13 minute read
Capitolo I L'unificazione militare italiana
Capitolo I
L'unificazione militare italiana
Advertisement
Era l'esito coerente di un processo di unificazione nazionale perseguito e realizzato in chiave rigidamente sabauda che le strutture portanti del nuovo stato italiano si modellassero su quelle piemontesi preesistenti. Neppure l'istituzione militare rimase estranea a questo generale processo di "piemontesizzazione" che interessò tutti i gangli vitali dell'apparato statale e la stessa composizione della classe dirigente nazionale. Di fatto l'unificazione italiana, pur scontando anche nel settore della difesa nazionale ritardi e vischiosità di varia natura, fu in primo luogo un processo militare e solo più tardi, e non compiutamente, interessò anche la sfera amministrativa, economica e sociale. L'esercito rappresentò inoltre, negli anni immediatamente successivi all'unità, il decisivo strumento repressivo impiegato dal ceto dirigente per rendere possibile il consolidamento del nuovo stato e l'estensione anche alle recalcitranti provincie meridionali della "legge piemontese". L'esercito italiano si venne dunque organizzando attorno alle strutture dell'esercito piemontese, facendo propri quelli che erano i cardini fondamentali dell'ordinamento militare sardo. In due tappe e nel volgere di pochi anni, dapprima, nel biennio 1859-60, mediante la fusione nei quadri militari piemontesi delle truppe lombarde, emiliane e toscane, e poi, nel successivo biennio 1861-62, con lo scioglimento dell'esercito meridionale e la liquidazione di quello garibaldino, si realizzò la trasformazione dell'armata sarda in esercito italiano (1). Contemporaneamente all'evolversi di questo processo venne progressivamente estesa ai territori che con le annessioni e i plebisciti entravano a far parte del nuovo stato la legislazione piemontese sull'organizzazione e sul reclutamento dell'esercito (2). In effetti, al momento dell'unificazione nazionale, esistevano in Italia, negli stati in cui era in vigore la coscrizione (Lombardia, Ducati di Modena e di Parma, Granducato di Toscana e Regno delle due Sicilie), altri sistemi di reclutamento diversi da quello piemontese. Tuttavia, date le premesse generali con cui si andava realizzando l'unificazione del paese, l'adozione della legge sarda si impose come una scelta scontata: essa "fu dagli intelligenti in così fatta materia giudicata migliore, a riscontro eziandio di quelle esistenti in altri paesi della penisola e corrispondente appieno ai bisogni d'Italia" (3). In Piemonte la normativa sul reclutamento militare aveva ricevuto, alla vigilia dell'unità, una sistemazione legislativa con la legge organica del 20 marzo 1854 (4). Dopo l'avvenuta riorganizzazione, della quale era stato ispiratore il ministro della guerra La Marmora, l'ordinamento militare piemontese si caratterizzava, rispetto ai due modelli, di Francia e Prussia, allora prevalenti in Europa, per una più marcata somiglianza a quello francese (5). L'ordinamento francese incarnava le caratteristiche dell'esercito di "qualità" e di "caserma": un esercito piccolo e agile, bene armato, addestrato e disciplinato, con un forte nucleo di professionisti e un alto "esprit militaire". L'armata, composta in primo luogo da volontari, sia di primo arruolamento che raffermati, era completata da un contingente limitato di giovani coscritti che, annualmente designati mediante un sorteggio, venivano sottoposti ad un lungo periodo di ferma, pari a cinque anni. In caso di guerra l'esercito veniva rinforzato da trascurabili aliquote di riservisti senza alcuna preparazione, richiamati dal congedo illimitato ed istruiti in tutta fretta. L'elemento distintivo del modello francese era rappresentato dalla lunga permanenza dei coscritti sotto le armi, considerata indispensabile per forgiare un buon soldato, abituato all'obbedienza passiva ed estraniato dal suo ambiente d'origine (6). L'ordinamento prussiano, al contrario, si ispirava ai principi dell'esercito di "quantità" e del "cittadino-soldato". Nell'armata, all'apparenza grossa e pesante, venivano arruolati tutti gli uomini fisicamente idonei, i quali rimanevano sotto le armi per un periodo allora considerato breve, tre 9
anni. In caso di guerra alle tre classi in servizio attivo se ne aggiungevano altre dieci di riservisti, delle quali due appartenevano alla riserva di linea e otto alla milizia nazionale mobile. L'esercito prussiano poteva quindi vantare una notevole superiorità numerica nei confronti di quello francese, che in pace come in guerra aveva grosso modo la stessa forza. Il modello prussiano si differenziava sensibilmente da quello francese anche sotto un altro aspetto: trovando il suo fondamento in uno stretto legame tra esercito e popolazione, esso incarnava il principio della "nazione in armi" (7). L'ordinamento militare del Regno di Sardegna, come già si è accennato, si venne riorganizzando, negli anni di preparazione del processo unitario, nella direzione di una maggiore aderenza al modello francese. Agli occhi del personale politico-militare subalpino il modello francese, nella fase in cui l'armata piemontese si apprestava a divenire il futuro embrione dell'esercito italiano, offriva maggiori garanzie e sembrava più adeguato ai nuovi compiti che si sarebbero dovuti affrontare. All'affermarsi di questa scelta generale concorsero parallelamente motivazioni di ordine strettamente militare ed economico, ma anche non secondarie preoccupazioni di carattere sociale. Se dal punto di vista militare era fortemente radicato nella classe dirigente sabauda il convincimento che la liberazione dalla dominazione austriaca sarebbe stata possibile solo grazie all'intervento diretto del più efficiente esercito francese, altrettanto pressante era l'esigenza, sul piano economico, di non destinare alle spese militari una quota esorbitante del bilancio statale. Pur riconoscendo a questi fattori un'indubbia importanza, non sembra tuttavia azzardato affermare che l'adozione dell'ordinamento francese fu motivata soprattutto da ragioni di carattere sociale. Come tutti gli eserciti ottocenteschi anche quello piemontese rispondeva contemporaneamente alla soddisfazione di due necessità complementari e al tempo stesso contrapposte: da un lato, doveva garantire la sicurezza esterna dello stato, preparandosi ad una eventuale guerra, difensiva od offensiva, contro potenze nemiche, dall'altro doveva assicurare il mantenimento dell'ordine pubblico all'interno del paese. In Italia, dove, negli anni che precedettero l'unificazione, la fluidità degli equilibri politici si combinava ad una situazione sociale in cui la popolazione oscillava tra reazione e rivolta aperta contro le istituzioni statali, era l'impiego in funzione repressiva dell'esercito ad essere privilegiato (8). Questa era la ragione decisiva della preferenza del personale politico-militare piemontese per il modello francese. Quest'ultimo, infatti, a differenza di quello prussiano che perseguiva una saldatura tra l'istituzione militare e la società civile, si basava su di una rigida separazione tra esercito e popolazione, ed era quindi il "più sicuro puntello di una politica governativa priva di consenso popolare o incapace di suscitarlo" (9). Alle preoccupazioni della politica interna vennero così sacrificate, costante quasi ineliminabile della storia italiana recente, le urgenze dell'indipendenza nazionale che l'adozione del modello di esercito prussiano, incarnando il principio giacobino della "nazione armata" fondato sulla mobilitazione di tutte le forze umane disponibili, avrebbe forse permesso di realizzare in maniera meno verticistica e traumatica. Tanto le motivazioni di carattere sociale che quelle d'ordine militare ed economico spingevano quindi verso una riduzione del potenziale umano reclutato mediante la coscrizione. Che questo fosse il criterio ispiratore della riforma attuata da La Marmora appare del resto evidente da un esame delle principali disposizioni normative della legge del 1854 (10). Essa stabiliva infatti che soltanto una quota dei giovani di una stessa classe, chiamati all'età di 21 anni alla leva, fosse effettivamente incorporata nei ranghi dell'esercito. Mentre i coscritti che, risultati abili alla visita di leva, erano stati assegnati al contingente di prima categoria, stabilito annualmente dal parlamento, intrapredevano il servizio attivo, quelli, ugualmente idonei, che venivano destinati alla seconda categoria entravano nella riserva. La durata della ferma per gli arruolati nella prima categoria era di undici anni, di cui cinque in servizio attivo e sei in congedo illimitato. Per gli appartenenti alla seconda, invece, il congedo subentrava quasi subito, dopo soltanto 40 giorni d'addestramento sommario (11). Il meccanismo che regolava l'assegnazione dei coscritti alle due categorie era l'estrazione a sorte. Questa complessa operazione veniva eseguita al momento della chiamata dei giovani soggetti alla leva. In una seduta pubblica, con presenti tutte le autorità incaricate di eseguire il reclutamento, 10
ciascun coscritto estraeva da un urna il proprio biglietto, sul quale era indicato il numero "da seguirsi nella destinazione degl'individui al servizio militare" (12). L'assegnazione alle due categorie era infatti determinata da un ordine numerico crescente: coloro che avevano avuto in sorte un numero basso venivano arruolati nel contingente di prima categoria fino al suo completamento, mentre quelli che avevano estratto un numero più alto entravano a far parte della seconda. Alla coscrizione, quindi, sopraintendeva in prima istanza un meccanismo casuale: "gli inscritti -recitava con fatalismo il regolamento sul reclutamento- correranno il destino del numero loro assegnato" (13).
Altri fattori poi intervenivano a ridurre la compagine iniziale dei coscritti. La legge prevedeva infatti un ampio ventaglio di possibilità d'esenzione per motivi di salute o famigliari. La selezione sanitaria dei coscritti si esplicava mediante l'accurato esame a cui essi erano sottoposti in occasione della visita di leva. Un medico, seguendo le minuziose istruzioni del regolamento, scrutava attentamente il corpo dei coscritti per accertarsi della loro idoneità fisica al servizio militare (14). La riforma dal servizio aveva luogo quando il coscritto risultava di altezza inferiore a m. 1, 54 o presentava una delle 109 malattie o imperfezioni che erano contemplate in un apposito elenco (15). Qualora invece fosse più alto di m. 1, 54, ma non arrivasse al "minimum" della statura per essere ritenuto idoneo, fissato in m. 1, 56, il coscritto veniva rinviato ad una nuova visita nella leva successiva. Analogamente venivano dichiarati rivedibili anche coloro che risultavano di debole costituzione o affetti da infermità "presunte sanabili col tempo" (16). Altrettanto ampia era la casistica di situazioni famigliari che consentivano l'esenzione dal servizio militare. Limitando la rassegna ai titoli che più frequentemente davano luogo all'esonero, usufruivano dell'esenzione i figli unici di padre quinquagenario, i primogeniti di madre vedova o di padre entrato nel settantesimo anno d'età, i coscritti che avevano un fratello consanguineo già in servizio o dichiarato abile nella leva della medesima classe (17). Ugualmente esonerati da ogni obbligo gli "alunni ecclesiastici" (18). La legge contemplava inoltre tutta una serie di opportunità di sottrarsi legalmente al servizio militare dietro il pagamento di una somma in denaro: lo scambio di numero, la surrogazione e la liberazione. Lo scambio di numero consentiva a un coscritto arruolato nella prima categoria di essere sostituito da un altro assegnato alla seconda che fosse disponibile ad intraprendere il servizio in sua vece (19). Mentre per questa forma di sostituzione la legge non prevedeva alcun "prezzo", la cui individuazione era lasciata alla libera contrattazione tra le due parti, nel caso della surrogazione e della liberazione era invece esplicitamente previsto che avvenisse un esborso di denaro. La surrogazione, ovvero il caso in cui un arruolato veniva sostituito prima della partenza del suo contingente da un surrogato che era disposto ad essere incorporato al suo posto, poteva avere luogo tra due fratelli o tra un coscritto e un giovane che avesse già soddisfatto gli obblighi di leva. Se nel primo caso non avveniva ovviamente alcun pagamento, nel secondo la legge ne stabiliva l'ammontare in 700 lire (20). La liberazione si configurava invece come un contratto che veniva direttamente stipulato tra il giovane coscritto e lo stato. Ogni anno, in base al numero di affidati, cioè di soldati anziani o volontari giunti alla conclusione della loro ferma che si erano dichiarati disponibili ad intraprenderne un'altra, il ministero della guerra concedeva ai coscritti che ne avevano fatto richiesta la liberazione da ogni obbligo militare. Il costo monetario di questa forma di sostituzione, determinato annualmente per decreto, si aggirava attorno alle 3. 000 lire, cifra che costituiva il "premio" dell'affidato (21). Nonostante la legge affermasse il principio egualitario che "tutti i cittadini dello Stato sono soggetti alla Leva", essa in realtà, prevedendo questo ampio ventaglio di possibilità di esonero, a cui di fatto potevano accedere soltanto i ceti più agiati, finiva quindi col rendere inoperante la proclamata eguaglianza iniziale (22). Alla classe dirigente del nuovo stato, una volta risolto il problema del tipo di struttura sul quale dovesse fondarsi l'esercito unitario, con l'affermazione della soluzione piemontese e la liquidazione delle aspirazioni della sinistra democratica per un ordinamento militare basato sul volontariato e la "leva in massa" si poneva la pressante necessità di assicurare all'armata una base di reclutamento nazionale che rispecchiasse la nuova situazione politica della penisola (23).
A questo scopo furono indette dal governo tra il 1859 e il 1861 otto leve militari nei diversi territori che erano venuti progressivamente aggregandosi al regno sardo: la prima nel 1859 in Lombardia sui nati nel 1839; la seconda nel 1860 in Toscana sui nati nel 1841; la terza nelle antiche provincie dello stato sabaudo (Piemonte, Liguria e Sardegna) e nelle Romagne sui nati nel 1839; la quarta nel 1860 nelle antiche provincie, in Lombardia e in Emilia (Romagne e Ducati) sui nati nel 1840; la quinta nel 1861 nelle Marche e in Umbria sui nati nel 1839 e 1840; la sesta nel 1861 nelle provincie napoletane sui nati negli anni 1836-41; la settima nel 1861 in Sicilia sui nati nel 1840; l'ottava nel 1861 nelle antiche provincie, in Lombardia, in Emilia, nelle Marche, in Umbria e in Sicilia sui nati nel 1841 (24). Soltanto cinque di queste otto leve parziali furono però eseguite sulla base delle disposizioni della legislazione piemontese. In Lombardia, in Toscana e nelle provincie continentali dell'ex regno borbonico vennero infatti temporaneamente conservati i sistemi di coscrizione vigenti nel periodo pre-unitario, "non potendosi -affermava il generale Torre- d'un tratto cambiar Leggi e far Leve" (25). A beneficiare quindi di un certo gradualismo nell'applicazione del sistema di reclutamento piemontese al resto d'Italia furono paradossalmente "i paesi educati alla coscrizione militare", mentre per le Romagne, le Marche, l'Umbria e la Sicilia, tutte regioni "affatto nuove alla medesima", l'impatto con il nuovo obbligo fu immediato e non temperato da alcuna concessione transitoria (26). Fu soltanto con la leva indetta nel 1862, la prima eseguita su scala realmente nazionale, che fu possibile considerare concluso il periodo di transizione e realizzata l'unificazione militare italiana:
finalmente potevasi -scriveva soddisfatto il generale Torre- esigere il tributo del militare servizio sopra i giovani nati nello stesso anno, cioè nel 1842, dalle Alpi al Lilibeo, e colle norme di una stessa Legge (27).
La "novità" traumatica rappresentata dalla coscrizione obbligatoria per la popolazione di alcune regioni, e quindi le resistenze che avrebbero potuto svilupparsi contro la sua introduzione, unitamente alle difficili condizioni politiche che, nel momento in cui si andavano ad effettuare le prime leve post-unitarie, caratterizzavano estese aree del paese, specie nel mezzogiorno e nei territori prima soggetti al dominio pontificio, erano tutti elementi che preoccupavano le autorità governative sull'esito delle operazioni di reclutamento. Ad aumentarne i timori contribuivano poi le notizie che affluivano dai funzionari periferici delle provincie interessate per la prima volta dalla coscrizione. Nell'imminenza dell'esecuzione della leva gli intendenti e i sindaci avevano infatti inviato al potere centrale numerosi rapporti in cui ne paventavano il fallimento, giungendo a intravedere nella possibile reazione della popolazione all'entrata in vigore del nuovo obbligo una seria minaccia per il consolidamento dello stesso stato unitario:
Le Autorità civili temevano che non senza turbamento e forse non senza tumulti gravi la coscrizione militare sarebbesi potuto attuare in paesi che non solo ne furono per lo innanzi esenti, ma l'ebbero sempre, non che in avversione, in orrore. Sembrava a molti cittadini dabbene ed autorevoli, ma timidi, e ne scrivevano continuo al Governo, che fosse rischiosa impresa codesta, il volere d'un tratto assoggettare all'imposta, che chiamavano di sangue, tanta parte del Regno, e far pericolare così le sorti della patria colla sollevazione di quelle Provincie (28).
Il governo, pur consapevole di queste difficoltà, era tuttavia determinato a considerare la coscrizione come un presupposto fondamentale dell'unità nazionale e del suo definitivo completamento:
Il ministero della Guerra non curò i paurosi rapporti, ebbe in migliore conto 12
l'amor patrio di quelle Provincie, né stimò colla condiscendenza o colla pazienza, come i più consigliavano, estinguere i mali umori e consumare la ritrosia delle popolazioni, ma volle gagliardamente urtare le opposizioni, e per provvedere all'armamento della Nazione e per non rompere colle concessioni la civile egualità (29).
Sotto questo profilo, a pochi mesi dalle annessioni e dai plebisciti, l'esecuzione delle prime leve post-unitarie assumeva quindi, per la classe dirigente nazionale, il significato di un primo difficile banco di prova, ovvero di una verifica, da un lato, dei sentimenti politici più o meno favorevoli al governo nutriti dalla popolazione del nuovo stato, e dall'altro, della propria capacità di riuscire a suscitare e ad aggregare, su di un terreno peraltro difficile e rischioso come quello della coscrizione, il consenso del paese. Scrivendo alle autorità romagnole, il ministro dell'interno Farini si appellava infatti ad un loro esemplare operato affinché, in occasione della prima leva postunitaria, fosse soddisfatta
la giusta aspettazione delle altre parti del Regno, le quali tengono intento lo sguardo sulla prima solenne prova a cui codeste Provincie vengono dalla legge chiamate (30).