonostante tutto, di cercare di capire i numeri negativi, di questa capacità di inchinarsi ad ascoltare racconti situati “al di sotto della soglia comune dell’udibile” riguarda l’anziano sacerdote modernista, Ernesto Buonaiuti, caduto vittima delle persecuzioni contro i novatori che all’inizio del secolo avevano osato sfidare le autorità ecclesiastiche.
Buonaiuti pubblica, come è noto, proprio nel 1945, la sua bellissima autobiografia, il Pellegrino di Roma. Ascoltate quello che scriveva a proposito del processo di emancipazione che nell’Ottocento aveva equiparato i diritti della minoranza ebraica ai diritti di tutta quanta la cittadinanza. Un giudizio spietato: “Usciti dalla clausura dei ghetti, ammessi alla libera circolazione della vita nel mondo (gli ebrei emancipati) si erano dati a speculare sui cavalli e sui carri in mezzo a cui vivevano, a cercare
6 Non mi sembra che sia stato rilevato quanto sia importante questo libricino di Saba, uscito in prima edizione nel 1946 da Mondadori (ora Melangolo, 1993), che raccoglieva una serie di brevi testi composti fra il febbraio e il giugno 1945. Il genere della "scorciatoia", o del raccontino, fu la risposta del poeta triestino alla questione dello "scrivere dopo Auschwitz", anzi, come precisava l'autore, "dopo Maydaneck".
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Si può partire di qui, dalla angolatura parziale ma non storicamente infondata con cui Buonaiuti denuncia le anomalie del processo d’integrazione. Partiamo pure da questa citazione, ma avendo l’accortezza di precisare che tale giudizio, per la crudezza con cui venne formulato, spiacque a chi, per ascendenza materna, alla storia dell’emancipazione dai ghetti non era estraneo, vale a dire Arturo Carlo Jemolo. Scrivendo nel ‘64 la prefazione alla seconda edizione del Pellegrino di Roma non stupisce che Jemolo reputasse per lo meno discutibile quel giudizio sulle attività speculative di antenati che erano fra l’altro anche i suoi — e certo anche inopportuno, dato il momento in cui era stato formulato, nel ‘45, alla fine della seconda guerra mondiale, proprio all’indomani dello sterminio nazista.
Vorrei sottolineare adesso, così da disporre sul tavolo tutte le mie carte, una coincidenza che mi sembra importante.
Spietatezza e intempestività, intorno al ‘45, connotavano non soltanto le parole di Buonaiuti, ma erano anche l’assillo del suo antico avversario, Benedetto Croce, il quale, con pari intempestività, e non minore spietatezza, era sul punto di pronunciare contro gli ebrei e i residui primitivi della loro religione parole ancora più dure e crudeli, così alimentando la notissima polemica con Dante Lattes: una polemica destinata a fare epoca e ad aprire nuove ferite, tanto dolorose quanto non del tutto, direi nemmeno oggi rimarginate.
Sulla spietata “inattualità” di Croce molto si è scritto in questi ultimi anni. Sul giudizio di Buonaiuti, escluso Jemolo, se non ho visto male, nessuno si è soffermato con la dovuta attenzione. Spietatezza e inattualità sembrano essere il denominatore comune che avvicina due personaggi fra loro agli antipodi e due episodi che caratterizzano un po’ l’intera epoca di cui discorriamo.
Per chi vive nell’atmosfera ovattata dei nostri giorni, quella spietatezza può meravigliare, non deve però offendere.
Mi chiedo, senza saper offrire una risposta. Non sarà che spietatezza e intempestività fossero le chiavi giuste per decifrare “i numeri negativi” di cui parlava la Morante? Non sarà che senza
7 Cito dalla seconda edizione, quella che reca la prefazione di Jemolo: E. Buonaiuti, Pellegrino di Roma, Bari 1964, pp. XXVII e 5O8 (la prima edizione è del 1945).
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spietatezza fosse impossibile rendere udibile ciò che era sotto la soglia comune dell’udibile?
Intanto bisognerà aggiungere che, sebbene fra loro avversari, Croce e Buonaiuti avevano le carte in regola per fare affermazioni spiacevoli e per certi tratti anche sgradevoli. Escludiamo subito che in quelle parole vi fossero cattive intenzioni o malafede. Croce aveva dalla sua parte tutta una progenie di discepoli ebrei diretti o indiretti che è persino inutile elencare. Dal canto suo Buonaiuti poteva permettersi di scrivere così perché ricordava bene la sua giovinezza, il fascino che il suo insegnamento aveva esercitato su un filone assai poco ortodosso e anticonformista dell’ebraismo italiano; in particolare Buonaiuti non poteva dimenticare la stagione romana dell’immediato dopoguerra — diciamo all’incirca dal ritorno di Giolitti all’avvento di Mussolini o all’assassinio di Matteotti o se preferiamo appoggiarci a due date legate al sionismo, dalla dichiarazione Balfour alla visita di Chaim Weizmann a Roma (1922). A quell’epoca, a Roma, “l’essere sionisti non escludeva necessariamente l’essere buonaiutiani”8. Valgano per tutti gli anni universitari e l’esempio di Enzo Sereni, la sua tesi di laurea nata nell’entourage buonaiutiano, la sua precoce partenza per la Palestina. Di questa storia, ancora in larga parte da scrivere, di un ebraismo “buonaiutiano” non pregiudizialmente ostile al sionismo, facevano parte uomini come Felice Momigliano, Alberto Pincherle, Max Ascoli, Tullio Levi-Civita, Antonello Gerbi (il Don Ferrante della “Giustizia” di Claudio Treves).
Personaggi di questo tipo non si sarebbero risentiti se, sui primi anni Venti, come certamente sarà loro accaduto, quel fiero giudizio sui risvolti speculativi e affaristici dell’emancipazione ebraica lo avessero ascoltato dalla viva voce di Buonaiuti medesimo; non si sarebbe risentito Claudio Treves9 e quanti con lui sulla stampa socialista avevano già a suo tempo contestato, sul finire del secolo scorso, la spregiudicatezza, l’abilità di mercatura, di molti ebrei piemontesi ai tempi della Destra storica e delle leggi sui beni ecclesiastici, origine di tante fortune economiche (basti un solo esempio recente: le memorie di Davide Jona, dove si racconta come fra cavalli, e non pochi idoli menzogneri, fu in sostan-
8 P. Treves, introduzione a A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo. Storia di una polemica: 1750-1900, Milano-Napoli 1983, p. XXXII. 9 A proposito dell'influenza di C. Treves su certo antifascismo ebraico torinese rinvio a A. Cavaglion, introduzione a G. Segre, Piccolo memoriale antifascista, Firenze 1999.
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za costruita la fortuna della famiglia Olivetti, prima della svolta socialisteggiante data all’azienda da Camillo Olivetti)10 .
Non si sarebbero risentiti Claudio Treves, Pincherle, Ascoli, Gerbi, perché l’avversione contro coloro che si erano messi “a cercare negli idoli menzogneri della cultura circostante, protezione e garanzia”, la condividevano, nella sostanza e nella forma. L’avrebbe condivisa lo stesso Jemolo, storico della Restaurazione, ma anche autore, nelle sue memorie, di un commovente affresco di una realtà che non conosceva speculazioni né intrighi economici. Un universo “povero”, quello dei piccoli commercianti di Ceva che vendevano di tutto, stoffe, telerie, cappelli da prete e berretti da ufficiali degli alpini, bottoni, aghi — insomma il piccolo mondo antico descritto nel capitolo “Più vecchie storie” di Anni di prova.11
Forse agiva — in Buonaiuti come del resto agirà in Croce — un eccesso di sdegno, che la tragedia dello sterminio aveva acuito al punto da rendere insopportabile l’eventualità del tacere. Altri intellettuali, più giovani del filosofo napoletano e del pellegrino di Roma, nel quinquennio della ricostruzione e poi ancora a lungo negli anni Cinquanta preferiranno autocollocarsi davanti ad un più comodo bivio: che di volgersi indietro ad osservare quanto era accaduto non se ne parlasse proprio o che ci si inchinasse in un cordoglio meramente celebrativo. Tutto fuorché prendere di petto il problema e affrontarlo senza giri di parole.
Le dimensioni della tragedia, così come si configurarono subito, nella seconda metà del ‘45, erano tali da indurre temperamenti poco inclini all’ipocrisia, come Croce e come Buonaiuti certamente erano, a far passare in second’ordine il timore di offendere qualcuno, di creare “scandalo” fra le vittime della persecuzione. Tacere sembrò ad entrambi una viltà. Opposte, naturalmente, le ragioni culturali che stavano a monte di un simile eccesso, identiche le credenziali che ambedue potevano vantare. Ieri, la spietata inattualità di Croce e di Buonaiuti sdegnò Lattes e Jemolo. Oggi credo ci suoni più famigliare: riusciamo a capirla meglio, consapevoli come dovremmo essere che la franchezza, anche all’indomani di una tragedia, aiuti a risolvere i problemi assai più della convenzionalità.
I termini della polemica con Croce di Dante Lattes ci sono più noti. Non posso riassumerli qui, per intero, altri lo ha già fatto.
10 D. Jona-A. Foa, Noi due, Bologna 1997. 11 A. C. Jemolo, Anni di prova, Vicenza 1969, pp. 58-59.
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Trovo però inaccettabile che s’insinui il sospetto che nelle parole di Croce vi fossero ragioni bassamente accademiche, legate alla restituzione delle cattedre sottratte ai docenti ebrei dopo il ‘38. Già per natura alieno alle consorterie accademiche, Croce s’avviava in quegli anni al tramonto e alla messa al bando delle sue idee e dei suoi libri.
Riporto solo i punti salienti della polemica. In una lettera a Cesare Merzagora, poi uscita come prefazione al volume I pavidi, che è di due anni posteriore alla pubblicazione delle memorie buonaiutiane, e cioè del ‘47, Croce aveva sostenuto che “lo studio degli ebrei dovrebbe essere di fondersi sempre meglio con gli altri italiani, procurando di cancellare quella distinzione e divisione nella quale hanno persistito nei secoli e che, come ha dato occasione e pretesto in passato alle persecuzioni, è da temere che ne dia ancora in avvenire”.
Lattes obiettava subito che tale consiglio Croce lo dava bensì agli ebrei, ma si sarebbe tuttavia ben guardato dal rivolgerlo “a nessun altro nucleo etnico e nazionale, né ai Protestanti od ai Musulmani che vivono in paesi cattolici o cristiani, né ai Cristiani che vivono in Paesi musulmani, né agli Italiani, o agl’Irlandesi d’America e addirittura si sarebbe guardato dal rivolgerlo ai liberali, ai repubblicani, ai comunisti che volessero persistere nella loro politica, dando con ciò occasione o pretesto a governi reazionari e tirannici di perseguitarli”12 .
Bene, io credo che occorra, da parte ebraica, un minimo di autocritica, su un terreno certo più scosceso di quello lungo il quale ci aveva guidati Buonaiuti.
Buonaiuti, in fondo, aveva affrontato un problema remoto: quello delle speculazioni commerciali ed economiche avvenute nel periodo della Destra storica, origine di tante campagne antigiudaiche di fine secolo, di quella della “Civiltà Cattolica” in primo luogo. Croce, invece, con eguale spietatezza, mette il dito su di una ferita più grossa, una ferita che ancora grondava lagrime e sangue.
Le pagine che Gennaro Sasso nel 1989 ha dedicato a questa polemica, nel suo libro sui taccuini di Croce, a me sembrano per
12 Le citazioni della polemica Croce-Lattes sono riprese da F. Pardo, L'ebraismo secondo B. Croce e la filosofia crociana, Firenze 1948, p. 10, dove sono raccolti tutti quanti i testi della discussione. Le pagine di Croce sono rifluite in Scritti e discorsi politici, II, Bari 1963, a p. 325 la citazione riportata qui sopra.
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molti aspetti condivisibili.13 Dico questo, a scanso di equivoci, perché mi sembra che la realtà attuale dell’ebraismo diasporico, e non solo di esso, impongano tale parziale autocritica, la rendano in certa misura improrogabile e quanto mai attuale.
Vi sono delle parti, nell’analisi di Sasso, che andrebbero approfondite, questo va da sé; ci si potrà dolere che sorvoli e troppo sbrigativamente liquidi lo scritto Perché non possiamo non dirci cristiani (è troppo comodo affermare, come fa lui, che questo “non è fra gli scritti più felici” di Croce); si potranno contestare questa o altre affermazioni, ma non si potrà negare che Sasso sia stato fin troppo cortese e garbato quando definisce “una stravaganza avvocatesca”14 gli argomenti addotti da Lattes nella sua replica a Croce; è in effetti è a dir poco una stravaganza il paragonare la questione ebraica a quella dei partiti politici o delle minoranze religiose emigrate all’estero o delle altre confessioni religiose in genere. È una evidente contraddizione. Penso sia inutile oggi, passati cinquant’anni, persistere in una difesa d’ufficio delle tesi di Lattes, una difesa che, se tenacemente perseguita come vedo viene fatto ancora oggi, a me sembra corporativa pur se animata dalle più nobili intenzioni.
Le obiezioni che Lattes muoveva a Croce denotavano innanzitutto una cattiva conoscenza, diciamo pure una pressoché totale non conoscenza di ciò che il filosofo napoletano aveva scritto sui rapporti fra filosofia e religione, una non conoscenza esattamente speculare alla non-conoscenza dimostrata da Croce nei confronti dell’ebraismo: le notazioni crociane sulla cultura e sulla storia degli ebrei in Italia di regola sono inferiori a quanto ci si potrebbe aspettare da lui. In egual misura Lattes scriveva come se non conoscesse affatto la ferma presa di posizione che nel 19O7 Croce aveva formulato contro il modernismo cristiano. Nei confronti dei modernisti, dello stesso Buonaiuti, Croce era stato, dopo la Pascendi, non meno crudele di quanto sarà nel ‘47 contro gli ebrei. Un’intera generazione di novatori cristiani si era sentita offesa più dal rifiuto degli idealisti (di Croce ed anche di Gentile) che dall’enciclica del pontefice.
13 G. Sasso, Per invigilare me stesso. I Taccuini di lavoro di B. Croce, Bologna 1989, pp. 179 ss. 14 Ivi, p. 216.
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Denotavano altresì, le idee di Lattes, una scarsa consapevolezza di ciò che era stato il liberalismo dell’età giolittiana, una scarsissima conoscenza di quelle condizioni di cose che s’erano via via determinate in Italia fra la fine del secolo decimonono e i primi trent’anni del successivo, quando, per il forte contributo dato alla causa nazionale nelle guerre del Risorgimento, anche in Italia la cosiddetta “assimilazione” non aveva avuto affatto i caratteri deteriori che la storiografia attuale sovente le attribuisce.
A quel periodo di un non lontano passato Croce invece si riferiva e il suo nostalgico ritorno a quella felice stagione — di cui la Storia d’Italia (1928) è il documento più alto — determinava in lui il sorgere della “speranza che, superato per sempre il trauma dello sterminio, ebrei e italiani, ebrei e gentili, si riconoscessero di nuovo nel segno dell’unica e comune umanità e civiltà”15 .
Che quel momento, auspicato da Croce, non sia oggi arrivato? Formulo la domanda, senza saper dare la risposta. Ma il problema mi sembra chiaro, sebbene temo che molti fra coloro che mi ascoltano saranno poco disposti ad ammetterlo.
Il problema serio è che la contraddittoria interpretazione delle posizioni crociane data da Lattes, e poi sottoscritta quasi all’unanimità dalla maggioranza degli studiosi dell’ebraismo formatisi in questo secondo dopoguerra, a mio avviso ha generato e continua a generare una forzata e talora errata interpretazione della storia degli ebrei in Italia, una forzatura che si riflette in molti lavori anche molto seri e scrupolosi che sono stati pubblicati da un po’ di anni a questa parte.
Da una siffatta erronea premessa deriva un concetto di diversità, o di differenza, che è tipico della nostra società odierna, ma non ha riscontri nell’età giolittiana e pre-fascista, cioè il periodo cui Croce andava con il pensiero e l’immaginazione.
Attribuendo alla cultura liberale, come di solito si sente ripetere, la colpa di aver fatto pressioni per omologare le peculiarità di “una diversità diversa da ogni altra”, riconoscendo agli ebrei ogni diritto in quanto individui e non in quanto gruppo collettivo — in breve chiedendo agli ebrei di adattarsi alla società circostante e non invece, come sarebbe stato naturale, chiedendo alla società circostante di adattarsi agli ebrei — troppo spesso si fa uso di una categoria, l’”uguaglianza nella diversità”, che è
15 Ivi, p. 187.
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un’aspirazione — una nobilissima aspirazione dei nostri tempi —, un sogno che affonda le sue radici proprio nel trauma del ‘43-‘45 ma è ben lungi dall’essere realizzato e tanto meno trova agganci con il pensiero liberale ottocentesco.
Essere eguali nell’Ottocento e primo Novecento voleva dire essere tutti liberi cittadini all’interno di una nazione, nella quale il territorio aveva una funzione ineludibile. Nella sfera politica lo stato liberale, nel quale Croce fermamente credeva, avrebbe tradito se stesso, la sua stessa essenza, se avesse lasciato sussistere distinzioni, separazioni e non avesse tutti riconosciuti “pari nella libertà”.
In altre parole, per essere più franchi ed espliciti, noi troppo spesso pensiamo che “diversità” e “differenza” siano sinonimi di “separazione”. Diversità non è separatezza. Pensiamo ad un’altra questione dei nostri giorni, nata proprio dalla tragedia dello sterminio, ma inimmaginabile prima. Sempre più spesso, a proposito di questo o quell’altro personaggio — scrittore, uomo politico, poeta, filosofo, vissuto prima delle leggi razziali — viene sollevata la questione della sua “specificità” ebraica. Dove sarebbe la “specificità” ebraica supponiamo di uno Svevo, di un Luzzatti, di un Michelstaedter e via dicendo? La domanda è in sé mal posta ossia è posta con le lenti del nostro tempo, di chi ha subito la ferita della Shoah. Non se la potevano porre, quella domanda, almeno fino al ‘38, ma taluni fino al ‘43, nessuno degli ebrei che gli storici odierni accusano di scarsa consapevolezza ebraica. Non se la ponevano Isacco Artom, Tullo Massarani, Claudio Treves, Leone Ginzburg, Nello Rosselli e così via.
Per i tempi in cui i suddetti personaggi si trovarono a vivere il termine di “specificità” suona di per se stesso anacronistico. Il liberalismo aveva delle regole, l’ebraismo delle altre regole. Ammettere “una diversità diversa dalle altre” significava per il liberalismo rinunciare ad una parte di sé. Era come chiedere all’ebraismo di riconoscere la Torah, ma amputandola di Bereschit. Pochissimi ebrei realmente ortodossi compresero l’impossibilità di un accordo e se ne andarono. A me viene in mente soltanto Gershom Scholem. In Italia avrei moltissime difficoltà a fare dei nomi.
Ora non vi è dubbio — lo scrive assai bene lo stesso Sasso — che a Croce, nel ‘47, quando scriveva quella lettera a Merzagora, “mancò l’animo di guardare fino in fondo nell’abisso, di misurare la profondità del trauma che la coscienza ebraica aveva subìto, di
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coglierne la conseguenza della nuova, potenziale, separazione che, in seguito allo sterminio, si era determinata”16. Su questo non si discute e tanto basta a gettare ombre sulla freddezza di chirurgo, talora inumana, con cui Croce soleva affrontare i problemi, non solo il nostro. Ripeto, però: rispetto alle smancerie accattivanti di tanta editoria che oggi “scopre” l’ebraismo per farne l’oggetto di una moda, ben venga la freddezza del chirurgo. Molte cose essendo cambiate, penso sia venuta l’ora di riconoscere che la colpa di Croce, di Buonaiuti — ossia l’”inattualità” delle loro posizioni — meriti rispetto. Quanto alla tesi profetica, ma altrettanto scandalosa formulata da Valiani sulla “nuova razza ebraica”, priva di diritti politici e civili, “che deve essere contenta se le si concede il nutrimento”, la storia del secondo dopoguerra ha provveduto da sé a renderla più vera, purtroppo.
Viceversa ritengo che la tesi di Lattes sulla differenza intesa come separazione, più “attuale” che mai nel momento in cui veniva formulata, stia diventando ogni giorno di più “inattuale” nel mondo in cui ci troviamo a vivere noi, un mondo caratterizzato da evidenti divisioni, soprattutto all’interno dell’ebraismo, diasporico e non.
E mi chiedo addirittura se non sia più prossimo all’idea di monoteismo, fondamentale per gli ebrei, l’”unità” umana (menschliche Einheit) che Croce non si stancò mai di ripetere, dai primi suoi contributi fino agli agli ultimi, piuttosto che non il ricorrere alla differenza intesa come separatezza: un concetto, la cui origine affonda certo nella Shoah, ma che, a ben vedere, l’ortodossia potrebbe — non a torto — tacciare di dualismo e dunque di politeismo.
La radice profonda dell’”unità” crociana non stava forse molto lontano dall’idea di unità che è alla base della cultura ebraica, da cui discende la cultura greco-cristiana che Croce sembra porre al vertice della civiltà (ed è giusto offendersi se Croce scriveva così, ignorando la radice giudaica di quella civiltà, ma nei decenni passati poche rare voci si erano levate per spiegargli che si stava sbagliando).
Viene insomma da chiedersi se quell’ideale di “unità”, nel quale si erano riconosciuti moltissimi ebrei prima della Grande Guerra (Sasso cita giustamente come modelli le autobiografie di
16 Ivi, p. 196.
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Raymond Aron e di Karl Löwith, in Italia si potrebbero aggiungere le memorie di un Massarani, di un Mortara, di un Ancona) non coincida con la fede monoteista proclamata ogni giorno, nelle preghiere quotidiane, dagli ebrei osservanti. Una unità nella quale tutti si riconoscano “pari” nella libertà.
Sarà il caso di rammentare che queste cose che a taluni potrebbero sembrare estremamente astratte e filosofiche, Croce non si era trattenuto dal ripeterle ad alta voce, nel 1935, davanti alle orribili notizie che giungevano dalla Germania? Forse sarà bene rileggerle insieme: “Superfluo aggiungere”, scriveva dopo aver rilevato quanto fosse stato grande l’apporto degli ebrei alla cultura e alla scienza germanica, “che quegli uomini che servivano al vero e al bello, e che noi ammiravamo, non erano poi né ebrei né tedeschi, e l’opera loro aveva origine non nella loro nazionalità, ma nella loro comune umanità: nella comune umanità, che ora è in essi e per essi, offesa in tutti noi”17 .
17 B. Croce, L'ibrida 'germanicità' della scienza e cultura tedesca, “La critica”, 1935, n. 33, p. 237 (Pagine sparse, III, p. 181).
di Nicola Labanca
Una ricerca di storia locale in corso sul ritorno in patria degli Internati militari ha spinto ad alcune considerazioni storiografiche che speriamo possano essere utili in questa sede.
La ricerca intende indagare le modalità e le conseguenze del ritorno nelle comunità d’origine di quei militari che, partiti per la guerra dalla Toscana, erano stati fatti prigionieri dai tedeschi all’8 settembre 1943 e tornavano a casa a partire dalla primaveraestate del 1945. Altro dato caratteristico di questa ricerca ormai prossima alla conclusione è quello di basarsi principalmente sulla fonte orale.
Ricerche nuove
Da questo punto di vista la ricerca toscana appare parallela all’importante e meritoria raccolta di testimonianze che, più o meno in questi stessi anni, è stata promossa nel modenese da Giovanna Procacci. Per certi versi, si potrebbe affermare che ambedue queste iniziative di ricerca non sono altro che il riflesso e l’applicazione in sede locale (cioè più circostanziata e concreta) del nuovo e recente interesse storiografico verso lo studio storico
* Questo testo riprende alcune considerazioni già svolte in Il ritorno dei prigionieri, l’identità degli internati militari (in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 1999, n. 51) e ne anticipa altre che vedranno la luce nel volume che raccoglierà i risultati e le testimonianze della ricerca su “Il ritorno. La voce degli ex-internati militari”, promossa dalla Federazione fiorentina dell’Associazione nazionale ex-internati e resa possibile da un finanziamento del Comitato per il Cinquantenario della Repubblica e della Costituzione del Consiglio regionale della Toscana: la ricerca è in corso di stampa (Firenze, Giuntina, 2000).
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della prigionia di guerra e in particolare dell’internamento militare, studio fortemente rilanciato dai convegni del 1985 e del 1991 nonché dal poderoso volume di Gerhard Schreiber e di altri ancora.1
La ricerca toscana è ben consapevole dei propri limiti e del proprio limitato scopo. Il piccolo gruppo di ricerca2 non ha infatti teso a ricostruire la complessa vicenda vissuta nei campi di prigionia, ma è stato interessato principalmente dai tempi, dalle modalità, dagli esiti e dalle conseguenze del ritorno in patria. In altri termini, più che al 1943-45 si è stati interessati al post-1945. In ultima analisi, la si potrebbe quasi vedere come una ricerca non tanto attorno alla prigionia nel tempo di guerra quanto attorno alla cittadinanza nel dopoguerra e nel tempo di pace, una ricerca non tanto sul nazifascismo e sulla Resistenza quanto sulla Repubblica e sul ruolo in essa della memoria della guerra fascista e di una peculiare “Resistenza senz’armi”3 .
Per tali ragioni veniva chiesto ai testimoni non tanto cosa avevano fatto nei campi dell’internamento, quanto se e come quella esperienza, tragica e indimenticabile, avesse pesato o fosse poi servita nel dopoguerra. Il punto era se, quanto e come i fatti del 1943-45, che comunque i testimoni ci raccontavano (non essendo per loro nemmeno concepibile che si potesse essere disinteressati ad essi), avessero prodotto un’identità collettiva. Più che all’imposizione di una identità (forzata, di prigionieri e di IMI), ci si andava chiedendo il se, il come e il quando di una scelta, di una creazione o ri-creazione di un’identità collettiva di IMI.
Anche se si tornerà più avanti su questi punti, è quindi bene sottolineare — rispetto a gran parte degli studi disponibili e ad altre ricerche in corso — come la ricerca toscana abbia ben chiari i propri limiti e i propri confini, di indagine locale e settoriale su uno solo dei molti temi connessi all’esperienza degli ex IMI.
1 Cfr. G. Rochat, Memorialistica e storiografia sull’internamento, in N. Della Santa (a cura di), I militari italiani internati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943, Firenze 1985; N. Labanca (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), Firenze 1992; G. Schreiber, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo Reich 1943-1945. Traditi, disprezzati, dimenticati, Roma 1992; L. Tomassini (a cura di), Le diverse prigionie dei militari italiani nella seconda guerra mondiale, Firenze 1995; U. Dragoni, La scelta degli IMI. Militari italiani prigionieri in Germania 19431945, Firenze 1993. 2 Composto da chi scrive e da Lucia Briani, Nicola Della Santa e Sandro Nannucci. Eleonora Bocciolini ha trascritto i testi. 3 Cfr. Resistenza senz’armi, Firenze 1984 (seconda edizione 1988).
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Il ritorno e le identità
Il ritorno del combattente in patria, al lavoro, in famiglia — in una parola il suo reinserimento — è un momento decisivo delle società del dopoguerra. In quel momento, non meno che negli anni di guerra,4 esse rivelano e al tempo stesso costruiscono i propri caratteri fondativi. Già la prima guerra mondiale lo aveva dimostrato. Ma mentre nel 1918-19 la figura del combattente era monolitica,5 nel post-1945 la differenziazione era il tratto dominante: di conseguenza il prigioniero della seconda guerra mondiale non poteva non essere diverso da quello della Grande Guerra.6
In verità, il primo e più straziante “ritorno” fu quello dei tanti che non fecero invece mai più ritorno: le vittime della deportazione razziale, in primo luogo, fra i cui parenti scampati si erano presto diffuse le notizie allucinanti e quasi incomprensibili della “soluzione finale” nazista. Aggiungeremo le vittime della deportazione politica, i malati e poi deceduti in prigionia, i combattenti “dispersi” rispetto a cui le autorità militari non sapevano dare notizie: che le famiglie attesero a lungo, tra speranze e presentimenti. Il ritorno vero e proprio dai diversi campi di battaglia, che produsse non altrettanto diversificati ma certo diversi ritorni, interessò forse un paio di milioni di uomini:7 all’incirca un italiano su venti, forse un adulto maschio su cinque. Quell’ingente numero di uomini conobbe ritorni assai diversi fra loro. Dal punto di vista del sentimento, i combattenti partigiani si sentivano certo i vincitori, mentre è evidente che i militari della repubblichina neofascista accumularono quei rancori e quegli odi da tradimento che caratterizzarono poi lo spirito delle loro associazioni. Dal punto di vista delle reali possibilità di occupazione e di reinserimento, però, non fu per nulla assicurato ai combattenti partigiani quel titolo di merito che essi pensavano a buon titolo di aver guadagnato.
4 Cfr. M. Isnenghi, Le guerre degli italiani. Parole, immagini, ricordi 1848-1945, Milano 1989. 5 Cfr. almeno A. Prost, Les ancien combattants et la société francaise, 1914-1939, Paris 1977. 6 Cfr. per l’Italia Giov. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, con una raccolta di lettere inedite, Roma 1993 (nuova edizione, Torino 2000). 7 Cfr. G. Rochat, Gli uomini alle armi 1940-1943, in L’Italia in guerra 1940-1943, Brescia 1991, ora in Id., L’esercito italiano in pace e in guerra. Studi di storia militare, Milano 1991.
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Il ritorno dei soldati del Regno del Sud fu ancora più particolare e risentiva dell’ancipite natura del loro impegno militare: per un certo verso coscritti, essi gioirono della fine delle ostilità che affrettava il ritorno a casa; per un altro verso, quasi volontari, essi perdevano una sicurezza di tipo occupazionale, dura e faticosa (erano stati impegnati soprattutto come ausiliari delle forze armate anglo-americane), militarmente non molto rischiosa ma anche assai poco glorificata, e di cui la nazione e le istituzioni militari si dimenticarono in fretta.
Fra i prigionieri, le diversità furono non minori.8 Intanto c’erano diversificati fardelli di esperienza e di memoria da lasciarsi alle spalle. Fra i prigionieri di parte alleata c’era innanzitutto la divisione fra cooperante e non cooperante, e poi quella fra chi aveva usufruito delle possibilità connesse alla detenzione nei tranquilli e agiati Stati Uniti e chi invece aveva dovuto sottostare alle durezze dei campi britannici nella lontana e povera India, se non addirittura alla detenzione punitiva di certi campi francesi dell’Algeria. C’erano poi i prigionieri in mano sovietica, che scontarono assieme molte cose: le miserie dello stato staliniano, la volontà russa di punire l’invasore alleato del nazismo (sino alla morte), la lunghissima detenzione, ben oltre la fine dei combattimenti. Fra i prigionieri in mano tedesca, infine, cioè fra gli Internati militari italiani, le esperienze erano state non meno diversificate: la prima differenza era stata fra ufficiali e soldati, costretti i primi alla detenzione nell’inedia e nell’inazione, obbligati assai presto i secondi al lavoro e allo sfruttamento in condizioni fisiche che quasi sempre mal tolleravano sforzi di qualsiasi genere.
È evidente che le differenziazioni del tempo della prigionia non dettero automaticamente luogo a differenziazioni nel dopoguerra: ma è anche vero che le prime non converrebbe sottovalutarle. Diverse prigionie significarono in primo luogo diverse cronologie del ritorno a casa. In secondo luogo spesso la prigionia minava gli uomini nel fisico, ma anche qui in maniera differenziata. Gli psicologi che hanno studiato le coscienze dei prigionieri hanno riscontrato, pur nella comunanza della condizione di abbrutimento dovuto a istituzioni di tipo “totalizzante”, traumi di-
8 Cfr. G. Rochat, Le diverse prigionie dei soldati italiani, “Studi e ricerche di storia contemporanea”, 1999, n. 51; R. H. Rainero (a cura di), I prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale, Milano 1985; F. Conti, I prigionieri di guerra italiani 1940-1945, Bologna 1986.
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versi a seconda delle diverse esperienze.9 Inoltre, e forse soprattutto, diverse figure di combattente o di prigioniero poterono avvantaggiarsi — nel dopoguerra — di una diversa ridistribuzione di risorse, materiali e simboliche.
Se l’identità non era solo connaturata alle loro personali esperienza ma era anche formata e trasformata dall’azione della politica e dello stato, queste ridistribuzione di risorse dovette agire al tempo stesso da corroborante e da ricreatore di “comunità immaginarie” fra loro diversificate.
L’identità degli ex internati nel ritorno
Un’identità si crea in assoluto e per reazione ad altre realtà, ad altre identità. Come le altre legate alla prigionia, quella di ex internati forse non fu mai un’identità forte, generale, tale da potersi imporre o in grado di sostituire altre (ideologiche, sociali, geografiche ecc.). Certo per alcuni, imprenditori politici della memoria, essa costituì persino una ragione di vita: ma furono molto pochi, soprattutto in un primo momento. E quando, più recentemente, questo numero si è allargato, si è pur sempre trattato di una realtà minoritaria, ormai sempre più pressata dalle ineluttabilità anagrafiche. In ogni caso per la massa dei seicentomila italiani che tornarono dai lager l’identità di ex internato non fu costante, subendo anzi una torsione nel tempo: dapprima si creò, subito si rafforzò, poi si disperse e solo infine si ricreò, sempre però in relazione alle altre identità collettive (proprie e altrui).
Difficile allo stato attuale delle conoscenze,10 e in questa sede, essere esaustivi. Anche la ricerca sulle fonti orali della Toscana, pur specificamente dedicatavi, non ha l’ambizione di essere conclusiva su questo punto. Di certo però si può affermare che l’identità di ex internato si creò nonostante la politica “liberale” tenuta dallo Stato repubblicano nei confronti di questa sezione
9 Prime indicazioni già in A. Devoto, L’oppressione nazista. Cosiderazioni e bibliografia 1963-1981, Firenze, 1983; e in A. Devoto-M. Martini, La violenza nei lager. Analisi psicologia di uno strumento politico, Milano 1981. 10 Cfr. C. Sommaruga (a cura di), Dopo il lager. La memoria della prigionia e dell’internamento nei reduci e negli “altri”, Napoli 1995 (Gruppo ufficiali internati nello Straflager di Colonia); P. Vaenti (a cura di), Il ritorno dai lager, Cesena 1996: importanti soprattutto perché segnalano la rilevanza della tematica.
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del mondo dei reduci.11 Un ruolo rilevante, proprio a causa di questa “leggerezza” della politica assistenziale statale, lo ebbero le comunità e le reti di relazione locali: cosa che moltiplicò le differenziazioni fra gli exinternati, e quindi l’affievolirsi dell’identità collettiva stessa, nonostante gli sforzi organizzativi dell’associazione “di categoria”, l’ANEI.
Per differenziazione rispetto alle altre sezioni dei reduci di guerra, si potrebbe dire che l’identità collettiva degli exinternati fu certamente assai più labile di quella — cementata col sangue delle perdite — dei sopravvissuti alla deportazione razziale. Mancò della coerenza, ma anche della rigidità e della consapevolezza di chi era scampato alla deportazione politica. Certo non conobbe i tributi ricevuti dal combattentismo partigiano, tributi che peraltro erano naturali in una Repubblica “nata dalla Resistenza” e che furono troppo spesso retorici e non sostanziali: a differenza degli expartigiani, però, gli exinternati e l’ANEI non combatterono alcuna battaglia aperta per riaffermare quelli che comunque potevano legittimamente ritenere i loro diritti. Così, quando tributi e diritti arrivavano in un certo senso octroyées dai governi centristi o di centrosinistra dell’Italia repubblicana, essi potevano — più che rinsaldare l’identità collettiva stessa — affievolirla.
Si potrebbe osservare che la scelta dell’associazione degli ex internati di ribadire ad ogni pie’ sospinto la propria apoliticità e il proprio carattere di associazione di exmilitari,12 se era una scelta esattamente opposta a quella delle associazioni partigiane, non era inconsueta ad un’associazione di ex prigionieri e finiva per apportare dei vantaggi concreti nei decenni della Guerra fredda. D’altro canto, cosa singolare, quella scelta finiva per spostare l’associazione e più in generale l’identità collettiva degli ex internati verso quel mondo del reducismo militare e delle associazioni d’arma da cui la stessa esperienza personale degli ex internati si
11 La definizione è di A. Bistarelli, Il reinserimento dei reduci, in Bruna MichelettiPier Paolo Poggio (a cura di), L’Italia in guerra 1940-43, “Annali della Fondazione Micheletti 5”, Brescia 1992; cfr. anche A. Bistarelli, Per una storia del ritorno. Cinque note sui reduci italiani, in Una storia di tutti. Prigionieri, internati, deportati italiani nella seconda guerra mondiale, Milano 1989; cfr. anche però C. Pavone, Les anciens combattants de la deuxième guerre mondiale, in A. Wahl (a cura di), Mémoire de la seconde guerre mondiale. Actes du colloque de Metz 1983, Metz 1984; e C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in Nicola Gallerano (a cura di), L’altro dopoguerra. Roma e il Sud 1943-45, Milano 1985. 12 Cfr. N. Labanca, La memoria ufficiale dell’internamento. Tempi e forme, in Id. (a cura di), Fra sterminio e sfruttamento. Militari internati e prigionieri di guerra nella Germania nazista (1939-1945), cit.
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era oggettivamente allontanata nello stesso momento in cui era stato pronunciato quel “no” così “politico” all’adesione alla RSI. Col passare del tempo, mentre le istituzioni militari si dimostravano sempre più avare di riconoscimenti agli ex prigionieri in genere, anche questa scelta doveva contribuire ad allentare l’identità collettiva o quanto meno il suo carattere totalizzante.
Su questo canovaccio generale, che tale va inteso e non come modello, si imbastirono ovviamente le più diverse storie personali. Condizioni sociali, inclinazioni ideologiche, reti di relazioni (fra tutte, la presenza o meno nel territorio di una sezione dell’ANEI, o dell’ANCR) erano destinate a modificarlo radicalmente. Importante è ribadire che anche questa identità collettiva, come le altre dei reduci della seconda guerra mondiale, ebbe le sue proprie forme ma anche i propri tempi. Abbiamo già insistito altrove sul fatto che sarebbe un errore, tanto in generale quanto per gli ex internati, ritenere che i fenomeni identitari siano intesi astoricamente. Per gli ex internati dovette essere lo stesso. Forte al momento dei campi, un qualche senso di identità comune diventò più forte al momento del ritorno. Ma poi fece posto a sentimenti molteplici (volontà di dimenticare, coazione a ricordare, novità legate al reinserimento nella società civile e all’assunzione di altre identità: di lavoro, di vita, di collocazione ideologica) fino a quando, ad un certo punto, avvenne che non ci si sentì più (o non ci si sentì più tanto) ex internati. Da allora quell’identità tornava in secondo o terzo piano, tranne che per i militanti e gli imprenditori della memoria. Ciò non vuol dire che scomparve: ché anzi le associazioni, o i semplici ricordi personali, tornarono periodicamente a riproporre i temi dell’identità collettiva. Ma ci volle il tempo dei riconoscimenti, delle benemerenze e degli “scivoli pensionistici”: allora l’identità ritornò più forte, anche se ormai di tipo e di tono diverso rispetto al passato.
Le testimonianze toscane
Sono state condotte quasi una novantina di interviste, per un totale di più di un centinaio di ore di registrazione. Le interviste sono state trascritte.
Oggetto della ricerca, come si è detto, era la memoria del ritorno in patria, al lavoro, in famiglia. A tale scopo era stato prepa-
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rato un questionario di tematiche, che l’intervistatore doveva tenere presente, con l’indicazione però di non trasformarlo mai in un questionario di domande. Una tale impostazione non rigida si è rivelata poi molto utile: ad esempio quando, alla prova dei fatti, la grande maggioranza dei testimoni ha voluto comunque parlare, in più o meno breve sintesi, della propria esperienza di prigionia (che nel questionario originario aveva uno spazio limitato). La disponibilità da parte degli intervistatori ad accogliere l’offerta di memoria dei testimoni ha poi reso possibile intessere collegamenti e confronti nelle tranche de vie fra vita pre-bellica, esperienza di prigionia e ritorno in patria, arricchendo la ricerca.
I nominativi dei testimoni sono stati oggetto di una complessa selezione, nella quale sono intervenuti diversi fattori. Intenzione della ricerca era di sondare in varie direzioni (geografiche, sociali, ideologiche) la memoria degli internati. Non si intendeva certo ricreare, con una fonte dall’uso così delicatamente qualitativo, una specie di campione sociologico e quantitativo. Si intendeva però essere in grado di confrontare — pur nel prisma individuale delle storie di vita — analogie e differenze nel ritorno di cittadini e di contadini, di operai e di impiegati, di liberi professionisti e di imprenditori. Anche se la storia orale può essere stata considerata e può continuare a considerarsi alla stregua di una fonte che “ridà” la parola a chi non l’ha avuta, a noi interessava poter costruire un concerto polifonico di voci, anche discordanti.
Abbiamo potuto farlo grazie alla collaborazione dell’Associazione nazionale ex internati (a cui dobbiamo la possibilità di consultare l’indirizzario generale toscano degli associati), dell’Associazione Combattenti e Reduci (che ha agevolato la ricerca fra i suoi soci degli ex internati), delle sezioni locali (che ci hanno fornito informazioni preziose. È grazie ad essi — oltre che alla catena delle conoscenze e delle reti di relazione — se, in completa autonomia di selezione e di ricerca, abbiamo potuto scegliere i nominativi da intervistare.
Più che le procedure della selezione delle interviste, può forse essere utile in questa sede accennare alle forme della presentazione delle testimonianze stesse. Intenzione della ricerca era di contribuire a gettare luce sul complesso fenomeno del ritorno e di presentare (nel caso della fonti orali, anche di costruire) una fonte. Non c’era quindi intenzione di costruire una storia orale del rientro in patria degli ex internati, cosa peraltro possibile, ma cui
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avremmo preferito semmai una storia complessiva, con tutte le fonti. Le testimonianze orali erano quindi per noi brani di storie di vita, storie per una storia, soprattutto — in una parola — fonti.13
Le testimonianze orali ci si presentano come testi, da indagare nella loro complessità di relazioni con altre fonti — non solo con altre fonti orali — ma, in quanto testi, anche nella loro tessitura interna. Ciò non semplifica affatto il problema: a partire dalla trascrizione.14 Ecco perché, pur senza cadere in pedanterie, abbiamo però preferito lasciare nella trascrizione delle testimonianze raccolte l’immediatezza del linguaggio, le imprecisioni, anche una certa ripetitività del linguaggio orale. Questo non soltanto per filologia quanto perché anche nella ripetizione, nella sospensione dolorosa del pensiero, nella variazione appena percettibile posta dal testimone nel suo racconto, persino talora solo nel ricorrere a diversi aggettivi al momento di una riproposizione di una memoria già accennata, il ricercatore può, se vuole, leggere dati importanti.
Proprio perché testi, quindi, abbiamo posto la condizione che le testimonianze fossero presentate nella loro completezza. Ciò era reso più praticabile dal fatto che gli stessi testimoni non erano stati chiamati a raccontarci tutta la loro storia di vita: il contratto che essi sapevano esistere fra oratore e magnetofono era proprio quello di una testimonianza a tema. In ogni caso, solo potendo presentare testi integri ed integrali ci sembrava fattibile cercare di indagare il rientro in patria cogliendo tanto le interrelazioni esterne fra le diverse testimonianze e fra le diverse fonti quanto le interrelazioni interne allo stesso testo alla stessa storia di vita.
Difficile trovare modelli. Forse Danilo Montaldi,15 che avevamo letto prima di tanti libri di storia, o forse Nuto Revelli:16 ma chi, come l’autore di Il mondo dei vinti o de L’anello forte, poteva vantare un rapporto diretto, personale, continuato con uno specifico territorio e con i suoi abitanti da far apparire quasi “spontanee” le testimonianze orali? Soprattutto pesava come un macigno sulle
13 Fondamentale L. Passerini, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze 1988. 14 Abbiamo seguito i consigli di buon senso di G. Contini-A. Martini, Verba manent, Firenze 1990. 15 Cfr. D. Montaldi, Autobiografie della legera, Torino 1961; e Id., Militanti politici di base, Torino 1971. 16 Cfr., di N. Revelli, La guerra dei poveri, Torino, 1962; La strada del Davai, Torino 1966; Il mondo dei vinti, Torino 1977; L’anello forte. La donna: storie d vita contadina, Torino 1985.
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N. LABANCA
nostre scelte l’affermazione fatta da Alessandro Portelli circa l’impossibilità di tradurre in un monologo (del testimone) quello che era nato come un dialogo (fra il testimone e l’intervistatore)17 . Ma questo dilemma, pur radicale, ci è parso meno immobilizzante e irresolubile di quanto possa apparire a prima vista (e che se accettato in maniera fondamentalista delegittimerebbe praticamente quasi tutta la produzione edita di fonti orali, e non solo in Italia): poiché altra cosa è la registrazione (che nel nostro caso verrà consegnato all’Archivio dell’Anei) e altra cosa è la pubblicazione a stampa, che si pensa possa essere fruita non solo dai filologi.
Pur nelle riflessioni metodologiche, una scelta ci era chiara: quella di non ripetere quanto in altre occasioni (pur meritorie per molti altri versi) era stato fatto con le testimonianze, e soprattutto con le testimonianze orali, degli ex internati. Le fonti che avevamo registrato o prodotto dovevano essere conosciute per intero. Non intendevamo offrire brani apparentemente autonomi l’uno dall’altro, prodotti senza una logica unitaria, scelti alla rinfusa e presentati in una successione priva di senso storico, come aveva fatto Giulio Bedeschi.18 Pur essendo stati al fondo stimolati proprio dall’imponenza della loro pionieristica ricerca e pur apprezzando e condividendo praticamente in toto le considerazioni nel corso di essa svolte da Angelo Bendotti, Giuliana Bertacchi, Mario Pelliccioli e Eugenia Valtulina, non volevamo ripetere la presentazione che del materiale documentario i ricercatori bergamaschi avevano fatto nel loro volume:19 brani staccati dalle singole testimonianze (pur perfettamente indicate a fine volume) e “montati” in una successione di citazioni a tema che ripeteva, e legittimava, le conclusioni degli autori nella loro ricerca. Una modalità di presentazione di fonti — ridotte però a lacerti, a citazioni di un discorso preordinato, quasi non leggibili (o da non leggersi) altro che nel modo voluto dagli autori — che aveva preso piede da qualche tempo in Italia.20 Anche qui, insomma, e per quanto inarrivabili, i modelli erano Montaldi e Revelli: e questo
17 In “Il manifesto”, 2 novembre 1999: cit. in C. Bermani, Introduzione alla storia orale, I, Storia, conservazione delle fonti e problemi di metodo, Roma 1999. 18 Cfr. G. Bedeschi (a cura di), Prigionia: c’ero anch’io, 3 vol, Milano 1992. 19 Cfr. A. Bendotti, G. Bertacchi, M. Pelliccioli, E. Valtulina, Prigionieri in Germania. La memoria degli internati militari, Bergamo 1990. 20 Forse a partire dal pur fondamentale intervento di A. Bravo-D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986.
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nonostante presentissimo sia il “falso” generale segnalato da Portelli sia il fatto che quegli stessi classici autori “ritoccassero” le testimonianze raccolte, talvolta senza nemmeno l’ausilio del magnetofono (come ricordato — anche se con accenti non convergenti — sia da Luisa Passerini21 sia da Cesare Bermani)22 .
I risultati veri e propri della ricerca abbisognano di altro spazio e di altra sede per essere presentati e discussi. Abbiamo preferito qui insistere sui caratteri delle domande che ponevamo alla nostra fonte, e al modo in cui abbiamo intenzione di presentarla: nella convinzione che si tratti di aspetti fra loro strettamente connessi.
21 Cfr. L. Passerini, La memoria orale: l’opera di Nuto Revelli e la sua ricezione, “Il presente e la storia”, 1999, n. 55 (fasc. spec. a cura di M. Calandri e M. Cordero su Nuto Revelli. Percorsi di memoria) 22 Cfr. C. Bermani, Introduzione alla storia orale, cit.
di Claudio Silingardi e Massimo Storchi
Scopo di questa comunicazione è delineare sommariamente i caratteri e l’evoluzione del movimento partigiano nelle due province di Modena e Reggio Emilia tra la fine del 1943 e la primavera del 1945, fornendo così una cornice entro la quale inserire le vicende della deportazione e dei rastrellamenti di manodopera realizzati dalle truppe di occupazione tedesche. Se non per alcuni casi specifici, si è omessa la segnalazione in nota di testi e documenti utilizzati, potendo rinviare per i necessari riscontri alle opere di sintesi disponibili1 e all’estesa bibliografia esistente.
L’inizio della lotta armata nelle province di Modena e Reggio si realizza attraverso percorsi diversificati ma che trovano radici comuni nella situazione venutasi a creare all’indomani dell’armistizio. La presenza di massicce formazioni tedesche sul territorio e la necessità di tirare le fila dell’attività semicospirativa svolta nel corso dei 45 giorni badogliani richiedono particolari sforzi da parte degli antifascisti che devono, da parte loro, accelerare il processo di presa di coscienza della necessità prima e della possibilità poi di avviare la lotta armata contro un nemico così temibile.
La nascita della Repubblica sociale funge da catalizzatore in questo processo che deve superare innanzitutto un problema di cultura politica dell’antifascismo nella transizione fra opposizione politica e cospirativa, svolta fino a quel momento, e scelta dell’uso della violenza. È questo un passaggio difficile per tutte le forze politiche che raggiungeranno in modi e tempi diversi questa consapevolezza. In questo è esemplare la posizione dei comunisti modenesi e reggiani che, pur attivi subito dopo l’8 settembre, de-
1 G. Franzini, Storia della Resistenza Reggiana, Reggio Emilia 1966; C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998.
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vono affrontare un lungo travaglio politico al loro interno, nella constatazione di come fosse difficile superare il pregiudizio legato ad una visione operaista del nascente movimento e all’utilizzo delle armi dopo anni di cospirazione non violenta. L’ostacolo verrà superato soltanto con la sostituzione dei rispettivi gruppi dirigenti e con la mobilitazione di una generazione più giovane, dove frequente era la presenza di reduci dalla guerra civile spagnola.
In realtà la lotta armata nascente segue percorsi diversi nelle due province. In particolare nel reggiano l’esperienza della banda Cervi segna un punto di rottura che impone anche alle altre parti di accelerare la loro entrata in campo. I Cervi, antifascisti noti già prima dell’8 settembre, salgono subito in montagna nella convinzione di poter mobilitare le forze necessarie alla lotta armata. La realtà non coincide però con le loro aspettative e, anche se gruppi numerosi di giovani sbandati erano già dislocati in quei luoghi e nuclei di antifascisti erano attivi, non esisteva ancora in nessuna forma quella rete indispensabile di collegamento, assistenza e appoggio popolare vitale per la guerriglia.
Così dopo un attacco portato con successo al presidio di Toano il 26 ottobre, il gruppo dei Cervi è costretto a riprendere la via della pianura, dove agirà ancora con successo a San Martino in Rio il 6 novembre, mentre fallirà l’attentato al federale Scolari il 13 dello stesso mese. Ma la loro esperienza, seppur generosa, sta volgendo ormai al termine. In gravi difficoltà anche per i cattivi rapporti con la federazione comunista reggiana, i Cervi sono catturati la notte del 25 novembre insieme ai militari italiani e alleati che avevano raccolto intorno a sé.
La salita in montagna nell’autunno ‘43 costituisce una “fuga in avanti” che definisce però esattamente la dimensione della difficoltà di strutturazione del nascente movimento partigiano. Anche nel modenese il primo scontro armato a Zocca il 27 novembre avviene ad opera del gruppo di Scalambra e Bentini, partigiani rifugiatisi in zona dal bolognese e che là rientrano dopo il combattimento.
Dopo i primi fallimenti diventa chiaro come sia necessario avviare la lotta armata in modo più limitato, continuando ad operare su una prospettiva di breve periodo per realizzare in montagna le migliori condizioni possibili per la guerriglia (non va infatti dimenticato come nella diffusa convinzione della strategia militare dell’epoca gli Appennini fossero giudicati del tutto inadatti a que-
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sto tipo di tattica per la loro limitata estensione e per la presenza di numerose vie di comunicazione che li attraversavano). Con questo obiettivo operano, dopo gli iniziali ed estenuanti dibattiti politici al loro interno, i Comitati di liberazione provinciali costituitisi a Reggio il 28 settembre e a Modena circa un mese dopo.
Nel modenese e nel reggiano la via scelta è quella dell’azione gappista, condotta nel primo caso prima con sabotaggi poi con azioni armate, nel secondo subito con agguati a esponenti fascisti. Il primo milite viene ucciso il 16 ottobre a San Martino in Rio, il 14 novembre è ucciso Giovanni Fagiani, comandante della Milizia, il 27 dicembre cade Davide Onfiani, segretario comunale di Bagnolo in Piano. A seguito di questa azione il giorno seguente sono fucilati, su decisione dei gerarchi reggiani costituitisi in un improvvisato “tribunale straordinario”, i fratelli Cervi e Quarto Camurri.
Negli stessi giorni anche sulle montagne modenesi si verificano i primi scontri, per impedire azioni di rastrellamento di renitenti alla leva, e si collegano piccoli gruppi partigiani attivi nelle valli del Dolo e del Dragone con quelli di Sassuolo e della Valle del Panaro guidati da Armando. Il 31 dicembre sono fucilati due renitenti come rappresaglia alla morte di un carabiniere. Ma la repressione non arresta l’azione partigiana: il 7 gennaio viene assalito il presidio di Pavullo, mentre sulla sponda reggiana del Secchia è già attivo il primo gruppo di Luigi (Pio Montermini) che si scontra presso Tapignola alla fine di gennaio con la GNR in rastrellamento. Viene arrestato il parroco don Pasquino Borghi, uno dei primi ad attivarsi già nell’autunno del 1943 per il soccorso ai militari sbandati e in contatto con i Cervi, che sarà fucilato il 30 gennaio a Reggio con altri 8 antifascisti come nuova rappresaglia dopo l’ennesimo attentato gappista.
L’azione dei GAP trova nel contesto modenese e reggiano, ma emiliano in genere, una nuova caratterizzazione che li diversifica dagli analoghi gruppi operanti nelle realtà urbane del nord. Nella loro azione è centrale il nesso strettissimo città-campagna, in una realtà come quella emiliana, appunto, dove i nuclei urbani vivono in rapporto osmotico con la realtà rurale circostante, in un costante scambio di forza lavoro e dove la presenza di una quantità crescente di sfollati e profughi (a Modena in gennaio erano già oltre 4.000) rende ulteriormente permeabile la circolazione e la comunicazione fra i gruppi resistenziali.
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L’incalzare dei bandi di arruolamento fascisti accelera nel primo trimestre del ‘44 la salita di gruppi di giovani in montagna, tanto da rendere necessaria la costituzione di un’apposita organizzazione basata sulla creazione di una rete di case di latitanza, basi sicure di appoggio, sul percorso pianura-montagna. Ai primi di marzo al confine fra reggiano e modenese (è da ricordare sempre come, trattandosi di formazioni di guerriglia, la loro mobilità fosse la migliore garanzia di sicurezza) sono attivi oltre 100 partigiani divisi in 3 distaccamenti al comando di Barbolini, con Miro vicecomandante e Eros commissario. Contemporaneamente il gruppo di Armando organizza anch’esso oltre 100 unità nella valle del Panaro. Sono anche attivi i gruppi indipendenti di Minghin a Santa Giulia, Nello a Montemolino e Marcello nella valle del Rossenna.
Le autorità fasciste devono prendere atto della situazione difficile: da un lato i bandi di arruolamento non hanno dato i risultati sperati (in Emilia si presentano soltanto 9.000 reclute e 1.600 renitenti, in tutta i Italia saranno solo 43.000 i militari disponibili consentendo la formazione solo di una divisione, la Monterosa, contro le quattro previste da Graziani), mentre le formazioni partigiane in montagna stanno crescendo in numero e attività.
Il 14 febbraio si svolge a Lucca un incontro fra le autorità della RSI e i tedeschi per predisporre un intervento militare sull’Appennino che ha inizio l’8 marzo e durerà tutto il mese. L’11 marzo il primo scontro di rilievo a Pieve di Trebbio dove la Spedizione Bandiera (gruppo organizzato su incarico del CLNp modenese e guidato dall’azionista Patrignani) si scontra con le formazioni tedesche. L’azione di repressione incontra una inaspettata resistenza che culmina il 15 marzo con lo scontro di Cerrè Sologno dove la formazione di Barbolini e Miro mette in fuga, con serie perdite, i tedeschi.
La situazione diviene così difficile da costringere gli stessi tedeschi a richiedere ulteriori rinforzi alla Divisione SS Hermann Goering, che il 17 attacca Monchio, Susano e Costrignano con un’azione di rastrellamento che porta all’uccisione di 136 civili, il 20 è la volta di Civago e Cervarolo dove sono 27 i civili massacrati. L’azione tedesca porta comunque al momentaneo sbandamento delle formazioni (a Cerrè Sologno sia Barbolini che Miro sono feriti seriamente) che però si ricostituiscono già ai primi di aprile. Armando si rimette in azione nella zona di Pavullo e si ricongiun-
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ge a Poppi, Zuilio Rossi, Nello Pini, Marcello, Norma Barbolini e Mario Nardi, costituendo alla fine del mese il Battaglione Ciro Menotti, forte ormai di 300 partigiani.
Ai primi di maggio viene assalito e catturato il presidio di Cerredolo (dove sono fucilati 12 militi), mentre la scadenza dell’ultimo bando di arruolamento prevista per il 25 maggio (a Modena si presenteranno solo 550 sbandati, 3.037 in tutta l’Emilia) accelera l’azione partigiana: il 22 si verifica lo scontro a Capanna Tassoni e viene assalito il centro di Montecreto, mentre il 24 Villa Minozzo viene tenuta sotto assedio tutta la giornata e il giorno seguente i fascisti subiscono gravi perdite mentre cercano di entrare nella Val d’Asta.
Si è ormai arrivati ad un insieme di formazioni con quasi 1.000 uomini per l’afflusso continuo di giovani dalla pianura. La nuova situazione pone problemi rilevanti sotto il profilo della organizzazione e della disciplina, in un contesto in cui è sensibile la mancanza di quadri dirigenti qualificati e diventa importante creare una disciplina con attenzione particolare ai rapporti con le popolazioni autoctone. Il primo lancio di armi e materiali, compiuto dagli alleati il 19 maggio, è però un segnale decisivo dell’importanza che l’attività di guerriglia ha ormai raggiunto. Gli ufficiali alleati di collegamento presenti con missioni presso le formazioni reggiane e modenesi rappresentano un riconoscimento ufficiale del ruolo che i partigiani si trovano a svolgere.
Il concretizzarsi della lotta armata in montagna viene reso possibile da una estesa rete organizzativa costruita lentamente nei mesi a cavallo fra il ‘43 e il ‘44. L’attività dei CLN provinciali cresce dopo gli impacci iniziali in cui il dibattito fra posizioni favorevoli all’attesa in vista degli sviluppi bellici e chi intendeva passare all’azione in tempi brevi aveva bloccato la capacità di direzione. Anche negli ambienti operai, che erano quelli che all’inizio avrebbero dovuto esprimere il massimo di intensità antifascista, l’organizzazione resistenziale fatica a trovare subito spazi di manovra efficaci. Nel caso di Reggio ciò avviene per la distruzione del principale nucleo industriale, quello delle Officine reggiane, colpito dal bombardamento dell’8 gennaio 1944 e quindi avviato al decentramento; nel caso modenese, dopo qualche parziale successo delle commissioni interne elette dai sindacati fascisti, alla Fiat Grandi motori i primi scioperi sono realizzati nel dicembre 1943, e si ripetono con maggior forza e organizzazione
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nel marzo e aprile 1944. La difficile condizione dei lavoratori dell’industria, esposti al rischio di deportazione, dei bombardamenti alleati (anche Modena è colpita duramente il 14 febbraio) e costretti a vivere in situazione precaria sotto il profilo alimentare, rende a medio termine più agevole il lavoro di organizzazione dell’attività di resistenza indirizzata soprattutto al sabotaggio e al recupero di materiali.
Uno dei principali successi che si evidenzia nella primavera del 1944 è la progressiva diffusione del movimento di resistenza anche fra la popolazione civile che sempre più diffusamente, anche in pianura, collabora alle iniziative contro fascisti e tedeschi. Esemplare il caso della rivolta di Montecavolo il 1° marzo, quando la popolazione arresta e disarma i militi in transito, o la giornata del 1° maggio quando scendono in sciopero 300 operai della Lombardini di Reggio, mentre si moltiplicano giorno dopo giorno, accanto alle azioni gappiste, la distruzione di linee telefoniche e il sabotaggio delle strutture militari tedesche e fasciste.
La solidarietà popolare che aveva sostenuto e difeso i soldati sbandati dopo l’armistizio si esercita anche nei confronti della persecuzione antiebraica (avviata già nel dicembre 1943 con la deportazione della piccola comunità reggiana), con attenzione particolare al modenese, dove la locale comunità, forte di oltre 500 unità al momento del censimento del 1938, riesce a superare con minime perdite (13 vittime) il periodo dell’occupazione, proprio grazie al sostegno della collettività. Rimane ben nota la vicenda di Villa Emma a Nonantola, dove la popolazione locale, con la collaborazione del clero, riesce a mettere in salvo, avviandoli verso la salvezza in Svizzera, decine di ebrei, per lo più giovani.
La persecuzione antiebraica pone drammaticamente al centro dell’attenzione l’attività del campo di concentramento di Fossoli. Nato come luogo di reclusione per i prigionieri alleati sin dal 1942, il campo passa sotto l’autorità diretta della Gestapo nel marzo 1944, ospitando fino all’estate oltre 4.000 prigionieri. Da Fossoli transita oltre un terzo del totale degli ebrei italiani deportati, avviati in numero di 2.445 con sette convogli verso Auschwitz. Ma Fossoli non è solo luogo di detenzione, in esso transitano anche i civili catturati nei grandi rastrellamenti estivi sugli Appennini e destinati alle industrie del Reich, e da esso vengono prelevati i 67 patrioti fucilati l’11 luglio presso il Poligono di Ci-
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beno. Le organizzazioni della Resistenza si interessano del campo dal giugno 1944, ma ogni ipotesi di fuga si rivela velleitaria, per le difficoltà ad entrare nel perimetro del campo e soprattutto per l’impossibilità di nascondere e trasferire in montagna migliaia di prigionieri. L’impegno della Resistenza è dunque soprattutto sul piano dell’assistenza ai prigionieri, in particolare a quelli trattenuti nel campo italiano.
Abbiamo visto come la tarda primavera del 1944 rappresenta il momento di massima espansione del movimento partigiano sulle montagna modenesi e reggiane, mentre anche in pianura va delineandosi la nascita del futuro movimento sappista (Squadre di azione patriottica). L’afflusso di tanti giovani sull’Appennino trova le sue radici nella volontà di sfuggire agli ultimatum di arruolamento, alla deportazione, ai frequenti bombardamenti in una fase in cui si andava delineando una situazione fortemente negativa per le truppe tedesche e fasciste. La liberazione di Roma del 4 giugno è un segnale clamoroso di una situazione che avrebbe potuto evolversi rapidamente nel corso di breve tempo. Ma proprio la precaria situazione militare, con il progressivo arretramento della linea difensiva tedesca sempre più a nord, rende la zona appenninica ancor più strategica. In essa va concentrandosi il massimo dell’intensità della macchina bellica tedesca in preparazione di una linea di difesa (la futura Linea gotica) che avrebbe dovuto rappresentare l’ultimo baluardo a difesa della pianura padana. Così, mentre l’azione partigiana tocca nel mese di giugno il massimo dell’intensità e dell’efficienza (sia nel reggiano che nel modenese i presidi della GNR in montagna sono progressivamente ritirati e rimangono fortemente presidiate solo le strade statali di collegamento), i tedeschi avviano una serie di azioni di rastrellamento sulle Apuane, la Garfagnana e la Lunigiana. Il progredire della pressione partigiana porta all’occupazione di parti sempre più ampie di territorio (dalla metà di giugno la sponda sinistra del Secchia è libera da Castellarano a Ponte Dolo) mentre, dopo un assedio, viene presa anche la roccaforte di Montefiorino. La creazione di zone libere nasce come frutto non previsto delle azioni partigiane (analogamente in estate avverrà in Valsesia, Val di Ceno, Val d’Enza-Parma, etc.) e quei territori diventano luogo di attrazione ulteriore di giovani in salita in montagna; in esse i lanci alleati diventano frequenti e abbondanti, e si abbozzano esperienze rilevanti sotto il profilo politico e propagandistico. La
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necessità, infatti, di gestire ampie porzioni di territorio sottratte all’autorità fascista (la zona libera di Montefiorino occupava circa 600 kmq estendosi sulla sponda destra del Secchia, Valli del Dolo, Secchiello e Dragone) richiedeva un minimo di strutturazione amministrativa, che fu ricostituita su basi democratiche, organizzando prime forme di autogoverno delle comunità, tanto da configurare l’esperienza come una prima “repubblica” autonoma. Si procede così all’elezione, a Montefiorino e Toano, di organismi di governo, eletti dai capifamiglia, per affrontare i problemi più urgenti (annona, trebbiatura, accoglienza), legati all’imprevista situazione di liberazione.
I problemi più seri del movimento partigiano vengono comunque dalla crescita impetuosa delle formazioni, costrette in poche settimane ad accogliere un numero eccezionale di nuovi volontari. Solo quelle modenesi raggiungono ormai le 5.000 unità con una struttura organizzativa, come detto in precedenza, che rimane quella dell’inizio di maggio. La disponibilità maggiore di armi (ma comunque non in numero sufficiente per tutti) avrebbe richiesto un periodo di addestramento adeguato che le vicende in corso invece non permettevano. Sul piano tattico, poi, si sopravvalutò la situazione strategica, nella convinzione, avvalorata anche dalla progettata realizzazione nella zona di una testa di ponte rafforzata dal previsto lancio di paracadutisti della Divisione Nembo, dell’imminenza di un crollo del fronte. In questa logica, che si sarebbe dimostrata del tutto infondata, si tese ad abbandonare la tattica della guerriglia, pianificando la difesa statica della zona, anziché prevedere l’eventualità di rispondere ad attacchi con iniziative di movimento ed infiltrazione nelle fila nemiche.
Da parte tedesca, se la zona libera costituiva un problema, non era altrettanto urgente risolverlo sul piano militare, in una fase in cui era necessario concentrare le risorse sul fronte in difficoltà. Così prima fu tentata una soluzione negoziale (non belligeranza in cambio di prigionieri, ipotesi rifiutata dopo discussioni dai comandi partigiani) poi si iniziò a saggiare la resistenza della struttura difensiva con l’esecuzione fra la fine di giugno e la metà di luglio delle prime azioni previste dal piano Wallenstein, con incursioni nella montagna reggiana e parmense.
Il 31 luglio, in significativa coincidenza con il lancio dei paracadutisti della Nembo, previsto per il 2 agosto, le truppe tedesche scatenarono l’operazione Wallenstein III contro la zona ap-
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penninica con obiettivo particolare la zona libera di Montefiorino. Si trattò di una operazione di ampio respiro, pianificata con attenzione e con forte concentramento di truppe. Gli obiettivi erano essenzialmente due: bonificare la zona ormai di retrofronte, garantendo la sicurezza delle linee di comunicazione, e rastrellare il massimo di popolazione maschile attiva destinata allo sforzo bellico del Reich. Il fallimento dei vari piani di reclutamento (coordinati in Italia dalla organizzazione Sauckel che aveva richiesto solo nel modenese nella primavera 20.000 lavoratori agricoli, raccogliendone solo 800) aveva reso più urgente procedere comunque al reclutamento coatto della manodopera necessaria. Così all’azione militare durissima si affiancò un’opera di spoliazione completa dell’economia montana, sia sotto il profilo umano che zootecnico e agricolo. I rastrellamenti sistematici iniziati in estate sull’Appennino, e proseguiti fino ad ottobre, (l’azione fu estesa da Modena a Piacenza) portarono alla cattura di oltre 60.000 persone e alla deportazione in Germania di almeno 7.000 unità (solo nel reggiano furono quasi 1.000 gli uomini catturati nell’azione di agosto)2. Punto nevralgico in quest’opera di deportazione è sempre il campo di concentramento di Fossoli, che rimane attivo per questa funzione dall’agosto al novembre 1944, quando la competenza passa a Gonzaga. A novembre comunque i rastrellamenti indiscriminati vengono sospesi, e viene privilegiato l’utilizzo della manodopera locale nei lavori di fortificazione in Italia.
La difesa delle formazioni partigiane, viziata dalle debolezze suddette, può ben poco contro la superiorità tedesca. Sono pochi i reparti che oppongono una qualche resistenza, la maggior parte delle formazioni si sbanda dopo le prime 24 ore di combattimento, in una situazione in cui i comandi — oltretutto dislocati quello reggiano a Villa Minozzo e quello modenese a Montefiorino — perdono ben presto i contatti con le unità combattenti (nei lanci alleati non erano state fornite attrezzature radiotrasmittenti).
Sono giorni di tragedia per la zona montana, devastata e saccheggiata (vengono incendiati gli abitati di Toano, Villa Minozzo, Piandelagotti, Gombola, Montefiorino), oltre 50 partigiani cadono nella ritirata, mentre tutte le formazioni si sbandano senza un piano preciso con la perdita di ingenti quantità di materiali. La resistenza in montagna riprende la sua attività solo alla fine di
2 L. Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino 1993, pp. 384-389.
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agosto, con la completa indipendenza delle formazioni reggiane e modenesi.
Mentre in montagna si realizzava e si concludeva l’esperienza della zona libera di Montefiorino, in pianura i partigiani sviluppano un’intensa attività militare, con agguati notturni a colonne tedesche, assalti a presidi fascisti, eliminazioni di singoli esponenti fascisti. Dalla metà di giugno inizia pure la lotta contro la trebbiatura, per impedire che il grano raccolto possa essere prelevato dai tedeschi in occasione di una loro possibile ritirata. In coincidenza con questa lotta vengono promosse anche manifestazioni popolari. Il carattere sociale di questa lotta non manca di preoccupare le componenti moderate del CLN, in particolare a Modena, ma nonostante questa e altre difficoltà — in particolare con i braccianti, che vedevano allontanarsi una delle principali occasioni di lavoro — la lotta si conclude positivamente, garantendo l’approvvigionamento di grano alla popolazione per tutto l’inverno e la primavera del 1945, impedendo un eccessivo concentramento di grano negli ammassi, e rendendo esplicita la capacità di iniziativa e di mobilitazione partigiana a difesa degli interessi del mondo agricolo emiliano.
È in questo contesto che ha modo di svilupparsi e consolidarsi il movimento sappista, esplicitando al meglio la particolarità della Resistenza in pianura, cioè la sua dimensione sociale, la capacità di coinvolgere il mondo agricolo nella lotta contro fascisti e tedeschi, prima con la lotta alla trebbiatura, poi con la lotta ai raduni di bestiame, la difesa dei prodotti agricoli e la loro distribuzione alla popolazione, la repressione della delinquenza e del mercato nero.
In estate la Resistenza emiliana deve però fare i conti con il mutamento del quadro generale del conflitto in Italia. La necessità dei comandi tedeschi di procedere celermente alla costruzione di una nuova linea di difesa a ridosso della dorsale dell’Appennino tosco-emiliano, e nel contempo di tenere libere le vie di comunicazione nelle retrovie, anche per garantirsi la possibilità di una rapida ritirata e, infine, l’inasprimento delle disposizioni di lotta antipartigiana, che prevedevano l’esplicita copertura per ogni azione di repressione, ha conseguenze tragiche in particolare nel modenese, ormai diventato immediata retrovia del fronte. Sono attuate numerose azioni di rappresaglia, che nell’arco di due mesi provocano la morte di quasi duecento tra
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partigiani e cittadini. In luglio esse vengono compiute prevalentemente dai tedeschi, e tra le più significative si possono ricordare quelle dei Boschi di Ciano di Zocca (15 luglio, 20 impiccati) e di Modena (30 luglio, 20 uccisi con un colpo alla nuca; 31 luglio, 5 fucilati). In agosto e in settembre alcuni eccidi sono organizzati anche dai fascisti, riorganizzati nelle Brigate nere e desiderosi di vendicarsi dopo i colpi subiti nei mesi precedenti: è il caso ad esempio di Rovereto sul Secchia (7 agosto, 9 fucilati) e di Carpi (15 agosto, 16 fucilati). Ma anche i nazisti continuano a colpire, come a Ravarino (15 agosto, 5 fucilati) e a San Giacomo Roncole (30 settembre, 6 impiccati)3. L’alto numero di rappresaglie provoca tensioni e dibattiti sia all’interno del movimento partigiano, sia tra la popolazione. Il recupero e l’assorbimento del disorientamento provocato da queste azioni viene favorito indubbiamente dal cambiamento del clima generale, perché cresce la speranza di una rapida liberazione della provincia, in conseguenza dell’attacco e dello sfondamento della Linea gotica da parte dell’esercito alleato, cominciato dal 25 agosto.
Intanto la conclusione dell’esperienza della zona libera di Montefiorino ha come conseguenza l’aggravarsi delle tensioni tra i vari comandi, e tra le diverse componenti politiche del movimento. Come risposta a queste tensioni nel Reggiano viene costituito, alla fine di agosto, un comando unico, poi in settembre il CLN autorizza la costituzione delle Fiamme verdi, formazione di orientamento democratico-cristiano, mentre le formazioni garibaldine della zona sono inquadrate nel Battaglione della montagna. I mesi invernali sono comunque contrassegnati da non poche difficoltà, dovute da un lato a rappresaglie e rastrellamenti, che portano alla cattura del Comando di Piazza e all’annientamento del distaccamento Fratelli Cervi a Legoreccio, dall’altro al perdurare di tensioni e polemiche tra le diverse forze politiche, alimentate anche da sostituzioni di comandi e dal fallimento dello scambio dell’ex federale di Reggio con dei partigiani. La situazione non è semplice neppure nel modenese. Se lo scontro tra comunisti e democratico-cristiani non è immediato come nel reggiano, questo dipende soprattutto dalle vicende particolarmente complesse che investono le formazioni partigiane
3 Sugli eccidi nel modenese si veda ora I. Vaccari, Dalla parte della libertà. I caduti modenesi nel periodo della Resistenza entro e fuori i confini della provicia. Forestieri e stranieri caduti in territorio modenese, Santa Sofia di Romagna 1999.
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dopo Montefiorino. Infatti pochi giorni dopo la riorganizzazione delle formazioni modenesi, il 3 settembre 1944, arrivò l’ordine del CUMER di dividere in due tronconi la divisione Modena, una parte della quale doveva partecipare alla liberazione di Bologna. L’opposizione del comando militare della divisione all’ordine del CUMER provoca una reazione risentita di quest’ultimo, e solo dopo una lunga trattativa viene predisposto un corpo di spedizione, il Gruppo brigate Est Giardini, che inizia una lenta marcia di avvicinamento al Bolognese. Intanto però una parte delle formazioni modenesi, al comando di Armando, erano state costrette dalla pressione nemica a spostarsi verso l’Alto Appennino, venendosi a trovare nella zona di nessuno del fronte. Si posizionano allora nella zona di Lizzano in Belvedere, prendendo contatto con le altre formazioni della zona e dando vita alla divisione Modena Armando, che inizia ad operare in linea con la V° armata americana, di fronte a monte Belvedere. Dopo la battaglia di Benedello del 5 novembre, anche altre formazioni passano il fronte, raggiungendo Armando. In novembre il comando della divisione Modena, preoccupato per il sopraggiungere dell’inverno e per le difficoltà di approvvigionamento dei partigiani, decide di organizzare il passaggio delle linee di altre formazioni, trattenendo solo cinquecento uomini. Ed è in questo momento che i democraticocristiani premono per dare un nuovo indirizzo alla divisione: a differenza del reggiano, però, in questa fase non promuovono una propria formazione, ma assumono il comando della divisione, e impongono la costituzione del CLN della montagna, del tribunale militare e di un corpo di polizia. In inverno, dunque, scomparsi i fascisti, attestatisi i tedeschi a difesa delle principali vie di comunicazione, nel movimento partigiano si gioca la partita tra comunisti e cattolici sull’egemonia in montagna e sulla prefigurazione della realtà del dopo liberazione.
Mentre in montagna il movimento partigiano si dibatte tra difficoltà logistiche, polemiche politiche, la necessità di non compromettere i già difficili rapporti con la popolazione locale, da mesi sottoposta a forte pressione per la presenza di migliaia di giovani partigiani, e anche la necessità di continuare a compiere azioni contro il traffico militare tedesco, in pianura il periodo autunnale coincide con la fase della massima iniziativa militare della Resistenza, che si sviluppa sia sul piano militare, con attacchi ai presidi fascisti e alle colonne tedesche, sia su quello sociale,
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con la già richiamata lotta ai raduni di bestiame e in generale la difesa del patrimonio zootecnico ed alimentare delle campagne. Le azioni continuano incessanti tra settembre e novembre, e proseguono anche dopo il proclama Alexander sulla sospensione dell’avanzata alleata. Il movimento ha ormai un carattere di massa, che non è più possibile occultare, e non rimane che continuare a combattere, anche se i comandi si preoccupano di limitare — spesso senza riuscirvi — almeno le azioni militari in grande stile.
Ed è in questa fase che emerge in tutta la sua ampiezza uno degli aspetti più significativi della Resistenza in pianura, cioè il particolare rapporto tra partigiani e territorio. Il partigiano di pianura combatte nel proprio territorio, lo conosce perfettamente. La padronanza della configurazione e dislocazione degli argini dei fiumi, dei canali, dei fossi, delle siepi che delimitano le proprietà, dei campi di granoturco e di canapa gli permette di compiere azioni o di nascondersi. I comandi tedeschi e fascisti cercano di impedire lo sviluppo della guerriglia in pianura ordinando a più riprese il taglio delle siepi, delle reti metalliche, della bassa vegetazione e di ogni altro ostacolo nei pressi delle strade. In autunno arrivano gli ordini ai contadini di tagliare i campi di granoturco. Non mancano poi i divieti a circolare in bicicletta, principale mezzo di trasporto utilizzato dai partigiani e dalle staffette. Poi con l’inverno la situazione cambia, perché mentre in primavera ed estate i partigiani dormivano spesso nei campi, ora si rende necessaria la costruzione di rifugi protetti. In tante case contadine che danno ospitalità ai partigiani sono costruiti rifugi o nell’abitazione, oppure nei fienili, nella stalla o nei granai. Non mancano rifugi sotterranei costruiti nei dintorni delle case o direttamente nei campi.
L’inverno è segnato da alcune delle più importanti azioni e battaglie partigiane della pianura reggiana e modenese: il 3 novembre viene occupata Soliera; tra il 14 e il 21 novembre si sviluppa a Limidi, frazione di questo comune, una difficile trattativa tra comandi partigiani e comandi tedeschi per realizzare uno scambio di prigionieri; il 1° dicembre i partigiani di Carpi sostengono una battaglia in campo aperto contro i tedeschi in località Prati di Cortile; il 19 dicembre con un’azione coordinata tra partigiani reggiani, modenesi e mantovani vengono attaccati i presidi fascisti e tedeschi di Gonzaga; in febbraio vengono abbattuti nel reggiano un migliaio di pali delle linee telefoniche e, il 27, si
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combatte l’importante battaglia di Fabbrico. In alcune realtà della bassa i CLN svolgono un ruolo di governo, e le formazioni partigiane esercitano un controllo capillare del territorio.
Da parte fascista e tedesca si decide di contrastare tale presenza attraverso l’infiltrazione di spie e l’organizzazione di estesi rastrellamenti nei quali vengono impiegati centinaia di uomini. Si susseguono anche gli eccidi, che colpiscono duramente sia il reggiano che il modenese, contribuendo a determinare quel “sovrappiù di odio” che caratterizza il “clima” della pianura emiliana tra l’inverno e la primavera del 1945. Una semplice cronologia degli episodi più rilevanti (tra parentesi il numero dei partigiani o dei cittadini uccisi) può far comprendere la durezza dello scontro. In dicembre vengono compiuti eccidi a Modena (8), San Cesario sul Panaro (10) e Vignola (17) nel modenese, e a Villa Sesso (21) nel reggiano. In gennaio a Quartirolo di Carpi (32) e a Carpi (6) nel modenese, e a Reggio Emilia (10). In febbraio a Vignola (8), Fiorano (5) e Mirandola (5) nel modenese, Villa Cadè (21), Calerno (20), Bagnolo (10) e Cadelbosco (10) nel reggiano. Trentatre partigiani di Castelfranco Emilia sono inoltre uccisi nelle stragi compiute dai tedeschi a Bologna (San Ruffillo), tra febbraio e marzo. Ma nonostante i tentativi di colpire il movimento partigiano approfittando della situazione di stasi militare — che in alcuni casi vanno a segno —, le organizzazioni della Resistenza si rafforzano, e migliora l’inquadramento delle forze gappiste e sappiste. Anche in montagna durante l’inverno, assorbiti gli effetti del rastrellamento che colpisce l’Appennino reggiano e modenese nella prima metà di gennaio, e pur in presenza delle già richiamate tensioni e polemiche politiche — particolarmente insistite nel modenese, dove i democratici-cristiani decidono di dare vita alle Brigate Italia — la Resistenza riprende il controllo di buona parte del territorio: in alcuni comuni vengono elette giunte popolari, si formano i CLN, e i partigiani conducono continui attacchi ai presidi fascisti e alle vie di comunicazione utilizzate dai tedeschi, in particolare le statali 63 e 12. Con l’avvicinarsi della primavera le formazioni si consolidano, potenziate anche dagli aviolanci di armi. In marzo nel reggiano viene costituito il Battaglione alleato, formato da partigiani italiani e russi e da paracadutisti inglesi, che il 27 marzo è protagonista del clamoroso assalto e della distruzione della V sezione del Comando generale tedesco in Italia, a Botteghe di Albinea.
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Tra marzo e aprile la pianura modenese e reggiana vive la contraddizione estrema tra un movimento partigiano che ha passato l’inverno mantenendo intatte le sue potenzialità militari e il consenso conquistato tra la popolazione delle campagne, e l’aumentata presenza tedesca di truppe a riposo nelle retrovie del fronte, che consente ai fascisti rimasti di agire in una resa dei conti che non ha altro scopo che l’annientamento fisico del nemico, essendo ormai chiaro che è solo questione di settimane, di giorni, l’arrivo degli alleati nella pianura padana. Così alle numerose azioni contro il traffico tedesco e a ciò che rimane della presenza fascista sul territorio, alle manifestazioni popolari con comizi, come a Campagnola, Concordia e Camposanto, all’occupazione del paese di San Martino in Rio, che i partigiani tengono fino alla liberazione, fanno da contraltare i rastrellamenti — alcuni impediti come nel caso della battaglia di Rovereto — e gli eccidi, che colpiscono in particolare la Bassa modenese in seguito all’arrivo in zona della brigata nera mobile Pappalardo di Bologna e della Compagnia mobile corazzata di Vezzalini, proveniente da Novara. Così mentre nel reggiano il 13 aprile 1945 viene realizzata una “prova generale” dell’insurrezione, con manifestazioni promosse dal Fronte delle gioventù e dai Gruppi di difesa della donna, e con il coinvolgimento di migliaia di uomini e donne, la pressione tedesca costringe quasi duemila tra partigiani e cittadini di Carpi a spostarsi nella zona di Montefiorino.
Le azioni di rappresaglia fascista e tedesca a pochi giorni dall’arrivo degli alleati non fanno altro che alimentare l’odio dei partigiani e della popolazione, con gli esiti tragici che questo avrà dopo la liberazione.4 Dal 19 aprile le formazioni partigiane della montagna modenese e reggiana iniziano ad avvicinarsi alla pianura, mentre migliaia di tedeschi si danno alla fuga in due direzioni, verso il parmense e verso il fiume Po. Fuggiti i fascisti, i partigiani combattono contro reparti di retroguardia o intercettano reparti in ritirata liberando tutti i paesi delle due province. Il 22 aprile Modena è libera. Il 24 aprile anche Reggio Emilia è presa dai partigiani prima dell’arrivo delle truppe Alleate. La lotta partigiana nelle due province ha un costo altissimo: nel modenese cadono
4 Sul problema della violenza partigiana nel dopoguerra a Modena e Reggio Emilia rinviamo a M. Storchi, Uscire dalla guerra. Ordine pubblico e dibattito politico a Modena, 1945-1946, Milano 1995, e Id., Combattere si può vincere bisogna. La scelta della violenza fra Resistenza e dopoguerra (Reggio Emilia 1943-1946), Venezia 1998.
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in combattimento 703 partigiani, mentre 882 tra partigiani e cittadini vengono soppressi in occasione di rappresaglie. Nel reggiano i partigiani uccisi in combattimento o in eccidi sono 626, ai quali vanno aggiunti 220 civili periti durante le rappresaglie tedesche o fasciste.
di Klaus Voigt*
Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, gli ebrei nel modenese, sia italiani, sia stranieri lì internati dalla primavera del 1942, come pure stranieri che vi soggiornavano senza essere però internati, si trovarono esposti al rischio della deportazione. Nell’ultima di queste categorie rientravano anche i ragazzi di Villa Emma a Nonantola e gran parte dei loro accompagnatori. Il presente studio si propone, partendo da questa suddivisione in gruppi, caratterizzati da una diversa condizione durante la persecuzione fascista, di analizzare le condizioni, le circostanze e l’estensione degli arresti e delle deportazioni, oltre che della fuga in Svizzera. Assai diffusi furono nel modenese gli episodi di aiuto dato agli ebrei, basti pensare a nomi come Odoardo Focherini e don Dante Sala. L’esempio più rilevante di solidarietà e di aiuto, da cui tuttavia non vanno tratte conclusioni generalizzate, è il salvataggio dei ragazzi di Villa Emma.
A quanto si ricava da un rapporto redatto dalla comunità di Modena ai primi del 1941, essa contava allora 193 membri in tutto.1 Il rapporto contiene anche interessanti indicazioni riguardo all’occupazione e alla condizione sociale di queste persone: solo 67, vale a dire il 34%, godevano di un reddito regolare, in quanto pensionati (19), proprietari di case o di terreni (12), impiegati nel settore privato (10), liberi professionisti (8), rappresentanti (6), commercianti (5), operai (3), artigiani (2) o industriali (2). Gli altri 126, ovvero il 66%, non avevano alcun reddito, o solo introiti saltuari: erano casalinghe (59), scolari o bambini in età prescolare
* Traduzione di Loredana Melissari. 1 Archivio della Comunità Ebraica di Modena (d’ora in poi ACEM), Modena, b. 370. fasc. Corrispondenza Delasem 1941, Dichiarazione, 29 gennaio 1941.
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(33), disoccupati (11) o bisognosi assistiti dalla comunità (23). Da quando nell’autunno 1938 erano state promulgate le leggi razziali, il numero di membri della comunità era in calo. Un rapporto del gennaio 1940 sulla situazione della comunità parla di 74 tra abbandoni, anche per emigrazione, e conversioni.2 Questa tendenza si mantenne inalterata, tanto che nel dicembre 1942 si parla ormai di soli 166 membri, cui vanno aggiunti altri 45 nella provincia di Reggio Emilia, anch’essa dipendente dalla comunità di Modena.3 Il numero di persone classificate come ebree dalle leggi razziali, e dunque esposte alla minaccia della deportazione durante l’occupazione tedesca, era leggermente più alto.
A fronte dei 166 ebrei italiani vi era un numero nettamente più elevato di ebrei stranieri immigrati, fuggiti o deportati in Italia. Questi erano sottoposti nel modenese al regime del “libero internamento”, vale a dire del soggiorno obbligato. La persona internata sottoscriveva un impegno a non lasciare senza apposita autorizzazione il comune, cittadina o villaggio che fosse, cui era stata assegnata, a presentarsi una o due volte al giorno alla locale stazione di polizia o dei carabinieri, per dimostrare la propria presenza, e a osservare il divieto di uscire di casa nelle ore notturne. Se era priva di mezzi riceveva un sussidio statale, che era a mala pena sufficiente per vivere.4 Secondo dati del Ministero dell’interno per l’aprile-maggio 1943, gli ebrei stranieri internati nella provincia di Modena erano 204.5 Questo dato è confermato da un “Elenco degli internati ebrei in provincia di Modena”, redatto dalla rappresentanza modenese dell’organizzazione assistenziale ebraica Delasem, che riporta la situazione alla fine di agosto-primi di settembre 1943, e indica quasi 210 nomi.6 L’elenco è costituito da annotazioni a mano in un quaderno, con numerose cancellature e aggiunte. Molte sono le annotazioni errate o ripetute, per esempio quando un internato era stato trasferito da un luogo a un al-
2 ACEM, b. 380, fasc. Unione delle Comunità Israelitiche Italiane 1943, Comunità Israelitica di Modena a Unione, 7 gennaio 1940. 3 ACEM, come nota 2, Comunità Israelitica di Modena a Unione, 24 marzo 1943. 4 K. Voigt, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, II, Firenze 1996, pp. 82 ss. 5 Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Roma, PS, 4 bis Stranieri internati, b. 77/1 Valori e somme appartenenti a ebrei ex jugoslavi. Sequestro. Prefettura di Modena e Ministero dell’interno 27 aprile 1943 (dati con indicazione dei luoghi di internamento). 6 ACEM, b. 574, Elenco degli internati ebrei in provincia di Modena (elenco nominativo).
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tro all’interno della provincia di Modena e ci si era dimenticati di cancellare il precedente domicilio. In alcuni casi poi venne omessa la registrazione di nuovi arrivi. In tutto mancano 21 nomi, che si sono potuti accertare da altre fonti. Tra questi vanno ricordati soprattutto cinque accompagnatori dei ragazzi di Villa Emma a Nonantola e tre collaboratori del magazzino della Delasem, sistemato nella villa stessa, che su propria richiesta erano stati trasferiti a Nonantola da altri luoghi di internamento, per esempio dal campo di Campagna presso Eboli, e che pertanto erano ancora registrati come internati.7 La provincia di Modena era al settimo posto per numero di ebrei stranieri internati dopo le province di Vicenza, Treviso, Parma, Asti, Potenza e L’Aquila8. Gli ebrei internati erano dislocati nei seguenti 23 comuni:
aprile/maggio 1943 inizio settembre 1943
Concordia 28 28 San Felice sul Panaro 17 26 Guiglia 20 18 Nonantola 9 17 Pavullo - 15 Cavezzo 15 14 Serramazzoni - 14 Modena 3 13 Finale Emilia 15 12 Zocca 18 12 Fanano 7 8 Soliera 6 8 Medolla 9 7 Monfestino di Serramazzoni 31 7 Mirandola 11 6 San Possidonio - 6 Novi di Modena 3 5 Pievepelago - 4 Castelfranco Emilia 4 3 Casinalbo - 1 Selva del Frignano - 1 Fiumalbo 7 - Lama Mocogno 1 - Altre località non precisate - 6 204 231
7 Documenti riguardanti Emilio Freilich, Ruth Kalischer, Armand Moreno, Hersz Naftali Schuldenfrei, Mosé Szapiro (assistenti dei ragazzi), Salomon Brawer, Ferdinand Glucks, Walter Reichmann (collaboratori della Delasem) nell’Archivio storico del comune di Nonantola (ASCN), E.C.A., b. 21, Soggiorno stranieri, e ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, fascicoli personali. 8 K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, p. 600.
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In alcuni brevi periodi vi furono internati anche a Bastiglia e a Sestola, che poi vennero trasferiti in altri comuni all’interno della provincia.9
Quanto a cittadinanza, secondo i dati più precisi del Ministero dell’interno per l’aprile-maggio 1943, gli internati si suddividevano principalmente in due grandi gruppi: jugoslavi (115) e anglo-libici (55). Oltre a essi vi erano 17 tedeschi o austriaci, 8 polacchi, 3 cechi, 3 greci, 2 ungheresi e 1 russo. I 27 internati che si aggiunsero tra aprile-maggio e i primi di settembre erano in prevalenza jugoslavi.
L’internamento degli ebrei stranieri, che in alcune parti d’Italia aveva avuto inizio subito dopo che il paese era entrato in guerra, nel giugno 1940, nella provincia di Modena cominciò invece relativamente tardi. La prima volta che si fa riferimento a un internato è nel settembre 1941.10 Il numero degli internati crebbe considerevolmente nell’aprile 1942, con l’arrivo di 37 ebrei libici, che vennero distribuiti in cinque comuni.11 I 37 libici erano stati arrestati a Bengasi come “stranieri nemici”, a causa della loro cittadinanza britannica, e costituivano probabilmente l’ultimo scaglione degli oltre 300 ebrei anglo-libici deportati in Italia.12 Nel corso di un anno il loro numero nella provincia di Modena salì a 61. Ai primi di settembre 1943 ve ne erano ancora 54, in sei diverse località di internamento:13
marzo 1943 inizio settembre 1943
San Felice sul Panaro 15 24 Cavezzo 15 14 Medolla 9 7 Nonantola 6 6 Modena (Casa di riposo) 3 2 Casinalbo (Casa di cura) - 1 Fiumalbo 7 -
9 Elenco degli internati ebrei, come nota 6. 10 Archivio Federale Svizzero (d’ora in poi AFS), Berna, Bestand E 4264, 1895/196, N 18698, vol. 1578, Schlome Muster, Verbale d’interrogatorio, 24 dicembre 1943. 11 ACS, PS, A 4 bis Straneri internati, b. 5/26 Modena, Elenco degli ebrei inglesi internati nella provincia di Modena giunti il giorno 21 aprile 1942. 12 V. Galimi, L’internamento in Toscana, in Enzo Collotti (a cura di), Razza e fascismo. La persecuzione degli ebrei in Toscana (1938-1943), I, Roma 1999, pp. 511-560 (527 ss.); K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 41 ss. 13 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 9/65 Sfollati dalla Libia, Elenco nominativo degli internati stranieri evacuati dalla Libia, divisi per famiglie, residenti nella provincia di Modena al 1° marzo 1943; Elenco degli internati ebrei, come nota 6, e altre fonti.
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Bastiglia 6 61 54
Questi ebrei libici erano prevalentemente persone anziane e madri con bambini, mentre i padri erano rimasti nei campi di concentramento in Libia. Vivevano quasi completamente isolati, in quanto la popolazione locale temeva di essere contagiata da malattie infettive, secondo l’avviso trasmesso agli ufficiali sanitari dalla prefettura. Questa preoccupazione non era del tutto infondata, ma soprattutto veniva sfruttata dalle autorità per impedire contatti tra internati e popolazione, che erano sostanzialmente malvisti.14
Secondo la documentazione raccolta nel Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano per il Libro della memoria, dalla provincia di Modena vennero deportati 70 ebrei, di cui 21 erano italiani e 49 stranieri.15
Quando il Libro della memoria afferma che una persona è stata deportata da una determinata provincia, significa che è lì che è stata catturata. Nella letteratura più vecchia, invece, per quanto riguarda i deportati dalla provincia di Modena ci si rifaceva alla targa posta all’interno della sinagoga di Modena, che elenca 16 nomi di ebrei italiani (27 comprendendo quelli della provincia di Reggio Emilia)16. Tre delle persone lì indicate morirono durante l’occupazione tedesca in quanto partigiani o in circostanze mai definitivamente chiarite. Solo due, come risulta da un confronto con il Libro della memoria, vennero arrestati in provincia di Modena: Guido Melli e il settantottenne Eugenio Guastalla. Un terzo, Cesare Lonzana Formiggini, arrestato alla frontiera svizzera, venne trasferito prima nel carcere di Como, poi nella sua città natale di
14 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Commissario prefettizio Nonantola a Ufficiale sanitario Nonantola, 2 maggio 1942; Prefettura di Modena a Ufficiale sanitario Nonantola, 5 giugno 1942, e altri documenti. Cfr. anche i rapporti sugli ebrei libici internati a Bazzano e a Camugnano in provincia di Bologna in ACS, PS, M 4 Mobilitazione civile, b. 51/Bologna. 15 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1991, p. 29. Allo stato della documentazione del CDEC il numero degli ebrei deportati dalla provincia di Modena ammontava a 71 (cortese comunicazione di Gigliola Lopez, CDEC). Due bambini nati nel campo di Fossoli non sono stati inclusi nell’elenco in appendice al presente saggio, che è basato sul Libro della memoria. Vi è invece indicato Salomon Papo, il cui luogo di arresto non è stato accertato nel Libro della memoria. Il suo ultimo domicilio conosciuto era a Gaiato di Pavullo (cfr. nota 26 e 27). 16 G. Scaglioni, Breve ricognizione storica sulle vicende degli ebrei modenesi e degli ebrei presenti nel Modenese tra il 1938 e il 1945, “Rassegna di storia dell’Istituto storico della Resistenza e di Storia Contemporanea in Modena e provincia”, a. 9, 1989, pp. 113125 (pp. 122 s.); L. Casali, Storia della Resistenza a Modena, I, Modena 1980, p. 225.
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Modena, e da lì nel campo di Fossoli.17 Sei ebrei i cui nomi si trovano sulla targa, tra cui anche il rabbino di Modena, Rodolfo Levi, sua moglie e sua figlia, vennero arrestati nello stesso giorno a Firenze, dove avevano trovato tutti insieme un nascondiglio; altri quattro vennero presi rispettivamente a Roma, Torino, Asti e Venezia.18 Tra gli ebrei italiani deportati dalla provincia di Modena, 19 vi erano arrivati dopo l’8 settembre provenienti da Bologna, Ferrara, Padova, Verona, Venezia e Gorizia, alla ricerca di un luogo dove nascondersi. Soltanto sei ebrei italiani vennero effettivamente arrestati nella città di Modena, gli altri furono catturati a Bomporto, Carpi, Castelfranco Emilia, Formigine, Montefiorino, San Cesario sul Panaro e Spilamberto.19
Dei 49 ebrei stranieri deportati, 45 erano anglo-libici. Furono catturati, nel corso di un rastrellamento disposto dal Ministero dell’interno e riguardante numerose province, il 30 novembre 1943, il giorno stesso dell’ordine di polizia n. 5, con cui il governo della Repubblica di Salò ordinava l’invio in campo di concentramento di tutti gli ebrei abitanti in Italia.20 A San Felice sul Panaro, Cavezzo e Medolla neppure uno sfuggì all’arresto. Perché non si erano nascosti? Già si è accennato a una delle ragioni: il loro quasi completo isolamento dalla popolazione. In genere trovava aiuto al momento del pericolo soltanto chi intratteneva già da tempo rapporti di reciproca conoscenza o relazioni amichevoli. L’isolamento, anche degli internati di diversa nazionalità, fece sì che gli anglo-libici non si rendessero conto della gravità della loro situazione. Un altro motivo per cui essi restarono nelle località di internamento fu che, trattandosi di donne con bambini e di persone anziane, temevano i disagi di una fuga e di una vita nella clandestinità.
Degli ebrei libici, solo nove si salvarono dall’arresto e dalla deportazione. Due erano ricoverati in una casa di riposo di Mo-
17 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 316, 396, 411. 18 Nomi e luoghi dell’arresto in G. Scaglioni, Breve ricognizione, cit., p. 122, e in L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 380, 382, 489, 552 (Firenze), 175 (Roma), 452 (Asti), 492 (Venezia), 582 (Torino). 19 Cfr. l’elenco dei deportati nell’Appendice. 20 Confronto tra l’Elenco degli internati ebrei (nota 6) e l’Elenco nominativo degli internati stranieri evacuati dalla Libia (nota 13) con i nomi dei deportati nel Libro della memoria, dove come data di arresto degli ebrei in diverse province è indicato il 30 novembre 1943. Non è stato possibile ad oggi trovare il corrispondente ordine di arresto da parte del Ministero dell’interno.
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dena e uno in una casa di cura a Casinalbo.21 Sei si trovavano a Nonantola, alloggiati in un’ala di Villa Emma, ed erano costantemente in contatto con i ragazzi e i loro accompagnatori, per cui dai loro racconti si poterono fare un’idea di cosa significasse la persecuzione nazista. Quando i ragazzi, suddivisi in più gruppi, fuggirono in Svizzera, essi si aggregarono e giunsero con loro alla meta.22 I cittadini britannici, e di conseguenza anche gli anglolibici, non rientravano nel programma di sterminio della “soluzione finale”. Invece che ad Auschwitz, come la gran parte degli altri ebrei catturati in Italia, vennero portati da Fossoli a Bergen-Belsen, da dove, prima della loro liberazione, vennero trasferiti in un altro campo. La maggior parte di essi sopravvisse pertanto alla deportazione.23
Se si prescinde dagli anglo-libici, sorprende constatare quanto pochi furono gli ebrei stranieri deportati dalla provincia di Modena: in tutto due polacchi e due jugoslavi. I due polacchi erano Moise e Emil Blatteis, internati prima a Lama Mocogno e in seguito a San Felice sul Panaro. Nel Libro della memoria non risulta la data del loro arresto. Probabilmente vennero portati nel carcere di Modena contemporaneamente agli ebrei libici.24 Dei due jugoslavi uno era Siegfried Wohlmuth, un industriale di Zagabria, che era stato internato da ultimo a Concordia, e che il 7 dicembre 1943 venne arrestato dalla milizia fascista a Montetortore, nell’Appennino modenese.25 Il secondo jugoslavo era il quindicenne Salomon Papo di Sarajevo, uno dei ragazzi di Villa Emma. Faceva parte del gruppo arrivato a Nonantola il 14 aprile 1943, proveniente da Spalato, e aggregatosi ai ragazzi venuti dalla Germania e dall’Austria. Non poté tuttavia restare con i suoi compa-
21 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Questura di Modena a Comando stazione agenti di PS Modena, 25 maggio 1942, e altri documenti. 22 ASCN, come nota 7, fasc. Ebrei inglesi sfollati dalla Libia, Comune di Nonantola, Elenco degli appartenenti alla razza ebraica nel Comune di Nonantola e altri documenti; AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali di Haim Benjamin, Jolanda Benjamin, Ester Benjamin e Heria Halfon Coen, Ada Coen, Ester Coen. 23 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, pp. 45, 49, 90. 24 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 45/Blatteis, Emil; Elenco degli internati ebrei, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, p. 148. 25 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 376/Wohlmuth, Siegfried; W. Bellisi, La persecuzione antiebraica nell’alta Valle del Panaro, “Rassegna di storia dell’Istituto storico della Resistenza e di storia contemporanea in Modena e provincia”, 1990, a. 10, pp. 39-57 (p. 50); I. Vaccari, Il tempo di decidere. Documenti e testimonianze sui rapporti tra il clero e la Resistenza, Modena 1968, pp. 90 ss.; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 621.
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gni perché malato di tubercolosi, e già ai primi di maggio venne mandato in un sanatorio a Gaiato presso Pavullo. Da lì scrisse più volte a Gino Friedmann, capo della rappresentanza della Delasem a Modena e vicepresidente della Comunità israelitica, dandogli notizie sul suo stato di salute. La sua ultima lettera è del 9 novembre 1943, poco prima che Friedmann fuggisse in Svizzera. Prima della partenza Friedmann si preoccupò che il soggiorno in sanatorio fosse pagato anticipatamente fino al marzo 1944.26 Che cosa ne sia stato del ragazzo dopo la sua ultima lettera a Friedmann e in quali circostanze sia stato arrestato, resta avvolto nel buio. Il suo nome ricompare di nuovo, e per l’ultima volta, in una lista redatta in occasione della sua deportazione da Fossoli ad Auschwitz, il 5 aprile 1944.27
Si impone una breve riflessione sulla circostanza che il totale degli ebrei italiani e stranieri arrestati in provincia di Modena e da lì deportati, 25 a parte gli ebrei anglo-libici, fu lievemente inferiore alla media in Italia. Questa particolarità fu certo dovuta, tra l’altro, al fatto che a Modena non si ebbe alcun rastrellamento da parte della polizia tedesca. Tuttavia molte circostanze restano ancora da chiarire, soprattutto il perché le perquisizioni effettuate nelle case dalla polizia e dalla milizia italiana nei primi giorni di dicembre, dopo l’emanazione dell’Ordine di polizia n. 5, abbiano portato solo a pochi arresti (tre a Modena, due a Bomporto, due a Spilamberto e uno a Montetortore). Si deve ritenere che vi fossero stati degli avvertimenti, e un funzionario della questura, Francesco Vecchioni, il cui nome viene spesso fatto a questo proposito, vi svolse probabilmente un ruolo di rilievo.28
Per sfuggire alla deportazione era necessario allontanarsi dalla propria abitazione, nascondendosi nella stessa città, o nei dintorni, oppure più lontano, in un’altra provincia. Un’altra possibilità era la fuga verso nord, in Svizzera, o verso sud, nei territori controllati dagli Alleati. In entrambi i casi il rischio era assai elevato. Fino al 2 dicembre 1943 la Svizzera respingeva di regola i profughi
26 ACEM, b. 574, fasc. Papo, Salomon, Gaiato, corrispondenza con Friedmann; b. 537, fasc. Corrispondenza Delasem, Rappresentanza Delasem Modena a Consorzio provinciale antitubercolare, 24 novembre 1943. Cfr. K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma a Nonantola, in F. Bonilauri-V. Maugeri (a cura di), Le comunità ebraiche a Modena e a Carpi. Dal Medioevo all’età contemporanea, Firenze 1999, pp. 241-265 (p. 264). 27 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 459. 28 G. Scaglioni, Breve ricognizione storica, cit., pp. 121 ss.; C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano 1998, p. 156.
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ebrei che tentavano di superare il confine italiano.29 A sud le difficoltà e i pericoli non erano certo minori. Tuttavia si ha notizia di alcuni casi di ebrei che riuscirono effettivamente ad attraversare la linea del fronte.30
In Svizzera, a quanto risulta ad oggi, furono accolti 165 ebrei che prima dell’occupazione tedesca abitavano nella provincia di Modena, vale a dire oltre un terzo, e precisamente 36 italiani, 49 stranieri e 69 ragazzi di Villa Emma con 11 accompagnatori non internati. Tra gli ebrei italiani i più noti erano Gino Friedmann, Salvatore Donati e il presidente della Comunità israelitica di Modena, Umberto Campagnano di Carpi, ognuno dei quali raggiunse la Svizzera insieme a numerosi familiari.31 I 50 stranieri erano stati internati nei seguenti comuni:32
Nonantola 16 Finale Emilia 9 Concordia 6 Mirandola 6 Modena 5 Pievepelago 4 Monfestino di Serramazzoni 2 Serramazzoni 1 49
A Nonantola si aggregarono ai ragazzi, nella fuga in Svizzera, oltre ai sei ebrei libici già ricordati, cioè due donne, tre bambini e un vecchio che abitavano a Villa Emma, i cinque accompagnatori dei bambini classificati come internati, e una coppia e una donna cui le autorità avevano consentito di cambiare luogo di internamento perché i loro figli facevano parte del gruppo di Villa Emma.
29 R. Broggini, La frontiera della speranza. Gli ebrei dall’Italia verso la Svizzera 19431945, Milano 1998, pp. 17 ss. 30 K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 487 ss. 31 I nomi dei 36 ebrei italiani sono: Mario Camerini, Umberto Campagnano, Elda Campagnano, Emma Campagnano, Manlio Campagnano, Alberto Castelfranco, Amalia Castelfranco, Ermanno Castelfranco, Alfredo Corinaldi, Giulia Volterra Corinaldi, Laura Corinaldi, Salvatore Donati, Graziella Schiller Donati, Amedeo Donati, Andrea Donati, Anna Donati, Maurizio Donati, Raffaele Donati, Benvenuto Donati, Donato Donati, Enrico Donati, Gino Donati, Irma Donati, Federica Korth Fried, Dino Friedmann, Emma Friedmann, Gino Friedmann, Flaminio Modena, Luisa Modena, Rita Modena, Paolo Padoa, Laura Padoa, Riccardo Padoa, Emilia Rimini, Ferruccio Teglio, Anna Vigevani. Cortese informazione di Renata Broggini da AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali. 32 Confronto dell’Elenco degli internati ebrei (come nota 6) con l’elenco degli ebrei accolti in Svizzera in R. Broggini, La frontiera della speranza, cit., pp. 494 ss. Alcune integrazioni sono state fatte secondo AFS, Bestand E 4264, 1985/196.
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I tre collaboratori della Delasem invece raggiunsero la Svizzera per conto proprio.33
A Finale Emilia tutti gli internati, ad eccezione della dottoressa polacca Fryderyke Hubschmann, che riuscì a sopravvivere nel modenese, si misero in viaggio per la Svizzera.34 Kurt Feuerstein di Graz venne arrestato in prossimità della frontiera e in seguito deportato.35 Resta avvolto nel mistero il destino di sua moglie Hermine Weiss, che era internata a Finale insieme a lui e che si deve ritenere lo accompagnasse nella fuga.36 Il suo nome non compare né tra quelli delle persone accolte in Svizzera né tra quelli dei deportati. La fuga di undici ebrei da un luogo di internamento non si spiega se non con una assistenza energica e ben organizzata. Come si rileva dai verbali degli interrogatori cui i profughi furono sottoposti al loro arrivo in Svizzera, gli ebrei maschi internati a Finale Emilia erano stati arrestati da militari della Wehrmacht poche ore dopo l’arrivo delle truppe tedesche, il 9 settembre, ma rilasciati dopo uno o due giorni. Un evento di questo genere non risulta ad oggi si sia verificato in alcun altro luogo di internamento in Italia. In uno dei verbali si dice che il comandante tedesco della piazza avrebbe consigliato loro di lasciare l’Italia.37 Nel timore di essere di nuovo arrestati, nelle due settimane successive tutti gli internati che in seguito giunsero in Svizzera abbandonarono Finale e trovarono rifugio nei villaggi dell’Appennino modenese. Alexander Mayerhofer, un commerciante di Zagabria, si nascose con la moglie, una insegnante di pianoforte che aveva studiato a Graz, in una canonica di Montalbano.38 Il banchiere berlinese Erich Memelsdorff e sua moglie, che vivevano in Italia già dal 1934, cambiarono tre volte alloggio nelle montagne a ovest di Vignola e da ultimo si rifugiarono presso un sacerdote di Montecorone.39 Il commerciante di legname
33 AFS, Bestand E 4264, 1985/196, fascicoli personali su Arthur Karger, Gertrud Hiller Karger, Malka Schwarz e i nomi elencati alle note 7 22. 34 Elenco degli internati ebrei, come nota 6; ACEM, b. 370 Comitato di Assistenza Ebrei in Italia, Delasem. Entrate-uscite aprile 1945-luglio 1946. 35 Elenco, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., p. 267. 36 Elenco, come nota 6. 37 AFS, Bestand E 4264, 1985/196, N 20254, vol. 1729, Erich Memelsdorff, Betty Prager Memelsdorff, Verbali d’interrogatorio. 38 AFS, come nota 37, N 19074, vol. 1615, Alexander Mayerhofer, Aranka Nemenyi Mayerhofer, Verbali d’interrogatorio. Parroco di Montalbano era don Roberto Manfredini. 39 Come nota 37. Parroco di Montecorone era don Giuseppe Taliani. L’A. ringrazia Enrico Ferri, di Nonantola, per avergli fornito il nome dei due sacerdoti.
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Marcel Trostler di Zagabria e sua moglie rimasero per tre settimane in un convento non meglio precisato sull’Appennino modenese e poi per due mesi da un parroco.40 Anche il rabbino Moric Levy di Zagabria, insieme alla moglie e alla madre, trovò rifugio per due mesi nella canonica di un villaggio di montagna. Sembrerebbe accertato che fosse quella di don Aurelio Reggianini a Montetortore.41
Quando la milizia fascista dopo l’emanazione dell’Ordine di polizia n. 5 iniziò a dare la caccia agli ebrei nei paesi di montagna del modenese, la situazione divenne pericolosa al punto che molti preferirono tornare in pianura. La famiglia Mayerhofer fece ritorno a Finale Emilia e vi trovò rifugio presso un contadino. I Levy lasciarono giusto in tempo Montetortore e si trasferirono a Modena, dove speravano di passare più facilmente inosservati. La famiglia Trostler fu la prima a tentare la fuga in Svizzera, il 7 dicembre. Prima di partire i Trostler si recarono a Massa Finalese, dove erano stati internati in precedenza, per ritirare il proprio bagaglio. Da lì raggiunsero Como via Modena in treno, ma a causa delle forti nevicate sui monti furono costretti a interrompere la loro fuga e a tornare a Massa Finalese.42
Il 12 dicembre le famiglie Mayerhofer, Memelsdorff e Trostler si incontrarono a Modena. Da lì, accompagnati da un uomo raccomandato loro da un parroco di Finale Emilia, viaggiarono in treno fino a Como, via Milano. A Como pernottarono, e la sera successiva raggiunsero in battello Argegno e poi in autobus Lanzo d’Intelvi. Qui il loro accompagnatore li affidò a dei contrabbandieri, cui pagarono l’incredibile somma di 90.000 lire — all’epoca il salario mensile di un operaio era di appena 500 lire. La mattina del 14 dicembre, verso le 2, il gruppetto di sei persone attraversò il confine.43 Una settimana dopo, il 21 dicembre, i Levy raggiunsero la Svizzera seguendo lo stesso percorso. In un verbale d’interrogatorio si fa addirittura il nome del sacerdote che a Modena aveva organizzato la fuga: Francesco Boccoleri. Fino a Lanzo d’Intelvi la famiglia Levy fu accompagnata da un prete in abiti borghesi, di cui non è detto il nome. Da lì, a quanto dichia-
40 AFS, come nota 37, N 20026, vol. 1708, Marcel Trostler, Ella Kaszab Trostler, Verbali d’interrogatorio. 41 AFS, come nota 37, N 19898, vol. 134, Moric Levy, Hanna Salpeter Levy, Sara Levy, Verbali d’interrogatorio. 42 Come note 38, 40, 41. 43 Come note, 37, 38, 40.
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rarono, vennero condotti al confine da partigiani, che non pretesero alcun pagamento.44
Dalle deposizioni dei profughi provenienti da Finale Emilia appare evidente che in brevissimo tempo si costituì una rete di sacerdoti che si tenevano in contatto tra di loro e venivano in aiuto agli ebrei. Alcuni sacerdoti di Finale Emilia e Massa Finalese, il cui nome ci è ignoto, si rivolsero ai loro confratelli sull’Appennino, che procurarono un alloggio agli ebrei. Quando in montagna la situazione si fece pericolosa, altri sacerdoti di Modena si presero cura dei perseguitati e organizzarono la loro fuga in Svizzera.
Dei 28 ebrei internati a Concordia solo due famiglie riuscirono a raggiungere la Svizzera. Bruno Eremic, un commerciante di Zagabria, sua moglie e sua figlia abitarono per qualche tempo clandestinamente presso amici a Modena. Poi Eremic si recò al confine svizzero, che attraversò il 25 ottobre presso Campocologno, sopra Tirano.45 La sua decisione di partire da solo per la Svizzera fu probabilmente dovuta al desiderio di non esporre la sua famiglia al rischio di essere respinta alla frontiera. Se fosse stato accolto, era certo che lo sarebbe stata anche la sua famiglia. Il 20 novembre la moglie e la figlia raggiunsero il territorio svizzero presso Chiasso, dopo aver trascorso tre settimane in un convento che, se le informazioni di Eremic dopo il suo arrivo in Svizzera sono corrette, si trovava a Maranello.46 Anche Paul Ernst, un impiegato di Zagabria parente della famiglia Eremic, sua moglie e sua figlia, guidati da contrabbandieri, cui pagarono tutti insieme 26.000 lire, riuscirono il 26 ottobre a passare in Svizzera presso Campocologno.47 La famiglia Mattersdorfer di Karlovac, composta da tre persone e internata a Concordia, venne invece fermata il 31 marzo 1944 vicino alla frontiera, presso Como, da una pattuglia tedesca, probabilmente del Zollgrenzschutz, la polizia confinaria, e incarcerata a Milano nel braccio di San Vittore sorvegliato dalla Gestapo. Fu poi trasferita a Fossoli e da lì ad Auschwitz.48 probabilmente i Mattersdorfer erano tra quegli ebrei internati a Con-
44 Come nota 41. 45 AFS, come nota 37, N 18792, vol. 1588, Bruno Eremic, Marga Bauer Eremic, Novenka Eremic, Verbali d’interrogatorio. 46 Ivi. 47 AFS, come nota 37, N 18932, vol. 18932, Paul Ernst, Olga Schley Ernst, Vera Ernst, Verbali d’interrogatorio. 48 Elenco, come nota 6; L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria, cit., pp. 409, 520, Karl Felix Mattersdorfer, Elsa Sachs Mattersdorfer, Liliana Mattersdorfer.
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cordia che ricevettero aiuto dai partigiani.49 Anche da Concordia alcuni ebrei fuggirono sui monti dell’Appennino modenese, come conferma il caso del già citato Siegfried Wohlmuth, che venne nascosto da don Reggianini nella canonica di Montetortore, fino a che le Brigate nere non lo scovarono e non lo portarono via.50
Tutti e sei gli internati di Mirandola riuscirono a raggiungere la Svizzera. Si trattava delle famiglie Talvi e Almoslino di Belgrado, imparentate tra di loro, che erano state trasferite a Mirandola dal campo di internamento di Ferramonti-Tarsia in Calabria. A stare al loro racconto, il 10 ottobre vicino a Cernobbio strisciarono sotto il reticolato eretto lungo il confine e si presentarono alle guardie svizzere a Sagno.51
Joseph Stern, sua moglie e i suoi tre figli, internati a Modena, di origine ungherese ma cittadini cechi, vennero accompagnati a Tirano da Goffredo Pacifici, il bidello di Villa Emma, insieme ad altri profughi, tra cui cinque ragazzi di Villa Emma che si erano separati dal gruppo e per qualche tempo avevano trovato rifugio a Roma. A Tirano vennero presi in consegna dai contrabbandieri, che il 2 dicembre li aiutarono ad attraversare la frontiera presso Viano.52 Shlomo Muster, un rappresentante di commercio polacco, e sua moglie si recarono ai primi di novembre da Monfestino di Serramazzoni, dove erano internati, a Milano, dove avevano abitato in precedenza, e lì prepararono la fuga attraverso il Monte Bisbino presso Como.53 A Serramazzoni il quindicenne Marco Stern venne affidato dai genitori all’economo di Villa Emma, Marco Schoky, che dietro pagamento lo portò con sé in Svizzera a metà ottobre.54 Infine il commerciante Ernst Horovitz di Zagabria, internato a Pievepelago, dal settembre 1943 al maggio 1944 visse con la moglie, la figlia e la suocera, come dichiarò a verbale al momento dell’arrivo in Svizzera, “nascosto in varie località
49 G. Scaglioni, Breve ricognizione, cit., p. 121; C. Silingardi, Una provincia partigiana, cit., p. 158. 50 Come nota 25. 51 ACS, PS, A 4 bis Stranieri internati, b. 18/Almuzlino, Menachem; b. 347/ Talvi, Ilija e famiglia; AFS, come nota 37, N 18802, vol. 1589, Ilija Talvi, Rebecca Behar Talvi, Leo Talvi, Raffael Talvi, Menachem Almoslino, Verbali d’interrogatorio. 52 AFS, come nota 37, N 19694, vol. 1674, Joseph Stern, Rosa Weiss Stern, Alexander Stern, Mario Stern, Benjamin Stern; colloquio di Enrico Ferri con Bemjamin Stern, gentilmente messo a disposizione dell’A. da Enrico Ferri. 53 Come nota 10. 54 Elenco, come nota 6; AFS, come nota 37, N 17929, vol. 1518, Marco Stern; colloquio con Marco Stern, Haifa, 14 giugno, 1996.
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dell’Italia settentrionale”, fino a che la famiglia non riuscì a fuggire presso Bruzella sul Monte Bisbino.55
Ad oggi non siamo in grado di indicare, neppure approssimativamente, quanti furono gli ebrei che, partiti dalla provincia di Modena per raggiungere la Svizzera, si videro rifiutare l’ingresso alla frontiera. Infatti la documentazione riguardante le persone respinte, in origine conservata presso il Schweizer Bundesarchiv, l’archivio federale svizzero, è stata poi distrutta - contrariamente a quella relativa alle persone accolte! Forse col tempo, effettuando ricerche negli archivi cantonali, sarà possibile rinvenire alcuni nomi.56 Per il momento non si è riusciti ad accertare se Cesare Lonzana Formiggini, Kurt Feuerstein e la famiglia Mattersdorfer vennero catturati dopo essere stati respinti alla frontiera svizzera o mentre vi si stavano recando.
A Nonantola, nella Villa Emma, erano alloggiati in quel settembre 73 ragazzi con 19 accompagnatori, tra cui tre italiani: Umberto Jacchia, direttore della villa, il medico Laura Cavaglione, e il bidello Goffredo Pacifici. Vi erano due gruppi di ragazzi. Il primo era formato da 40 ragazzi, provenienti in prevalenza dalla Germania e dall’Austria, e, all’inizio, da 9 accompagnatori. Questi ragazzi erano fuggiti tra l’autunno 1940 e la primavera 1941 a Zagabria, attraversando le montagne con l’aiuto di contrabbandieri. A Zagabria erano stati assistiti dalla comunità ebraica e da associazioni sioniste. Dopo l’occupazione di Zagabria da parte dei tedeschi, Josef Indig, un giovane sionista di Osijek, li condusse nella parte della Slovenia annessa all’Italia, dove trovarono alloggio in un vecchio castello di caccia, a Lesno Brdo presso Lubiana. Quando nella zona ebbe inizio la lotta partigiana, il Ministero dell’interno concesse loro nel luglio 1942 l’autorizzazione a trasferirsi a Nonantola, dove l’organizzazione assistenziale ebraica Delasem aveva preso in affitto a questo scopo Villa Emma. Nell’aprile 1943 vennero raggiunti dal secondo gruppo, composto da 33 ragazzi jugoslavi e due accompagnatori, che si erano rifugiati e avevano trascorso qualche tempo a Spalato e in altre località sulla costa dalmata, allora sotto dominio italiano. Dal mo-
55 AFS, come nota 37, N 22455, vol. 192a, Ernst Horovitz, Herta Friedmann Horovitz, Ajana Horovitz, Irene Friedmann, Verbali d’interrogatorio. 56 G. Koller, Entscheidung uber Leben und Tod. Die behordliche Praxis in der schweizerischen Fluchtlingspolitik wahrend des Zweiten Weltkriegs, in Die Schweiz und die Fluchtlinge-La Suisse et les réfugiés 1933-1945 (Zeitschrift des Schweizerischen Bundesarchivs. Studien und Quellen 22), Berna 1996, pp. 17-106 (pp. 76 ss.).
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mento che il primo gruppo era entrato in Slovenia legalmente, con l’autorizzazione del Ministero dell’interno, ai ragazzi che lo componevano non venne attribuito lo status di internati né a Lesno Brdo né a Nonantola.57
E’ noto ciò che accadde dopo l’8 settembre: entro quarantott’ore dall’annuncio dell’armistizio tra il governo Badoglio e gli Alleati, quando le prime truppe tedesche erano ormai a Nonantola, i ragazzi abbandonarono Villa Emma. La metà circa trovò accoglienza nel seminario annesso all’abbazia, in qual momento vuoto a causa delle vacanze estive, mentre gli altri si nascosero in un raggio di tre o quattro chilometri presso contadini, artigiani e negozianti. La sistemazione in seminario era stata concordata tra il medico Giuseppe Moreali e il giovane sacerdote don Arrigo Beccari, economo del seminario stesso, che riuscì a ottenere il consenso del rettore, don Ottaviano Pelati.58 Indig e gli altri accompagnatori dei ragazzi erano ben consapevoli che non si trattava di un nascondiglio sicuro per molto, perché forse era noto alla polizia tedesca di stanza a Bologna e a Modena. L’idea di recarsi con i ragazzi verso sud venne abbandonata, quando si vide che il fronte si stava consolidando nei pressi di Montecassino, e che non c’era più da sperare in una rapida avanzata degli Alleati.59 Restava dunque solo la fuga in Svizzera. A organizzarla furono Indig e Pacifici, l’unico collaboratore della Delasem a Villa Emma rimasto sul posto. Si recarono insieme fino a Ponte Tresa; lì controllarono quali possibilità vi fossero per passare la frontiera e presero accordi con i contrabbandieri. Per mettere alla prova la disponibilità svizzera ad accogliere i profughi, Indig mandò dapprima due gruppi, ciascuno formato da cinque-sei ragazzi e alme-
57 K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma, cit., pp. 241-269. Per il gruppo di Spalato vi si parla di 34 ragazzi, perché uno degli accompagnatori, l’insegnante Jakov Maestro, era compreso dell’elenco dei ragazzi. Per precisione va detto che due accompagnatori del gruppo, Alexander Licht e la moglie, non abitavano a Villa Emma, ma in una locanda a Nonantola. 58 Per quanto riguarda il periodo trascorso nei nascondigli a Nonantola cfr. soprattutto i ricordi di Josef Indig, pubblicati solo in ebraico: J. Ithai, Yaldei Villa Emma, Tel Aviv 1983, pp. 271 ss. Una breve sintesi si trova con il titolo: J. Ithai, The Children of Villa Emma: Rescue of the Last Youth Aliyah Before the Second World War, in I. Herzer (a cura di), The Italian Refuge. Rescue of Jews during the Holocaust, Washington 1989, pp. 178-202. Tra i libri dedicati all’argomento vanno ricordati: I. Vaccari, Villa Emma. Un episodio agli albori della Resistenza modenese nel quadro delle persecuzioni razziali, Modena 1960; R. Paini, I sentieri della speranza. Profughi ebrei, Italia fascista e la “Delasem”, Milano 1988, pp. 174 ss.; E. Ferri, La vita libera. Biografia di Don Arrigo Beccari 1933-1970, Nonantola 1993, pp. 90 ss. 59 J. Ithai, Yaldei Villa Emma, cit., pp. 277, 280.
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no un adulto. Furono lasciati entrare due ragazzi al di sotto dei sedici anni e una ragazza più grande, mentre gli altri vennero respinti e dovettero tornare a Nonantola. In seguito Indig riuscì a mettersi in contatto con Nathan Schwalb, rappresentante in Svizzera dello Hechaluz, l’associazione che riuniva le organizzazioni sionistiche giovanili, e questi si dette da fare presso il governo svizzero per ottenere che i ragazzi venissero accolti. Alla fine ai ragazzi e ai loro accompagnatori venne concesso l’ingresso, a condizione che le organizzazioni ebraiche ne garantissero il mantenimento durante la loro permanenza in Svizzera e l’espatrio dopo la guerra. I ragazzi si recarono quindi al confine provvisti di regolari documenti di identità per stranieri rilasciati dal comune di Nonantola. L’attraversamento del confine era in quel periodo estremamente pericoloso, in quanto da poco tempo sul versante italiano agiva anche il Zollgrenzschutz, la polizia di frontiera tedesca, che inviava gli ebrei catturati al carcere di Varese e da lì al Comando di polizia e delle SS di Como.
I ragazzi raggiunsero il territorio elvetico divisi in quattro gruppi principali, tra il 1° e il 16 ottobre, guadando al buio il Tresa, il fiume che segnava il confine.60
Alla liberazione di Modena ad opera delle truppe alleate e dei partigiani, il 24 aprile 1945, i rappresentanti dell’American Jewish Joint Distribution Committee, giunti poco tempo dopo, trovarono in città circa 150 ebrei, cui prestarono assistenza.61 Di questi, secondo un rapporto della fine di maggio, 74 (a fronte di 166 nel dicembre 1942) erano italiani che risiedevano a Modena da prima dell’occupazione tedesca, 45 invece provenivano da altre parti d’Italia, e 40 (contro i 231 dell’inizio di settembre 1943) erano stranieri di varie nazionalità. Pochi tra questi, secondo l’elenco delle persone assistite dal rinato comitato Delasem, erano coloro che, come Fryderyke Hubschmann e Karl Stark, erano stati precedentemente internati nella provincia di Modena.62 Gli jugoslavi, a quanto pare, erano partiti per la maggior parte verso sud ed erano rimasti bloccati a Roma.63 A fine maggio solo pochi ebrei ita-
60 K. Voigt, I ragazzi di Villa Emma, cit., pp. 261 ss. 61 Archivio dell’American Jewish Joint Distribution Committee (JDC), New York, 883 Italy/General 1945, rapporti di Melvin Goldstein al JDC di Lisbona, 19 e 28 maggio 1945. 62 Elenco, come nota 6 e nota 34. 63 S. Sorani, L’assistenza ai profughi ebrei in Italia (1933-1947). Contributo alla storia della Delasem, Roma 1983, p. 297.
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liani sopravvissuti al genocidio in altre parti d’Italia potevano essere tornati a Modena, e nessuno ancora dalla Svizzera. Gli ebrei stranieri di regola non tornarono nelle località dove erano stati internati, perché non vi avrebbero trovato né lavoro, né assistenza, né infine occasioni per emigrare.64 Le cifre elencate nel rapporto del rappresentante del Joint danno un quadro della dispersione cui era andata incontro la componente ebraica della popolazione in una città e una provincia d’Italia, costretta a fuggire e a nascondersi.
Appendice
Ebrei italiani deportati dalla provincia di Modena
Nome Luogo e data dell’arresto Coen, Giuseppe Modena 07/12/1943 Coen, Marcello Modena 07/12/1943 Consolo, Giulia Provincia di Modena s.d. Fornari, Mario Modena 04/02/1944 Guastalla, Eugenio Formigine 05/07/1944 Jona, Gino Modena s.d. Levi Coen, Ines Modena 07/12/1943 Melli, Guido Modena 10/11/1943 Moresco Sermoneta, Giuditta Castelfranco Emilia 22/11/1943 Muggia Vigevani, Amelia Spilamberto 02/12/1943 Ravenna, Roberto Montefiorino s.d. Ravenna, Rodolfo Montefiorino s.d. Ravenna, Vittorio Montefiorino s.d. Schoenfeld, Bela Bomporto 03/12/1943 Sermoneta, Benedetto Castelfranco Emilia 22/11/1943 Servadio Schoenfeld, Letizia Bomporto 03/12/1943 Steinmann, Filippo San Cesario sul Panaro s.d. Steinmann, Iris San Cesario sul Panaro s.d. Todesco, Emilio Carpi 08/02/1944 Todesco, Mario Carpi 08/02/1944 Vigevani, Lionello Spilamberto 02/12/1943
Ebrei stranieri deportati dalla provincia di Modena
Nome Luogo e data dell’arresto Arbib Reginiano, Rachele Cavezzo 30/11/1943 Bedussa, Rosa Medolla 30/11/1943 Benjamin, Ester San Felice sul Panaro 30/11/1943
64 K. Voigt, Il rifugio precario, cit., II, pp. 536 ss.
Deportazione e salvataggio degli ebrei nel modenese 505
Benjamin, Giacomo San Felice sul Panaro 30/11/1943 Blatteis, Emilio San Felice sul Panaro s.d. Blatteis, Massimo San Felice sul Panaro s.d. Buaron, Esterina San Felice sul Panaro 30/11/1943 Buaron, Giacobbe San Felice sul Panaro 30/11/1943 Buaron, Hamus San Felice sul Panaro 30/11/1943 Buaron, Hlafo Medolla 30/11/1943 Buaron, Hlafo San Felice sul Panaro 30/11/1943 Buaron, Leone Felice San Felice sul Panaro 30/11/1943 Buaron Labi, Margherita Cavezzo 30/11/1943 Buaron, Salma Medolla 30/11/1943 Core, Rebecca San Felice sul Panaro 30/11/1943 Debasch, Fortunato San Felice sul Panaro 30/11/1943 Debasch, Giuditta San Felice sul Panaro 30/11/1943 Debasch, Jolanda San Felice sul Panaro 30/11/1943 Debasch, Leone San Felice sul Panaro 30/11/1943 Giuili Labi, Giora Cavezzo 30/11/1943 Glam, Giulia San Felice sul Panaro 30/11/1943 Labi, Aronne San Felice sul Panaro 30/11/1943 Labi, Giulia Cavezzo 30/11/1943 Labi, Giulia San Felice sul Panaro 30/11/1943 Labi, Quintina Medolla 30/11/1943 Labi, Sanin San Felice sul Panaro 30/11/1943 Labi, Sion Medolla 30/11/1943 Labi, Sion Medolla 30/11/1943 Labi, Vittorio San Felice sul Panaro 30/11/1943 Labi, Wanda San Felice sul Panaro 30/11/1943 Lallum Labi, Ninetta Medolla 30/11/1943 Leghziel Labi, Misa San Felice sul Panaro 30/11/1943 Mazzus Labi, Emilia San Felice sul Panaro 30/11/1943 Mazzus Debasch, Rebecca San Felice sul Panaro 30/11/1943 Mazzus Buaron, Sofia San Felice sul Panaro 30/11/1943 Nemni, Renato San Felice sul Panaro 30/11/1943 Papo, Salomon Gaiato di Pavullo, s.d. Reginiano, Ester Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Fortunata Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Julia Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Liliana Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Nissim Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Rahmin Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, René Cavezzo 30/11/1943 Reginiano, Vera Cavezzo 30/11/1943 Tsciuba Reginiano, Rachele Cavezzo 30/11/1943 Tsciuba Buaron, Toma Cavezzo 30/11/1943 Wohlmuth, Siegfried Montetortore 07/12/1943
LA DEPORTAZIONE DALLA MONTAGNA REGGIANA
di Giovanna Caroli
La deportazione, una delle tante cenerentole della storia, è stata completamente ignorata in ambito locale, almeno nella montagna reggiana dove io ho condotto la ricerca nel 1997, la prima a distanza di 53 anni.
L’area esaminata comprende i comuni della montagna e dell’alta collina e corrisponde a quella dell’attuale Comunità montana dell’Appennino reggiano: 13 comuni per una superficie di 970 kmq e una popolazione di 43.000 abitanti oggi e 68.000 nel 1951, cifra che non dovrebbe essere molto inferiore a quella del periodo bellico. L’indagine particolareggiata ha riguardato i Comuni di Busana, Carpineti, Casina, Castelnovo ne’ Monti, Toano e, relativamente al solo elenco dei deceduti in campo di concentramento, Villa Minozzo e Canossa. La ricerca dei nomi dei deportati e quindi della “cifra” del fenomeno ha preso avvio dal primo elenco ricostruito dall’Istoreco, sulla base degli iscritti all’associazione dei superstiti e dei famigliari delle vittime. Per i cinque comuni citati, da questa prima lista, attraverso il racconto dei superstiti, la collaborazione degli ufficiali di stato civile, di segretari di associazioni locali, di parroci, sono passata alla ricerca “porta a porta”, di nome in nome, integrando le testimonianze orali con la ricerca d’archivio e viceversa.
Anche negli archivi perfettamente ordinati, non si trova nulla sui rastrellamenti. Nel paese d’origine, il nome dei deportati non veniva annotato in nessun registro pubblico. Quanto ai tedeschi, non hanno lasciato documenti negli archivi comunali. Le maggiori informazioni e le conferme mi sono venute dagli elenchi delle famiglie ammesse al sussidio durante la guerra, da quelli dell’ECA e dei rientrati “dalla Germania” nell’immediato dopoguerra, i qua-
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li però quasi mai distinguevano i civili dai militari. Sono stati perciò necessari numerosi controlli incrociati e verifiche, ma va detto che le testimonianze non sono state da meno quanto a necessità di confronto e di approfondimento. Nell’archivio comunale di Casina ho rinvenuto una modulistica riguardante la richiesta di assegni familiari per i lavoratori in Germania in grado di confermare le testimonianze di alcuni rastrellati cui era stato imposto di far domanda di lavoro volontario nel paese tedesco, nonché le disposizioni relative all’assistenza ai superstiti nel dopoguerra.
La ricerca è stata completata da una visita al campo di concentramento di Kahla insieme ad alcuni reduci, durante la quale ho potuto raccogliere nuove informazioni dai testimoni che mi accompagnavano e dal pastore della parrocchia di Kahla che ha riordinato non solo il cimitero dove molti deportati hanno trovato sepoltura ma anche l’archivio contenente l’elenco dei morti nei campi di concentramento del comune; altri elenchi mi sono giunti da contatti con sopravvissuti.
Alcuni dati sono stati forniti dalle precedenti ricerche condotte sui caduti nella seconda guerra mondiale — in particolare sui loro epistolari e sui loro diari — relativamente ai Comuni di Casina, Carpineti, Toano e Villa Minozzo, in parte pubblicate in tre volumi: Casina in guerra (1993) e Storie del nostro ieri (1997) editi dal comune di Casina; Il mio raccontare è lontano (1995) edito dal comune di Carpineti.
I deportati dalla montagna reggiana sono poco meno di un migliaio; poco più di 50 coloro che non hanno fatto ritorno (e l’espressione è vera alla lettera perché si contano sulle dita di una mano le salme riportate in Italia). Tra di loro, non ho ritrovato deportati per motivi politici, ma solo civili rastrellati nei loro paesi, nelle case, nelle strade, praticamente chi non faceva in tempo a nascondersi, chi non riusciva a sfuggire, qualcuno anche perché oggetto di delazione. Un deportato castelnovese e un gruppetto di carpinetani della frazione di Bebbio hanno associato la loro cattura alla lotta ai partigiani, con tanto di interrogatorio e, a Carpineti, anche la minaccia di una impiccagione simulata.
I primi rastrellamenti sulla montagna reggiana risalgono agli inizi della primavera ‘44 nell’ambito della lotta alle prime formazioni: risultano morti e feriti ma non deportati, almeno negli elenchi. I catturati, trattandosi di renitenti alla leva repubblichina, venivano più probabilmente costretti ad arruolarsi nella GNR e
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avviati alle formazioni di Como, Brescia… da dove poi fuggivano, finendo qualche volta in mano ai tedeschi: le prime date che troviamo negli elenchi dei deportati (maggio ‘44) indicano proprio come luogo di cattura queste città e tutti, ad eccezione di uno, appartengono alle classi 1924-1925. Si tratta di casi sporadici.
I rastrellamenti “di massa”, se così si può dire, a scopo di deportazione si hanno nell’estate ‘44, uno scopo dichiarato esplicitamente. In un documento del generale Flak pubblicato in Due mesi di attività partigiana in Emilia Romagna (a cura del CLN e del CUMER) e ripreso da Franzini1si trova un piano d’operazione tedesco relativo a diverse località di Lucca, La Spezia, Parma e Reggio Emilia tra cui anche la nostra montagna per rastrellare uomini e bestiame, nel quale si legge “Mi interessa […] evacuare la popolazione maschile tra i 15 e i 55 anni”.
A Busana i giorni più terribili furono gli ultimi di giugno e i primi di luglio, a Casina la prima decade di agosto, a Carpineti, Castelnovo e Toano ci furono, dalla fine di giugno, “diverse ondate” che si ripeterono lungo tutta l’estate e si protrassero fino all’autunno inoltrato (8 ottobre).
Qualche volta l’arrivo dei tedeschi era improvviso, più spesso era segnalato dall’allarme popolare e gli uomini correvano a nascondersi sui monti, nei boschi, in ricoveri di fortuna; molti tuttavia non facevano in tempo, altri col passare dei giorni finivano col rientrare: c’era pur sempre la stalla, il lavoro. Appena il pericolo sembrava passato, uscivano allo scoperto, spesso troppo presto; qualcuno sentendosi protetto dall’età, da qualche impedimento fisico o da qualche condizione particolare restava in casa o continuava fiducioso il lavoro. Venivano presi così come erano, in camicia, con gli zoccoli... e spinti verso punti di ammassamento, spesso insieme al bestiame — pecore, mucche, cavalli soprattutto — che pure interessava molto ai tedeschi; più tardi, a piedi o con i camion, avviati nei punti di raccolta: a Cerredolo, a Castelnovo...
Alberto Debbia di Cerredolo, attualmente impiegato allo stato civile di Toano, era piccolo, quando il padre Beniamino fu catturato, ma ricorda molto bene la scena: “Ricordo la piazza di Cerredolo, in terra bianca. Vedevo gli uomini radunati in terra, qualcuno ai lati sopra un sasso. Mi sembrava tanto grande e nello stesso tempo tanto piccola, perché era ammassata quasi a formiche...
1 G. Franzini, Storia della Resistenza reggiana, Reggio Emilia 1966 (terza edizione 1982).
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come i formicai. Uno “Fatti in là”, l’altro “Spostati”. C’era l’uno, l’altro: chiacchieravano un po’ tra di loro, un po’ erano muti perché l’occasione così comportava. Non durò tanti giorni: andò mia sorella a portar da mangiare, andò due volte mio fratello, andai io. Quando toccò di nuovo a mia sorella non c’erano più, avevano già attraversato il fiume. Fossoli e la Germania. Mio padre non tornò più”.
Dopo qualche giorno di permanenza sulla piazza del paese o nelle scuole dove lo strazio e la speranza dei parenti li raggiungevano insieme a poveri soccorsi — una “tera” di pane, due uova, una giacca, una presa di tabacco: le testimonianze sui rastrellamenti e la deportazione documentano anche la durezza delle condizioni di vita della maggior parte della popolazione della montagna, la “preparazione” che forse permise ai più di salvarsi in condizioni estreme — il trasferimento nei campi di concentramento di Fossoli o a Bibbiano (nel primo confluivano dalla valle del Secchia; nel secondo, nel campo sportivo, dalla valle dell’Enza e dal castelnovese), quindi la partenza per la Germania, in treno, su carri bestiame, con i vagoni piombati e in condizioni disumane. Pochissimi riuscivano a far avere notizie alle famiglie. Nessuna iniziativa pubblica seguiva i deportati: essi non lasciavano altra traccia che quella di un dolore privatissimo e quasi colpevole, timoroso di ulteriori “punizioni”. Su tutti scendeva il silenzio, un silenzio che ha gravato anche sul loro ritorno o sulla loro morte, un silenzio che è continuato alla fine della guerra, fino ai nostri giorni.
La montagna e i singoli paesi non sono stati vittima dei rastrellamenti in modo uniforme. I paesi che contano il maggior numero di deportati sono: il capoluogo della montagna reggiana, Castelnovo ne’ Monti (all’epoca 9.300 abitanti): 216 (di altri 11 non è stato possibile stabilire se si tratta di civili o di militari); Busana (2.100 ab.): 72 civili, tra cui una donna, poco di più Collagna (2.500 ab.) dove pure troviamo una donna tra i deportati; Toano (6.700 ab.): 52, la maggior parte della frazione di Cerredolo che registra anche un alto numero di morti; poco più di una cinquantina anche a Villa Minozzo (8.600 ab.) e a Vetto (3.800 ab), poco meno Carpineti (7.000 ab.): 47; Casina (6.000 ab.) 17; chiude il conto Ligonchio (2.800 ab.), più decentrato, sotto la decina.
I più colpiti sono dunque i paesi sulle strade più importanti: la statale 63 (Castelnovo, poi Collagna e Busana che si trovano an-
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che più “in alto”, più vicini alla linea gotica), e quelle della valle del Secchia, con la deviazione verso Montefiorino (Toano, in particolare la frazione Cerredolo, posta sul bivio e colpita ancor più del centro), e dell’Enza (Castelnovo con le case sparse sulla statale per Vetto e Vetto stesso).
La viabilità ha un ruolo determinante, ma anche la presenza di presidi nazifascisti o di attività partigiane sembra avere un certo peso.
A Castelnovo Monti numerosissimi i rastrellati a Monteduro (e frazioni circostanti) sulla statale 63; quasi tutti sono stati presi alla fine del giugno 1944: i testimoni collegano la loro cattura al combattimento tra partigiani e nazifascisti della Sparavalle, ma la data è la stessa del primo grande rastrellamento in montagna e anche in questo caso è applicabile la direttiva del documento del gen. Flak; numerose anche le catture nelle frazioncine e case sparse lungo la strada Castelnovo-Vetto.
Il rastrellamento degli inizi di ottobre invece si svolge quasi esclusivamente per le vie del centro e con l’inganno: invitati a un controllo dei documenti nella ex casa del fascio, l’attuale excinema Tiffany, sede del comando tedesco, gli uomini vengono poi rinchiusi e spediti in Germania; nell’occasione il fornaio Simonazzi, per non lasciare il paese senza pane, riesce a ottenere la libertà per i propri dipendenti, il cui numero è aumentato ad arte: qualcuno si unisce ai fornai e non rientra, qualcun altro fugge in altri modi. È il 7 ottobre 1944. Complessivamente i deportati castelnovesi deceduti in campo di concentramento sono 14: 7 a Kahla e 7 in altri lager.
A Toano più colpita è la frazione di Cerredolo, come dicevamo, con le case sparse circostanti, sede di un’intensa attività partigiana e collocata su un’importante via di comunicazione tra il modenese e la pianura: un reduce ha sottolineato che Cerredolo era facilmente isolabile controllando le strade principali; nelle altre frazioni i nazifascisti hanno effettuato puntate sporadiche, quasi nessuna in centro.
Anche a Carpineti i rastrellamenti hanno seguito una direttrice stradale: Valestra, Carpineti, Felina. Due frazioncine tra questa strada e la statale, S. Biagio e Busanella, sono state setacciate, tanto che sono stati deportati quasi tutti i maschi.
Un caso “anomalo” è rappresentato dalla cattura a Casa Lanzi di Bebbio, nell’ottobre ’44, di un gruppo di giovani sottoposti a
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impiccagione (parziale o simulata?) per far confessare i nomi dei partigiani, pena poi commutata in deportazione.
Tanti mi hanno parlato di una preoccupazione di legalità dei tedeschi che, al momento di avviarli in Germania, facevano firmare una specie di domanda di emigrazione volontaria a scopo di lavoro. Nell’archivio di Casina sono stati ritrovati alcuni moduli che parrebbero confermare queste testimonianze.
Qualcuno è riuscito a far pervenire notizie ai famigliari attraverso biglietti lanciati nelle stazioni di transito, particolarmente a Cittadella di Padova, e raccolti da mani pietose, prevalentemente di donna, che provvedevano alla spedizione; qualcun altro ha potuto scrivere già dai primi campi, qualcuno non è riuscito mai. Guglielmo Zanni di Castelnovo ne’ Monti ha addirittura organizzato una rete di corrispondenza, tra deportati e le famiglie, capace di aggiornare sui diversi spostamenti, e senza apparenti segni di censura, avvalendosi della collaborazione di un ufficiale tedesco del presidio di Busana.
Delle due donne deportate a Collagna e Busana, la prima è stata prelevata per la mancata risposta del fratello alla chiamata alle armi nell’esercito repubblichino, l’altra mentre, con una sorella, si recava a chiedere informazioni del fratello rastrellato il giorno prima (i due congiunti furono liberati qualche giorno dopo).
Degli oltre 500 deportati dalla montagna reggiana di cui abbiamo compilato o letto la scheda dei dati, nessuno era laureato, 3 erano diplomati, qualcuno aveva fatto le commerciali tutti gli altri un numero variabile di anni della scuola elementare. Una decina i possidenti (mi baso sulle interviste, il dato non è facile da raccogliere), qualche mugnaio, qualche piccolo artigiano o impiegato, la quasi totalità contadini e braccianti.
La fascia d’età dei rastrellati era molto ampia: a Toano, il deportato più anziano era nato nel 1889 e il più giovane nel 1928. Nell’elenco dei deceduti in campo di concentramento, Villa Minozzo registra un deportato nato nel 1883: era perciò stato catturato a sessantun anni (morirà a Mauthausen).
Molti gli appartenenti alla stessa famiglia catturati insieme: fratelli (ne abbiamo trovati anche 3 deportati contemporaneamente), padre e figlio, zii e nipoti; spesso erano già prigionieri in Germania fratelli militari catturati l’8 settembre. I parenti restava-
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no insieme, ma anche i compaesani: le baracche erano interamente di compaesani o della stessa area geografica.
Sopravvivere, tornare o non tornare sembra dipendere dal campo nel quale si finiva e dall’età. A non tornare erano soprattutto i più vecchi: “Non si attentavano ad andare a rubare e quello che passavano al campo non bastava”, ci spiega Armido Mattioli di Toano, deportato a 16 anni insieme al padre, “i più giovani invece impegnavano la maggior parte del tempo libero nella ricerca di cibo, inoltre suscitavano la compassione e quindi il soccorso delle donne tedesche”. Più rare, ma non assenti, vere e proprie relazioni sentimentali. Anche il carattere sembra avere la sua parte: molti di quelli che non hanno fatto ritorno vengono descritti dai sopravvissuti come più timidi, più rispettosi e più generosi; per afferrare il pane, spesso bisognava essere svelti e spregiudicati nell’allungare la mano e agili e forti nel ritirarla.
Grande importanza aveva “dove si finiva”. I campi che hanno “ospitato” i rastrellati della montagna reggiana sono tantissimi: Wurzen, Erfurt, Magdeburg, Berlino, Francoforte, Finkenert ... ma a ricorrere più spesso nell’elenco dei “morti in Germania” è il nome di un piccolo campo, di una cittadina della Turingia, a una quindicina di chilometri da Jena, oggi pressoché sconosciuta, all’epoca sede di una fabbrica sotterranea di aerei e di una pista di lancio: Kahla. Un monumento innalzato per ricordare le vittime del campo ne registra seimila, di nove nazionalità. Ventotto erano della montagna reggiana.
Il campo di concentramento — un campo speciale, un campo di disciplina — sorgeva in una stretta valle interamente rivolta a nord: freddo in tutte le stagioni, diveniva gelido e invivibile nell’inverno. Non distante da Buchenwald, non prevedeva come questo particolari impianti o esperimenti: il freddo, la disciplina ferrea basata su vere e proprie angherie, erano i naturali strumenti di sofferenza e di morte; la scarsissima alimentazione e la pesantezza del lavoro nelle gallerie sotterranee di una montagna distante pochi chilometri nelle quali si fabbricavano e recuperavano aerei facevano il resto, come testimonia Onilio Ori di Cerredolo nell’intervista riportata in appendice. Durante il viaggio a Kahla nel 1997, organizzato dall’amministrazione di Castelnovo ne’ Monti, Battista Tagliati di Croce di Castelnovo ha confermato: “Ti battevano con un bastone sulle mani, sulle dita, smettevano solo quando vedevano grondare il sangue: a quel punto non ti
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salvavi più, dal campo di disciplina non uscivi più”, poi ha riconosciuto in un incavo della roccia ai margini del lager la fossa in cui gettava i cadaveri di tanti compagni in attesa che “un camion passasse a prenderli per portarli forse alle fosse comuni del cimitero di Kahla, forse nei forni crematori della vicina Buchenwald”.
Tra i tanti episodi raccolti, il caso di Vincenzo Battistini di Iatica di Carpineti. Durante un rastrellamento, si nasconde nel fienile; i tedeschi entrano nella stalla per portare via le mucche, lo vedono e lo catturano. Nonostante i 36 anni è completamente sdentato; ingenuamente lascia apposta a casa la dentiera, ritenendo che valgano le stesse regole del militare e, una volta trovatolo senza denti, lo rimandino a casa. Non fa più ritorno. Sarà tra i primi a morire, il 10.9.44 per stenti e sevizie.
Molti deportati di Castelnovo e di Toano mi hanno raccontato che il loro treno rimase fermo a lungo a Cittadella per un bombardamento che aveva interrotto i binari e la popolazione locale, guidata da un parroco o da un monsignore — le testimonianze non sono univoche —, fece pervenire ai deportati panini, sapone, e raccolse bigliettini o notizie atte a “far noto”, per usare un espressione dell’epoca, alla famiglia che si “stava bene” e si andava in Germania; a fine guerra, il prelato venne poi ricevuto con tutti gli onori e i ringraziamenti del caso nella parrocchia di Monteduro, frazione del comune di Castelnovo ne’ Monti tra le più colpite dai rastrellamenti
Durante il viaggio a Kahla, un superstite, volendo guidarci alle gallerie, continuava a ripeterci che si trovavano in una località denominata Baustelle: in realtà era la scritta che segnalava i lavori in corso, ma lui non lo sapeva: un episodio che rende bene il totale disorientamento in cui erano immersi i deportati, terribile quasi quanto la fame.
Appendice
TESTIMONIANZE
ONILIO ORI n.11.3.1912 residente a La Ca’ di Cerredolo di Toano. Catturato a Cerredolo. Deportato a Kahla in Turingia.
Avevo dodici fratelli, dovevo fare il calzolaio e il barbiere, perché non c’erano soldi... È inutile: in una famiglia numerosa... In origine eravamo
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contadini, mio padre aveva un podere “in sti groti che”2 e siamo cresciuti tutti qui. Poi ho dovuto fare molti mestieri. Ci hanno preso del ‘44, agli inizi di agosto. Ci hanno presi tutti in un colpo, tutti tre i fratelli insieme: Remigio, Umberto e io. A casa nostra stavamo nascosti nei campi “in mes ai furmantun”3: avevamo l’astuzia di stare due per due, perché dicevamo: “Se siamo divisi in tre gruppi ne prenderanno uno, due ma uno può anche darsi...”. Usavo questa tattica perché purtroppo la guerra l’ho conosciuta: sette anni e poi m’è toccato questo anno di Germania! In quei giorni invece, noi eravamo da dei parenti in una casa solitaria, La Rotella, avevamo preso con noi le mucche, tutto quello che avevamo potuto. Tutti erano scappati: c’era il rastrellamento dei tedeschi, perché erano venuti uccisi all’ammasso del grano di Cerredolo due ragazzi che stavano scappando dalle camicie nere per tornare a casa. Chissà di dov’erano! Gli fu fatto la spia e furono presi e fucilati lì, nell’ammasso, barbaramente: fu un “lavoro” che fece tremare un po’. Siamo rimasti a La Rotella quattro o cinque giorni, in attesa che passasse questa ondata di rastrellamenti, perché si sentiva dire che ne erano morti di qui e di là da ambo le parti, anche dei partigiani. Poi ci siamo decisi a tornare a casa. Il mattino che siamo venuti a casa, ripassa un’altra ondata di tedeschi e ci hanno presi. Ci han portato a Cerredolo e ci han messi in fila davanti a una baracca... È venuto un capo e ha preso fuori questi tre ragazzi che li avevan presi il mattino, mentre scappavano saltando dalle finestre di una casa abbandonata dove avevano passato la notte: uno l’avevano ucciso in questi boschi e gli altri li uccisero a Vitriola: tre partigiani — ragazzini erano! — messi in fila davanti a una mitraglia. C’era un mio amico che era molto credente; gli dico: “Qui ci andiamo tutti!”. “No” mi risponde, ma vedevo che sudava: vuol dire che aveva fifa anche lui. Abbiam seguito il destino. La sera ci han infilato a piedi verso Carpi. A piedi!!! Abbiam pensato tanto di prendere alla sprovvista le tre o quattro guardie, ma poi... A Fossoli, si poteva scappare a Fossoli, ma c’era tanto di cartello che per ognuno che scappava ne ammazzavano dieci e allora abbiamo seguito il destino. A Fossoli facevano firmare il contratto volontario, noi non abbiam voluto firmare come volontari. Sembrava che la guerra dovesse finire giorno per giorno, ma la guerra è continuata ancora un anno. In Germania siamo andati a finire in un campo di disciplina noi, quasi di disciplina. Eravamo una squadra ambulante, lavoravamo all’imboccatura delle gallerie, anzi in quella famosa galleria che facevano il V1 e che andava su tramite un ascensore: sopra c’era un grande campo da volo, appena rientravano si chiudeva l’ascensore e non si facevano vedere. Io facevo da macchinista a un flemano4 che facevo fatica a capirlo perché parlava il suo dialetto: portavo su del materiale con dei piccoli vagoni: cemento ferro ghiaia. All’imboccatura di queste gallerie c’erano dei muri di quattro metri di cemento armato, erano lavorati in modo che se fosse caduta anche una bomba... È durata un anno. Quando siamo arrivati, fino all’autunno si trovavano delle patate nei campi, perché loro ci passano con i loro trattori: quelle che vengono su,
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2 In questi luoghi scoscesi, dirupati. 3 In mezzo al granoturco. 4 Fiammingo.
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vengono su. Noi con la nostra vanghetta andavamo là a cercare, facevamo presto a trovare due tre chili di patate e non dicevano niente — se si andava a rubare allora sì! —, ma lo dovevamo fare in quell’ora del pomeriggio, perché ci davano quella mescola di sbroda, pelle di patate un rancio magro. In un anno, molti sono morti dalla debolezza perché dieci ore di lavoro, mangiare poco e coi vestiti che avevamo addosso quando ci hanno presi: ci han dato due tute là per le feste di Natale per ripararci dal freddo. E pioveva e non pioveva... eravamo in questo cantiere e bisognava... Nell’inverno mi sono buttato a fare il fuochista in una di queste locomotive, allora ci si salvava un po’ dal freddo: buttavamo su il carbone, quando cominciava a fare la cenere lo setacciavamo e si inviperivano le braci: la locomotiva tirava e noi ci scaldavamo. Quando facevamo rifornimento di acqua al deposito, siccome era gelata delle volte veniva e delle volte non veniva e noi ci bagnavamo tutti. Ci asciugavamo davanti alla locomotiva, poi in baracca avevamo la stufa. Le nostre baracche erano le ultime, non erano recintate e confinavano con le pinete, allora potevamo andare a raccogliere i cascami di pino che brucia bene. La sera ci salvavamo con questa stufa a scaldarci e anche ammazzarci i pidocchi grossi se si voleva dormire, almeno i grossi: ci toglievamo le nostre maglie... Robe che adesso si contano, ma... siamo sopravvissuti! Passato l’inverno, quando mi son trovato che non si trovavano più patate, con due fratelli... Cosa si trovava?! Avevo trovato due vecchietti, marito e moglie, con tre mucche: mi dava dieci chili di patate con dieci marchi... Loro all’ammasso prendevano tanto di meno ma mi diceva di stare attento ai polizai. Non eravamo tanto lontani, prendevo per la pineta e intanto tiravamo avanti. Poi mi sono ammalato di polmonite: freddo, gelo e lavorare! Sono andato in infermeria. Avevo un mio parente che faceva il calzolaio, si è raccomandato a un’infermiera di farmi una puntura di calcio al mattino. Ventidue giorni senza conoscere i miei fratelli, mi venivano a trovare la sera quando venivano a casa dal lavoro, ma io non li conoscevo: vuol dire che non dovevo morire là. Appena sono migliorato, mi hanno rimandato in baracca, ma con metà razione non si guariva, si moriva nella convalescenza. Siamo stati affortunati che sono arrivati gli americani e dopo un’ora gli italiani tutti friggevano qualcosa. Anche i tedeschi se l’erano sgabaiata e dappertutto si trovava qualcosa da mangiare nelle case che ne offrivano anche, prima no ma dopo ne offrivano. Io avevo trovato tre galline. In mezzo alle nostre baracche passava un fiumino con l’acqua per le pulizie, poi ogni tanto c’erano i ponti che si passava di qua e di là. Ho trovato una marmitta e mi sono arrangiato, ho cotto queste galline, poi le ho mangiate un fegato per volta pianin pianino, perché chi ha fatto delle grosse mangiate non si è salvato. Si poteva salvare tanta gente con qualche puntura, ma dove erano... Son morti dei pezzi di uomini che... Peccato, ma il destino ha voluto così. Nella nostra baracca eravamo in 24 ogni stanza: ci siamo salvati in tre: io, un mio fratello e l’altro era in un’altra squadra, ma tutti di Cerredolo. Siamo sopravvissuti: noi che siamo tornati a casa siamo stati fortunati. Era una morte dolce: quando il sangue diventava acqua, il cuore non aveva la forza di battere e si restava lì... non parlava e restava lì. La gente ha cominciato a morire dopo le feste, alla fine dell’inverno: qualcuno è morto anche prima, ma la più parte nella primavera. Il lavoro
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era più duro in inverno: pioveva non pioveva bisognava andare a lavorare e si dormiva con i vestiti bagnati. Casoni Duendo era il nostro mugnaio di Cerredolo. Quando sono uscito dall’infermeria sono andato a far convalescenza nella stanza dove è morto lui: c’era ancora il suo cappello appeso al chiodo. Avevamo anche lavorato insieme. Gli dicevo: “Se tu non lavori un po’ più piano, non puoi resistere”. Faceva un lavoro pesante: con una mazza spaccava dei sassi, senza mangiare, così! Mi ricordo che il giorno della sagra di Cerredolo,5 era una domenica, siamo andati a fare un giro in campagna, abbiamo mangiato delle pere e delle mele trovate sotto una pianta — guai se uno si fosse allungato con la mano verso la pianta! — Lungo la carreggiata sulle siepi c’erano delle more grosse, e abbiamo mangiato anche quelle e abbiamo fatto la sagra così. Nessuno ci ha detto niente e siamo tornati a casa. Quando è morto Casoni, sono voluto andare a vedere dove l’avevano seppellito. Partivano con una lettiga provvisoria — due stanghe e una coperta — poi li buttavano in questa grande fossa che se uno avesse avuto una camicia un po’ buona gliel’andavano a togliere per mettersela perché fin dopo le feste non ci han dato niente per vestirci. Quando ho visto che questa gente era così maltrattata mi sono inginocchiato e ho chiesto al Padre Eterno che non mi facesse fare una fine così. In quelle maniere in cui si moriva lì, chi ci teneva dietro? Eravamo come degli schiavi! Gli ultimi che han preso, là in ottobre, sono arrivati là in camicia. Trovando il freddo subito, han fatto tutti la polmonite e son morti quasi tutti. La birra era quella che ci salvava un po’. La sera venendo a casa dal lavoro la prima birreria che trovavamo... dentro! a bere un bicchiere di birra: era di frutta, ci dava la forza di arrivare a casa. In cantiere avevamo una stufa, ci si appoggiavan sopra le patate e quando eran cotte le si mangiava. Uno l’han visto che le andava a girare, secondo loro perdeva tempo e l’han messo nel campo di disciplina. Il campo di Kahla aveva un campo di disciplina molto duro: buttavan l’acqua fredda addosso, aizzavano i cani contro: non si salvava quasi nessuno di chi entrava. Uno era stato mandato nel campo di disciplina perché si era impossessato della tessera di un compagno che era morto e passava due volte dalla cucina, prendeva doppia razione. Quando se ne sono accorti i tedeschi, l’han rinchiuso nel campo di disciplina. Se l’è cavata perché suo figlio gli portava da mangiare. Era poco più di un ragazzino. Aveva conosciuto una signora che gli dava tutti i giorni qualcosa (le donne tedesche quando li vedevano così giovani “ag nin saiva mal”6 e gli trovavano qualcosa da mangiare) e lui lo portava di nascosto a suo padre. Mio fratello un giorno si era addormentato sul vagone dove lavorava. Riuscii a salvarlo dal campo di disciplina perché siccome facevo un po’ il barbiere e il calzolaio, avevo fatto conscenza con le guardie del campo. Uno che a casa era un signoretto diceva: “Quando andiamo a casa, ammazziamo la vacca più bella e facciam festa una settimana”. Son sicuro che l’avremmo fatto perché era uno di compagnia, ma il giorno della liberazione mangiò troppo e morì. Quando venne la liberazione, dopo un’ora tutti gli italiani friggevano qualcosa. Nei magazzini abbandonati, c’era
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5 10 ottobre. 6 Dispiaceva, si commuovevano.
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qualcosa per tutti. In uno avevano diviso le scarpe, in un mucchio tutte le destre, nell’altro solo le sinistre, perché non gliele portassimo via, ma io che ero un po’ calzolaio presi due destre e quando fui a casa le rifeci perfette. Presi anche un bel taglio di vestito blu.
RINO CASINI n. 31.8.1926 residente a Casa Lanzi di Carpineti. Catturato a Casa Lanzi il 12.10.44. Deportato a Regesburg (Austria), via Carpi-Peschiera-Innsbruck-Regesburg.
Ci hanno presi il 12 ottobre del ‘44. Ci hanno preso le SS: “Partizan partizan”. Sulla costa c’erano davvero i partigiani: la sera prima ci avevano detto di nasconderci dalla parte di sotto della strada7 perché avrebbero fatto fuoco. Siamo venuti tutti qui a Casa Lanzi (io abitavo a Tincana). Io e mio padre ci siamo nascosti in un fosso. A mio papà ci son passati sopra senza vederlo; me m’han preso insieme ad altri dodici. Volevano i nomi dei partigiani. Ci han passato una corda attorno al collo e ci han tirato su dal ramo di un pero, ci hanno impiccati. “Partizan partizan”. Il collo era venuto tutto gonfio. Ci han dato tante di quelle botte. Mia mamma è venuta sotto la pianta a piangere e l’han picchiata anche lei, due calci che l’han messa a sedere. Mi sono raccomandato che andasse a casa. Noi sapevamo che c’erano dei partigiani ma nomi non ne abbiamo fatti. Ci han rimessi per terra. Avevamo la bocca piena di sangue. Il momento più brutto è stato il viaggio. A piedi fino a Vignola, due giorni senza bere e senza mangiare. Eravamo in tredici. Io ero legato in due punti a uno più piccolo. Sempre a piedi, senza mangiare e senza bere fino a Sassuolo e poi fino a Vignola. Le donne che ci vedevano passare ci allungavano del pane o da bere, ma i tedeschi lo facevano cadere e lo pestavano con i piedi. A Vignola — ci son sempre i buoni e i cattivi — una guardia ci ha portato da bere in un secchio “da bestie”: ci siam buttati a bere che ci dovevan tirare su i capelli per farci tirar su la testa sennò saremmo crepati dal bere, perché la fame si patisce ma la sete è brutta. A Vignola, grazie alla sorella di uno che aveva conoscenze a Reggio, otto sono stati liberati e mandati a casa. Noi cinque rimasti — io, Benassi Antenore, Casoni Bruno, Casoni Fernando di Bebbio-Casteldaldo e Costi Giacomino di Baiso — ci han portato su un camion — sempre legati — e ci han portato a Carpi dove ci han fatto firmare su un foglio: era la richiesta di lavoro volontario in Germania. A me eran toccati cinque anni, avevo firmato di lavorare in Germania volontariamente cinque anni. Se non firmavi eran nerbate, ma anche a firmare eran botte. Ah, ci han proprio trattato male. Ci han caricati sul treno, sigillati a far tutto lì e via. A Innsbruck han staccato il nostro vagone. Siamo finiti a Regesburg. Raccoglievamo i morti dai bombardamenti: Regesburg era una città ospedaliera, poi è passata bellica e l’han bombardata a tappeto: da gennaio alla fine di marzo “i l’han tridada tota”8 c’erano dei paesi “puliti”, senza neanche una casa: c’erano i morti fin sugli alberi, li andavamo a tirar giù dagli alberi. Dopo che ci avevano passati civili, facevo il falegname, facevo cas-
7 La strada che da Bebbio porta a Cerredolo, passando per Casa Lanzi. 8 Letteralmente "l'hanno tritata tutta".
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sette di legno, ne vendevo anche ai tedeschi. Il sabato facevo la consegna della legna assegnata ai tedeschi con la tessera. Io stavo lungo la siepe e lasciavo che i borghesi prendessero quello che volevano, allora mi davano qualche marco. Qualcosa prendevo e qualcosa rubavo. Non ci fosse stata una famiglia a farmi fare qualche lavoro e a darmi qualcosa da mangiare, sarei morto. Facevo tutti i mestieri. Mangiavamo barbabietole, patate quando le potevamo rubare, l’erba quando passavamo per i prati: mangiavamo le ortiche, crude o cotte come potevamo: quando c’è la fame! Quando ci avevano passato civili andavamo a frugare nei cassonetti del pattume. Ero venuto 29 chili. Ero in una baracca di 30, tutti emiliani. La sera giocavamo a carte, parlavamo di casa, c’era chi rideva, chi cantava... era il momento che si piangeva anche. Ogni 15 giorni ci riunivano, ci facevano delle adunanze, ci facevano delle prediche in tedesco, ma noi non capivamo niente: io sapevo solo chiedere il pane in tedesco... ma capivamo che non saremmo tornati. Ci davan da scrivere a casa, ma i miei non hanno mai ricevuto niente. Anche a Peschiera i tedeschi ci davano da scrivere ma fuori delle inferriate c’erano delle donne che ce le strappavano sotto il naso: forse erano d’accordo. Anche a Peschiera siamo stati male. Dovevamo fare il bagno tutte le sere, guai se uno non l’avesse fatto, ma dormivamo sulla paglia ed eravamo carichi di pidocchi. Son partito con due braghe e son tornato con due braghe.9 Sapevamo anche dei campi di sterminio, soprattutto per i detenuti politici. Quando ci punivano, se ad esempio ci trovavano a rubare le patate, ci mettevano nel canale stretto stretto della turbina che portava l’acqua in tutto il campo e ci lasciavano lì tutta la notte. Non si poteva dormire, non si poteva star fermi perché si sarebbe gelati: bisognava camminare tutta la notte... Se marcavamo visita ci picchiavano, due staffilate e via; se avevamo la febbre c’era però il dottore. Per la liberazione ho preso una “balla” di sassolino che non ho più bevuto sassolino in vita mia.
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IVA FERRETTI Nata nel 1924 a Collagna, dove è stata catturata e dove tuttora risiede.
[Iva Ferretti fu presa in ostaggio nel giugno ‘44, quando aveva poco più di vent’anni, per costringere un fratello ad arruolarsi nei repubblichini; un altro fratello era prigioniero degli inglesi in Egitto: “Anche la sua prigionia fu dura: tedeschi e inglesi son cugini…” commenta]. “Sono stata presa il 26 giugno ‘44. Ero in casa. Sono arrivati i fascisti, hanno circondato la casa e m’hanno portato via. Avevo le ciabatte, m’hanno accompagnato in camera a mettere le scarpe, poi son venuta via coi panni che avevo addosso. Non fu un rastrellamento, vennero a colpo sicuro. Mio fratello, del ‘22, era stato richiamato nei repubblichini, s’era presentato — sa eravamo una famiglia un po’ segnata perché mio padre era socialista — ma ha “visto dei lavori” che per lui non andavano bene ed è scappato, s’è dato alla macchia. Son venuti a casa — c’eravamo io, mia
9 Non è stato possibile venire a capo della contraddizione tra bagno quotidiano e mancanza di cambio della biancheria, del dormire sulla paglia ecc.
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mamma e mia cognata — e m’han presa in ostaggio, lui non s’è ripresentato, me m’è andata bene che m’han portato in Germania e basta — è andata bene così. Mi han portata a Busana su una camionetta, al presidio in municipio, m’han tenuto due giorni, poi a Castelnovo m’han messo in camera di sicurezza — è stato il giorno che han bombardato l’ospedale — meno male c’era un brigadiere dei carabinieri che era stato a Collagna, sicché mi conosceva e diceva: “Come mai, ma come mai!” “Eh — dico — come mai!”. Di lì m’han portato ai Servi, c’erano dei fascisti di Collagna, gli ho detto: “Guardate di fare…”. “Eh, non possiamo fare niente”. Sono stata due giorni anche lì, poi due-tre a Suzzara e poi partenza per la Germania. Ero l’unica donna, sia a Castelnovo che per tutto il viaggio. Ricordo un signore di Cerrè Sologno che l’avevan preso a casa, so che è tornato a casa poi non l’ho più rivisto. Mio padre andava a Reggio a chiedere informazioni: nessuno sapeva dirgli niente. Poi gli han detto che mi avevano portato a Verona: è partito a piedi è andato a cercarmi a Verona: nessuno sapeva dirgli niente. Hanno ricevuto la mia prima lettera in ottobre, io la loro in novembre. C’era la censura, bisognava scrivere che andava sempre bene. Siamo andati in un paese vicino ad Hannover. C’erano tanti lager di prigionia, divisi per nazionalità: russi da una parte, italiani da un’altra. Si andava in fabbrica. Io sceglievo la polvere per i proiettili, formava come degli spaghetti, solo che erano neri: li facevano scorrere sui tavoli e eliminavamo quelli difettosi. Andavo a lavorare alle sette, c’era un trenino che ci portava a lavorare, a mezzogiorno c’era una pausa da poco perché si portava dal campo una fetta di pane, dunque… Tornavamo la sera che era buio, era buio tanto andare che venire, si lavorava in piedi, l’ambiente era malsano, polveroso… Mi alzavo alle sei e mezza, non si mangiava; una volta la settimana davano una pagnotta di pane, bisognava farla durare sette giorni, qualche volta si tagliava più grossa i primi giorni, qualche volta più sottile, ma bisognava farla durare per forza: e tagliavamo una fetta al giorno, con la margarina, la sera una minestra d’orzo e nient’altro… altroché se ero calata”.
[Le lettere a casa sono però solo rassicuranti. In una cartolina del 10 settembre ‘44 si legge: “È domenica. Ho finito di lavorare alle ore 2, quindi fino a domattina alle 9 posso dormire, mentre le altre escono per andare al cinema, oppure con il cavaliere a bere la birra invece io me ne vado a letto e forse anche a piangere per la nostalgia e il pensiero che ho verso di voi. Bene non importa sempre con la speranza di presto riabbracciarvi, di ritrovarvi ancora tutti sani e salvi come alla mia partenza. Sono ancora priva di vostre notizie e spero sempre bene”. Il 7 dicembre scrive: “Sento che siete andati a Reggio per spedire il pacco, spero che l’abbiano accettato”].
“Da casa non ho mai ricevuto nulla. Ogni volta che scrivevo mi raccomandavo che mi mandassero dei vestiti perché avevo solo una camicetta. E meno male che avevo preso una maglia. Là davano un grembiulone da mettersi in fabbrica. Nelle baracche c’erano i topi a scaldarci col viavai sulla testa. In novembre venne rimpatriata una mia amica di Treviso che mi lasciò un vestito: l’unica cosa che ebbi di diverso…
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Per il lavoro ci davano come paga un pezzetto di carta col quale si poteva comprare qualcosa allo spaccio, ad esempio i pannolini, le cartoline per scrivere a casa, il sapone, ma poco! Da mangiare non si poteva comprare nulla. Ho patito un gran freddo e una gran fame. La domenica lavavamo i vestiti e stavamo con un camicione addosso finché non asciugavano. Uscire? E dove s’andava che eran tutti lager! Il giorno di Natale sono andata alla messa. Ero senza calze, ero partita da casa d’estate, quando le calze non si portano… Una signora vedendomi senza calze andò a casa e me ne portò un paio di cotone, fini: le persone per bene si trovano sempre! In fabbrica i lavoratori eran tutti prigionieri. Nel lager c’erano anche ragazze di Reggio che erano andate là prima del ‘43 per lavorare e stavano meglio, avevano anche il rossetto… Non ho mai sentito piangere, ma neanche cantare. Le guardie erano uomini, solo la capolager era una donna. Avevo il pensiero di mio fratello, la mia paura più grossa era che l’avessero fucilato. A una mia compagna di Treviso il fratello gliel’avevano ucciso. Ce lo aveva detto un compaesano: lei non lo sapeva, l’ha scoperto tornando a casa… Nel gennaio ‘45 m’han mandato a prendere perché mia mamma stava male… naturalmente non era vero, ma un mio fratello del 1913 si era fatto amico con il tedesco10 che comandava il presidio di Busana e ottenne il visto di conferma su un telegramma che mia mamma era grave. Mi hanno mandato in licenza: eravamo ormai alla fine, poi c’era la firma del capo del presidio… La capolager non voleva: “I treni non vanno più, i ponti sono tutti rotti”, diceva. Ho impiegato 15 giorni a venire a casa. Alla frontiera la licenza l’ho buttata via… Nel lager m’avran messo morta… [Io infatti ho ritrovato il nome di Iva Ferretti in un elenco di deceduti in campo di concentramento]. Son partita da Hannover il 15 gennaio col treno per Berlino. Avevo addosso il vestito della mia amica di Treviso e un paio di zoccoli. Sono stata ferma un giorno e una notte nei sotterranei della stazione di Berlino perché l’allarme era continuo. Di nuovo in treno per Monaco e di nuovo ferma per aspettare le combinazioni. Finalmente a Bolzano. C’erano i posti blocco, c’erano i camion che passavano e si andava lì ad aspettare una “combinazione”. Ho incontrato uno di Sarzana che tornava anche lui dalla Germania: se fosse passato prima lui da casa mia, mi son raccomandata, “Se arrivate prima voi, avvisate i miei che sono in viaggio!”. Infatti è andata così. Io son partita il giorno dopo, son arrivata a Trento che nevicava… una neve grossa così. Adesso come faccio! Quando Dio ha voluto è arrivato un camion: andava a Verona, via su questo camion! A Verona c’erano i tedeschi, non c’era nessuno che venisse verso Reggio, Mantova almeno. Non c’è nessuno che vada a Mantova; è capitato uno che andava a Brescia, sono andata a Brescia, sono stata in stazione tutta la notte e il mattino sono andata al posto di blocco, c’era un camion che veniva a Modena. I miei viaggiavano sempre da Collagna a Reggio per portar giù la legna e il carbone e al Canon d’oro li conoscevano bene: sono andata
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10 La signora Ferretti non conosce il nome del comandante tedesco cui deve, se non la vita, il ritorno anticipato in Italia. Ritengo si tratti dell'ufficiale Jundt, di stanza a Busana, di cui si parla anche nel carteggio di Memo Zanni.
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lì per la notte. La mattina sono andata a Porta Castello: allora da Collagna andavano a prendere da mangiare a Reggio a piedi; il primo che ho visto è stato uno del paese: m’ha detto che i miei stavano tutti bene e sono rinata! Siamo partiti a piedi, abbiamo dormito in una stalla di Vezzano, ho incontrato altri del paese che andavano a Reggio, ho fato un’altra tappa a Castelnovo dove c’era mio padre: il signore di Sarzana l’aveva avvertito! A Collagna la gente sapeva che arrivavo: li ho trovati tutti all’inizio del paese, mi erano venuti incontro!
LETTERE
[Il diciannovenne Guglielmo Zanni, detto Memo, catturato in casa a Castelnovo ne’ Monti in seguito a delazione e deportato a Erfurt e Nohra, mise in piedi una fitta rete di corrispondenza con gli altri deportati di Castelnovo e dei paesi limitrofi in modo da favorire al massimo lo scambio di informazioni tra prigionieri e con le famiglie. Tra i mezzi usati anche la Feldpost: molte lettere alla sorella giungevano in Italia indirizzate all’ufficiale tedesco Jundt di stanza a Busana, il quale provvedeva a farle recapitare attraverso la signora Dirce Zanichelli di Cervarezza. L’epistolario di Guglielmo Zanni comprende anche lettere e cartoline di compaesani prigionieri in Germania e documenta la rete informativa messa in piedi dallo stesso Zanni e la collaborazione dell’ufficiale tedesco di stanza a Busana].
Cittadella 12-7-944 Gent.mi Congiunti vi invio la tessera dei tabacchi e fiammiferi del vostro famigliare, recapitatomi in questa stazione ferroviaria perché il treno vi fece sosta due giorni. Furono assistiti dalle autorità e da tutto il popolo, fu tutto commovente. Stava benissimo. Speriamo che tutto finisca presto così potrà tornare fra voi. Augurii di ogni bene vi invio. Simone Liberata Via Officina, 2, Padova Cittadella
Signora Lucia Zanni Castelnuovo ne’ Monti Sono in campo di concentramento a Bibbiano e parto per Suzzara, speriamo bene di rivederci presto. Dì agli amici che cerchino di non venirci. Saluta tutti e in particolare Luciano. Bacioni Memo
[Sulla busta Feldpost; timbro : Nohra 2 13.12.44 Uber Weimar, Uff. Iundt, Fp. N 25547 A] Nohra, 3.11.1944 Gentilissima Signora Zanichelli Dirce - Cervarezza Gentilissima Signora, approffitto dell’indirizzo che mi ha suggerito vostro cognato Pagani Giuseppe e vi prego caldamente di fare avere la presente a mia sorella Lucia Zanni di Castelnovo Monti. Ringraziando saluto
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Guglielmo Zanni Cara Lucia, dopo lungo tempo ho la possibilità di scriverti una lettera che spero riceverai quanto prima. […] Un certo Genitoni Silvio di Scandiano ti ha portato mie notizie? Informati. Lui è ritornato in patria nei primi di ottobre. Dì a Gino Galaverni che faccia sapere a quelli di Vetto che qui ci sta Emilio Costetti e Arlotti Giorgio. Stanno bene e godono ottima salute e salutano i suoi cari. Qui è una settimana che l’allarme suona due o tre volte al giorno ma finora neppure un bombardamento. Prego sempre il Signore e i miei Cari morti perché la mia lontananza sia meno sentita per entrambi. Lucia cara, te lo dico francamente, non credevo di essere così forte. Ho passato momenti tristi e brutti, li ho sopportati con animo tranquillo e rassegnazione pregando il Signore e pensando a voi tutti. Guarda se puoi scrivere con lo stesso mezzo che ti scrivo io. […] Memo
Carissimi genitori Approfitto dell’indirizzo di un Ufficiale Tedesco per mandarvi due righe. Tutti i giorni scrivo per posta regolare, ma approfitto dell’occasione perché spero che vi giunga in breve tempo. La mia salute è sempre ottima, come spero di voi e fratelli. Rispondetemi subito tramite Comando Tedesco e mandatemi qualche indirizzo di miei colleghi che si trovano in Germania. Mi raccomando e speditemi principalmente l’indirizzo di Velio, Vito e Nino. Bacioni a voi, A Gilio ed Ermanno. Vostro aff. figlio [firma indecifrabile] Saluti anche da Costetti e Giorgio dal mio amico Zanni
17-12-44 Caro Memo avevo fatto i miei calcoli per Natale ma sono andati tutti falliti, li ò messi per pasqua spero che a pasqua non vadano falliti. oggni cosa perora e ferma spero di metterle presto in efficenza. Saluti da tutti gli amici Baldini Bellesi Bardoni Moscatelli e tutti i miei paesani saluti cordiali Battista Correggi Battista, Esperstead Kgfh, 15 Vlatnkdo, Dentsillana
Memo Memo mi pare che ti stai dimenticando di noi, vero? Ed invece noi vogliamo proprio ricordarti cosa fai di bello. Travaiè fa loco ni, e non scherzare troppo con le ragazze, perche poi la mamma ti crida e noi li faciamo la spia si sente sempre vangare, è un po di tempo che non zappano più, ma continua il lavoro, quando finira? Sai i tuoi amici e vicinanti di (*** ?) mi incaricano di farti un saluto particolare e poi ti saluto io con tutti gli amici lontani. Saluti da Canovi Crovi Marino Rinaldi Gius, Saluti anche Giorgio e Emilio Costetti tuo amico Nello Baldini
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Saluti cari anche da mio fratello Pietro digli a Giorgio che non l’ho dimenticato ma non ricordo il cognome Nello Baldini domani è festa ma ti raccomando calmo saluti Battista Nello Baldini Espestead, Platzado, Dentsillana
18-12-1944 Anche la primavera sta per giungere. Ma la nostra speranza non arriva mai. Aff. mi Saluti Nello Rinaldi Batista Nello Baldini scrivi Cari Saluti e Ringraziamenti a Mammi Mario da parte di Rinaldi per il favore della posta per me e fratello Nello
Nohra 18-12-1944 Gent.ma Signora Dirce Zanichelli - Cervarezza Egregia Signora, continuo a disturbarla per il solito motivo, cioè per avere questa mia alla signora Lucia Zanni di Castelnuovo Monti, mia sorella. Di nuovo la ringrazio e le chiedo scusa per il disturbo che le arreco. Per eventuali spese si rivolga alla destinataria. Colgo l’occasione per inviarle assieme a Giuseppe Pagani i nostri migliori Auguri di Buon Natale che gentilmente vorrà far presente alla famiglia Azio Benevelli. Ancora la ringrazio e le porgo referenti ossequi dev.mo Guglielmo Zanni
Carissima Lucia, ieri, casualmente, ho saputo che Battistessa, Maioli Ennio, Nello del Monte e Remo Giovanelli ed altri, circa una ventina in tutto, sono passati da Erfurt dove Remo è rimasto. Quanto sopra l’ho saputo da un certo Canovi Ultimio di Felina (deportato assieme a me nello scorso luglio) in una sua cartolina scritta a Genitoni Marino di Rosano che si trova con me. Godono tutti ottima salute e stanno più che bene; non so se le loro famiglie hanno notizie, comunque assicurale tu e dille che scrivino a me attraverso il Comando Tedesco. Ieri sera stessa ho scritto al sopradetto Canovi dicendogli che senta da Remo dove sono andati gli altri, e che mi fornisca qualche dato in modo che io possa fare le ricerche attraverso i competenti uffici. Nella tua ultima lettera mi dici che Lamberto si trova a Pescara, mentre Bruna mi scrive che è stato preso assieme ai sopradetti e a suo fratello Luciano; assicura Zino e la Bruna e dille che quanto prima farò avere notizie dei loro cari ragazzi, se ancora non hanno ricevuto. In quanto a Battistessa e agli altri non dovrebbero essere tanto lontano da me, in quanto anch’io sono stato smistato a Erfurt e di conseguenza sono rimasto sotto la giurisdizione del Comando di Erfurt stesso. Spero anche di ricevere uno scritto da loro, in quanto credo siano a conoscenza del mio indirizzo. Sono rimasto molto male nel sentire che pure loro sono qui, e nel pensare a ciò che passeranno e avranno passato in riguardo del mangiare e dei bombardamenti. Ho saputo da Bruna che pure Elettrico è stato preso, avrei piacere d’incontrarlo per chiedergli qualche sua impressione circa il lavoro in Germania. Oggi è suonato l’allarme 3 volte, ma per fortuna io sono in un posto ove non hanno ancora
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bombardato, però vedo parecchi uccelloni passare; noi non contiamo gli apparecchi come quando ero a casa, qua debbo contare le formazioni dato che a contare gli aeroplani mi stancherei. Mancano solo sette giorni a Natale e sento già che in quel giorno non potrò essere forte e la tristezza avrà campo su di me; pazienza! Voi in famiglia dovete fare come se io fossi presente perché in quel giorno io sarò con voi nella preghiera e col pensiero. Non dovete abbandonarvi alla malinconia; dovete stare allegri e credermi, per quel giorno, invitato dal Signor Pallai; Per mio conto cercherò di stare allegro più che posso; a quanto pare forse avremo un’oca arrosto da mangiare e credo costi 150 marchi. […] Memo
Esperstedt 24-12-1944 Caro Memo Rispondo alla tua cartolina e ti faccio sapere che a sgritto Canovi da Erfurt e dice che anno fatto un rastrellamento il 7 ottobre e dice che una 20 di Castelnuovo e dintorni, e del quale ce Batistessa, Maioli, Enio, Nello del Monte, e il filio del messadro del Prete di Rosano e altri. Saluti dal Moro
Nohra, 18.1.1945 Sono riuscito a mettermi in comunicazione con Gianni Bacchi il quale sta bene e si trova al seguente indirizzo: Schurzeubaus [o Schurzenbans?] 11ª Nenstadt a/r. Farai avere l’indirizzo ai suoi parenti nell’eventualità non avessero notizie. Circa gli altri di Castelnovo, cioè: Battistessa e compagni, da tempo avevo iniziato le ricerche, ma i miei aiutanti non hanno collaborato bene e mi hanno scritto che sono andati a 75 km da Erfurt senza mandarmi l’indirizzo (fra questi si trova anche Ermete) a giorni spero però di averlo. Memo
Nohra 5-2-45 A Lamberto ho scritto giorni or sono e aspetto la risposta e quindi assicura Elena che presto spero di avere notizie anche di Zucro e altri. Per Ermete ho scritto a Erfurt ed ho saputo che è stato mandato a 90 km da Erfurt stesso; dopo ho riscritto per avere il preciso indirizzo, ma dato che a causa i bombardamenti il servizio postale è molto lento non ho ancora ricevuto risposta. Assicura l’Angiolina che quando è passato da Erfurt stava benone ed era con Maioli — Battistessa — Nello del Monte — Ruffini Pierino e Guido — Guidi Anselmo e suo figlio — Magnani Ulderico — Zanichelli Giuseppe e altri che non conosco — appena saprò qualcosa sarà mia premura farlo sapere — non stiano in pensiero, perché la vita in Germania non è poi tanto dura e Ermete ha già fatto parecchio militare ed è già abituato ad una vita di disagio e sacrificio. Ringrazia l’Elvira per gli auguri e saluti che io contraccambio per suo fratello. Memo
G. CAROLI
UNA STRATEGIA PER I LUOGHI DELLA MEMORIA L’ESEMPIO DEL CAMPO DI FOSSOLI
di Brunetto Salvarani
Diceva il rabbi di Bluzhov, rabbi Israel Spira, ai suoi chassidim: “Ci sono avvenimenti di tale straordinaria grandezza che non li si dovrebbe ricordare in ogni momento, ma non li dovrebbe nemmeno dimenticare. L’Olocausto è uno di questi avvenimenti” (dai Racconti dei Chassidim).
Parlare oggi dell’ex campo di concentramento di Fossoli significa non solo fare riferimento al passato ma soprattutto interrogarci sulle strategie future da adottare in tema di memoria, quindi vuole dire aprire un discorso e non certo chiuderlo.
L’amministrazione comunale di Carpi ha una responsabilità storica e civile nei confronti non solo dei suoi cittadini, ma soprattutto nei confronti dell’Italia e del mondo intero, affinché - come ricordava Primo Levi “quanto è accaduto una volta non abbia ad accadere mai più”.
Per quanto riguarda il sito di Fossoli c’è un problema in più che rende il lavoro e l’ipotesi di lavoro ancora più complessi e più delicati. Prima di partire con i tre punti del mio intervento che riguardano il passato, il presente ed il futuro del sito e di quello che vi sta attorno, vorrei citare Enzo Collotti e la sua Introduzione ai Trentacinque Progetti per Fossoli nella quale sottolineava: “Nessuna società che si rispetti può vivere senza la legittimazione di una comune memoria storica […]. È necessario convivere con il proprio passato, ma anche esplicitare di quali valori si intende affermare la continuità, se la memoria, e le rappresentazioni che a essa si vogliono associare, non deve rimanere monumento inerte ma un segnale permanente proiettato verso il futuro”1. Le considerazioni di Collotti evidenziano quello che io ritengo sia il vero nodo del problema rispetto al tema della memoria e della necessità di preservare una memoria storica, cioè se la memoria debba essere soltanto qualcosa di legato ad un passato che per un qualche motivo, etico, morale o politico non deve tramontare o se a partire dalla memoria ci può essere un richiamo forte alla situa-
1 E. Collotti, Introduzione, in G. Leoni (a cura di), Trentacinque progetti per Fossoli, Milano 1990, p. 21.
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zione attuale ed una proiezione sul futuro. Qui si colloca la responsabilità civile e morale che noi abbiamo rispetto al campo di Fossoli. Quindi tre punti sintetici per tracciare una panoramica della situazione: un passato stratificato, un presente complesso, un futuro da conservare.
Un passato stratificato
Esiste una difficoltà oggettiva di lettura, di interpretazione di uno spazio che, nel tempo, ha ricoperto diverse funzioni. Quindi, quando si parla della necessità di conservare la memoria del campo di Fossoli, non si può fare riferimento solo ad una di queste memorie considerandola astrattamente più importante o più significativa delle altre. Qui faremo riferimento ai momenti, alla tappe più importanti di questo sito.
A partire dal maggio 1942 viene insediato a Fossoli, frazione di Carpi, un campo per prigionieri di guerra, gestito dalle autorità militari italiane, destinato all’internamento di sottufficiali inglesi catturati in Nord Africa.
Dal dicembre 1943 il campo funziona come “Campo di concentramento provinciale per ebrei” ed è gestito dalla prefettura di Modena. Alla fine del gennaio 1944 le autorità naziste, attratte dalla posizione che rende Fossoli un comodo snodo ferroviario, avocano a sé la giurisdizione del campo che diventa “Polizei und Durchgangslager”, campo poliziesco e di transito per deportati politici e razziali, rastrellati in varie parti d’Italia e destinati ai più tragici lager del Nord Europa.
Dopo la guerra, il campo è lungamente utilizzato a scopo abitativo. Dal 1947 al 1952 ospita la comunità cattolica di Nomadelfia fondata dal carpigiano don Zeno Saltini, che capovolge completamente la prospettiva del campo, che da luogo di dolore diventa un luogo dove la fraternità è legge. Un esperimento che rispetto al campo di Fossoli dura solo cinque anni, ma il messaggio forte passa ed il villaggio viene successivamente trasferito in Maremma, nei pressi di Grosseto, dove è tuttora operante.
Dalla fine degli anni ’50 fino ai primi anni ‘60 il campo registrerà un’altra esperienza, quella del Villaggio San Marco con i profughi giuliani e dalmati che — arrivati a Carpi — utilizzano quale rifugio di fortuna questo stesso spazio.
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Del 1973 è l’inaugurazione del Museo Monumento al Deportato, un altro importante momento nonché un doveroso omaggio che la città di Carpi desiderava offrire a tutti coloro che avevano perso la vita per la libertà dei popoli.2 In quell’occasione il comune di Carpi avanzò all’Intendenza di finanza una richiesta ufficiale per l’acquisto dell’area del campo di Fossoli. Nel 1984, finalmente, il campo passa al comune a titolo gratuito e si inizia a riflettere sulla possibilità di un recupero di tipo filologico, ma la risposta che viene data in modo complessivo è che un recupero di quel tipo sia ormai impossibile. Nasce così l’idea di indire un concorso internazionale per progetti con l’idea di trasformare il campo in un parco. Il successo arride all’architetto fiorentino Roberto Maestro.
Da questa, sia pur sintetica, ricostruzione delle vicende del campo di Fossoli a partire dal 1942 si può comprendere perché si può parlare di un passato stratificato: sicuramente il periodo che va dal 1943 al 1945 ha una sua specificità, ma hanno una loro peculiarità anche gli altri momenti come quello di Nomadelfia e del Villaggio San Marco.
Un presente complesso: gli anni ’90
Gli anni ’90 sono caratterizzati dalla forte volontà di valorizzare il Museo Monumento al Deportato e soprattutto di riaffermare quella che fu, ed è tuttora, una scelta strategica di non poco conto per la città di Carpi. Il Museo Monumento fu infatti inaugurato nel 1973 alla presenza dell’allora presidente della Repubblica Leone, ma dopo l’inaugurazione in realtà il Museo conosce anni non facili e viene come messo in disparte nel panorama degli istituti culturali del comune.
Agli inizi degli anni ’90 una serie di fattori diversi, e forse un generale ritrovato interesse per il tema “memoria”, riportano il Museo Monumento al centro dell’attenzione dell’amministrazione comunale che se ne “riappropria” progressivamente. Nasce così l’Associazione degli Amici del Museo Monumento, nascono e si formano professionalità importanti che vengono utilizzate per offrire visite guidate al pubblico, alle scuo-
2 R. Gibertoni-A. Melodi (a cura di), Il Museo Monumento al Deportato a Carpi, Milano 1993.
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le e successivamente per organizzare mostre, viaggi, corsi d’aggiornamento. La decisione da parte dell’amministrazione di investire sul Museo Monumento viene, nel corso degli anni, premiata: si passa infatti da qualche visita occasionale ad un numero di visitatori annuali di circa 30.000 tra Museo e campo di Fossoli.
Il 1995 vede un ulteriore passo in avanti dell’amministrazione, che decide di dare vita al “Progetto Memoria”: Di qui l’idea di creare tra comune di Carpi e Associazione Amici del Museo una Fondazione apposita per la valorizzazione della memoria storica del campo di Fossoli e per sottolineare ancora una volta come il tema della memoria sia strategico per la città.
La Fondazione ex campo Fossoli viene istituita ufficialmente nel 1996, con uno statuto definito ed una struttura organizzativa precisa che prevede un Consiglio di amministrazione ed un Comitato scientifico composto da storici e pedagogisti.
Con la nascita della Fondazione viene ripreso il tema del recupero del sito di Fossoli e quindi il progetto Maestro, la sua validità e soprattutto l’opportunità di seguire la strada suggerita dal progetto vincitore. Da quel dibattito emerge l’esigenza, anche per motivi economici, di andare verso un recupero più sobrio rispetto al progetto originale e di tipo filologico per quanto ancora possibile. Tale nuova ipotesi viene ribattezzata come l’ipotesi del “I° stralcio”, relativamente poco costosa e ancora comprendente alcuni elementi del progetto Maestro ma con un impatto, nei confronti del sito, meno poderoso.
Nel frattempo il lavoro della Fondazione continua anche su un altro fronte, quello della sensibilizzazione dei più giovani rispetto al tema della memoria, utilizzando una serie di linguaggi diversi, nel tentativo di raccontare la Shoà e la Resistenza. La Fondazione Fossoli prova così ad investire in questa direzione attraverso una serie di iniziative come la prima nazionale del film “La Tregua” di Francesco Rosi , vari “concerti per Fossoli”, aste di quadri, corsi di aggiornamento per insegnanti, progetti didattici, e così via.
Tra il 1997 e l’inizio del 1998, il Comitato scientifico della Fondazione riapre in modo deciso ed ufficiale il dibattito sul recupero del sito di Fossoli e sull’opportunità o meno di continuare ad andare nella direzione del progetto Maestro e una nuova sensibilità fa prendere in considerazione l’ipotesi, per quanto possibile, di un recupero di tipo filologico e l’attivazione di una serie di interventi volti a fermare il degrado dell’area di Fossoli. Viene di fatto
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accantonato (almeno per il momento) il progetto Maestro ed ogni altra ipotesi di recupero del sito di Fossoli per funzioni diverse, come l’idea di trasformare il campo in un parco. Oggi, infatti, su scala europea si ritiene che siti come quello di Fossoli debbano essere recuperati in modo filologico; così si decide di andare in quella direzione. Alcuni lavori sono già iniziati, come la recinzione del perimetro storico del campo; successivamente verranno posizionati dei leggii che consentiranno una visita individuale; ed infine vi sarà il tentativo di recuperare una baracca ricostruendola così come era, per scopi eminentemente didattici.
Un futuro da conservare Come trasmettere la memoria alle giovani generazioni?
Come conservare, mantenere e trasmettere la memoria storica di luoghi come Fossoli è un tema che si inserisce in un dibattito per lo meno nazionale. La necessità e l’auspicio che si possa andare nella direzione di una vera e propria strategia complessiva per la conservazione di una memoria che non sia solo un mero ricordo del passato, ma che sia la proiezione sul futuro.
Sarebbe sicuramente auspicabile proseguire l’ipotesi della costituzione di una rete dei “luoghi della memoria”, che su scala modenese già esiste ma, che andrebbe estese a livello nazionale. Occorre continuare con i cosiddetti “viaggi della memoria”, promossi in particolare dalla rivista “Confronti” di Roma, ovvero viaggi attraverso i vari luoghi simbolo della deportazione europea, come Auschwitz e ancora investire nei linguaggi più diversificati per narrare la Shoà e investire nella formazione permanente degli insegnanti, delle associazioni e del Terzo settore in generale.
Si sente inoltre la necessità di una vera ricerca storica sul campo di Fossoli che tuttora non esiste e che attualmente si è limitata, per ragioni economiche, ad una ricerca bibliografica piuttosto completa. Il passo successivo sarà necessariamente la ricerca storica relativa a questo sito così cruciale per la storia della deportazione italiana.
C’è bisogno poi di investire sull’educazione alla pace ed alla interculturalità se si vuole far sì che davvero la memoria non sia solo un ricordo del passato ma che diventi un’importante occa-
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sione di riflessione e di arricchimento in un’ottica futura. Proprio in questo contesto si inserisce la “Scuola di pace” della Fondazione Fossoli intitolata simbolicamente a Primo Levi, uno dei tanti che transitarono per Fossoli, uno dei pochi “salvati” contro la maggioranza dei “sommersi”3 .
L’impegno della Fondazione su questo fronte è evidente alla luce dello slogan di cui si è dotata, vale a dire “Differences make freedom” tradotto in un vero e proprio appello, “La diversità ci rende liberi”, allusione evidente e paradossale al motto che accoglieva gli internati di Auschwitz, “Arbeit mach frei”. Alla base di questo slogan c’è la profonda convinzione che il nostro paese, avviato a divenire sempre più caratterizzato dalla multiculturalità e dalla multireligiosità, può trovare nella ricerca delle proprie radici e nella custodia di quella che Primo Levi definiva la “memoria dell’offesa” un’occasione per arricchirsi.
Concludo citando un teologo napoletano, Bruno Forte, che riflettendo sulla memoria scriveva: ”Senza memoria il progetto sarebbe utopia, senza progetto la memoria sarebbe rimpianto, senza coscienza dell’ora presente, memoria e progetto sarebbero evasione, vuoto esercizio della ragione. Ripercorrere i sentieri della memoria è necessario per non idolatrare il momento attuale e schiudere le vie della profezia: “Non è la storia che appartiene a noi, ma noi apparteniamo alla storia […] la memoria, per non divenire sterile nostalgia, ha bisogno di essere caricata delle domande presenti, orientata a schiudere il futuro. Così, lungi dall’essere la casa del rimpianto, la memoria, abitata dal presente e dimorante in esso con le sue sfide e i suoi tesori, è terreno di profezia, via di avvenire”4 .
Questo è quanto mi auguro anche per la memoria del campo di Fossoli, cioè una memoria carica di storia, ma che sia terreno fertile anche per la profezia, contro l’ipotesi drammatica di un esilio della memoria dal nostro tempo.
3 P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino 1986. 4 B. Forte, La teologia come compagnia, memoria e profezia, Milano 1987.
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FOSSOLI DI CARPI: PERCEZIONE, RICORDO E SIGNIFICATO ATTRAVERSO LA SISTEMAZIONE DEGLI SCRITTI RACCOLTI NELLA BIBLIOGRAFIA
di Simone Duranti
Curva sulle rovine, una donna cerca qualcosa che non sia stato distrutto. Le forze dell’ordine hanno raso al suolo la casa di Maria Isabel de Mariani, e lei fruga invano tra i resti. Quello che non hanno rubato lo hanno polverizzato. Solo un disco, il Requiem di Verdi, è intatto. […] Senza l’aiuto di nessuno, mette in qualche cassa i cocci della sua casa annientata. A notte fonda porta le casse sul marciapiede. Di prima mattina, gli spazzini raccolgono le casse, ad una ad una, dolcemente, senza sbatterle. Gli spazzini trattano le casse con molta delicatezza, come se sapessero che sono piene di vita spezzata. Nascosta dietro una finestra, in silenzio, Maria Isabel è riconoscente per questa carezza, l’unica che ha ricevuto da quando è cominciato il dolore. (Eduardo Galeano)1
L’insieme di immagini e sentimenti che restano al deportato “colpevole” di essere sopravvissuto sono tutto ciò che resta ad una vita spezzata, che diventa muta e non si risolve in nessuna catarsi.
Soltanto il senso della non unicità del bagaglio che si porta, la consapevolezza di una sorte condivisa, alimentano in alcuni casi l’istinto a riprendere un qualsiasi corso della vita, ma il marchio non si cancella. Nessuna delle memorie dei deportati nota a chi scrive contiene alcun senso di redenzione umana: magari si cercano spiegazioni metafisiche, o si sostanzia “l’indicibile dopo” di un forte impegno civile. Si vestono i drammatici panni della vittima-testimone per riempire di almeno un significato possibile ciò che resta da vivere. Si è quindi memoria e monito, come spesso si è detto, per le generazioni a venire, affinché, informata di senso civile, l’esistenza non più “normale” del deportato sopravvissuto trovi il contatto con la vita altrui che inspiegabilmente continua.
Il passo citato di Galeano descrive una madre scampata alla stagione della dittatura argentina degli anni settanta: la vita è finita, i legami spezzati e il dolore, soprattutto il dolore — perduto ogni valore catartico — rimane a fare da basso continuo a ciò che rimane da vivere. La scelta di questo passo è motivata da una vicinanza emotiva e concettuale che chi scrive ha riscontrato fra il
1 E. Galeano, Memoria del fuoco, III, Il secolo del Vento, Milano 1997, pp. 313-314.
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destino di Maria Isabel e quello di uomini e donne che, tornando ad un’ipotesi di vita libera dopo l’internamento, si trovano non più in grado di comunicare, e addirittura trovano indifferenza e ostilità da parte della gente comune. Svariate testimonianze in questo senso sono contenute nei lavori di A.M. Bruzzone e L. Beccaria Rolfi2 e nelle considerazioni di quei reduci che avvertono palpabile il ruolo di simbolo scomodo al limite del credibile.
Il campo di concentramento di Fossoli di Carpi rimane anch’esso simbolo di una memoria inquieta e tormentata: i resti di baracche cadenti e purtroppo ancora prive del tanto auspicato restauro rappresentano il frequente corollario all’indifferenza collettiva per luoghi e soggetti mal collocabili nelle coscienze dei non coinvolti. È corretto forse affermare che indipendentemente dal tempo che passa e ci allontana dalla stagione delle deportazioni nazifasciste, rimane immutato e invalicabile il solco che separa le coscienze e sensibilità del variegato universo dei reduci dal resto degli uomini.
Inevitabile quindi per chi scrive il senso di inadeguatezza, di imbarazzo e scrupolo per non sentirsi abilitati a svolgere un mestiere peraltro utile e necessario: organizzare la memoria, custodirla e nei limiti del lecito interpretarla anche con un modesto contributo rappresentato da una bibliografia degli scritti che in vario modo hanno riguardato uno dei più importanti campi dell’Italia fascista, quello appunto di Fossoli.
Prima tappa di un lavoro tendente a ricostruire nella sua interezza la storia del campo in oggetto, la bibliografia ragionata va intesa non solo come tradizionale e imprescindibile strumento di ricerca, ma anche come occasione per fare il punto su cin-
2 Considerazioni di questo genere sono presenti tanto in opere che analizzano il tema del ritorno dai Lager e del reinserimento nella vita civile — come: L. Monaco (a cura di), La deportazione femminile nei Lager nazisti. Convegno internazionale Torino, 20-21 ottobre 1994, Milano 1995; L. Beccaria Rolfi, L’esile filo della memoria. Ravensbrück, 1945: un drammatico ritorno alla libertà, Torino 1996 — quanto in raccolte di testimonianze relative all’esperienza di prigionia (L. Beccaria Rolfi, A.M. Bruzzone, Le donne di Ravensbrück. Testimonianze di deportate politiche italiane, Torino 1978; A. Bravo, A.M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storie di donne. 1940-1945, Roma-Bari 1995). L’indicazione di testi che si incentrano sulla condizione al femminile della deportazione non è casuale ma corrisponde ad una dinamica precisa: il binomio deportazione-resistenza antifascista ha prodotto anche una sorta di appropriazione al maschile del sacrificio e dell’impegno civile e militare, così da determinare un penoso senso di non considerazione o di esclusione in quelle donne che hanno tentato di comunicare la propria drammatica esperienza. Per un puntuale rilievo di queste dinamiche si veda il recente A. Rossi Doria, Memoria e storia: il caso della deportazione, Catanzaro 1998.
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quant’anni di storia culturale ed editoriale. Vedere quindi quanto siano cambiate nel corso della storia repubblicana del nostro paese le sensibilità legate al mondo della concentrazione.
La storia del campo di Fossoli di Carpi è ancora da scrivere: esistono articoli e interventi di differente tenore su riviste storiche e volumi che ne ricordano sommariamente la creazione e i principali avvenimenti che vi ebbero luogo, soprattutto per il periodo dell’occupazione e amministrazione tedesca dall’8 settembre ’43 all’agosto del ’44 e per la successiva esperienza di Nomadelfia voluta da don Zeno Saltini. Soltanto qualche esile riferimento all’impiego delle strutture del campo per il ricovero dei profughi giuliani nel 1955.3
Indubbiamente fra i materiali reperibili le ricerche di Luciano Casali pubblicate negli atti del convegno di Carpi del 1985,4 forniscono la più ampia e dettagliata ricostruzione della storia del campo di Fossoli.
La fondazione Fossoli di Carpi si è impegnata a sostenere un progetto di ricerca che come prima tappa ha portato alla realizzazione di due strumenti di lavoro: la bibliografia dei materiali a stampa pubblicati dal dopoguerra ad oggi che facciano riferimento al campo stesso e una mappatura degli articoli apparsi su quotidiani.
Innanzitutto, perché una bibliografia: riteniamo che sia metodologicamente corretto far precedere ad un futuro lavoro di recupero della memoria di Fossoli la consapevolezza di quanto già esista sull’argomento, così da dotare il ricercatore di quell’impianto di conoscenze eterogenee che rappresentano quella che definiamo la “percezione di Fossoli nel tempo”. Questa idea chiaramente ci collega ad un nodo concettuale complesso e della massima importanza: la generale percezione del Lager come luogo fisico e come simbolo, per le vittime della deportazione e per coloro che si sono fatti interpreti dell’esigenza di recupero, conservazione e adattamento della memoria collettiva alle varie stagioni culturali che dal dopoguerra ad oggi hanno contribuito a variare l’interesse per questo tipo di problematica.
3 Soltanto due scritti ricordano brevemente la parentesi del cosiddetto Villaggio S. Marco: Rossi Manfredi, Il recupero monumentale del campo di concentramento di Fossoli, “Triangolo Rosso”, 1980, a. VII, 10, pp. 8-9 (mensile a cura dell'Associazione nazionale ex-deportati politici); Diocesi di Carpi, La stola insanguinata. Don Francesco Venturelli 1887-1946. Arciprete di Fossoli, Carpi 1996. 4 L. Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, in Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa 1939-1945, Bologna 1987, pp. 382-406.
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Avvicinarsi oggi alla tematica della concentrazione non può non implicare la valutazione di letteratura e storiografia: sterminata è la produzione al riguardo, sia questa memorialistica o studio storico o prospettiva sociologica, a supporto della indagine generale della storia delle mentalità e sensibilità che entrano in contatto con l’idea e la fisicità del Lager.
Una bibliografia per sua natura non entra nel merito dei contenuti dei singoli contributi, limitandosi alla registrazione tecnica degli stessi; però trattandosi di una grossa quantità di materiali, è indubbio che il ricercatore che si ponga l’obbiettivo di vagliare questo settore (anche se solamente da un punto di vista tecnico) alla fine sia consapevole di essere uno dei pochi ad avere la relativa completezza di un panorama di pubblicazioni estremamente frammentato, disperso, e a volte di ardua reperibilità. Ecco che quindi questo intervento può avere il senso di una discussione su quanto e come il Lager di Fossoli sia stato oggetto di indagine; quanto le strutture dell’editoria abbiano condizionato la diffusione dei materiali e quanto inciso sul particolare tipo di produzione legata ai campi di concentramento nel nostro paese.
Per la realizzazione della ricerca abbiamo inizialmente effettuato lo spoglio della Bibliografia storica nazionale, e incrociato le voci presenti nelle varie bibliografie esistenti su deportazione e internamento relative all’esperienza italiana.
Da un corpo di circa un migliaio di testi, dopo lo spoglio, siamo giunti alla schedatura di circa trecentocinquanta titoli, fra volumi e articoli contenuti in riviste.
Questi sono stati ripartiti in un numero piuttosto ristretto di sezioni: • bibliografie e strumenti (15) • opere generali sulla deportazione (94) • studi specifici su Fossoli (19) • studi locali (97) • memorie, testimonianze, biografie (96) • Nomadelfia (24)
La prima sezione comprende volumi bibliografici specifici sull’internamento e sulla seconda guerra mondiale, alcune enciclopedie contenenti la voce “Fossoli” e una filmografia. Questa sezione di strumenti per la ricerca registra un numero di presenze rilevante per gli anni novanta.
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Per “Opere generali sulla deportazione” abbiamo inteso quell’insieme di scritti che vanno dagli studi sulla politica concentrazionaria del nazionalsocialismo a opere sulla storia della Resistenza partigiana, un gruppo di pubblicazioni diverse quindi, ma che escludono un taglio o una prospettiva di storia locale o di specifica raccolta di testimonianze. Al suo interno si troveranno ad esempio La distruzione degli ebrei d’Europa di Raul Hilberg, atti di convegni promossi dall’ANED, e Dal fascismo alla Resistenza di Armando Saitta. La suddivisione cronologica mostra come prima del 1960 nessun lavoro di questa natura (volume autonomo o articolo su rivista) prenda Fossoli in considerazione, a parte la sola opera di Michele Vaina La grande tragedia italiana. Il crollo di un regime nefasto. Documentario storico ed illustrato, in tre volumi del 1947.
Gli studi unicamente incentrati su Fossoli sono contenuti essenzialmente in riviste specializzate (fra queste la Rassegna annuale dell’Istituto storico della Resistenza della provincia di Modena fa registrare il maggior numero di interventi specifici), oltre alle pubblicazioni legate all’illustrazione del Museo Monumento al Deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti di Carpi e ai resoconti sul progetto di recupero del campo stesso.
Gli “Studi locali” raccolgono contributi non limitati al campo di Fossoli ma che ne descrivono caratteristiche o semplicemente ne citano l’esistenza all’interno di una prospettiva provinciale o regionale. Sono ospitati in questa sezione studi su specifiche comunità ebraiche italiane, ricostruzioni di scenari geograficamente limitati di lotta partigiana e più in generale gli scritti promossi da istituti locali per lo studio o la celebrazione di avvenimenti comunque legati alla deportazione. La prospettiva di studio locale e limitato non fa registrare periodi particolarmente lunghi di assenza della trattazione di Fossoli e chiaramente le presenze tendono ad addensarsi per la ricorrenza di particolari anniversari, come le celebrazioni decennali della Liberazione, segnalando l’impegno degli Istituti storici della Resistenza nel versante della conservazione della memoria anche attraverso la promozione di ricerche storiche specifiche.
Anche la sezione relativa alla memorialistica, alle biografie e alla raccolta di testimonianze, fra volumi e articoli in riviste, vede una presenza costante di riferimenti al campo di Fossoli, così da evidenziare la vastità del fenomeno concentrazionario e la presenza del semplice dato percettivo, di conoscenza della realtà,
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dell’esistenza e del ruolo di Fossoli. Un quadro composito che comprende analisi dettagliate del campo, delle condizioni dei detenuti al suo interno, fino ai riferimenti minimi di chi, alla ricerca di un familiare, si recava all’ingresso del campo per avere notizie.
Infine, come sezione autonoma, abbiamo considerato anche la stagione di Nomadelfia, la comunità voluta e realizzata utilizzando le strutture del campo di Fossoli da don Zeno Saltini per la tutela dell’infanzia abbandonata. Nel tentativo di far emergere in questo settore gli scritti importanti, siamo stati selettivi, valutando differenti livelli di importanza di un settore sterminato come quello dell’editoria cattolica.
All’interno del vasto ed eterogeneo corpo di pubblicazioni schedate spiccano per quantità quelle ospitate su riviste degli istituti storici della Resistenza e i contributi di ricerca promossi dalla fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC) e dall’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi di sterminio nazisti (ANED). Nel caso dell’ANED di Torino abbiamo una serie di volumi (essenzialmente atti di convegni), realizzati con la collaborazione del Consiglio provinciale del Piemonte, che testimoniano l’impegno costante e fortunatamente “visibile” di ricercatori che periodicamente relazionano sullo stato delle ricerche nell’ambito del complesso settore della deportazione e internamento.
Dobbiamo inoltre considerare l’importanza del lavoro svolto dal CDEC, sia per quanto riguarda la pubblicazione di materiali indispensabili come la vastissima ricerca di Liliana Picciotto Fargion, Il libro della memoria,5 sia per quanto riguarda la conservazione di testi di difficile reperimento.
A questo proposito è bene precisare che se bibliografie e strumenti atti all’esplorazione di specifici ambiti storiografici sono per il lavoro di ricercatore indispensabili, la reperibilità dei titoli è a volte assai difficile, così da condizionare, allungandoli, i tempi della ricerca.
Ecco che l’esempio del lavoro svolto da Anna Bravo e Daniele Jalla con l’istituto Gramsci di Torino rappresenta una felice risposta a questo problema: infatti con la realizzazione del volume Una
5 L. Picciotto Fargion, Il libro della memoria. Gli ebrei deportati dall’Italia (1943-1945), Milano 1990.
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misura onesta6 non si è provveduto soltanto alla stesura di una vasta bibliografia, ma anche a raccogliere fisicamente i materiali schedati presso un unico centro: il Gramsci di Torino.
Nell’immediato dopoguerra vengono pubblicati alcuni scritti di deportati che centrano nel campo di Fossoli l’origine materiale e simbolica dell’abuso subito: appare caratteristico di uno stile editoriale datato ed estremamente vicino dal punto di vista temporale ai fatti l’incedere su particolari raccapriccianti. Deportazione e sterminio sono un fatto inedito e così sconvolgente da trovare non attrezzata la coscienza del cronista, ma soprattutto la sensibilità della struttura editoriale che sembra concentrarsi sui dettagli di più facile ricezione. Si pensi alle copertine delle prime edizioni di alcuni scritti dal 1945 al 1950: illustrazioni e sottotitoli evocanti sangue e martirio; si utilizzano parole come “scheletri umani” e quant’altro.7 Di fatto però la letteratura sui campi, come su ogni altra esperienza-limite, deve fare i conti con la sensibilità individuale e in modo particolare con una chiara finalità del raccontare: non mancano infatti scritti che per utilizzo di immagini e precisa scelta terminologica danno la sensazione di avere come unico scopo il destare impressione e raccapriccio: un non chiaro incedere su componenti emotive a volte fine a se stesse o che denotano un impegno civile per lo meno dubbio. Dobbiamo ricordare sempre che ci muoviamo in un terreno particolarmente difficile e multiforme: si ha l’impressione che la dinamica di trasmissione della memoria dalle vittime ai fruitori del messaggio si svolga in maniera biunivoca, cioè la stessa capacità di raccontare subisce o tende a subire una elaborazione dettata dal variare delle condizioni al contorno degli orientamenti della società.
Il paradigma del sacrificio nei campi in conseguenza della lotta di resistenza al nazifascismo ha subito una progressiva istituzionalizzazione del proprio messaggio, che pare depotenziarsi al
6 A. Bravo-D. Jalla (a cura di), Una misura onesta. Gli scritti di memoria della deportazione dall’Italia 1944-1993, Milano 1994. 7 Alcuni esempi sono: L. Nissim-P. Lewinska, Donne contro il mostro, Torino 1946, in copertina: “Donne della straziata Europa chiuse nell’allucinante inferno di Oswiecim, che riaffermano gli ideali eterni dell’umanità”; F. Misul, Fra gli artigli del mostro nazista. La più romanzesca delle realtà il più realistico dei romanzi, Livorno 1946: il paragrafo intitolato Sotto l’egida della morte narra l’esperienza dell’internamento a Fossoli, caratterizzata secondo l’autrice dai “più sfibranti tormenti materiali”; A. Colleoni, Nei campi della morte, Milano 1945, in copertina: “Particolari sugli infernali campi di concentramento. Episodi raccapriccianti. Assassini di massa. Cadaveri viventi. Martiri di tutte le nazionalità”.
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punto da rimanere vivo riferimento soltanto internamente ai superstiti.
Se si prescinde infatti da pubblicazioni a carattere locale, molto di ciò che raggiunge diffusione nazionale rimane interno all’impegno celebrativo e di conservazione della memoria delle organizzazioni di reduci che, se da un lato cercano di autorappresentarsi come simboli viventi così da assurgere a monito perenne contro il ripetersi di ciò che è barbarie, dall’altro si pongono giocoforza in un ruolo di unici, esclusivi detentori di valori, ricordi e sentimenti perché circondati dal disinteresse generale e da quel clima di normalizzazione che ha preteso i morti tutti uguali e imbrigliato la soluzione finale (e più in generale l’impiego per fini terroristici delle strutture concentrazionarie) in una sempre più vuota retorica.
In anni più recenti, grazie all’impegno dei centri e delle strutture che abbiamo ricordato, il ruolo degli storici ha trovato un significato importante nella progressiva raccolta ed elaborazione delle testimonianze orali,8 oppure nel collaborare a progetti di recupero della memoria di luoghi fisici e avvenimenti assai spesso relegati a prospettive eccessivamente localistiche e quindi raramente utilizzabili per formare un coerente e vasto quadro generale.9
Specialisti del settore — conseguentemente al forte impegno civile — hanno ben capito l’importanza di differenziare linguaggi e tipi di ricerca, così da poter rivolgersi a tipologie differenti di fruitori. Uno per tutti il caso di Liliana Picciotto Fargion, che in un lunghissimo e tenace impegno di ricerca ha coniugato finalità scientifico-specialistiche (si pensi soltanto ai puntuali aggiornamenti di materiale archivistico ritrovato e diffuso su riviste specializzate)10 con intenti divulgativi (appoggiandosi magari a case
8 A. Bravo-D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Milano 1986. 9 M. Minardi, Tra chiuse Mura. Deportazione e campi di concentramento nella provincia di Parma 1940-1945, Parma 1987, introduzione di L. Casali, dove si evidenzia come il ruolo delle strutture concentrazionarie minori debba essere inserito nel più vasto e generale piano di raccolta e deportazione su scala nazionale ed europea. Si veda inoltre come prima ricerca di ambito provinciale con impianto scientifico e non solo commemorativo sulle conseguenze dell’occupazione tedesca, C. ManganelliB. Mantelli, Antifascisti, partigiani, ebrei. I deportati alessandrini nei campi di sterminio nazisti 1943-1945, Milano 1991, prefazione di E. Collotti. 10 Del vasto corpo di scritti sull’argomento dell’autrice segnaliamo a mero titolo esemplificativo: L. Picciotto Fargion, L’occupazione tedesca e gli ebrei di Roma. Documenti e fatti, Roma 1979; Id., Ultime lettere di ebrei deportati dall’Italia, in A. Carlotti (a cura di), Italia 1939-1945. Storia e memoria, Milano 1996, pp. 463-478.
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editrici molto note e tali da garantire una visibilità notevole per il grande pubblico)11 .
Passando in rassegna i materiali che più diffusamente fanno riferimento al campo di Fossoli, si nota immediatamente una forte discrepanza di giudizi e interpretazioni delle condizioni di vita all’interno di esso, che appaiono diretta conseguenza dell’esperienza complessiva dei deportati.
Come è facile capire, l’internato, che a Fossoli ha vissuto una parentesi breve prima della successiva deportazione nei Lager del Reich, tende a esprimere un giudizio di relativa mitezza delle condizioni di detenzione, fino ad abbandonarsi alle comprensibili manifestazioni di “rimpianto” per quella tipologia di campo di transito al momento di sperimentare Auschwitz.12
Ma i giudizi e le testimonianze su Fossoli sono nel complesso ben più sfumate e così dettate dalla capacità percettiva del singolo deportato da rendere poco agevole una sintesi completa.
È bene anche ricordare che buona parte delle considerazioni presenti in questo intervento, benché emerse dallo studio specifico dei materiali inerenti il Lager carpigiano, potrebbero essere estese alla realtà della deportazione nazifascista in generale. Infatti nel corso dello spoglio di materiali relativi ad esempio al Lager di Bolzano — che seguì temporalmente quello di Fossoli — ci siamo spesso trovati immersi nello stesso tipo di condizione psicologica e materiale. Inoltre, trattandosi di campi di raccolta e transito, il settore della memorialistica ha chiaramente destinato all’esperienza detentiva in terra italiana una dimensione circoscritta.
Innanzitutto diverse sono le tipologie di internati (politici e razziali), prima distinzione che rende evidente quanto possa mutare la capacità di percezione del pericolo, la comprensione della propria condizione personale all’interno del Lager e certamente una diversa capacità di adattamento. Si pensi infatti al partigiano combattente, al militare che rifiuta la divisa di Salò e prende parte alla lotta di liberazione nazionale: a volte questa tipologia di internati riesce a Fossoli a ricostituire un insieme di legami e frequentazioni che contribuiscono a stabilire una sorta di continuità
11 L. Picciotto Fargion, Per ignota destinazione. Gli ebrei sotto il nazismo, Milano 1994. 12 Immerso nella realtà di Mauthausen don P. Liggeri esclama: “Oh innocente campo di Fossoli, circondato da una bonaria doppia rete…”: cfr. don P. Liggeri, Triangolo rosso. Dalle carceri milanesi di san Vittore ai campi di concentramento e di eliminazione di Fossoli, Bolzano, Mauthausen, Gusen, Dachau. Marzo 1944-Maggio 1945, Milano 1986 (quinta edizione).
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tra la militanza e l’impegno antifascista svolto in libertà e la resistenza, allo stesso tempo umana-personale e al regime. Si tratta di un tipo di autorappresentazione che favorisce la percezione dell’abuso e rende particolarmente odioso ogni contatto col personale carcerario, che considera ogni manifestazione della vita del campo — dalle adunate alla distribuzione del rancio — una sorta di conferma delle caratteristiche del regime fascista. Il Lager diviene paradigma che congiunge l’essenza del dominio nazifascista al senso di appartenenza ad una scelta di campo precisa. Nel Lager si rivivono gli anni di confino degli oppositori del regime, le violenze dello squadrismo (chi le ha vissute e chi le ha introiettate dai racconti di padri e compagni), e questi sentimenti isolano Fossoli dalla Germania, anche in quelle testimonianze scritte — diciamo — a caldo, allorquando cioè dovrebbe rimanere predominante la dimensione di orrore indicibile dell’esperienza nei campi della morte. Invece ecco emergere la dimensione della morte dentro Fossoli: nessuno dimentica l’eccidio dei settanta,13 e ne viene ricordata l’atmosfera atroce dell’abuso, della rappresaglia per i lontani fatti di Genova, la capacità di rievocare — commossi e offesi — nomi dei sacrificati, una lunga teoria di conoscenze, amicizie nate o fortificate dalla comune opposizione al fascismo.
Diversa a volte la condizione dei deportati ebrei, di famiglie che vivono Fossoli come una sorta di limbo allucinante, spesso caratterizzato da un accanita volontà di ricreare nel Lager condizioni di vita il più possibile simili a quelle dalle quali sono stati strappati. Non tutti dimostrano avere chiara consapevolezza del destino imminente, così da generare reazioni molto complesse e diversificate: incapacità completa di adattamento, conseguenza del tragico sradicamento dalla vita precedente; preoccupata conferma del progressivo annullamento di ogni dignità individuale come uomo e cittadino dalle leggi razziali del 1938 in poi, un drammatico intensificarsi di violenze private e collettive che vede in Fossoli un aggravarsi delle condizioni patite nei provvisori
13 Si tratta dell’eccidio di massa che ebbe luogo presso il poligono del Tiro a segno nazionale di Cibeno, dove il 12 luglio 1944 furono condotti una settantina di prigionieri del campo di Fossoli. Il numero rimane incerto, essendoci discordanza tanto nei documenti quanto nelle testimonianze raccolte. All’appello effettuato la sera precedente al massacro furono chiamati 70 o 71 prigionieri e comunque di questi tre sopravvissero all’esecuzione (Teresio Olivelli non presentandosi il mattino successivo per il trasferimento al poligono; Mario Fasoli ed Eugenio Jemina si sottrassero con la fuga all’ultimo istante alla scarica di colpi del plotone di esecuzione).
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campi di raccolta provinciali. Quest’ultima condizione genera frequentemente la tendenza che Michele Ranchetti ha definito della “costruzione di traguardi parziali di fronte al pericolo”14: gli elementi del disastro vengono valutati via via che si manifestano in una sorta di necessaria non volontà di previsione.
“Fino a qui tutto bene”, sembrano ripetersi alcune di quelle vittime che lanceranno dai treni gli ultimi messaggi attestanti un’esistenza annichilita ma ancora tenacemente tale.15
Comunque, che l’internato abbia preparazione politica alle spalle o sia una spiazzata vittima della persecuzione razziale, l’essenza dei Lager istituiti dai regimi fascista e nazista è stata tale da non aver consentito particolari margini di previsione delle conseguenze apocalittiche dell’internamento; la maggior parte dei deportati realizzò il significato e la portata della struttura nella quale si veniva immessi soltanto giunti a destinazione.16
Fossoli viene ricordato tanto come luogo di speranza per una soluzione positiva anche se assolutamente sconosciuta del dramma, quanto come luogo di inizio di programmate e sadiche esperienze di violenza psicologica da parte dei carcerieri. Le testimonianze che infatti si concentrano sulla continuità tra i Lager di transito e quelli di arrivo utilizzano il parametro assai interessante della “scientificità” dell’abuso: la differenza poteva magari sostanziarsi nell’intensità del dolore ricevuto. Si profila quindi l’elemento piramidale, gerarchico al quale l’internato viene sottoposto: la base, l’origine, è il primo campo di raccolta dal quale addirittura qualcuno è uscito e rientrato spontaneamente; il vertice è il campo di eliminazione, simboleggiato nell’immaginario
14 Nel corso di varie conversazioni con chi scrive, Michele Ranchetti ha definito in questo modo l’atteggiamento di molti ebrei ospitati nella casa della sua famiglia sul Lago di Como. Queste famiglie della borghesia milanese, travolte dallo sfacelo rappresentato dalla fuga e dal conseguente sradicamento dal proprio ambiente di riferimento, cercavano di traghettare in terra svizzera nel tentativo di sfuggire alle persecuzioni. 15 Dobbiamo alle ricerche svolte dal personale del CDEC alcuni dei più importanti recuperi di questo materiale. Anche recentemente Liliana Picciotto Fargion ha pubblicato gli ultimi messaggi di deportati provenienti da Fossoli conservati appunto nell’archivio dell’istituto. 16 Assai giustamente Enzo Collotti precisa che “l’esistenza di fenomeni di persecuzione politica e razziale nell’Italia fascista era di dominio pubblico, ma la consapevolezza della misura in cui la Germania nazista avesse fatto del sistema concentrazionario (prima ancora che subentrasse l’introduzione di veri e propri campi di sterminio) non un fatto eccezionale ma un aspetto istituzionale e istituzionalizzato del sistema del terrore era certamente assai circoscritta”. Si veda la presentazione di Enzo Collotti a Il viaggio, Bologna 1996, p. 7.
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collettivo da Auschwitz. Ma al centro del percorso rimane il campo di transito, sufficientemente grande, caotico e spersonalizzante da concretare il salto di qualità rispetto al precedente. Questa escalation organizzativa mette in contatto vari livelli di percezione del pericolo e certamente l’analisi del suo livello intermedio — Fossoli — apre numerose variabili comportamentali.
Paradigmatico l’episodio narrato da Nissim Alhadeff17 — che peraltro ricorda la liberalità del trattamento degli internati a Fossoli — sul momento della rasatura dei capelli una volta giunto ad Auschwitz: due giorni prima della deportazione, a Fossoli le SS “ci avevano venduto pettini e brillantina”. Questo come altri esempi citabili non sono spiegabili senza l’idea della continuità, della precisione della macchina di distruzione nazifascista, e ribadire questo concetto appare necessario quando ci si appresta a caratterizzare il significato di un campo come quello in oggetto. A prescindere dalle contrastanti — e tutte lecite — valutazioni individuali dei testimoni, ribadire l’importanza, la non subalternità di Fossoli per il genocidio, è costantemente necessario dal momento che incessanti appaiono la volontà di negazione delle responsabilità italiane e gli aberranti tentativi di equiparare i KZ alle foibe e ai luoghi di internamento per i collaborazionisti di Salò, messi in atto da mezzi di informazione e propaganda di destra.
All’interno del materiale schedato sono massicciamente presenti i riferimenti alla sfera dell’assistenza agli internati, e fra questi uno degli ambiti maggiormente affrontati è quello spirituale-religioso, comprendente le memorie di quei sacerdoti che condivisero la sorte dei deportati.
Fin dall’immediato dopoguerra cominciano ad essere pubblicati diari e memorie di sacerdoti i cui nomi ricorrono con frequenza nel ricordo dei sopravvissuti. Non sempre la struttura mentale conseguente alla formazione ecclesiastica dei sacerdoti subisce sconvolgimenti “esteriori”: permane nella maggior parte dei casi riscontrati la consapevolezza di poter esercitare un ruolo utile in mezzo al disastro con la pratica dell’assistenza spirituale. Certo che il comune destino spezza in molti casi il rapporto tradizionale, gerarchico e di ossequio rispettoso che il prigioniero qualunque istituisce con il prete, avvicinando le sensibilità e contribuendo all’estensione di una sfera di spiritualità che appare
17 N. Alhadeff, Nei campi di concentramento, “Prospetti”, 1966, a. I, I, pp. 63-90. Il passo citato è a p. 71.
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come uno dei pochi appigli possibili per individui costantemente sul filo che separa realtà brutale e assurdo.
Nel Lager le voci dei religiosi spesso si mischiano al lamento e al coro sdegnato delle vittime, riferendo particolari precisi sulle condizioni di internamento.
Voce isolata e imbarazzante, che testimonia fin dentro il Lager il permanere di gravi pregiudizi nella struttura mentale di un particolare tipo di clero non emancipato da antiche suggestioni antisemite, è quella di don Sante Bartolai — deportato da Fossoli a Mauthausen ed Ebensee — che ricordando particolari della vita nel campo di Fossoli non riesce ad astenersi dall’affermare che “se qualcuno può dirsi privilegiato sono appunto gli ebrei. Ed anche là dentro, essi non smentiscono la loro natura, dandosi al traffico e vendendo il doppio la merce che, Dio sa come, sono riusciti ad avere nelle mani”18 .
L’opera di assistenza ai detenuti viene ricordata da molti: siano semplici abitanti della zona colpiti dalla drammatica condizione detentiva degli internati oppure reti organizzate della Resistenza che in varie occasioni tentarono di promuovere fughe di prigionieri.
I racconti di vittime e testimoni contribuiscono quindi a darci, di quello che fu il più grande campo di raccolta italiano, l’idea di una struttura immersa in un drammatico contesto di lotta antifascista organizzata, dove la componente di collaborazione attiva data dalla popolazione civile fu notevolissima. Il recente libro di Enrico Serra, come gli scritti di e su Odoardo Focherini e Carlo Bianchi,19 ricostruiscono una fitta, tenace e non improvvisata struttura che operava tanto per la cura materiale degli internati, quanto per promuoverne la liberazione. Sempre ricorre l’ango-
18 Don S. Bartolai, Da Fossoli a Mauthausen. Memorie di un sacerdote nei campi di concentramento nazisti, “Quaderni dell'I.S.R. in Modena e provincia”, n. 5, Modena 1966, p. 37. 19 E. Serra, Tempi duri. Guerra e Resistenza, Bologna 1996. Su Carlo Bianchi, presidente della FUCI e vittima della strage dei settanta, si veda il volume della figlia, C. Iacono Bianchi, Aspetti dell’opposizione dei cattolici di Milano alla Repubblica sociale italiana, Brescia 1998; su Odoardo Focherini la letteratura è piuttosto vasta, quindi ci limitiamo a segnalare alcuni scritti principali: G. Lampronti, Mio fratello Odoardo, Bologna 1948; don D. Sala, Oltre l'Olocausto. 105 ebrei strappati alla deportazione, Milano 1979: il volume oltre a ricostruire l’attività di salvataggio di ebrei dalla deportazione, recupera l’iter di deportato nel capitolo “L'olocausto di Focherini” dall'arresto alla morte nel campo di Hersbruck. Infine don C. Pontiroli (a cura di), Odoardo Focherini martire della libertà. Il cammino di un giusto. Lettere dal carcere e dai campi di concentramento, Finale Emilia 1994.
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sciosa lotta contro il tempo di organizzatori consapevoli del progressivo inasprimento delle condizioni carcerarie che indubbiamente, con l’approssimarsi della chiusura della struttura nel suo complesso, portò a quella serie di drammatiche e immotivate esecuzioni che abbiamo ricordato. Luciano Casali insiste sull’aspetto della presenza fra i settanta del Cibeno di molti militari, nel tentativo di dimostrare la precisa volontà di eliminazione di quel nucleo più “pericoloso” e politicizzato all’interno di Fossoli.20
È difficile rispondere al quesito su quanto resti della memoria di Fossoli e come si collochi la eventuale specificità di questo campo all’interno della più vasta trama della struttura istituita per la deportazione. A questa difficoltà di analisi contribuisce anche la particolare divisione — raramente assente — tra i vari tipi, forme e impegno di conservazione della memoria che i vari gruppi e tipologie di deportati hanno coltivato dal dopoguerra.
Troppo spesso, ed emerge con chiarezza anche dallo spoglio bibliografico, ricordi e analisi tendono ad afferire a gruppi ben distinti che si sono con fatica indubbia impegnati a custodire e promuovere il ricordo del sacrificio da una parte dei deportati razziali, dall’altra dell’antifascismo militante, recante la ulteriore suddivisione meramente politica fra cattolici e comunisti.
Anche se questo atteggiamento non è stato dettato da specifico antagonismo (e per il settore cattolico e comunista assistiamo ad una precisa operazione di difesa anche polemica di valori autonomi e peculiarità che trovano un punto d’incontro soltanto all’interno della generica ma fondamentale formula dell’antifascismo) ha comunque pregiudicato la possibilità di cogliere con chiarezza la dinamica complessiva inerente a Fossoli, e questo produce difficoltà di orientamento all’interno di un quantitativo rilevante di scritti che spesso non spostano avanti per nulla il quadro generale della ricerca.
Eccezione facilmente intuibile all’interno della memorialistica e dello scavo storico-sociologico della sfera della deportazione e dell’internamento è rappresentata dalla figura e dall’impegno straordinario di Primo Levi che per condizione biografica — ebreo e partigiano — e per preciso impegno civile ha sempre privilegiato l’analisi complessiva delle dinamiche distruttive che si abbattono sull’individuo esposto alla violenza dei Lager. Da ogni scritto e-
20 L. Casali, La deportazione dall’Italia. Fossoli di Carpi, cit., in particolare p. 396.
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merge l’interesse per la condizione umana, individuale e di gruppo, sottoposta alla prova del Lager e vivo rimane il postulato caro a Primo Levi, che per condizione gli internati si dividono in due categorie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Ebbene, dalle poche pagine che Levi dedica a Fossoli in Se questo è un uomo, netta traspare l’idea e l’atmosfera di un regno dell’indivisibilità che lentamente si avvinghia e permea di sé ogni individuo: la sorte sarà comune a tutti perché non c’è più fortuna di sopravvivere o condanna della morte una volta entrati nel Lager. Tutti rimangono segnati e accomunati da quella struttura che paradossalmente, come effetto immediato, ha favorito la concentrazione esclusiva sulla condizione personale per mero spirito di sopravvivenza.
Certamente la ripartizione fra differenti tipologie di internati, con peculiarità e sensibilità differenti, risalta maggiormente dove interviene la mediazione o la ricostruzione del commentatore o quando l’intervento del tempo trascorso ha generato la messa in circolo di infrastrutture e condizionamenti sociali. Come abbiamo cercato di rilevare, il sedimentarsi della memoria e la capacità di raccontare ha subito il condizionamento — magari come pura reazione — della poca considerazione e scarsa professionalità di alcuni settori dell’editoria, dei gusti e soprattutto del generale disinteresse della società del dopoguerra per tematiche lancinanti come deportazione e genocidio.
Per questo Fossoli, che ha costretto tra i suoi reticolati migliaia di individui, non ha superato la dimensione conoscitiva degli specialisti e degli interessati dai fatti: non si registrano libri di testo per le scuole che ne ricordino l’esistenza e il ruolo svolto all’interno del processo di compressione e distruzione delle diversità e delle opposizioni connaturato al fascismo.
La logica conclusione di questo è rappresentata dalla difficoltà con la quale la specializzazione storica riesce ad entrare in contatto con la società attuale, in un paese che ancora vive con l’alibi del “fascismo buono” e del “nazismo cattivo”, annullando ogni ulteriore questione inerente alle responsabilità italiane per lo sterminio e il genocidio.
Ancora una volta possiamo constatare la presenza, il rischio dell’oblio su una pagina capitale della storia di ogni tempo, motivo per favorire impegno e circolazione di idee con continuità e ricambio di soggetti, così da evitare che la vittima dell’oltraggio sia costretta a osservare il mondo restante “nascosta dietro una finestra”.
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FOSSOLI E LA STAMPA: STORIA, RECUPERO E VALORIZZAZIONE NELLE PAGINE DE “IL RESTO DEL CARLINO”, “L’UNITÀ” E “LA GAZZETTA DI MODENA”
di Letizia Ferri Caselli
La necessità di un’indagine sulle pagine della stampa quotidiana nasce dalla constatazione delle lacune e del disordine che segnano la storia, l’uso e le trasformazioni del campo di Fossoli dal 1942 ai giorni nostri.
La scarsità della documentazione e la naturale limitatezza delle testimonianze orali non hanno a tutt’oggi permesso di fornire indicazioni precise sul numero e i movimenti delle persone passate da Fossoli, nonché sull’organizzazione e il funzionamento del campo Vecchio, gestito direttamente dagli uomini della RSI. Inoltre, per quanto riguarda gli anni post Liberazione, manca un riepilogo cronologico chiaro sulle modalità di utilizzo del campo e sulle fasi relative al suo recupero.
Lo spoglio dei quotidiani, quindi, da un lato contribuisce alla realizzazione di una prima bibliografia sul campo e va ad integrare il lavoro parallelamente condotto sulle pubblicazioni, dall’altro permette di verificare l’eco delle vicende di Fossoli sulla stampa.
Sono stati scelti “La Gazzetta di Modena”, “Il Resto del Carlino” e “l’Unità”, per il periodo che va dall’aprile del 1945 al luglio del 1998, perché in essi si dà largo spazio alla cronaca locale, modenese e carpigiana. I quasi seicento articoli individuati1 consentono di fare due riflessioni, una cronologica e una più specificatamente legata ai contenuti.
Pur essendo molteplici le differenze tra i quotidiani in merito alla quantità e al tono degli articoli pubblicati, sono emersi con chiarezza periodi di comune interesse e disinteresse verso il cam-
1 Sono stati considerati utili tutti gli articoli che presentavano riferimenti, anche minimi, a Fossoli.
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po di Fossoli. Nei primi anni del dopoguerra l’attenzione verte sulle ricostruzioni dei fatti di sangue verificatisi all’interno del campo e sulle prime commemorazioni della strage di Cibeno. Ma l’interesse maggiore, fino al 1947, è dedicato alla trasformazione del campo Nuovo in “Centro di raccolta profughi stranieri”, per la situazione caotica e pericolosa che viene a crearsi tra le persone detenute nell’area. Continue ribellioni e tentativi di fuga costituiscono l’oggetto di numerosi articoli su tutti e tre i quotidiani.
Grande clamore suscita infine in questi primi anni l’occupazione del campo da parte di don Zeno e dei Piccoli apostoli (maggio 1947): con diverse angolazioni e sfumature i tre quotidiani si occupano delle vicende di Nomadelfia e dei procedimenti giudiziari intentati contro i responsabili della comunità.
Dal 1954 alla metà degli anni ’70 si nota un generale calo di interesse verso il campo: l’arrivo dei profughi giuliani e la costituzione del Villaggio San Marco passano quasi inosservati. Fossoli viene ricordata soltanto nelle commemorazioni e nelle manifestazioni organizzate per celebrare la Resistenza nei campi di concentramento (1955) e l’inaugurazione del Museo Monumento al Deportato (1973).
Il lungo e difficile iter burocratico intrapreso per acquistare il campo dallo stato, legittimo proprietario, dà inizio ad un ventennio di rinnovato interesse verso il campo di Fossoli. Da una parte si seguono le varie fasi relative al recupero dell’area: il concorso internazionale, le polemiche in merito alla possibilità di realizzazione del progetto Maestro e le ragioni dell’inerzia che tuttora contraddistingue ogni tentativo di sistemazione del campo. Dall’altra si riaccende il dibattito storiografico intorno alla gestione e al funzionamento del campo prima della Liberazione e si ripropone, con il “ritrovamento” di Titho e Haage in Germania, la questione circa le responsabilità oggettive nell’eccidio di Cibeno.
Per quanto concerne l’analisi ravvicinata dei contenuti, dei toni e dell’atteggiamento mostrato verso il campo di Fossoli dai tre quotidiani, è necessario premettere alcune considerazioni generali.
In ragione della differente linea editoriale adottata, il numero degli articoli letti nelle pagine de “l’Unità” è di gran lunga minore
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rispetto a quello delle altre due testate.2 Negli anni dell’immediato dopoguerra il quotidiano assume spesso un tono rigido e provocatorio, ma dalla metà degli anni ’50 la polemica si affievolisce per lasciare spazio alla semplice cronaca delle manifestazioni commemorative e a poco altro.
“Il Resto del Carlino” e “La Gazzetta di Modena” presentano diverse affinità, sia per quanto riguarda il numero degli articoli pubblicati, sia per il tono e le posizioni assunti nel corso degli anni. Prevalgono una certa discontinuità nel modo di affrontare alcune questioni e l’eco data alle polemiche di carattere politico scatenate a livello locale dai progetti di recupero del campo.
Ma veniamo ad alcuni esempi chiarificatori di quanto scritto sino ad ora.
Nei primi anni i tre quotidiani non vanno oltre alcune scarne descrizioni di quanto accadeva nel campo Nuovo e non aiutano purtroppo a fare luce sull’organizzazione, le presenze e i movimenti del campo Vecchio, il campo controllato direttamente dalla RSI. Gli unici riferimenti sono all’interno delle testimonianze di Arletti, Boccolari, Testa, Pantieri…,3 testimonianze peraltro pubblicate o “ripubblicate” negli anni ’90.
Ogni anno, in occasione dell’anniversario, viene rievocato l’eccidio di Cibeno, spiegato uniformemente dalle tre testate come atto di rappresaglia per un attacco gappista verificatosi a Genova. Solo negli ultimi dieci anni si riportano i dubbi e le ipotesi alternative formulati dagli storici sulle ragioni della strage, ma gli articoli sono pochissimi e non approfondiscono l’argomento.4
È l’uso del campo come centro di raccolta di ex fascisti e di profughi stranieri che mette in luce le diverse posizioni e la diversa attenzione a Fossoli dei quotidiani. “L’Unità” e “La Gazzetta di
2 Il quotidiano dedica poco spazio alla cronaca locale: dal 1945 al 1951 si legge solo la cronaca milanese e dal 1951 ai giorni nostri la cronaca modenesecarpigiana compare e scompare ripetutamente. 3 Si fa riferimento a quasi tutti gli articoli di commemorazione dell’eccidio di Cibeno e ai seguenti articoli specifici: C. Pradella, Amici miei, dove siete ora?, “Il Resto del Carlino”, 6.5.1995 e A. Malpelo, Era Haage l’aguzzino del campo di Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 14.2.1998; si tratta, per entrambi gli articoli, di ricordi di Ettore Malpighi. Nei primi mesi del 1993 la “Nuova Gazzetta di Modena” pubblica per diversi giorni degli articoli relativi alla vita nel campo di Fossoli prima della Liberazione. I testimoni sono citati in: R. Mazzali, Quel volto sanguinante, 10.1.1993; R. Mazzali, Agosto 1944, la grande fuga, 11.1.1993; R. Mazzali, Un incubo lungo un anno, 16.1.1993. 4 C. Pradella, Andreatta chiede giustizia per i martiri di Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 13.7.1998.
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Modena” segnalano l’arrivo degli uomini della RSI nel campo,5 mentre “Il Resto del Carlino” comincia a parlare di “prigionieri” a Fossoli soltanto dall’agosto del ’46, quando scrive che non vi sono più tedeschi e fascisti ma solo stranieri in attesa di rimpatrio.6
“L’Unità” denuncia il trattamento di favore riservato ai detenuti politici: fa riferimento a “una rilevante quantità” di vetro “destinata al campo di concentramento di Fossoli per evitare che i fascisti colà albergati si buschino un raffreddore7 e si parla di “disposizioni” date dal direttore del campo, affinché i detenuti siano impiegati nelle cucine e negli uffici e non siano “più adoperati nemmeno per i servizi pesanti”8 .
Soltanto nelle pagine de “L’Unità democratica”, infine, viene segnalata la presenza nel campo di Fossoli nell’agosto del 1946 di trentadue ebrei, che fanno lo sciopero della fame perché “non vogliono rimanere oltre rinchiusi tra delinquenti di ogni specie”9 .
Le condizioni dei profughi stranieri a Fossoli sono descritte in modo contraddittorio dai quotidiani: ora si insiste sui disagi, sullo stato di detenzione e sulle violenze commesse dalla polizia del campo, ora sulla negazione dei maltrattamenti e sulla possibilità di vivere normalmente.
“La Gazzetta”, in un articolo dell’agosto 1946, parla dei profughi stranieri come di una particolare “legione straniera”, nella quale gli uomini “sono in gran parte criminali. Qualcuno forse è un parassita. Qualche altro è un disgraziato. Comunque è gente che non vuole tornare al suo paese […] Gente che ha dei conti da
5 I quotidiani, ad eccezione de “l’Unità”, cambiano intestazione nel corso degli anni. Dal 1945 al 1953 l’odierno “Il Resto del Carlino” era pubblicato con il nome di “Giornale dell’Emilia”, l’attuale “Nuova Gazzetta di Modena” usciva come “L’Unità democratica” dal 1945 al 1947; fino al 1978 era pubblicata con il nome “La Gazzetta di Modena” e nel 1981, dopo tre anni di assenza dalle edicole, tornava ad essere stampata come “Nuova Gazzetta di Modena”. Per evitare un’inutile confusione, nel testo si citano i quotidiani usando l’intestazione attuale e il riferimento preciso si dà nella nota. Sull’arrivo degli uomini della RSI: Nuova polizia al campo di Fossoli, “l’Unità”, 3.9.1945 e Si riapre il campo di Fossoli (ma questa volta per i fascisti), “L’Unità democratica”, 9.12.1945. 6 400 detenuti di ventidue nazioni tentano di evadere dal campo di Fossoli, “Giornale dell’Emilia”, 6.8.1946. 7 Trattamento di favore per i fascisti di Fossoli, “l’Unità”, 14.11.1945: nell’articolo sono segnalate anche le rimostranze della popolazione in seguito a quest’iniziativa del governo. 8 Nel campo di Fossoli. Chi sono i fascisti: gli internati o gli agenti?, “l’Unità”, 1.2.1946 e Da Fossoli: detenuti politici in licenza. Sotto un’acqua torrenziale due uomini lungo il sentiero, “l’Unità”, 14.3.1946. 9 A Fossoli trentadue ebrei fanno lo sciopero della fame, “L’Unità democratica”, 14.8.1946.
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saldare”. Le donne sono molto giovani, sono fuggite dai loro paesi, e sono “prostitute da due soldi. Avventuriere. Forse qualche brava ragazza”10. Ma nel novembre del 1946 lo stesso quotidiano pubblica un articolo nel quale si tenta di dare una spiegazione realistica ai continui tentativi di fuga dal campo:
Le ragioni dell’insofferenza che regna tra gli internati vanno ricercate particolarmente nei gravi disagi a cui sono sottoposti i quattrocento detenuti, la maggioranza dei quali sono sprovvisti di indumenti per ripararsi dal freddo. […] Se le pratiche dei singoli internati richiedono molto tempo per essere vagliate, si creino sufficienti condizioni di vita.11
Analogo è l’atteggiamento de “Il Resto del Carlino”12, mentre l’unico articolo dedicato da “l’Unità” ai profughi stranieri riguarda curiosamente una lettera inviata al quotidiano da un’internata di Fossoli, nella quale sono smentite le affermazioni di un giornalista de “Il Mattino d’Italia” relative alle percosse e ai maltrattamenti subiti dai detenuti del campo. La donna nega di essere stata picchiata e afferma che le condizioni di vita a Fossoli sono buone.13
L’insediamento dei nomadelfi è seguito con attenzione da “Il Resto del Carlino” e da “La Gazzetta”: da una prima entusiastica adesione al progetto di don Zeno14 si passa ad un progressivo distacco, più visibile sulla “Gazzetta”, in occasione del tracollo finanziario e dell’allontanamento del sacerdote dalla comunità. Sulla “Gazzetta” si susseguono articoli relativi agli arresti di diversi Piccoli apostoli per truffe e rapine; “Il Resto del Carlino” si interroga più volte sulle ragioni della chiusura mostrata dalla Santa Sede e pubblica una lettera di protesta scritta a nome di una società creditrice verso Nomadelfia, nella quale si lamentano le perdite economiche dovute ai ritardi e alla mancata serietà di don Zeno15. La conclusione positiva del processo per truffa inten-
10 L. Cavicchioli, A Fossoli attende la “legione straniera”, “L’Unità democratica”, 21.8.1946 11 Altre evasioni a Fossoli, “L’Unità democratica”, 23.11.1946. 12 Zan., Povere stelle del cielo di Fossoli. Anche tra le reti spinate arrivano i dardi d’amore, “Giornale dell’Emilia”, 20.10.1946. 13 L. Plakner, La verità sui fatti di Fossoli, “l’Unità”, 15.8.1946. 14 Auspice la carità e col permesso del Ministero… I “piccoli apostoli” di don Zeno ottimamente accampati a Fossoli, “Giornale dell’Emilia”, 22.5.1947; Ori, È nata a Fossoli Nuovadelfia, “La Gazzetta di Modena”, 17.11.1947; A. Dieci, A Nomadelfia mamme adottive per le famiglie numerose, “La Gazzetta di Modena”, 31.1.1948. 15 S. A. Cotoniera, Lettera al direttore, La caotica situazione finanziaria della Città dei Ragazzi, “Giornale dell’Emilia” 15.6.1952.
Il campo di concentramento di Fossoli e la stampa 551
tato contro don Zeno e la successiva reintegrazione dello stesso nell’esercizio sacerdotale riportano i due quotidiani su posizioni vicine ai nomadelfi. “L’Unità”, invece, nei pochi articoli dedicati alla comunità, mantiene un atteggiamento di difesa.
Si è scritto delle polemiche che accompagnano dalla metà degli anni ’70 i progetti di recupero del campo: “La Gazzetta” e “Il Resto del Carlino” ne forniscono un resoconto dettagliato, mentre “l’Unità” pubblica pochi articoli e tocca solo marginalmente la questione. Il concorso internazionale bandito nel 1988 scatena discussioni anzitutto sui criteri da adottare nella sistemazione dell’area, tra chi si pronuncia per un recupero filologico e chi ritiene invece opportuno un intervento più ridotto, di carattere simbolico.16
L’epilogo senza vincitore del concorso contribuisce ad acuire il dibattito, che diventa sempre più di carattere politico, in quanto il comune di Carpi viene accusato in diverse occasioni di non aver saputo fornire ai partecipanti indicazioni precise sul tipo di recupero che si intendeva realizzare e di avere speso troppo denaro pubblico.17 Quest’ultima accusa torna spesso sulle pagine dei due quotidiani, sino ai giorni nostri e riguarda anche gli stanziamenti destinati dal comune o da altri enti pubblici alla Fondazione Fossoli e ad altri istituti di ricerca sulla deportazione.18
In anni recenti le polemiche mettono in dubbio la legittimità stessa del recupero del campo di Fossoli: dal consiglio comunale di Carpi e dall’opinione pubblica locale si chiede spesso di riflettere sulla necessità di valorizzare la memoria storica tenendo conto anche delle stragi comuniste19 e sull’opportunità di dedicare il campo alla memoria delle vittime di tutti i totalitarismi.20
16 F.M.W. Fratello, Concorso internazionale per il futuro del campo di Fossoli, “Nuova Gazzetta di Modena”, 10.5.1986; Un parco nel lager, “Nuova Gazzetta di Modena”, 29.5.1988; C. Pradella, Polemiche. Verde nel lager. Come avverrà il recupero del campo di Fossoli?, “Il Resto del Carlino”, 8.3.1988; a. i., L’“Intellighentia” italiana mobilitata per Fossoli. Che il ricordo resti intatto!, “Il Resto del Carlino”, 19.1.1989. 17 Le polemiche sul recupero dell’ex lager. Errore di conti?, “Il Resto del Carlino”, 30.11.1989; C. Pradella, Ex lager, poche idee e confuse, “Il Resto del Carlino”, 29.5.1990; I. Mastronardi, Fossoli e spreco, “Il Resto del Carlino”, 19.10.1993; C. Pradella, Il recupero dell’ex campo, “Il Resto del Carlino”, 2.7.1996. 18 Forza Italia su Fossoli, “Il Resto del Carlino”, 13.3.1998; d.l.c., Ex campo, riesplode la lite, “Nuova Gazzetta di Modena”, 10.3.1998. 19 C. Pradella, Il recupero dell’ex campo, “Il Resto del Carlino”, 2.7.1996; Lettera firmata, Memoria storica? Sì ma non solo per l’Olocausto e le stragi naziste, “Il Resto del Carlino”, 18.2.1997. 20 Ex campo, Virgili bocciato in consiglio, “Nuova Gazzetta di Modena”, 12.9.1995.
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In questa prospettiva di rivalutazione della memoria storica va situata la ripresa dell’indagine sulla morte di don Francesco Venturelli, parroco di Fossoli impegnato nell’assistenza agli internati nel campo di concentramento, assassinato da ignoti nel gennaio del 1946. All’inizio del 1990 sulle pagine de “Il Resto del Carlino” e della “Gazzetta” si leggono numerosi articoli nei quali si tenta di ricostruire l’omicidio e si dà voce alle proteste e alle affermazioni degli esponenti della DC locale i quali indicano come responsabili del fatto i partigiani.21
Altre voci di protesta si levano dall’opinione pubblica e dall’ambiente cattolico in relazione alla figura di Odoardo Focherini, troppo spesso trascurato nei testi di storia e nelle commemorazioni pubbliche.22
Gli articoli che seguono al ritrovamento di Titho e Haage in Germania distolgono l’interesse dalle polemiche e si concentrano nuovamente sull’attività e l’organizzazione del campo di Fossoli prima del 1946. Tuttavia i tre quotidiani non presentano letture nuove e significative della strage di Cibeno e sono perlopiù interessati a riferire le vicende giudiziarie e ad affermare la necessità della riapertura dell’indagine.
Dopo aver ricordato che lo spoglio de “Il Resto del Carlino”, de “La Gazzetta di Modena” e de “l’Unità” si propone essenzialmente come strumento di indagine e, in quanto tale, si presta a molteplici linee di ricerca, è possibile fare alcune riflessioni conclusive generali. Dal rapido excursus sin qui condotto emergono una scarsa attenzione all’uso del campo prima della Liberazione e una sostanziale uniformità nell’approccio alla storia di quel periodo. Gli articoli relativi agli anni successivi permettono di cogliere, in una lampante quanto sconfortante evidenza, l’immobilismo, le tortuosità burocratiche e le polemiche politiche senza fine che segnano la storia del campo, il suo lentissimo recupero e la sua difficile valorizzazione.
21 G. Pedrazzi, Quel sacerdote ucciso nel ’46, “Nuova Gazzetta di Modena”, 19.9.1990; G. Pedrazzi, Ecco la verità su don Francesco, “Nuova Gazzetta di Modena”, 23.3.1990; Fossoli. È ancora impunita la morte di don Venturelli, “Il Resto del Carlino”, 12.9.1991. 22 F. G. Gavioli, Per Odoardo Focherini dopo la morte, “Il Resto del Carlino”, 21.5.1985; f.z., Chi ricorda Focherini?, “Il Resto del Carlino”, 12.10.1993.
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Amici, Gastone Andreoli, Serse Ascari, Germano Ascari, Odoardo Ballocchi, Gino Balugani, Ivo Bartolai, Ezio Bartoli, Bruno B.,E. Bazzani, Remo Bertini, Carlo Biagini, Natale Capitani, Guido Giosuè Castelfranco Ermanno Cavicchioli Ennio Cecchelli, Bruno Costi, Primo Cottafavi, Lanfranco Dallari, Gino De Pietri, Tommaso Ferrari, Ivaldo Fognano, Modesto Fregni, Pierino Galli, Urbano Gariboldi, Mario Generali, Bruno Ghirardelli, Albertino Giberti, Benito Giovenzana, Orazio Giuliani, Emilio Gozzi, Enzo Gozzi, Gianfranco Gualdi, Ugo Lotti, Vittorino Lucchi, Guido Mammei, Giuseppe Mazzoni, Aldo Meschiari, Giuseppe Miselli, Severino Montanari, Gaetano Montanini, Trento Morsiani, Fernando Nava, Riccardo Pradella, Enrico Puviani, Luigi Rocchi, Lorenzo Roseo, Carlo Rossi, Ermes Rossi, Walter Tassi, Enzo Testoni, Angelo Vaccari, Aroldo Vadacca, Oronzo Vandelli, Pietro Venturelli, Tarcisio Veronesi, Otello Vezzelli, Bruno Zeni, Lelio
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INDICE DEI NOMI DEI DEPORTATI E DEI RASTRELLATI INTERVISTATI
Angelantonio, Giorgio Ascari, Armando Dell’Amico, Carlo Andrea Lugli, Sergio Malpighi, Ettore Neri, Tullio Ragazzoni, Marino Silvestri, Ernesto Tintorri, Annibale Tintorri, Romolo Vescovini, Alberto Vuch, Ernesto
INDICE DEI NOMI DEGLI EBREI INTERVISTATI
Formiggini, Silvana Modena, Luisa Sacerdoti, Vittorio