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3. Le molte facce della renitenza: i percorsi individuali, la latitanza e la repressione
3. Le molte facce della renitenza: i percorsi individuali, la latitanza e la repressione
Della renitenza si è data fin qui un'immagine in larga misura indifferenziata. L'universo dei renitenti era in realtà estremamente composito: non tanto, come si è visto, sotto il profilo della loro estrazione sociale, quanto piuttosto relativamente ai percorsi decisionali dei singoli e alle diverse situazioni contingenti che erano all'origine della renitenza. Le informazioni desumibili dalle liste di leva e d'estrazione, da un lato, e dagli atti dei processi celebrati a carico dei renitenti, dall'altro, consentono di delineare un certo numero di queste vicende di renitenza individuali, ma che al tempo stesso erano comuni a gruppi più ampi di coscritti (46). Un'analisi delle modalità che caratterizzavano la renitenza deve preliminarmente verificare se essa sia sempre strettamente riconducibile all'avversione per il servizio militare. Dallo spoglio dei fascicoli processuali è emerso un quadro parzialmente diverso (47). Un contadino forlivese, renitente della classe 1839, depose davanti al tribunale penale di Forlì che egli non sapeva "di esser compreso" nella leva, "essendo a lavorare sempre in campagna" e "non conoscendo lettere" (48). Una deposizione analoga rese un bracciante di Mercato Saraceno appartenente alla stessa classe: "intesi che ero della leva militare e cercato dalla pubblica forza, cosa fino allora a me ignota". Quando il procuratore gli chiese se si era fatto iscrivere nella lista di leva del suo comune rispose: "No Signore, io non sapeva di avere quest'obbligo" (49). Anche se è necessario considerare che gli imputati avevano ovviamente tutto l'interesse processuale a smorzare la gravità del reato commesso, la numerosità delle deposizioni di questo tenore e la circostanza che la coscrizione obbligatoria fosse entrata in vigore nel forlivese contemporaneamente all'effettuazione della prima leva post-unitaria fanno ritenere che, quantomeno in questa occasione, l'ignoranza del nuovo obbligo in alcuni strati della popolazione possa aver contribuito agli alti livelli di renitenza della provincia. Altri accusati giustificarono la loro renitenza con l'assenza dal territorio del comune al momento della chiamata della propria classe. Un bracciante di Saludecio, processato nell'agosto del 1861, affermò che nei mesi precedenti era stato a lavorare nelle vicinanze di Roma, "ove niuno ebbe mai ad avvertirmi, che io fossi compreso nella leva" (50). Non si trattava di un caso isolato: numerosi coscritti delle classi 1839 e 1840 vennero dichiarati renitenti mentre erano temporaneamente emigrati fuori dalla provincia. Le prime due leve, succedutesi a breve distanza di tempo nell'autunno del 1860, furono infatti concomitanti al periodo in cui si verificava tradizionalmente la partenza dei braccianti della collina forlivese per i lavori stagionali nelle Maremme toscane e laziali. Nella primavera successiva, per molti di questi giovani, il ritorno in famiglia coincise con l'arresto (51). La deposizione di un secondo bracciante di Saludecio sottolinea come la necessità di assicurarsi il sostentamento, unitamente alla scarsa conoscenza dei meccanismi del reclutamento, potesse influire sulla dinamica della renitenza delle classi agricole anche in assenza di una disposizione pregiudizialmente contraria alla coscrizione:
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Nello scorso anno nel mese di Agosto fui invitato a presentarmi al Consiglio di leva per procedere all'estrazione del mio numero, come infatti l'eseguii [...]. Dopo scorsi venti giorni e altri senza che io fossi più chiamato a presentarmi all'assento, siccome mi avevano detto che avrei ricevuto un avviso, partii per le Maremme onde procacciarmi il vitto, e andai a Roma, ove restai fino alla fine circa di Febbraio (52).
L'esistenza di un'analoga costrizione economica è evidente anche nella vicenda di un contadino di Misano, il quale, pur presentatosi regolarmente alla visita di leva, fu successivamente dichiarato disertore perchè prima della partenza del suo contingente si era recato ai "lavori in Maremma" (53). 62
Nella prima leva post-unitaria furono inoltre dichiarati renitenti diversi giovani che al momento della chiamata si trovavano in Sicilia come volontari (54). Ovviamente, il ministero della guerra ritenne che non si potesse ravvisare in questi coscritti "il proposito deliberato di mancare ai loro doveri per riluttanza al militare servizio" e autorizzò i consigli di leva a cancellarli dalla renitenza una volta che costoro avessero intrapreso una ferma regolare (55). In altri casi la responsabilità della renitenza sembra ricadere interamente sulla disorganizzazione che contraddistinse l'esecuzione delle operazioni di reclutamento. Durante l'interrogatorio molti renitenti negano di aver ricevuto gli avvisi che le autorità municipali erano tenute a recapitare ai coscritti in occasione del sorteggio e della visita di leva. Un contadino mezzaiolo di Civitella dichiarò che la sua assenza, "piuttosto che a delitto", doveva essere attribuita "alla circostanza che [io] riteneva per fermo che dovessi presentarmi a seguito di invito diretto che mai ho ricevuto da nessuno" (56). Un muratore forlivese, dichiarato rivedibile per difetto di statura nella leva della classe 1839, sostenne di non aver ricevuto alcuna comunicazione di presentarsi a quella successiva: "anzi da un mio amico letterato mandai a vedere se ero nella lista, ed egli mi assicurò che no" (57). L'esistenza di ritardi e omissioni nella consegna dei precetti venne riconosciuta dalle stesse autorità: riferendosi alla chiamata della classe 1843, il commissario di leva di Rimini deplorò infatti come
la rappresentanza Municipale [riminese] cercasse di renderla privata e di condurla a male; stanteché gli ordini di precetto a presentarsi non furono diramati che il giorno antecedente all'estrazione o non lo furono del tutto (58).
Il numero abbastanza elevato di queste diverse figure di refrattari inconsapevoli, o che quantomeno appaiono tali dagli atti processuali, se consente di correggere un'interpretazione troppo schematica della renitenza, non deve tuttavia far dimenticare che il grosso dei renitenti era costituito da chi sceglieva deliberatamente la latitanza per sottrarsi al servizio militare. Il renitente, tuttavia, raramente optava per la fuga in base ad un calcolo preciso delle sue probabilità di arruolamento. Nel sistema di reclutamento piemontese, come si è già visto, l'aliquota di coscritti che venivano effettivamente incorporati nell'esercito era limitata a coloro che erano stati assegnati alla 1a categoria del contingente. Per quelli compresi nella 2a categoria la permanenza sotto le armi era invece ridotta a poche settimane d'istruzione militare, a cui seguiva un lungo periodo in congedo illimitato. Sarebbe quindi logico attendersi che i renitenti nella maggior parte dei casi fossero coscritti che avevano avuto in sorte un numero basso, per i quali vi era la certezza o comunque un forte rischio di essere arruolati. Dallo spoglio delle liste di leva e d'estrazione emerge invece come diventassero renitenti non solo i coscritti che erano stati sfortunati nel sorteggio ma anche quelli che, favoriti da un numero abbastanza alto, erano relativamente al sicuro dall'inserimento nella 1a categoria. Questo comportamento può apparire incongruente, esistendo una sproporzione evidente tra il rischio dell'arruolamento e le pene previste per il reato di renitenza: il carcere da un mese a due anni, l'assegnazione alla 1a categoria indipendentemente dal numero estratto, due anni di ferma supplementare prima di ottenere il congedo illimitato (59). In realtà, l'incongruenza è solo apparente: i renitenti non erano semplicemente in grado di compiere una valutazione delle loro probabilità d'arruolamento perché nella grandissima maggioranza non si erano neppure presentati al sorteggio (60). Questa circostanza consente inoltre di spiegare perché tra i renitenti che successivamente si costituirono o furono arrestati fossero così numerosi coloro che avrebbero potuto far valere i propri diritti alla riforma o all'esenzione. Nelle liste di leva e d'estrazione si trovano appuntate assai di frequente, a fianco del nome dei renitenti, delle indicazioni relative al periodo in cui essi si erano resi irreperibili. Da queste informazioni, fornite dai sindaci o raccolte tra i coscritti che si erano presentati al sorteggio, l'ipotesi che la renitenza costituisse in molti casi una scelta operata già a monte del concreto impatto con l'istituzione militare viene confermata. Diversi renitenti risultavano partiti "la notte antecedente 63
l'estrazione", molti altri erano "da vari giorni passati nello Stato Pontificio", altri ancora "si aggiravano per quelle campagne". Si è già visto inoltre come nelle settimane precedenti il sorteggio della classe 1839 si fosse verificato un notevole numero di espatri clandestini. In molti casi, come conferma l'andamento irregolare che la renitenza registra nei singoli comuni da una classe all'altra, era un gruppo di coscritti dello stesso paese che intraprendeva la fuga collettivamente. Nel forlivese quindi, come anche nelle altre provincie nuove alla coscrizione, l'elevata renitenza registrata nelle primissime leve post-unitarie esprimeva soprattutto una reazione istintiva nei confronti di un obbligo fino ad allora sconosciuto e una fuga diffidente dall'istituzione militare. Probabilmente un fattore che rivestì un ruolo importante fu la scarsa conoscenza che i giovani soggetti alla leva avevano dei meccanismi del reclutamento. Non è da escludere infatti che la rapidità con cui si realizzò nella provincia di Forlì il ridimensionamento della renitenza dipendesse anche da un comportamento meno irrazionale dei coscritti: istruiti dall'esperienza delle leve precedenti, essi si resero conto che era preferibile operare la scelta della latitanza soltanto dopo aver preso parte all'estrazione. Se la renitenza rappresentava la manifestazione più tipica del rifiuto dell'obbligo militare, la fuga dalla coscrizione assumeva però anche altre forme. Si è già accennato in precedenza alla massiccia diserzione che caratterizzò il momento della partenza dei contingenti. Questo fenomeno è per molti versi più assimilabile alla renitenza che alla diserzione militare vera e propria. Se infatti quest'ultima traeva origine dalla durezza della vita di caserma e dalla rigida disciplina cui i soldati erano sottoposti, la mancata presentazione dei giovani arruolati all'assento precedeva temporalmente l'incorporamento effettivo nell'esercito. Esisteva tuttavia una differenza tra questa forma di diserzione e la renitenza: il fatto che i disertori, probabilmente nella speranza di non essere dichiarati abili, si fossero regolarmente presentati ai consigli di leva permette di riconoscere nella certezza dell'arruolamento l'elemento decisivo che ne provocò la fuga. Interessante al riguardo è la supplica redatta dal padre di un coscritto dichiarato disertore:
sebbene si presentasse alla visita, non seppe poi indursi ad obbedire all'ordine di partenza; e diedesi, come tanti altri, sconsigliatamente alla vita del profugo, che mena tuttora (61).
La testimonianza lascia anche intravedere come renitenza e diserzione potessero interagire tra loro: l'impunità di cui godevano i renitenti incentivava indubbiamente dei comportamenti emulativi nei giovani arruolati che erano in attesa di essere destinati ai loro corpi. Lo stesso generale Torre indicò infatti come causa principale della diserzione
il grave malcontento per vedere rimanere a casa tranquilli i renitenti, mentre quelli che ubbidirono alle Leggi, e si presentarono volenterosi per essere arruolati devono marciare in loro vece (62).
Accanto alla renitenza e alla diserzione, non mancarono tentativi dei coscritti di evitare il servizio militare ricorrendo alla simulazione di malattie o all'autolesionismo. Due coscritti della classe 1839, ad esempio, furono processati dal tribunale militare di Forlì perche accusati l'uno di essersi "procurato ad arte" una piaga alla gamba sinistra e l'altro "di essersi tagliato la prima falange del dito indice della mano destra" (63). Altri casi di mutilazione volontaria si verificarono in occasione della chiamata della classe 1843 nel circondario di Cesena. Il sottoprefetto, informando il prefetto che alcuni coscritti si erano presentati all'estrazione "colla prima falange dell'indice della mano destra mutilato", espresse sull'episodio questa opinione:
sebbene non sia provato che il fatto è doloso, si ha tutta la presunzione per credere che sono stati mossi dalla speranza della esenzione (64).
Anche se il generale Torre dedicò molte pagine alla descrizione delle frodi messe in atto dai coscritti per ottenere la riforma, le relazioni ministeriali non forniscono alcun dato quantitativo sulla simulazione e l'autolesionismo (65). E` tuttavia possibile, utilizzando le fonti nominative, ovviare a questa mancanza di informazioni. Il regolamento sul reclutamento autorizzava i consigli di leva, al fine di accertare "la sussistenza o l'incurabilità" di una malattia, ad inviare i coscritti in osservazione presso un'ospedale militare (66). Nelle liste di leva e d'estrazione questa decisione viene scupolosamente annotata. I coscritti che dopo questo esame più accurato furono dichiarati abili rappresentano con buona approsimazione i simulatori smascherati. Su un totale di 106 coscritti dei tre circondari della provincia appartenenti alle classi 1839-41 che furono inviati negli ospedali militari di Forlì e Rimini, coloro che vennero in seguito arruolati ammontavano a 38 unità. Le malattie più frequentemente simulate o artificialmente provocate erano la palpitazione di cuore, la sordità, la miopia, la balbuzie, l'epilessia, l'imbecillità, le piaghe e la tigna (67). Non solo la riforma, ma anche l'esenzione per motivi di famiglia veniva talvolta strappata con la frode. Il caso di un contadino di Saludecio, processato per aver falsificato il proprio stato di famiglia (68), non doveva essere isolato se il ministero dell'interno con un'apposita circolare richiamò i municipi ad una maggiore attenzione nel rilascio degli attestati di esenzione ai coscritti (69).
In altre occasioni le frodi dei coscritti furono agevolate da complicità inaspettate. Esemplare è la vicenda di un renitente di Mondaino. Dopo l'arresto venne misurato una prima volta dai carabinieri risultando di altezza pari a m. 1, 58. Successivamente venne visitato dal consiglio di leva di Rimini dal quale fu riformato per difetto di statura, essendo risultato alto soltanto m. 1, 54. Della frode, presto scoperta dagli stessi carabinieri, furono accusati il segretario comunale di Mondaino e lo stesso commissario di leva di Rimini (70). La meta dei coscritti fuggiaschi sembra essere rappresentata nella maggior parte dei casi dallo stato pontificio. La vicinanza del confine, che coincideva per un lungo tratto con quello della provincia di Forlì, la certezza di eludere le ricerche della forza pubblica, la possibilità di trovare in loco, probabilmente indirizzati anche da qualche parroco, appoggi e comprensione, erano tutti elementi che facevano preferire ai renitenti questo percorso di fuga. Per i braccianti del forlivese questa meta coincideva del resto con quella dell'emigrazione stagionale. E` quindi probabile che all'interno dei gruppi di fuggiaschi diretti verso le "inospitali Maremme" fossero numerosi coloro che avevano già sperimentato questo stesso percorso per altri scopi. L'esistenza di questa correlazione tra renitenza ed emigrazione temporanea non sfuggì al generale Torre:
la maggior parte dei villici trovasi nell'Agro Romano: ivi sogliono trasferirsi ogni anno per accudire alle messi, ma in quest'anno [1861] prolungheranno certamente la loro dimora anche dopo il raccolto e sono inoltre raggiunti da moltissimi, pei quali la spedizione non ha altro scopo che di sottrarsi alla Leva (71).
L'annessione delle Marche, avvenuta nel novembre del 1860, rese indubbiamente più difficile il raggiungimento del territorio pontificio e, privando i renitenti di un agevole possibilità di fuga, contribuì a provocare un generale ridimensionamento dei livelli di renitenza del forlivese. I tentativi di raggiungere Roma continuarono tuttavia anche dopo questa data. Le autorità governative, per stessa ammissione di Torre, erano del resto sostanzialmente impotenti ad impedire il passaggio dei renitenti nello stato pontificio:
Il confine collo Stato Romano è oltremodo esteso: il Tevere stesso sarà presto in molte parti guadabile ed allora la vigilanza si renderà ancora più difficile (72).
I fuggiaschi, per eludere i controlli della forza pubblica e seguire un percorso sicuro, ricorrevano 65
spesso all'ingaggio di guide pratiche dei luoghi. Nell'agosto del 1863, ad esempio, un gruppo di renitenti e disertori forlivesi che un "certo Arceri Gaetano di Camerino conduceva nel Patrimonio" venne intercettato nei pressi di Fratta Todina, località lungo il corso del Tevere, da alcuni militi della locale guardia nazionale (73). Se la fuga verso lo stato pontificio si configurava solitamente come una spedizione collettiva non mancarono anche tentativi isolati. Un renitente di Monte Scudo venne arrestato nel 1864 dai carabinieri di Urbino mentre cercava di raggiungere Roma con un lasciapassare intestato a un cittadino sanmarinese (74). Nel febbraio del 1862 furono fermati nel pesarese due disertori che erano in possesso di un biglietto con l'indicazione delle diverse tappe da compiere per arrivare nello stato pontificio: "Penabili, S. Tagheta Feltra, S. Angelo in vada, Borgo santo sepolcro di arezo, Chiusi, Città delle Pieve, e viterbo" (75). E` assai probabile che all'interno del mondo dei refrattari si verificasse uno scambio di informazioni sull'itinerario che, in base alla presenza e agli spostamenti della forza pubblica, era di volta in volta preferibile seguire. Le stesse località delle Marche, dell'Umbria e della Toscana in cui i renitenti forlivesi furono arrestati (Sant'Agata Feltria, Pesaro, Urbino, Arezzo, Radicofani, Siena, Fratta Todina, Perugia e Narni) consentono di tracciare, una volta messe in successione, le possibili varianti di un percorso verso Roma. L'ampiezza assunta dal fenomeno della fuga verso lo stato pontificio, specie in occasione delle prime due leve post-unitarie, è confermata anche da fonti di ambito ecclesiastico. Il delegato apostolico di Pesaro scriveva infatti nell'agosto del 1860:
molte [reclute] si rifugiano in queste provincie preferendo il servizio militare pontificio, al quale vengono ascritti passando nel Battaglione ausiliarj: e siccome ho notizia e prevedo che tutti gl'individui che sono chiamati alla coscrizione, specialmente campagnoli, cercheranno confugio nel nostro Stato, così ho in mente [...] di formare, completato che sia il Battaglione, una Compagnia ausiliari romagnoli (76).
La previsione del prelato si rivelerà in seguito decisamente ottimistica: furono assai pochi i renitenti forlivesi che entrarono nei ranghi dell'esercito pontificio (77). Per la quasi totalità dei fuggiaschi la renitenza non era infatti l'espressione di un dissenso connotato politicamente, quanto di un rifiuto dell'istituzione militare e dell'arruolamento qualunque esso fosse. Se a sud il confine pontificio non era lontano, a nord la relativa vicinanza di quello austriaco, fissato lungo il corso del Po, rappresentava per i renitenti un'altra opportunità d'espatrio (78). La fuga verso il Veneto era agevolata dalla presenza lungo il percorso della pineta di Ravenna, la quale costituì a lungo un luogo di rifugio sicuro per i latitanti. I tentivi fatti dalle autorità per "purgare" questa zona dai renitenti furono spesso infruttuosi:
Giorni addietro [marzo 1861] nella Pineta di Ravenna trovandovisi rifuggiati da qualche tempo un ottanta individui, refrattarii della leva passata [della classe 1839], furono circondati dai Bersaglieri per prenderli e condurli ai rispettivi Corpi. S'impegnò quindi seria lotta e dopo varie ore di fuoco, continuato da ambo le parti, i Bersaglieri dicesi che avessero cinque morti e feriti diversi, senza potere giungere ad impadronirsi d'uno neppure di quei fuggiaschi. Le tortuosità, le folte di quel bosco, conosciute dai refrattarii assai bene, prima di questi conflitti, porsero loro facilità di scampo; lasciando la forza sbalordita e confusa (79).
Il territorio austriaco, inoltre, poteva essere raggiunto anche per via marittima. Un tentativo in questo senso venne compiuto da un gruppo di coscritti riminesi nel novembre del 1862. Il sottoprefetto di Rimini, informato della cosa, inviò al prefetto questo telegramma:
Risulta che su costa Riccione deve farsi in questi giorni un'imbarcazione inscritti leva per Trieste. Interpellato Capitano porto dice difficile con barche a vela colpire fuggenti stante mare cattivo opinerebbe necessario presenza vaporetto per sorvegliare imbarco (80).
Dopo qualche giorno giunse da Ancona una "cannoniera" che incrociò a lungo al largo della costa, senza tuttavia intercettare alcuna imbarcazione sospetta. Il sottoprefetto ritenne quindi di poter concludere che l'imbarco dei renitenti non aveva avuto luogo (81). Un altro "santuario" della renitenza era rappresentato dalla repubblica di S. Marino, la quale, confinando col riminese, era facilmente raggiungibile dai coscritti di questo circondario. Nel 1862, a causa dell'alto numero di refrattari che si era rifugiato nel territorio sanmarinese, il governo italiano stipulò con la repubblica una convenzione che prevedeva l'obbligo di consegnare i renitenti e i disertori senza che fosse necessaria una specifica richiesta dell'autorità giudiziaria (82). Il numero abbastanza scarso di arresti reso possibile dal trattato fece nascere qualche dubbio su una supposta complicità delle autorità sanmarinesi verso i latitanti. Secondo il prefetto,
sebbene i Reggenti della Repubblica avessero ordinate delle indagini, e delle perlustrazioni pel rintraccio ed arresto delle persone loro date in nota, tuttavia persistevano sempre nel dichiarare che esse erano irreperibili (83).
Il ministero dell'interno, sollecitato ad intervenire, richiamò il governo sanmarinese ad un maggiore rispetto della convenzione e contemporaneamente consigliò di "inviare a San Marino qualche agente secreto, con l'incarico di appurare il numero, la qualità dei rifugiati, i luoghi e le persone che danno loro asilo" (84). Se gli espatri clandestini, come confermano anche le informazioni desumibili dai processi di vane ricerche redatti dai carabinieri, furono indubbiamente numerosi, la decisione di rifugiarsi all'estero non coinvolse tuttavia la maggior parte dei renitenti. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, i latitanti furono arrestati all'interno della provincia, spesso nel territorio del proprio comune o addirittura nelle vicinanze della propria abitazione (85). Questa, ad esempio, è la descrizione del proprio arresto nella deposizione resa dal colono riminese Giovanni Semprini:
Io ero sulla porta di mia stalla, la quale colla mia casa è isolata in campagna, vidali approsimarsi a questa due Carabinieri, mi prese timore di essi, e fuggii per la campagna, ma venni da quelli raggiunto ed arrestato. Alle loro richieste sul mio cognome io loro risposi di chiamarmi Filippo ed inventai un cognome immaginario di cui ora non mi ricordo. Cosa vuole che le dica, è stato un sopra pensiero (86).
La geografia degli arresti, pur essendo ovviamente influenzata dall'impossibilità per la forza pubblica di catturare i renitenti che erano riusciti ad espatriare, rifletteva la scelta dei coscritti di non allontanarsi dalla propria comunità. Questa forma di latitanza era caratteristica dei renitenti rurali. L'avversione della popolazione agricola per la coscrizione, come si vedrà meglio in seguito, era soprattutto originata dalla consapevolezza che la prolungata assenza di un figlio arruolato nell'esercito avrebbe apportato alla famiglia colonica un notevole danno economico. Se uno dei motivi per cui il giovane contadino diventava renitente era quello di non privare la famiglia d'origine del suo contributo lavorativo, l'eventuale espatrio, non diversamente dall'arruolamento, avrebbe comportato per l'economia domestica una perdita secca di forza lavoro. La necessità di organizzare la propria latitanza in modo da soddisfare contemporaneamente due esigenze, quella di sottrarsi alle ricerche della forza pubblica e quella di contribuire al sostentamento del nucleo famigliare, spingeva quindi i renitenti rurali a cercare un nascondiglio che non fosse troppo lontano 67
dalla propria casa. Il latitante continuava di fatto a vivere in famiglia, allontanandosi soltanto quando la minaccia dell'arresto si faceva reale (87). Nel luglio del 1864 il delegato di pubblica sicurezza di Sarsina denunciò come nelle campagne vicine diversi renitenti andassero tranquillamente "a giornata per mietere" (88). Le caratteristiche ambientali della provincia di Forlì erano del resto estremamente favorevoli alla latitanza. La conformazione collinare e montuosa di gran parte del territorio provinciale e la presenza di vaste aree boschive offrivano ai latitanti numerose opportunità di rifugio e la possibilità di continuare a vivere in uno stato di semiclandestinità per periodi di tempo anche molto lunghi. L'alta collina forlivese divenne infatti luogo di ricetto anche per i refrattari originari di provincie limitrofe. Il sottoprefetto di Cesena deplorò in più occasioni che diversi "renitenti stranieri" si fossero rifugiati nei comuni montuosi del circondario cesenate, "il quale ne ha abbastanza dei propri" (89). I latitanti, oltre che sulle favorevoli condizioni ambientali, potevano inoltre contare sui legami di solidarietà esistenti all'interno della società rurale. Questi legami non erano stati recisi quando era il renitente aveva iniziato a vivere alla macchia. Pur collocandosi provvisoriamente ai margini della propria comunità egli continuava a farne parte a pieno titolo. La scelta del giovane contadino di non presentarsi alla chiamata di leva, innestandosi su un sentimento di avversione per la coscrizione che era generalizzato nelle campagne, era largamente condivisa e giustificata. Lo status di renitente trovava quindi all'interno del mondo contadino una sua legittimazione sociale (90).
La solidarietà verso i latitanti sfociò spesso in aperta complicità. Le perlustrazioni della forza pubblica si rivelarono spesso inefficaci perché i renitenti venivano informati della presenza delle pattuglie dai vicini o dai contadini che abitavano nei pressi dei loro rifugi. Le case coloniche rappresentarono inoltre per i giovani che vagavano nelle campagne dei luoghi privilegiati di sosta, in cui era anche possibile rifornirsi di cibo in cambio di qualche prestazione di lavoro occasionale. I latitanti, scriveva il sottoprefetto di Cesena, sono costretti
di abbandonare le grandi strade, per correre le strade meno battute, i siti più alpestri, di campare la vita limosinando il pane, ed il riposo negli abituri sparsi (91).
Numerosi furono del resto i processi celebrati dal tribunale penale di Forlì a carico di contadini colpevoli di aver dato asilo a renitenti e disertori (92). In alcune occasioni la solidarietà popolare verso i renitenti giunse a sfidare apertamente la stessa forza pubblica. Nell'agosto del 1861, ad esempio, l'arresto di un latitante provocò un tumulto nel borgo agricolo di S. Carlo, presso Cesena:
si sono sollevate -annotava il canonico Sassi nella sua cronaca- un numero grande di donne ragazzi ec. gridando che volevano fuori il detenuto, e vedendo che la Forza non lo voleva cedere hanno queste incominciato a radunare intorno alla casa ove stava il detenuto una quantità di paglia coll'animo di appicarvi fuoco [...], ed alcune delle stesse più coraggiose sono sino salite sopra la casa stessa per discoprirla, per cui la Forza veduto l'animo risoluto di queste donne per non ritrovarsi in serii impicci ha lasciato in libertà il reffrattario, ed i Poliziotti si sono così fatti lo scherno delle donne medesime (93).
Uno scenario analogo si ripetè nel febbraio del 1863 nei dintorni di Cesenatico:
Ieri 23 [...] vi fu in quei villici un poco di sollevazione in causa di essere stato arrestato un renitente alla Leva. Fu battuta la generale in quel paese e suonata 68
la Campana a Martello nella Parrocchia di Sala, ma poi tutto svanì, ed ora vengono arrestati molti di quei terrazani (94).
Se l'appoggio che la popolazione assicurava ai coscritti latitanti non venne meno lungo tutto l'arco degli anni sessanta, ciò dipese anche dal fatto che nella provincia di Forlì, contrariamente a quanto accadde in altre realtà territoriali, la renitenza e la diserzione non diedero vita a fenomeni particolarmente rilevanti di banditismo (95). Le cause del mancato affermarsi di forme significative di brigantaggio erano molteplici: l'assenza di bande organizzate preesistenti, la dimensione prevalentemente individuale che assumeva la latitanza, l'interesse che il renitente aveva a non caratterizzarsi come una figura pericolosa. Il sottoprefetto di Cesena osservava giustamente che i refrattari "si serbano innocui alle popolazioni, anche perché non tornerebbe loro conto inimicarsele" (96).
Seppure il banditismo non giungesse mai a rappresentare una pratica di massa, è indubbio che anche nel forlivese operarono alcune bande costituite in tutto o in parte da renitenti e disertori (97). In particolare, una "Banda di Disertori e Renitenti", composta "ora di venti ora di quindici individui", infestò a lungo le campagne di Mercato Saraceno e Sarsina, sfruttando la vicinanza del confine con le Marche e la Toscana per sfuggire alle perlustrazioni e agli appostamenti dei carabinieri e della guardia nazionale (98). Nella maggior parte dei casi, tuttavia, piuttosto che di vere e proprie bande, si trattava di gruppi di coscritti sbandati che per poter proseguire la vita alla macchia erano costretti a compiere furti e grassazioni. Nel dicembre del 1862 tutti coloro che transitano da Ronta per recarsi al mercato a Cesena sono aggrediti dai "Malandrini" e derubati dei "denari e quant'altro avevano". Lo stesso giorno viene anche ucciso un giovane del posto perché sospettato di essere una "spia dei renitenti alla Leva" (99). Nel gennaio successivo ad essere assaliti dai "briganti" sono i villici che percorrono la strada di Montereale, nelle colline del cesenate (100). Nel maggio del 1864 due individui vengono aggrediti nei pressi di Sarsina da alcuni renitenti: uno dei due è il fratello del sergente della locale guardia nazionale "che molte volte si è prestato all'inseguimento e cattura dei refrattari di Leva" (101). Nell'agosto del 1864 il parroco di Cerasolo, località presso Coriano, subisce una rapina nel suo domicilio ad opera di alcuni renitenti e disertori che poi si rifugiano nel limitrofo territorio sanmarinese (102). Sempre nello stesso mese un carabiniere viene ucciso nelle campagne di Predappio mentre è sulle tracce di una banda di refrattari (103).
La latitanza di renitenti e disertori si protrasse per periodi di tempo anche molto lunghi. Se talvolta essa fu un episodio destinato a concludersi nell'arco di pochi mesi, nella maggior parte dei casi i coscritti alla macchia riuscirono a sottrarsi alle ricerche della forza pubblica per diversi anni. La durata della latitanza, infatti, su un campione di oltre 400 renitenti delle classi 1839-41 appartenenti ai circondari di Cesena e Rimini, era inferiore ad un anno soltanto per un quarto di essi, mentre superava i cinque anni in un terzo dei casi (104). Questo dato, se da un lato conferma come la renitenza non fosse una vicenda che si potesse considerare conclusa con la caduta del suo tasso percentuale, dall'altro impone di formulare un giudizio articolato sui risultati conseguiti dalla repressione governativa. L'azione repressiva attivata dalle autorità contro i latitanti rappresentò indubbiamente uno dei fattori, se non quello decisivo, del crollo della renitenza. Tuttavia, essa palesò anche carenze di varia natura che impedirono di circoscrivere in un arco temporale più ristretto l'area della latitanza. Le difficoltà incontrate nella lotta alla renitenza, oltre che da alcune cause oggettive quali la diffusa complicità della popolazione verso i latitanti, la vicinanza dei confini statali e l'abbondanza di nascondigli naturali nella provincia, dipendevano anche da limiti intrinseci alla stessa attività repressiva: in primo luogo, l'insufficienza numerica della forza pubblica disponibile e la sua scarsa conoscenza del territorio (105). Per ovviare a questo duplice inconveniente le autorità governative avevano disposto che i carabinieri e le guardie di pubblica sicurezza fossero coadiuvati nell'opera di pattugliamento e perlustrazione dai militi della guardia nazionale che, essendo orginari del luogo, potevano inoltre 69
garantire una maggiore "cognizione" degli itinerari e dei possibili rifugi dei latitanti (106). Il ricorso a questa milizia territoriale fu però ostacolato dall'emergere al suo interno di numerose resistenze ad una mobilitazione permanente in questo compito d'ordine pubblico. Un episodio emblematico di questo atteggiamento rinunciatario si verificò nell'agosto del 1864 a Predappio. Il capitano della locale guardia nazionale, al quale il sindaco si era rivolto per ottenere dieci militi che affiancassero i carabinieri in una perlustrazione da effettuarsi nel territorio comunale, non poté acconsentire alla richiesta per l'ostinato rifiuto dei suoi sottoposti di prestarsi a questo servizio:
questa Guardia Nazionale [è composta] la maggior parte di villici e braccianti, i quali hanno bisogno di attendere ai loro mestieri per sostentar loro stessi e le proprie famiglie. Non torna in questo caso costringerli mentre sarebbero più inclinati a ricevere quelle punizioni che stabilisce la Legge, che perdere la giornata [...]. [...] tali circostanze risulteranno sempre eguali per l'avvenire [...]. Se poi pel servizio in genere di latitanti vi fosse assoluta certezza di poterli rinvenire in un dato luogo, in questo solo caso i Militi stessi spontaneamente si presenterebbero (107).
Sebbene in altri comuni le guardie nazionali partecipassero attivamente ai pattugliamenti e alle perlustrazioni, distinguendosi anche nell'arresto di alcuni renitenti (108), la loro condotta fece spesso nascere il sospetto, probabilmente fondato, di una esplicita connivenza con gli stessi latitanti. Alcuni ufficiali della milizia cesenate, ad esempio, furono accusati dal sottoprefetto di arrecare "inciampi al servizio e scandalo all'intera Guardia Nazionale per la loro sfacciata relazione coi renitenti" (109). Se il comportamento ambiguo della guardia nazionale venne aspramente censurato dai funzionari governativi periferici, neppure l'operato dei carabinieri e delle guardie di pubblica sicurezza fu sempre esente da critiche e rimproveri:
la pochezza ed inefficacia dei mezzi del quale il sottoscritto può disporre lamentava il sottoprefetto di Cesena nell'aprile del 1864- non si èmai come al presente rivelata con tanta increscevole e scoraggiante evidenza. Sulle Guardie di P. S. non può farsi verun positivo assegnamento. L'inettitudine, il mal volere e l'infedeltà sono l'impronta abituale d'ogni loro atto [...]. Non può neppure contarsi sulla cooperazione dei Reali Carabinieri (110).
Per ottenere che la forza pubblica impiegata nelle ricerche dei latitanti si dedicasse con maggiore impegno ed efficienza all'esecuzione di questo compito il governo aveva disposto di concedere una gratificazione in denaro agli autori dell'arresto di ciascun renitente (111). Grazie a questo incentivo monetario che moltiplicò gli sforzi profusi nell'attività di pattugliamento e perlustrazione, l'azione repressiva si concretizzò in un apprezzabile incremento del numero degli arresti (112). Le perlustrazioni e i pattugliamenti si rivelarono tuttavia uno strumento poco efficace e comunque insufficiente a fronteggiare il fenomeno della latitanza. La loro inefficacia, se era in parte dovuta all'improvvisazione che contraddistinse la strategia repressiva delle autorità governative, ovvero alla mancata organizzazione di un piano sistematico di rastrellamento dell'alta collina forlivese, e in secondo luogo all'esistenza di una controproducente rivalità, o quantomeno scarso coordinamento operativo, tra i diversi corpi mobilitati nella cattura dei renitenti, dipendeva essenzialmente dall'inadeguatezza di queste misure allo scopo che si voleva perseguire (113). Un esempio significativo è fornito dall'esito conseguito da una "grande perlustrazione notturna" che venne effettuata nel gennaio del 1863 nel circondario di Cesena. Il progetto, elaborato direttamente dal sottoprefetto, si distingueva infatti dalla normale attività di pattugliamento per la sua ambiziosa portata e indubbia organicità. La perlustrazione, condotta in collaborazione dai carabinieri, dalle guardie di pubblica sicurezza, dalle guardie nazionali e da fanti delle "truppe di linea", per un totale di oltre 100 uomini divisi in 10 pattuglie, interessò, partendo da quattro diverse 70
direttrici geografiche (Cesena e Cesenatico nella pianura, Longiano e Savignano nella collina), una porzione vastissima del territorio cesenate. Nel corso dell'operazione furono eseguite "esatte perquisizioni" in quasi 200 abitazioni di renitenti e sospetti "manutengoli". Questa capillare perlustrazione non ottenne però il successo sperato: se si eccettua che essa favorì indirettamente la cattura di tre renitenti che "allarmati" dalle pattuglie si erano "gettati nelli comuni vicini", neppure un latitante venne infatti arrestato. Il sottoprefetto si dichiarò comunque ugualmente soddisfatto:
lo scopo fu attinto perché d'ora in avanti credo poter affermare che il Circondario di Cesena non darà più ricetto ai renitenti (114)
Gli scarsi risultati ottenuti da una operazione così minuziosamente organizzata prova la sostanziale inefficacia di questo strumento repressivo e giustifica la sconsolata ironia di un ufficiale dei carabinieri che, riferendosi alle perlustrazioni, le chiamava "ripetute gite" a causa della loro totale "infruttuosità" (115). I latitanti, infatti, grazie anche agli avvertimenti che ricevevano, si accorgevano tempestivamente della presenza delle pattuglie e facevano in tempo a spostarsi in una zona più sicura, o addirittura già perlustrata, riuscendo così ad eludere l'arresto (116). Le difficoltà incontrate nel reprimere la renitenza dipendevano inoltre dallo scarso radicamento delle forze dell'ordine nella società civile e specialmente nell'universo rurale. Se nelle campagne era assai diffuso tra la popolazione un atteggiamento di complicità con i latitanti, altrettanto generalizzata era infatti la volontà di non collaborare con le ricerche dei carabinieri e delle guardie di pubblica sicurezza. Questa omertà popolare, motivata in primo luogo dall'esistenza di legami parentali, di vicinato o di solidarietà paesana con i giovani renitenti, era anche l'espressione dell'atavica e istintiva diffidenza contadina per tutte le incursioni estranee e minacciose all'interno del proprio mondo. Questo sentimento ostile, presente a priori, era stato tuttavia rafforzato dai numerosi abusi a cui aveva dato luogo la "tracotanza" delle forze repressive (117). Il sindaco di Monte Gridolfo, ad esempio, inviò nel maggio del 1864 una veemente protesta al sottoprefetto di Rimini per denunciare l'operato dei carabinieri di Saludecio:
[l'Arma] arbitrariamente viola il domicilio non solo di quanti porgono per uguaglianza di nome sospetto di renitenza alla Leva, turbando così il riposo di pacifiche famiglie; ma anche entrando capricciosamente in abitazioni scevre da ogni sospetto (118).
Giustamente il sindaco riteneva che il ripetersi di queste pratiche intimidatorie avesse alienato ai tutori dell'ordine pubblico ogni residua simpatia:
La frequenza di simili abusi produce sfavorevole impressione nell'animo di queste popolazioni, perché ricordano i soprusi dei Carabinieri Pontifici, e scemano la fiducia ed il rispetto che si deve all'Arma dei Reali Carabinieri (119).
Alla luce di questo e altri episodi analoghi non sembra azzardato affermare che la condotta tenuta dalle autorità municipali nei confronti della repressione governativa fu caratterizzata da una difficile equidistanza tra il dovere di fornire il loro appoggio ai tentativi di arrestare i renitenti e l'esigenza di difendere i propri amministrati dagli atti indiscriminati e arbitrari commessi dalla forza pubblica. Un intervento concreto delle rappresentanze comunali per facilitare le ricerche dei latitanti era stato richiesto in più occasioni dai funzionari governativi periferici. Nel marzo del 1861, ad esempio, l'intendente generale della provincia aveva invitato i sindaci a fornire tutte le informazioni in loro possesso per "rendere più proficua l'azione dei Reali Carabinieri", assicurandoli
che non avranno in verun caso a soffrire né molestie, né danno per le notizie 71
che avranno somministrato all'arma suddetta, imperocché questa saprà valersene senza compromettere menomamente la persona dalla quale le abbia attinte (120).
L'atteggiamento sostanzialmente neutrale mantenuto dalle autorità municipali fa supporre che queste sollecitazioni siano state generalmente eluse. Questo atteggiamento era tuttavia destinato a suscitare qualche dubbio sulla lealtà del loro comportamento. Il comandante provinciale dei carabinieri, avuta notizia del ricorso presentato dal sindaco di Monte Gridolfo, lo accusò infatti di favorire oggettivamente i renitenti con gli intralci che creava al servizio dell'arma:
l'Autorità che dovrebbe appoggiare i Carabinieri nell'esecuzione della Legge, facendosi invece essa stessa eco di malcontento e orditrice di calunnie contro i medesimi, tiene in apprensione i Carabinieri stessi nell'esecuzione delle loro funzioni da paralisarne le operazioni per tema di incontrare ostacolo per parte dell'Autorità (121).
L'impossibilità di contare sull'aiuto della popolazione e sulla fattiva cooperazione dei sindaci costrinse i funzionari governativi a ricercare altri canali per ottenere notizie sui luoghi di rifugio dei renitenti. Gli sforzi per rompere il muro di complicità da cui erano protetti i latitanti furono specificatamente rivolti alla creazione di una rete di informatori prezzolati. Se non si giunse all'organizzazione di una struttura "spionistica" stabile ed estesa in tutta la provincia, fu comunque frequente in alcune situazioni locali il ricorso a "sicuri confidenti" (122). Nel febbraio del 1864, ad esempio, la guardia nazionale di Civitella, grazie alla segnalazione di un informatore, fece irruzione in uno sperduto casolare della montagna sopra Teodorano dove erano "riuniti per una festa di ballo" diversi renitenti, ma non riuscì ad operare alcun arresto per la "precipitosa fuga" dei convenuti (123). A prescindere da questo episodio è indubbio che l'impiego dei confidenti, agevolando l'individuazione delle zone su cui far convergere le ricerche dei latitanti, consentì di rendere più incisivo l'operato della forza pubblica. Formulare un giudizio complessivo sull'efficacia della repressione governativa è quindi estremamente difficile. Se da un lato essa conseguì, almeno inizialmente, un limitato successo sul piano strettamente numerico degli arresti, dall'altro la continuità che contraddistinse l'attività di pattugliamento e perlustrazione, limitando le possibilità di libero spostamento dei latitanti, contribuì in prosieguo di tempo a rendere difficilmente sostenibile la prosecuzione della vita alla macchia. In secondo luogo, il progressivo inasprimento della repressione influì indirettamente sui livelli di renitenza, scoraggiando i potenziali refrattari ad intraprendere la scelta della latitanza.