IL SEPARATISMO SICILIANO

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MESSINA Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne

Corso di Laurea in Lettere

IL SEPARATISMO SICILIANO Tra cronaca e storia 1943-1948

Tesi di laurea di

SALVATORE PANTANO

Relatore

CHIAR.MO PROF. ANTONINO BAGLIO

ANNO ACCADEMICO 2014 – 2015


Alla mia famiglia A mio nonno Turi


«Gli indipendentisti erano i separatisti di cui tanto si parlava, volevano la Sicilia separata dall’Italia, mio padre diceva che non avevano torto, sempre coi piedi la Sicilia l’avevano trattata». LEONARDO SCIASCIA, Gli zii di Sicilia (1958)

«Senza Italia, Sicilia si nni scanta; senza Sicilia, Italia picca cunta». ANONIMO SICILIANO


Introduzione

Nell’ultramillenaria storia della Sicilia, quella dell’indipendentismo sorto subito dopo il Secondo conflitto mondiale è sicuramente una tra le pagine più controverse e al tempo stesso affascinanti. A partire dagli anni Sessanta dello scorso secolo questo momento storico è stato raccontato, studiato e sviscerato nei suoi aspetti principali; eppure a distanza di così tanto tempo sembra che sull’indipendentismo (o separatismo, che dir si voglia) ci sia ancora parecchio da comprendere e raccontare. I primi a interessarsi a questo fenomeno politico e sociale tutto siciliano furono i giornali e i periodici con articoli e inchieste che, come ovvio, predilessero l’aspetto cronachistico della vicenda. Importanti, a questo proposito, le inchieste condotte da Marcello Cimino per «L’Ora» e da altri cronisti che contribuirono a tirare fuori dall’oblio questo controverso capitolo della storia siciliana. Negli anni successivi un rapido processo di decantazione di concetti, sentimenti, interessi ha permesso al separatismo di divenire oggetto di veri e propri studi condotti da accademici di riconosciuto valore, ovviamente tutti siciliani. Grazie all’impegno degli storici è stato possibile scoprire ancora di più attingendo a documenti d’archivio e ad altre importanti fonti e testimonianze. Ecco allora che la storia dell’indipendentismo siciliano è divenuta un campo di ricerca importante e interessante con il quale rileggere il dopoguerra isolano e reinterpretare anche il processo di ricostruzione della compagine statuale italiana in rapporto alle vicende locali. Il separatismo, nel passato come ancora oggi, è un argomento molto gettonato nella pubblicistica e nell’ambito dell’editoria locale. Tra posizioni preconcette, indagini storiche spesso superficiali e tendenze “romantiche”, la pubblicistica sul separatismo è comunque testimonianza importante di un dibattito, quello sull’indipendenza e l’autonomia dallo Stato centrale, che non finirà mai di essere attuale. Con questo lavoro ci siamo proposti di ripercorrere la vicenda del separatismo siciliano seguendo l’evoluzione dell’idea indipendentista a partire dal crollo del regime fascista e fino alla piena affermazione dell’autonomia regionale insieme al nuovo sistema partitocratico. Evitando di soffermarci solo sui meri dati cronachistici, abbiamo cercato di indagare il “fenomeno separatismo” studiando le motivazioni culturali, sociali, economiche e politiche che furono alla base di esso, mettendole sempre in confronto e relazione con il contesto storico nazionale e internazionale. Nel fare questo abbiamo prediletto studi importanti come quelli condotti da Giuseppe Giarrizzo, Francesco Renda, Rosario Mangiameli, Giuseppe Carlo Marino, Salvatore Lupo, senza, tuttavia, disdegnare testi non strettamente scientifici come quelli di autori locali. Nel complesso il nostro è un modesto tentativo di far “dialogare” fonti e autori più 3


vari nell’obiettivo di ricostruire in maniera attenta, approfondita ma al tempo stesso non dispersiva, la vicenda storica dell’indipendentismo siciliano sul quale spesso gravano giudizi troppo netti o affrettati. La struttura e i contenuti di questa tesi seguono l’andamento cronologico del fenomeno separatista a partire dall’estate del 1943 e fino alle soglie degli anni ’50 quando avvenne la definitiva dissoluzione dell’indipendentismo come movimento politico organizzato. Il primo capitolo è interamente dedicato al contesto sociale, politico ed economico della Sicilia al momento dello sbarco alleato del luglio ’43. Vengono affrontate questioni importanti, come quella della crisi economica, del sistema latifondistico, e dei rapporti tra mafia e potere, che diventarono argomenti del dibattito politico del dopoguerra. Delineato il contesto, con il secondo capitolo si entra nel vivo della storia dell’indipendentismo: partendo dalle basi ideologiche sicilianiste, vengono ripercorse tutte le tappe che portarono alla ribalta il movimento separatista come il principale attore politico negli anni 1943-45. Personaggi e tematiche dell’indipendentismo siciliano sono messi a confronto con gli esponenti e le ideologie dei nuovi partiti della nascente democrazia italiana che nel frattempo partorirà per la Sicilia l’antidoto contro il separatismo: l’autonomia regionale. Nel terzo capitolo seguiremo l’involuzione del movimento separatista analizzando le cause (interne ed esterne) del declino dell’idea indipendentista e le conseguenze di quest’ultima fase. Con il processo di nascita dello Statuto autonomistico e quindi della Regione siciliana, il separatismo organizzato ebbe gli ultimi violenti singulti – dalla nascita dell’EVIS alle lotte interne per la guida del movimento – prima del definitivo scioglimento del movimento dovuto alla dispersione della sua classe dirigente di fronte a risultati elettorali sempre più deludenti.

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CAPITOLO I

Dopo la guerra: occupazione alleata, crisi e ricostruzione nel contesto sociale, politico ed economico della Sicilia Come si sveglia la Sicilia dopo l’incubo di una dittatura durata più di vent’anni e dopo gli affanni di una guerra combattuta ad armi impari al fianco di un alleato così volitivo e ingombrante come la Germania? La domanda è d’obbligo per chi vuole addentrarsi in quella lunga serie di eventi che negli anni ’40 dello scorso secolo coinvolsero la maggiore tra le isole del mar Mediterraneo segnandone per sempre il destino. Alla base di tutto, come evento innescante, è lo sbarco anglo-americano del 1943.

I.1 Luglio 1943: l’operazione Husky L’estate del 1943 con l’ “invasione-liberazione” alleata del territorio siciliano, parte più estrema e strategicamente appetibile di quell’Italia che il primo ministro inglese Winston Churchill aveva definito «il ventre molle dell’Asse», rappresenta certamente un momento di cesura. Lo sbarco delle truppe inglesi e americane sulle coste sud-orientali e occidentali della Sicilia, oltre a essere, un evento di rilevanza internazionale decisiva1, segna l’ “inizio della fine” per il regime fascista, e non solo nell’isola. È un dato incontrovertibile: lo sbarco generava il crollo definitivo di tutte quelle certezze, negli ultimi mesi un po’ traballanti, che avevano reso l’Italia forte e ben difesa agli occhi del governo Mussolini. Il mito dell’inviolabilità del “sacro suolo italico” accuratamente costruito dalla propaganda di regime e più volte ripetuto anche da Mussolini, seppur con qualche ritrattazione, specie negli ultimi periodi2, crollava davanti agli occhi degli stessi italiani e, per primi, dei siciliani che forse a quel mito non avevano mai creduto. Primo baluardo a cadere nelle mani degli Alleati era l’isola di Pantelleria che per la sua posizione al centro del canale di Sicilia rappresentava un punto nodale di grande 1

Cfr. RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. III, Sellerio, Palermo 1987, p. 15.

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PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, Edas, Messina 2005, p. 76. Il 24 giugno 1943 Mussolini, nel suo rapporto ai dirigenti del PNF, ragionava sulla possibilità di un attacco terrestre alla Sicilia da parte degli Alleati. Mussolini ammetteva la possibilità di un tentativo di “sbarco” degli anglo-americani da distinguere dall’ipotesi di una “penetrazione” ancora ritenuta improbabile. 5


importanza per il traffico navale. A Pantelleria si trovava una base aero-navale, presidiata da una guarnigione di 11 mila uomini al comando dell’ammiraglio Pavesi. Un avamposto che avrebbe potuto dare seri problemi ai convogli navali anglo-americani diretti sulle sponde siciliane. Per questo gli Alleati decisero di iniziare la campagna di occupazione dell’Italia proprio dalla piccola isola. La vicenda dell’attacco e della repentina resa della guarnigione italiana di stanza sull’isola ancora oggi presenta dei passi oscuri. Di certo c’è che Pantelleria si arrese a sole 48 ore dall’intimazione lanciata dagli Alleati: il 10 giugno 1943 fu issata bandiera bianca senza che nessun soldato inglese o americano fosse ancora sbarcato sull’isola. Sui motivi della resa “facile” della piazzaforte pantesca negli anni successivi nacque un vero e proprio dibattito di natura storico-pubblicistica che vide spunti di forte polemica e anche qualche strascico giudiziario. Nel mirino alcuni personaggi ai vertici dell’allora Regia Marina Militare che, in riferimento all’episodio di Pantelleria e ad altri fatti, furono accusati di inettitudine, tradimento o addirittura di essere in combutta con gli Alleati.3 Vere e proprie ombre sull’operato della marina italiana e dello stesso esercito che si prolungarono anche su eventi successivi. In quel momento, quindi, i sentori di un prossimo attacco diretto alle sponde siciliane da parte degli Stati Uniti e del Regno Unito c’erano tutti, e dopo l’occupazione di Pantelleria non poterono che diventare sempre più forti. In effetti qualche tentativo, o meglio, qualche “prova tecnica” di sbarco fu messa in atto dagli Alleati. Salvatore Nicolosi scrive che «la notte fra il 3 e il 4 di quel mese [luglio 1943] un commando britannico, per saggiare l’efficienza della difesa italo-tedesca nell’isola, aveva tentato di sbarcare sul lido di Avola, […] era stato ricacciato in mare, ma quell’impresa preannunciava, senza equivoci, le intenzioni del nemico».4 3

Ivi, pp. 69-70. Antonino Trizzino (1899-1973), pilota della Regia Aeronautica e successivamente giornalista, nel suo libro dai forti toni polemici Navi e poltrone (Longanesi, Milano, 1953) accusò, senza mezzi termini, di tradimento e disfattismo alcuni ufficiali della Regia Marina, tra cui l’ammiraglio Gino Pavesi al comando della base militare di Pantelleria nel giugno del ‘43. Trizzino fu chiamato in giudizio per diffamazione e vilipendio in diversi processi, tra cui uno intentato dal Ministero della Difesa e conclusosi in secondo grado con l’assoluzione del giornalista. Propendono a favore del Trizzino anche alcune recenti valutazioni sull’episodio di Pantelleria fatte dalla stessa Marina Militare («Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare», giugno 2003, p. 198). 4

NICOLOSI SALVATORE, Sicilia contro Italia. Il separatismo siciliano, Tringale, Catania 1981, p. 10-11. 6


Tuttavia l’Italia, anche se in quel caso era riuscita a ricacciare i pochi componenti di un commando nemico, a causa di una serie di ritardi, di errori di valutazione e di problemi di comunicazione, era assolutamente impreparata all’evenienza di uno “vero” sbarco alleato. Il governo Mussolini solo negli ultimi tempi fu in grado di rendersi realmente conto di quanto fossero labili e limitate le difese schierate in Sicilia. In tutto ciò una responsabilità oggettiva è da attribuire agli ufficiali di comando che spesso sottovalutarono la debolezza delle divisioni siciliane. Nonostante ciò, a Roma le notizie sui problemi difensivi della Sicilia arrivavano a più riprese. Il generale Rosi, che dal 1941 era al comando della VI Armata schierata in difesa dell’isola, in un rapporto di quel periodo rilevava che ben poco era stato fatto in quegli anni per difendere il territorio, in Sicilia mancava di tutto «dal cemento ai cannoni, dai reticolati ai binocoli per le vedette, agli stessi colori e ai pennelli occorrenti per mimetizzare le postazioni».5 Ma la stampa di regime stravolge totalmente la realtà, anche perché, molto probabilmente, non la conosce. Un esempio su tutti: “La Stampa” di Torino nel gennaio del ’43, con l’accondiscendenza giornalistica e l’enfasi tipica del periodo, dipinge la Sicilia come «un solido baluardo […] munitissimo di opere difensive».6 Il 14 giugno dello stesso anno, a meno di un mese dall’attacco alleato, il generale Guzzoni in un nuova relazione indirizzata a Roma descrive lo stato catastrofico delle truppe di stanza in Sicilia aggiungendo anche note sullo stato di disorientamento e depressione della popolazione, stremata dalla mancanza di viveri. Sarà lo stesso Mussolini a commentare le notizie inviate da Guzzoni: «Finalmente ho conosciuto la verità sulla Sicilia».7 Nessuna sorpresa, quindi, se la Sicilia venne occupata dagli Alleati senza grosse difficoltà nel giro di poche settimane. L’operazione Husky scattò la notte tra il 9 e il 10 luglio 1943.8 Sin dal gennaio di quello stesso anno, in occasione della conferenza di Casablanca, il presidente americano Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro inglese 5

PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., p. 39.

6

Ivi, p. 41

7

Ivi, p. 76

8

Cfr. MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50) in AA.VV. Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. La Sicilia, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, Einaudi, Torino 1987, p. 485.

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Winston Churchill avevano posto le basi di quello che sarebbe stato il primo attacco frontale alle potenze dell’Asse sul continente europeo. A prevalere a Casablanca fu la linea inglese di Churchill e del generale Alan Brook, capo di stato maggiore generale britannico, che prevedeva lo sbarco sulle coste siciliane.9 I vertici inglesi dell’esercito convinsero gli americani, inizialmente favorevoli a uno sbarco in Sardegna, a optare per la Sicilia grazie a una serie di motivi tattici. La sera del 9 luglio due ricognitori dell’aeronautica militare italiana sorvolano il Mediterraneo a ovest di Malta. Al comando delle forze armate in Sicilia, che ha sede ad Enna, arriva subito una comunicazione. Il radiotelegrafista allibito comunica che tra l’Africa e la Sicilia vede il mare «nero di navi».10 È l’inizio dell’operazione Husky. La mattina del 10 luglio i soldati della VII armata americana sotto la guida del generale George Patton occuparono la costa sud-occidentale tra Pozzallo e Licata mentre gli inglesi della VIII armata guidati dal generale Bernard Montgomery sbarcarono su quella sudorientale tra Pozzallo e Avola. Al generale Dwight D. Eisenhower, già al vertice delle forze alleate in Nord Africa, andò il comando supremo dell’intera operazione. Obiettivo degli Alleati, neutralizzare e respingere le difese italo-tedesche per poi penetrare nell’entroterra in direzione delle principali città isolane. Per far questo, durante tutta la campagna militare siciliana, scesero in campo in 450 mila tra inglesi, americani e canadesi. Dall’altro lato a difesa dell’Italia furono schierati 405 mila uomini fra italiani e tedeschi.11 Nonostante i numerosi problemi delle linee difensive a cui abbiamo già accennato, soprattutto per quanto riguarda la preparazione di soldati e ufficiali, le dotazioni e gli armamenti, gli italiani, come scrive Rosario Mangiameli, «combatterono con molto accanimento e dignità, qualche volta con notevole valore, come nella piana di Gela, […] e con scarso sostegno da parte dell’alleato, che in quei giorni mostrò la sua ferocia nei confronti della popolazione civile».12

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PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., pp. 107- 108. Cfr. anche RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 17-18.

10

NICOLOSI SALVATORE, Sicilia contro Italia. Il separatismo siciliano, cit., p. 10.

11

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 15.

12

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., p. 485, alla nota 1.

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Ed erano proprio i civili, i siciliani, a non poterne più di questa guerra che era costata vite umane, danni, disagi, sacrifici quotidiani e soprattutto fame, tanta fame. Non è un caso, allora, se l’arrivo dei ‘miricani fu sin dal primo momento salutato dalla popolazione isolana come la salvezza, la liberazione dai dolori patiti negli ultimi anni per motivi difficili da comprendere. Ancora prima dello sbarco, nel gennaio del ’43, lo scrittore inglese Fernando Tuhov scriveva su “Sphere”: «La Sicilia è stata talmente trascurata dal governo fascista che i siciliani sarebbero lieti di aprire le braccia agli anglo-americani e far entrare in casa le truppe alleate». La realtà dei fatti non era per nulla lontana da quanto previsto dal giornalista: la Sicilia era davvero un «frutto maturo». L’operazione Husky continuò a ritmo serrato in quei giorni di luglio e le forze alleate, dopo i pesanti bombardamenti sulle principali città e dopo la ritirata delle truppe italo-germaniche dalla zona centrale verso Messina, riuscirono a ottenere il controllo dell’intera isola.13 Sia prima che dopo l’avvio dell’occupazione le incursioni aeree alleate furono particolarmente violente sulle città. In particolare a Messina dove i bombardamenti erano mirati non solo a distruggere obiettivi militari ma anche a demoralizzare la popolazione. Una strategia d’urto piuttosto violenta corroborata anche dal lancio di volantini che invitavano i soldati italiani e i civili alla disobbedienza verso il regime.14 Tappa conclusiva della campagna d’occupazione alleata fu proprio Messina. Il 17 agosto 1943 gli americani entrano della città dello Stretto, subito dopo arrivano anche gli inglesi della VIII armata. Lo fanno a poche ore di distanza dalla fuga degli italiani e dei tedeschi che riescono a traghettare sulla sponda calabra ingenti quantità di uomini e mezzi: 62 mila italiani, 40 mila tedeschi, 50 carri più tutto il parco veicoli quasi indenne. A quel punto i tre chilometri di mare che separano la costa siciliana dal resto d’Italia diventarono linea di demarcazione: da una parte la Sicilia “libera”, dall’altra la penisola futuro teatro di aspri conflitti e dove, a quella data, il regime fascista era già crollato.15 13

Ibidem. In particolare, gli Alleati raggiunsero Palermo il 22 luglio. Più difficile il cammino verso Catania che conquistata dagli inglesi solo il 6 agosto 1943. 14

PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., pp. 109- 110. 15

La notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 a Roma si riunì il Gran consiglio del fascismo che approvò a maggioranza significativa l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi che invitava Vittorio Emanuele III a riassumere il comando supremo delle forze armate, sconfessando di fatto il capo del governo. A poche ore di distanza, lo stesso 25 luglio, Mussolini fu obbligato a rassegnare le dimissioni e arrestato dai carabinieri. 9


I.2 Occupazione alleata, mafia e “dietrologie” Sull’operazione Husky e sui contatti che in quel periodo americani e inglesi avrebbero avuto con elementi della mafia siciliana tanto si è detto e scritto negli ultimi decenni. Il più delle volte il quadro tinteggiato è quello che annovera elementi ai vertici dei comandi militari e della burocrazia statunitense che intrattengono relazioni con personaggi più o meno noti del crimine organizzato italo-americano. Il tutto arricchito dall’immancabile coinvolgimento di spie, informatori, infiltrati e in generale di membri appartenenti alle schiere dei servizi segreti sguinzagliate dalle varie nazioni nel corso del secondo conflitto mondiale. Queste circostanze, ancora di fatto non chiarite (ammesso che si potranno mai chiarire), inevitabilmente, non hanno fatto altro che alimentare un intero filone storico a metà tra la letteratura, la cronaca e la pubblicistica, che dal secondo dopoguerra a oggi ha avuto largo seguito nell’opinione pubblica ma sul quale gli storici di stampo accademico hanno sempre avanzato forti dubbi di fondo, incertezze se non addirittura una totale avversione. È quel filone fatto di libri d’inchiesta, articoli, saggi che, a qualche anno di distanza dalla fine della seconda guerra mondiale, cominciò a furoreggiare attingendo alle testimonianze, alle voci e alle teorie che circolarono in Sicilia e secondo le quali la mafia, dietro interessamento del governo statunitense e per tramite dei servizi segreti e degli stessi vertici delle forze armate alleate, avrebbe avuto un importante ruolo d’appoggio e di ausilio nell’ambito delle operazioni di occupazione del territorio isolano. Un intreccio di fatti, circostanze e coincidenze che vedrebbero coinvolti non solo gangster italo-americani del calibro di Lucky Luciano e boss della mafia siciliana come Calogero Vizzini ma anche personaggi racchiusi in quei torbidi ambienti detti “dei servizi segreti deviati”, oltre che reazionari, faccendieri ed eversivi di varia estrazione politica. Di certo uno dei primi a “teorizzare” l’esistenza di quello che fu definito, con termine latino, il pactum sceleris (patto scellerato) tra Alleati (e in particolare gli Stati Uniti) e la mafia fu Michele Pantaleone.16 Scrittore, giornalista e politico, Pantaleone visse a Villalba, piccolo centro nel cuore della Sicilia, in provincia di Caltanissetta, e fu testimone di fatti che, subito dopo l’arrivo degli Alleati, videro protagonista Calogero Vizzini, esponente di 16

Cfr. DICKIE JOHN, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Laterza, Bari 2005, pp. 245-251.

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spicco di quella mafia rurale legata ai meccanismi del latifondo e, in quel periodo, particolarmente dedita ai traffici del mercato nero. Vizzini sin da allora era considerato al vertice della criminalità organizzata siciliana se non addirittura il capo indiscusso, capace di prendere decisioni, dal suo piccolo paese d’origine, e di imprimere il proprio volere su un sistema malavitoso profondamente radicato nella società isolana. Un apparato mafioso, se così lo si può definire, ancora arcaico, fondato sui principi dell’onore, del rispetto e che aveva il proprio epicentro soprattutto nel palermitano, nel nisseno e in generale nei centri della Sicilia centro-orientale. Don Calò Vizzini, rappresentava sicuramente il personaggio di spicco nel notabilato paesano e per questo, dopo l’arrivo degli americani, fu posto a capo dell’amministrazione comunale provvisoria divenendo in futuro avversario diretto dello stesso Pantaleone che nella Villalba degli anni ’40 conduceva la sua attività politica e sindacale nell’alveo del Partito socialista italiano. Come efficacemente rilevato da Elio Sanfilippo, le scelte degli Alleati per la nomina degli amministratori locali si muovevano soprattutto verso i notabili dei paesi, privilegiando le persone più in vista e che avevano un certo ascendente sulla popolazione visto anche lo stato di miseria, arretratezza di molti centri.17 Non sorprende, quindi, se un capomafia come Vizzini potesse essere considerato “notabile” del paese: la concezione che la stessa opinione pubblica aveva allora della mafia è molto lontana da quella odierna. Essere “mafioso”, prima che questa organizzazione criminale mostrasse il suo vero, terribile volto negli anni più recenti, a metà degli anni ’40 significava essere persona rispettata e rispettabile; persona che si è guadagnata un proprio posto nella società e che molto spesso ricopre un ruolo di autorità mantenendo e garantendo nel proprio ambito lo status quo, soprattutto nei momenti di crisi. Il capomafia, specie nei piccoli centri, quindi, era punto di riferimento per tutti, insieme al parroco, al sindaco, al medico e agli altri esponenti del piccolo notabilato. Ecco allora perché Vizzini, come altri suoi “omologhi” in molti centri siciliani dove il fenomeno mafioso era preponderante, in maniera quasi fisiologica divenne caposaldo della comunità, in un periodo di forte disorientamento come quello generato dalla guerra, e di conseguenza primo tra gli interlocutori delle forze alleate al momento dell’occupazione.

17

SANFILIPPO ELIO, Quando eravamo comunisti. La singolare avventura del PCI in Sicilia, Edizioni di passaggio, Palermo 2008, p. 23.

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Per Michele Pantaleone, i contatti tra Calogero Vizzini e gli Alleati nell’estate del 1943 sarebbero un segnale inequivocabile delle relazioni tessute nei mesi precedenti allo sbarco alleato tra alcuni apparati militari del governo statunitense e la mafia italoamericana. Il racconto di quanto avvenne a Villalba nel luglio del ’43 in piena occupazione americana è ormai entrato nell’antologia del “mistero italiano”. Pantaleone per conoscenza diretta e tramite la testimonianza di suoi compaesani, parla di una strano avvistamento aereo sul cielo di Villalba in pieno giorno: un velivolo americano che attraversa il paese lanciando un pacco-messaggio indirizzato proprio a zu Calò (Calogero Vizzini) e che contiene anche un foulard giallo oro con una grande ‘L’ nera (simbolo del boss Charles ‘Lucky’ Luciano). Un vero e proprio segnale “atteso” dal capomafia villalbese che, a sua volta, prepara un suo messaggio in un dialetto pieno di metafore agro-pastorali dietro cui si celano precise istruzioni per favorire l’avanzata nella Sicilia centrale delle colonne alleate. Il messaggio di Vizzini sarebbe stato indirizzato a zu Peppi, ovvero a Giuseppe Genco Russo, capomafia di Mussomeli, grosso centro cerealicolo del nisseno a poca distanza da Villalba. Il racconto continua con l’arrivo del primo carro armato americano nel paese di don Calò. Un soldato americano reca il fazzoletto giallo oro con la ‘L’ nera e così rintraccia Vizzini per poi portarlo con sé. Secondo il racconto Vizzini farà ritorno a Villalba sei giorni più tardi quando già la Sicilia centrale è nelle mani degli Alleati. L’episodio viene riportato anche da John Dickie.18 Esistono tante versioni di questo racconto, in ognuna abbondano le coloriture e i dettagli, come a voler rendere ancora più realistica la storia. Gli storici da sempre si sono rivelati fortemente scettici di fronte a questa testimonianza così come ad altre circostanze che, a parere di una certa pubblicistica, confermerebbero il nesso Alleati-mafia. Dickie stesso scrive che «l’episodio è stato raccontato innumerevoli volte, col risultato che su di esso s’è formata una spessa crosta di falsità che ne deformano qua e là i particolari, e che qualche volta danno luogo a invenzioni di sana pianta, per quanto consolidate. Oggi la maggioranza degli storici lo liquida come una favola».19 A confermare la contro-tesi delle «amene invenzioni di

18

DICKIE JOHN, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, cit., pp. 245- 248 (come detto la fonte primaria è in MICHELE PANTALEONE, Mafia e politica, Einaudi, Torino 1962). 19

Ibidem. 12


Pantaleone»20, il riscontro oggettivo del mancato coinvolgimento del boss Lucky Luciano che, da quanto appurato dai documenti, nell’estate del ’43 si trova ancora in carcere negli Stati Uniti a scontare una lunga pena per coazione alla prostituzione. Luciano verrà rilasciato solo nel 1946 e successivamente rispedito in Italia.21 Questo dato di fatto fa crollare ogni possibile teoria sul coinvolgimento del boss italo-americano nella campagna di appoggio mafioso allo sbarco alleato in Sicilia. E pensare che ci sono alcune versioni dell’episodio di Pantaleone che narrano addirittura la presenza di Luciano al seguito delle truppe americane sull’isola in quel luglio del ’43. Se da un lato, come scrive Dickie, è certo che Luciano collaborò con i servizi segreti della marina americana per mettere in atto l’operazione anti-spionaggio nel porto di New York, spesso teatro di sabotaggi e danneggiamenti22, dall’altro «nulla prova che Luciano sia stato in Sicilia durante la guerra, e neppure che fosse stata raggiunta un’intesa per liberarlo in cambio delle sua opera per arruolare la mafia siciliana in appoggio a un’invasione alleata».23 Sulla stessa lunghezza d’onda Salvatore Lupo che in passato si è più volte occupato di questo argomento: «Appare in ogni caso poco credibile che al 1942 esista La mafia con cui l’alto comando o i servizi segreti alleati possano accordarsi. Invece è documentato che la US Navy abbia affidato a Luciano la difesa dei docks newyorkesi da sabotatori tedeschi, i quali peraltro non sarebbero mai esistiti essendo stato lo stesso boss a simulare gli attentati per ottenere la scarcerazione […] Sul versante siciliano, Luciano nega invece di aver svolto un qualsiasi ruolo: “Là, a casa, non avevo nemmeno un contatto”».24 Sul fronte opposto a lanciare ulteriori ombre sullo sbarco alleato è Giuseppe Casarrubea che parla di una mobilitazione di mafiosi messa in atto su spinta delle spie americane poco prima dell’avvio dell’operazione Husky: «Al momento dello sbarco del ’43, l’Oss [l’Office of strategic services, il servizio segreto americano, antenato 20

PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., p. 132. 21

DICKIE JOHN, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, cit., p. 249.

22

PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., p. 89. 23

DICKIE JOHN, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, cit., p. 249.

24

LUPO SALVATORE, Storia della mafia, dalle origini ai giorni nostri, Donzelli Editore, Roma 1993, p. 159. 13


dell’odierna Cia] mandò Max Corvo e Vincent Scamporino a Favignana, dove erano rinchiusi alcuni avanzi di galera del regime fascista, con l’obiettivo di restituire la libertà ai mafiosi imprigionati. A essi se ne aggiunsero altri che, pur essendo stati nelle prigioni americane, si erano, per così dire, internazionalizzati e avevano portato il crimine dal livello locale su scala planetaria».25 Anche queste notizie andrebbero prese con il beneficio dell’inventario. Vero è che negli ultimi anni grazie all’apertura dei fondi d’archivio del Dipartimento di Stato e dei servizi segreti americani si è potuto scandagliare più a fondo questo periodo storico grazie alla gran mole di documentazione e rapporti provenienti dai vari informatori, tuttavia bisogna sempre tener conto che si tratta di fonti per le quali è alto il rischio di travisamenti, mistificazioni, manomissioni ed edulcorazioni varie. A redigere questi rapporti il più delle volte erano informatori “interessati” il cui punto di vista poteva anche non rispecchiare la realtà dei fatti. A ogni modo gran parte della storiografia ufficiale, specialmente quella più recente, sempre scettica di fronte a certi metodi di indagine storica giudicati troppo frettolosi e pregni di preconcetti, anche in questo caso non si sbilancia. In più c’è da mettere in conto che subito dopo l’occupazione alleata della Sicilia le voci e le ipotesi circolanti sul presunto appoggio della mafia alla campagna anglo-americana divennero un’ottima materia prima per le polemiche e le strumentalizzazioni messe in atto da parti politiche diverse con l’obiettivo di ottenere consenso nell’opinione pubblica e demonizzare il nemico di turno. «Il contributo della mafia alla liberazione della Sicilia – scrive Elio Sanfilippo – in un’organica alleanza con gli americani è un luogo comune agitato, allora dalle forze fasciste con l’intenzione di denigrare la funzione liberatrice degli Alleati e, in seguito, ripreso da settori di sinistra per alimentare la propaganda antiamericana».26 Anche Francesco Renda nella sua Storia della Sicilia si sofferma molto sull’ipotesi di un nesso tra mafia, gangsterismo italoamericano e servizi segreti statunitensi. La sua indagine storica, come da lui stesso sottolineato, parte da ben saldi riscontri su

25

CASARRUBEA GIUSEPPE, Storia segreta della Sicilia. Dallo sbarco alleato a Portella della Ginestra, Bompiani, Milano 2005, p. 32.

26

SANFILIPPO ELIO, Quando eravamo comunisti. La singolare avventura del PCI in Sicilia, cit., p. 23.

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documentazioni del periodo27: sono le «esigenze di metodo e anche di rigore filologico» tanto care al modus operandi di uno storico del calibro di Renda.28 Oltre alla Relazione conclusiva della Commissione d’inchiesta sul fenomeno mafioso in Sicilia del 1976, unico documento italiano utilizzato, lo storico fonda la propria ricostruzione su alcune relazioni prodotte dall’amministrazione provvisoria alleata (l’AMGOT) durante l’occupazione. Dai documenti si evince una grande attenzione da parte delle forze occupanti nei confronti della mafia siciliana in rapporto con il risveglio che la politica isolana visse in quel periodo e in particolare con il movimento separatista. Molto interessante il Rapporto sul problema della mafia in Sicilia (Report on the problem of mafia in Sicily) redatto per i servizi segreti americani – quello stesso Oss (Office of strategic services) accusato di aver tessuto rapporti con la malavita organizzata isolana – dal capitano W. E. Scotten e che porta la data del 29 ottobre 1943.29 Renda riprende questo memorandum, non solo per provare quanto gli occhi dell’amministrazione statunitense fossero puntati sul fenomeno mafioso, ma anche per rimarcare l’ampia conoscenza che alcuni esponenti dell’intelligence americana ormai avevano della mafia. Scotten, dopo tre anni di esperienza da vice-console a Palermo, offre un’ampia panoramica sulla storia della mafia rilevando il profondo innesto di quest’ultima nel sistema sociale, culturale ed economico dell’isola. A Renda preme molto sottolineare attraverso il rapporto di Scotten il fatto che la mafia, subito dopo l’arrivo degli Alleati in Sicilia, aveva dato «evidenti segni di un’ampia ripresa».30 A nostro parere, tuttavia, l’analisi del Renda è più tendente a dimostrare i legami che vi furono successivamente tra mafia e ad alcune aree politiche ben precise: il separatismo in primis. I documenti citati fanno sempre e comunque riferimento ad avvenimenti posteriori rispetto allo sbarco alleato e non possono fornirci alcuna certezza sull’effettiva esistenza del pactum sceleris. Nonostante questo, Renda afferma che «l’ “operazione gangster” [si riferisce all’intesa tra Lucky Luciano e i servizi segreti della marina statunitense] può, dunque, ritenersi sufficientemente confermata con un altissimo grado di probabilità». In questo 27

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 79.

28

Ibidem.

29

Ivi, p. 85.

30

Ivi, p. 89.

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modo Renda propenderebbe a considerare veritiera la teoria del patto pre-sbarco ma al tempo stesso lo storico afferma che quel patto non avrebbe avuto importanza sotto il profilo militare ma solo dal punto di vista politico e sociale.31 E allora che senso avrebbe avuto mettersi d’accordo prima, cercare gli agganci con la mafia siciliana nei mesi precedenti allo sbarco se poi, di fatto, gli Alleati non ottennero nessun vantaggio sul piano militare al momento dell’occupazione dell’isola? Il punto di vista di Renda, a nostro avviso, potrebbe portare a confondere due questioni che dovrebbero essere distinte: da una parte l’esistenza del pactum sceleris, dall’altra l’effettiva attività della mafia in quel periodo che per ovvie ragioni non poté che ritrovare nel suo raggio d’azione la presenza degli Alleati. Si compie un errore di visione quando alla teoria del complotto si aggiunge anche l’idea che in qualche modo l’arrivo degli Alleati abbia contribuito in maniera sostanziale a far risollevare la testa al sistema mafioso, unanimemente considerato in crisi, se non addirittura annientato, a causa del fascismo che durante il ventennio fu capace di controlli e provvedimenti drastici come quelli messi in atto dal “prefetto di ferro” Mori. In realtà il sistema mafioso, seppure evidentemente ristretto nella sua capacità d’azione dal fascismo, mise in atto durante il regime strategie di copertura e insabbiamento, scendendo spesso a patti con i rappresentanti locali del potere e facendo unione d’intenti con il notabilato cittadino e i maggiori esponenti dell’agraria e dell’imprenditoria isolana, e con questi ultimi, dal canto loro, sempre pronti a ogni evenienza e alleanza pur di difendere i propri privilegi e il mantenimento dello status quo. È noto, inoltre, che l’azione del prefetto Mori si concentrò sugli strati più bassi del sistema mafioso senza mai poter sfiorare i livelli più alti, lì dove era risaputo che vi fossero ampi coinvolgimenti degli agrari, del notabilato e di politici. Lo stesso Renda, in Storia della Sicilia, riporta un brano della già citata relazione di Scotten in cui il capitano dei servizi segreti dimostrava chiaramente di aver capito quanto l’operazione Mori, messa in atto dal regime fosse stata un’azione di facciata che, se da un lato aveva reciso con successo la parte più evidente del tessuto mafioso dall’altra non era riuscita a intaccare i piani alti del sistema, lì dove erano i “grandi interessi”.32 31

Ivi, p. 94.

32

Ivi, p. 88.

16


La mafia esiste prima del fascismo, resiste ottimamente al fascismo e, inevitabilmente, si rinvigorisce dopo il fascismo davanti al profilarsi di nuovi orizzonti sociali, economici e politici: questo il paradigma più rispondente alla realtà. D’altronde anche Salvatore Lupo conferma questo andamento sostanziale: «La mafia dà segni di vita già prima dello sbarco alleato del luglio 1943. Nel ’32, nel centro di Canicattì, vengono consumati tre omicidi “le cui modalità di esecuzione” […] rimandano a “delitti tipici di organizzazioni mafiose”». Tuttavia, continua

scrivendo che «il formidabile shock

[dell’occupazione alleata e del crollo del regime fascista] basta a mettere tutto in moto, senza bisogno di inserire il deus ex machina della congiura con gli americani, a base di aerei e carri armati che arrivano a Villalba recando foulards ricamati con una ‘L’, […] con la conseguenza inverosimile di una mobilitazione mafiosa guidata da don Calò per neutralizzare le armate italotedesche».33 Ad oggi non c’è nessun documento che possa provare in maniera schiacciante l’esistenza di questo pactum sceleris. Della mafia invece possiamo dire che nel dopoguerra la sua organizzazione crescerà in maniera esponenziale; fin dal primo istante dopo la liberazione, come rilevato da Renda34, tesserà ragnatele fatte di rapporti e interessi con il mondo economico e politico e finirà per diventare una tra le organizzazioni criminali più potenti al mondo. Certo, l’idea di un governo americano che per sbarcare sulle coste siciliane chiede permesso, consiglio e appoggio alla mafia, oggi più che mai, fa sorridere gli storici. Al di là di ogni altra considerazione basterà tener conto del fatto che la mafia di don Calò Vizzini, e di Genco Russo, nonostante il forte radicamento nel territorio e nel tessuto sociale siciliano, non possedeva di certo la capacità di penetrazione, di mobilitazione e soprattutto il dinamismo e la potenza della “Cosa nostra” dei decenni successivi. Riguardo alla “rinascita” mafiosa avvenuta subito dopo lo sbarco alleato appare verosimile e quasi fisiologico che, una volta crollato il regime fascista e con in prospettiva cambiamenti davvero significativi in termini politici ed economici per la Sicilia, la mafia abbia giocato le sue carte per rimettersi in gioco e costruirsi una buona posizione nel nuovo ordinamento statuale che stava prefigurandosi. Per far questo è fuor di dubbio che abbia avuto contatti diretti e continui con esponenti dell’amministrazione provvisoria alleata: vi sono i dati di fatto. 33

LUPO SALVATORE, Storia della mafia, dalle origini ai giorni nostri, cit., pp. 158-159.

34

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., pp. 96-98. 17


Per il resto, senza la consistenza dei documenti e di testimonianze chiare, la questione del patto segreto tra gli Alleati e la mafia siciliana, italo-americana, o il gangsterismo che dir si voglia, continuerà a rimanere avvolta da un alone di incertezza e mistero, come tante altre vicende del passato del nostro paese. Emblematica un’affermazione di John Dickie: «La messa in circolazione di teorie del complotto è uno sport nazionale, che gli italiani chiamano “dietrologia”. La leggenda di don Calò e del foulard giallo è forse il primo esempio in assoluto di dietrologia».35

Sperlinga (Enna), agosto 1943: un contadino mostra a un soldato americano la strada utilizzata dalle truppe tedesche per fuggire. Celebre scatto del fotografo ungherese Robert Capa. (foto tratta da www.photographers.it - © Robert Capa/Magnum/Contrasto)

35

DICKIE JOHN, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, cit., p. 250. 18


I.3 Sicilia: terra di sole, fame e miseria I siciliani ebbero la fortuna di convivere con la guerra meno di quanto furono costretti a farlo gli altri connazionali. Lo sbarco alleato e il conflitto durarono poco più di un mese e qualche giorno dopo il ferragosto del 1943 la Sicilia poté dirsi terra libera, lontana dai terribili clamori della guerra. Terminate le veglie per i continui allarmi, le fughe, l’orrore per i bombardamenti, i siciliani tornavano ad affrontare i problemi che da lungo tempo si trascinavano. Come scrive Giuseppe Giarrizzo, la Sicilia in quel momento è «un paese di cui le gravi ferite della guerra e la disfatta militare hanno lacerato tessuti profondi, ponendo a nudo miserie antiche, facendo esplodere focolai infetti di violenza e disperazione, avvilendo la lotta di classe in un aspro confronto di rabbia e di paura».36 E proprio la rabbia e la paura erano i sentimenti più diffusi tra i siciliani. Rabbia e repulsione per quella guerra di cui nessuno comprendeva le ragioni e che aveva segnato così profondamente e inutilmente le esistenze.37 Paura per quello che sarebbe stato il futuro, per l’incertezza dei giorni avvenire segnati ancora da fame, miseria e stenti. I siciliani ancora per diversi mesi dovettero sperimentare sulla propria pelle le conseguenze di un sistema economico regionale andato per aria e che già prima della guerra versava in condizioni difficili. Era la piaga del sottosviluppo del Sud e nello specifico della Sicilia, la “questione meridionale” mai sopita. Il tessuto economico e produttivo siciliano era debole già prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. I vari settori di produzione isolani non avevano avuto quell’ammodernamento e quella diversificazione tanto invocati e promessi durante il ventennio fascista. L’agricoltura presentava ancora le caratteristiche di sempre: fortemente estensiva e soprattutto cerealicola, aveva il suo fulcro nelle grandi proprietà terriere da sempre in mano all’aristocrazia e ai nuovi proprietari che vivevano di rendita. Questa categoria sociale, successivamente denominata dagli storici “blocco agrario”, avrebbe 36

GIARRIZZO GIUSEPPE, Sicilia politica 1943-1945. La genesi dello statuto regionale in «Archivio Storico per la Sicilia Orientale», fasc. I-II, Catania 1970, p. 9. 37

CORRENTI SANTI, Storia di Sicilia come storia del popolo siciliano, Longanesi & C., Milano 1972, p. 266. Come rilevato da Correnti, studioso attento al lato socio-antropologico di ogni evento storico, i siciliani «non sentivano per nulla la guerra imposta dal fascismo, e imposta contro popoli tradizionalmente amici dei siciliani, l’Inghilterra e gli Stati Uniti: si ricordi che nell’isola corre un detto popolare che dice esplicitamente: ‘Ccu tutti fazzu guerra/ fora di l’Inghilterra’ […] mentre per quanto riguarda gli Stati Uniti basterà pensare ai milioni di immigrati siciliani nell’America del Nord e di loro discendenti, di cui molti facevano parte delle truppe da sbarco […]». 19


chiesto e ottenuto per sé un ruolo di primo piano nell’agone politico siciliano del secondo dopoguerra per il tramite del movimento separatista. Settore primario, sia di nome che di fatto per l’isola, l’agricoltura aveva sempre caratterizzato in maniera sostanziale non solo l’economia ma anche l’ordine sociale di questa regione. Quando si parla di agricoltura siciliana non si può evitare di far riferimento alla questione del latifondo. Sebbene qualche storico al giorno d’oggi tenda a minimizzare il problema, il vecchio sistema latifondistico fu sicuramente una delle cause di maggior arretratezza e povertà dell’economia isolana: molte terre in mano a pochi, e migliaia e migliaia di braccianti, costretti a ricavi miseri per lavorare la terra di altri. La Sicilia, all’indomani dell’occupazione-liberazione alleata, da questo punto di vista era ancora punto e a capo, e questo nonostante le politiche di frazionamento del latifondo e di bonifica portate avanti durante il regime fascista.38 Salvatore Nicolosi ci dà un ritratto del tipico latifondo siciliano: «senza acqua né luce, con una sola casa – anzi una villa, la villa del padrone – nel centro, abituri per i contadini, messi su alla buona con muri a secco, niente strade, scarso reddito per ettaro ma imponente profitto complessivo. […] Da un capo all’altro di quelle terre sterminate, bianche di polvere sotto il sole estivo, argillose e senza riparo quando pioveva, i contadini si spostavano a piedi o a dorso d’asino».39 Il sistema latifondistico siciliano superò in maniera sostanzialmente indenne il ventennio fascista e le opere di miglioramento delle colture programmate rimasero incomplete soprattutto a causa dell’entrata in guerra. In generale, le bonifiche riguardarono una superficie nettamente inferiore rispetto alla media nazionale mentre i provvedimenti messi in atto dal governo Mussolini, con l’obiettivo di creare una fascia di piccola e media proprietà, oltre ad essere fortemente osteggiati dal cosiddetto blocco agrario, furono mal visti dagli stessi contadini, spesso riluttanti a

38

Per una panoramica esaustiva sulla storia del fascismo in Sicilia: BAGLIO ANTONIO, Il partito nazionale fascista in Sicilia. Politica, organizzazione di massa e mito totalitario 1921- 1943, Lacaita editore, Manduria - Bari - Roma 2005.

39

NICOLOSI SALVATORE, Sicilia contro Italia. Il separatismo siciliano, cit., p. 78. È la descrizione del feudo dei Tasca Bordonaro, nella zona di Regaleali, al confine tra le province di Palermo e Caltanissetta. Sarà Lucio Tasca, esponente di spicco del ceto agrario isolano e autore dell’Elogio del latifondo siciliano, a ereditare quel feudo appartenuto alla sua famiglia. A pochi chilometri dalle terre dei Tasca Bordonaro si estendevano quelle di Calogero Vizzini, capomafia di Villalba (Cfr. par. 2 di questo capitolo).

20


trasferirsi nei nuovi insediamenti colonici previsti dalla legge all’interno di ogni grande latifondo. 40 Secondo Salvatore La Rosa «trascurabili possono ritenersi le trasformazioni fondiarie nel decennio 1936-1946. La legge del 1940 sulla “Colonizzazione del latifondo siciliano” che univa all’obbligo della trasformazione da parte dei privati la creazione della piccola proprietà coltivatrice nei terreni in possesso dell’Ente di Colonizzazione ebbe infatti limitati effetti in entrambe le direzioni. Chiave di volta del provvedimento era la creazione del “podere”; la legge disponeva la costruzione, nel giro di dieci anni, di ventimila case coloniche per poderi in media di 20 – 25 ettari e riguardanti un complesso di 400 – 500 mila ettari di latifondo. La soluzione adottata se non prevedeva l’espropriazione preventiva dei terreni, non lasciava neanche i privati liberi dell’attuazione della colonizzazione in quanto fissava ad essi forme e limiti della trasformazione. […] Errore della legge fu quello di imporre un unico sistema in un’economia varia come quella siciliana e senza tener conto delle concrete possibilità di formazione e vita della piccola azienda».41 Errori di valutazione e miopia che portarono a un nulla di fatto. Il conflitto mondiale, dal canto suo, non fece altro che azzerare i pochi risultati ottenuti da questa politica: «Se comunque nella fase iniziale del conflitto bellico s’era creato un certo risveglio nelle opere di bonifica in forza della legge di colonizzazione, in fase di guerra inoltrata s’era perduta quasi interamente la sua efficacia per le esiziali ripercussioni di questa su ogni forma di attività civile sostenuta dallo Stato. […] Tale rallentamento nell’attività bonificatoria ed il successivo totale arresto portarono a delle conseguenze gravissime per le opere già iniziate le quali, in dipendenza della mancata loro ultimazione subirono gravi deterioramenti sì da fare quasi completamente disperdere il lavoro compiuto».42 Nello stesso periodo la politica accentratrice del fascismo aveva messo in ginocchio il sistema cooperativistico siciliano.

40

LA ROSA SALVATORE, Trasformazioni fondiarie, cooperazione, patti agrari, in AA.VV. Storia della Sicilia, diretta da Rosario Romeo, vol. IX, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli – Palermo 1977, pp. 132- 133. L’attività di bonifica in Italia interessò in media i 2/3 circa della superficie totale. In Sicilia fu interessato solo il 29% delle terre. 41

Ibidem.

42

Ivi, p. 134.

21


L’agricoltura siciliana durante il regime non perse affatto il suo carattere estensivo, anzi, per diretta pressione del governo, sempre più indirizzato verso una politica economica di autarchia, questa caratteristica fu molto esasperata. Con l’obiettivo di aumentare la produzione nazionale di grano e di raggiungere la quota di autosufficienza, molte aree prima destinate ad altre coltivazioni e alla pastorizia, furono destinate alla cerealicoltura, accentuando sempre di più la funzione della “Sicilia - granaio d’Italia”. In realtà la produzione, a causa dei metodi arretrati e delle forzature che non tenevano conto dei normali cicli di riposo dei terreni, spesso risultava di bassa qualità. Ma la conseguenza di questa spinta verso la monocoltura fu soprattutto l’inevitabile impoverimento dell’offerta produttiva.43 La Sicilia avrebbe avuto bisogno di differenziare le proprie produzioni prediligendo in particolare quelle specializzate che rappresentavano un punto di forza nella bilancia delle esportazioni: una su tutte la produzione agrumicola. In cattive acque si trovava anche lo sparuto indotto industriale isolano: «L’obiettivo dell’autarchia condannava l’isola a una situazione di arretratezza. Tra le altre cose, portò all’esaurimento degli investimenti esteri, e ciò non poteva che danneggiare una regione in cui l’iniziativa straniera era così importante. L’industria siciliana rimase in gran parte allo stadio di artigianato su base familiare. Il numero totale di lavoratori occupati nell’industria [prima dello scoppio della guerra] era di poco meno superiore a quello di cinquant’anni prima, e l’aumento riguardava soprattutto il settore edilizio».44 Una trattazione a sé merita un settore importante per l’economia siciliana come l’industria zolfifera che rappresentava un forte indotto soprattutto per le province centromeridionali. Reduce da un periodo altalenante, tra momenti di crisi (tra le peggiori quella successiva al 1929) e improvvise congiunture favorevoli, l’industria zolfifera siciliana subì colpi durissimi con lo scoppio delle ostilità. La produzione, per la maggior parte destinata ai mercati esteri, nel 1944 raggiunse il minimo storico con 32.000 tonnellate contro le 247.000 del 1938, mentre il numero degli addetti che ancora nel 1942, in pieno conflitto, si aggirava intorno agli 11.000, nel 1944 scendeva a 4.800 unità.45 Un vero e proprio crollo 43

FINLEY MOSES I. – MACK SMITH DENIS – DUGGAN CHRISTOPHER J. H., Breve storia della Sicilia, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 316-317.

44

Ivi, p. 318.

45

GIURA VINCENZO, L’industria zolfifera siciliana nei secoli XIX e XX, in AA.VV. Storia della Sicilia, diretta da Rosario Romeo, vol. IX, Società editrice Storia di Napoli e della Sicilia, Napoli Palermo 1977, pp. 30-31. 22


occupazionale, specie per le province di Agrigento, Enna e Caltanissetta in cui la maggioranza della popolazione viveva direttamente o indirettamente grazie all’indotto generato dall’industria dello zolfo.46 Sulla stessa lunghezza d’onda viaggiavano gli altri comparti produttivi dell’industria siciliana. Il calo della produzione agricola e l’impoverimento dei redditi ebbe conseguenze pesantissime sulla vita di ogni siciliano che giorno dopo giorno doveva affrontare problemi essenziali come l’approvvigionamento del cibo, sempre più difficile specialmente nelle città. Già nei primi periodi della guerra, la politica fascista degli ammassi di generi di prima necessità come la farina aveva favorito la nascita del cosiddetto “mercato nero”. Anche dopo l’arrivo degli Alleati si continuerà a fare i conti con una difficile quanto problematica distribuzione dei viveri. Successivamente il metodo dell’ammasso continuerà a rappresentare una soluzione alla penuria di viveri con i cosiddetti “granai del popolo”, spesso al centro di polemiche e scontri tra le prime formazioni politiche sorte (o uscite allo scoperto) all’indomani dello sbarco alleato. «Il poco frumento trebbiato doveva essere consegnato all’ammasso obbligatorio – i “granai del popolo” – e l’amministrazione alleata garantì che i prezzi sarebbero stati remunerativi [per i produttori]. Non fu così. Il prezzo di mille e novecento lire stabilito rispettivamente per il grano duro e per il tenero fu giudicato “sensibilmente inferiore al costo di produzione, soprattutto per i piccoli produttori e per le categorie lavoratrici dei partitanti cointeressati alla produzione” […] La domanda superava di gran lunga l’offerta; l’offerta era razionata: la scontata, elementare, conseguenza fu il mercato nero».47 Al mercato ufficiale dai prezzi calmierati e dalle quantità disponibili sempre irrisorie, quindi, farà da contraltare quello che i siciliani presero a chiamare intrallazzo, un mercato nero ancora più rinvigorito rispetto al passato, sul quale si concentreranno i torbidi interessi di proprietari, mafiosi, commercianti e intermediari senza scrupoli. Sul fenomeno del contrabbando che tanto segnò la vita di ogni siciliano in quel periodo, esistono tanti aneddoti e racconti tra cui quello legato a Salvatore Giuliano. Nella comune vulgata, infatti, il battesimo al mondo del crimine e della clandestinità il bandito lo ebbe per colpa 46

Ibidem.

47

GALLUZZO LUCIO, Storia di Salvatore Giuliano, Flaccovio, Palermo 2007, pp. 27-28.

23


di un incidente di percorso con le forze dell’ordine avvenuto durante una normale “prassi” da intrallazzo.48 Nelle città e nei centri principali di tutta l’isola, in gran parte svuotati dopo lo sfollamento degli abitanti verso le zone periferiche e di campagna, la vita riprendeva lentamente tra i palazzi sventrati e le strade ingombre di macerie. In molti casi si verificarono nelle città vere e proprie crisi dovute, oltre che alla mancanza di viveri, anche alle difficili condizioni igienico-sanitarie, peraltro già molto critiche durante il conflitto, nei mesi dei bombardamenti quando in centinaia erano costretti a stiparsi in rifugi e ricoveri, ricavati alla buona. Dopo lo sbarco alleato, ancora per diversi mesi, la situazione rimarrà difficile, soprattutto per le fasce più deboli della popolazione. In quei tempi di difficoltà anche il mite inverno siciliano diventava letale per la povera gente: «nell’inverno del 1944 nella sola città di Palermo, diverse centinaia di persone morirono d’inedia e di freddo […] divenne spettacolo usuale, seppure inquietante, per gli insonnoliti spazzini, trovare all’alba un cadavere rattrappito contro un portone spietatamente sbarrato».49 Le condizioni di vita e di sussistenza molto precarie per la popolazione, specie nei grossi centri, diventeranno tra i principali motivi di disagio sociale che finirà per manifestarsi in tutta la sua forza e violenza negli anni successivi. Granai del popolo, prezzi calmierati e altri provvedimenti dell’amministrazione provvisoria alleata prima e, successivamente, di quella italiana non basteranno a ristabilire una situazione di pace sociale tra la popolazione e il malessere sfocerà in focose proteste e incidenti che costeranno la vita a diversi innocenti e getteranno brutte ombre sui “nuovi” politici e amministratori dell’Italia post-fascista e democratica. 48

Ivi, pp. 33-36. Salvatore Giuliano, bandito, soprannominato “il re di Montelepre”, il 2 settembre del 1943, nei pressi di S. Giuseppe Jato, durante un trasporto clandestino di grano, incappò in un controllo dei carabinieri. Giuliano si vide sequestrato il cavallo con la preziosa mercanzia ma tentò ugualmente la fuga. Ne nacque uno scontro a fuoco e un carabiniere morì sotto i colpi del futuro bandito. È l’inizio della carriera criminale del tutto particolare di Turiddu Giuliano, personaggio tra i più discussi e controversi della storia italiana. Sulla vita di Giuliano: NICOLOSI SALVATORE, Il bandito Giuliano, Longanesi, Milano 1977; GIULIANO M. – SCIORTINO GIULIANO G., Mio fratello Salvatore Giuliano, Montelepre 1987; HOBSBAWM E. J., I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino 1980 (I ediz. italiana 1966); BARRESE O. – D’AGOSTINO G., La guerra dei sette anni. Dossier sul bandito Giuliano, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997.

49

Ivi, p. 27.

24


I.4 L’Amgot e l’«indirect rûle» Conquistata la Sicilia per gli Alleati si pose il problema di amministrare questo vasto territorio, così complesso e intricato, non solo dal punto di vista geografico ma anche sociale. Si trattava in assoluto della prima grande regione europea, parte integrante di una nazione dell’Asse fino ad allora e ancora per qualche tempo belligerante, a cadere in mano delle forze anglo-americane. E gli Alleati misero in atto i provvedimenti più utili, a parer loro, a mantenere la Sicilia in una situazione di calma e stabilità: presupposti fondamentali, questi, per le forze statunitensi e inglesi che presto avrebbero dovuto affrontare sforzi bellici ben più pesanti e costosi e per i quali era necessaria una sicurezza nelle retrovie. La Sicilia in quel momento era proprio una retrovia. Gli Alleati decisero di amministrare l’isola per mezzo di un vasto apparato di funzionari e ufficiali civili delle due armate, americana e inglese, che prese il nome di AMGOT, Allied Military Government of Occupied Territory (trad. Governo Militare Alleato del Territorio Occupato): in poche parole, un’amministrazione militare provvisoria con competenza estesa a tutto il territorio occupato ovvero la Sicilia, isole minori comprese.50 L’AMGOT dipendeva direttamente dal quartiere generale alleato per il Mediterraneo e aveva al suo vertice il generale inglese Alexander che in qualità di comandante delle forze d’occupazione divenne anche governatore del territorio occupato. A capo dell’amministrazione civile era il maggiore generale inglese lord Rennell of Rodd. Al suo fianco due ufficiali: per l’VIII armata britannica il commodoro Benson, per la VII armata americana il colonnello Poletti, entrambi erano a capo degli affari civili nelle rispettive armate. L’AMGOT aveva il compito di occuparsi di tutte quelle faccende che riguardavano l’amministrazione civile evitando quindi di far gravare queste funzioni sul regolare apparato militare anglo-americano. In buona sostanza, l’amministrazione provvisoria doveva garantire la sicurezza nelle retrovie, mantenere l’ordine pubblico con vere e proprie azioni di polizia e inoltre preoccuparsi di ristabilire i servizi essenziali e gli approvvigionamenti per la popolazione locale.51 L’AMGOT era una struttura ben 50

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., pp. 486-487.

51

Ibidem.

25


articolata: a livello centrale era dotata inizialmente di 6 divisioni amministrative, successivamente diventate 12 (legale, finanziaria, annonaria, sanitaria, di pubblica sicurezza, delle proprietà del nemico, dell’istruzione, del lavoro, della sicurezza interna, della tutela dei monumenti, della tutela artistica e archivistica, delle pubbliche relazioni).52 Veri e propri uffici specializzati, questi, diretti da ufficiali e dotati di personale, esclusivamente militare, che potremmo benissimo accomunare agli odierni Assessorati regionali visto anche il rapporto con lo stesso territorio. L’amministrazione provvisoria fu, di fatto, una problematica inedita per gli Alleati e fin dai tempi della conferenza di Casablanca i vertici militari statunitensi e inglesi avevano programmato il da farsi. «La Sicilia – scrive Francesco Renda – a differenza dell’Algeria, della Tunisia, della Libia o dell’Abissinia, già occupate dagli inglesi da soli o con gli americani, non era una colonia, bensì territorio italiano metropolitano. La sua amministrazione andava quindi finalizzata al conseguimento degli obiettivi generali dell’operazione di sbarco, cioè al crollo militare e politico dell’Italia, al suo distacco dalla Germania e alla sua richiesta di una pace separata. […] Dopo uno scambio di divergenti opinioni (gli inglesi aspiravano ad avere una posizione di Senior Partner [di preminenza] in considerazione dei loro interessi strategici nel Mediterraneo, gli americani opponevano che in Sicilia gli Stati Uniti erano più ben visti e popolari della Gran Bretagna ed era perciò consequenziale che fossero loro ad avere la preminenza), fu scelta la formula di Eisenhower del governo militare composto alla pari da inglesi e americani».53 Ovviamente le due componenti della forza di occupazione, quella americana e quella inglese, agivano ognuna nella rispettiva zona di competenza: gli americani nella Sicilia occidentale, gli inglesi in quella orientale. Altro problema nato sul campo riguardava interamente l’amministrazione del territorio in rapporto al metodo e al personale da impiegare: in poche parole, se il governo militare alleato dovesse esercitare il potere direttamente o indirettamente. Esistono due termini inglesi per riassumere queste due prassi di governo messe in atto dagli inglesi anche in altri territori: direct rule e indirect rule.54

52

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 35.

53

Ivi, p. 29.

54

Ibidem.

26


Il primo caso prevedeva una gestione diretta del potere da parte degli Alleati da attuarsi solo ed esclusivamente con propri funzionari e in sostituzione di qualsiasi altra amministrazione italiana. L’indirect rule, invece prevedeva un impegno degli Alleati fino a un certo livello – direttivo e di responsabilità generale – mentre l’apparato statale e municipale già presente nell’isola avrebbe continuato a svolgere la propria funzione. I comandi anglo-americani su precise direttive dei rispettivi governi optarono proprio per quest’ultima forma di esercizio del potere. Una scelta mirata a favorire il mantenimento di uno status di ordine per mezzo di quelle figure amministrative e istituzionali che fino ad allora avevano regolato la vita dell’isola e che ora evidentemente servivano da elemento di cerniera tra la popolazione locale e le forze d’occupazione. La decisione di appoggiarsi sulle strutture amministrative italiane comporto però un interrogativo: quale atteggiamento adottare con i funzionari pubblici italiani “compromessi” con il regime fascista? Era ovvio che in questa descrizione poteva essere compresa la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici e dei funzionari siciliani, in ogni ambito e livello, che durante il regime volente o nolente avevano dovuto dimostrare la propria fedeltà e adesione al fascismo. In questo caso l’amministrazione militare anglo-americana avrebbe dovuto rimuovere più del 90% dei funzionari italiani. L’AMGOT, su precise direttive dei governi americano e inglese, operò quindi una distinzione tra chi di fatto ricoprì ruoli di rilievo a livello politico e amministrativo durante il fascismo e il resto dei funzionari. Questa una delle direttive diramate in proposito dal Dipartimento di Stato americano: «Sulla base della resa senza condizioni55 l’intera direzione (gerarchia) del partito [il PNF, Partito nazionale fascista] dai segretari locali al vertice dovrebbero essere allontanati da qualunque posto di governo. I servizi dell’amministrazione locale, a livello dei tecnici e dei professionisti, anche se nominalmente membri del partito, possono essere mantenuti, e i gradi più bassi dell’amministrazione politica esistente (esecutiva, giudiziaria, della polizia, 55

Il riferimento è all’armistizio di Cassibile (Siracusa) ovvero alla resa senza condizioni dell’Italia siglata segretamente il 3 settembre 1943 dal generale Castellano per conto del capo del governo italiano Badoglio e dal generale Bedell Smith per il Comdando supremo delle forze alleate. Con quella firma l’Italia ruppe l’alleanza con la Germania e si ritirò dal conflitto. La notizia della firma dell’armistizio fu data l’8 settembre tra l’incredulità della gente e delle divisioni italiane rimaste allo sbaraglio e senza precise direttive. Subito dopo l’ufficializzazione della resa, il re Vittorio Emanuele III, con i suoi più stretti collaboratori (il capo del governo Pietro Badoglio e soli due ministri), lasciò Roma, ormai in mano ai tedeschi che di fatto erano diventati forza d’occupazione. La discussa fuga verso il sud ebbe come meta Brindisi. Qui s’insediò il cosiddetto “governo di Brindisi” sotto la protezione degli Alleati. 27


del fisco e della sanità) possono continuare l’esercizio delle loro normali funzioni. In generale tutti i prefetti, benché la loro carica sia soprattutto amministrativa, dovrebbero essere dimessi, e i loro posti occupati da ufficiali delle forze di occupazione. D’altra parte le autorità municipali (sindaci e capi di polizia, magistrati locali ecc.) avranno il permesso di continuare ad esercitare le loro funzioni».56 Così il personale italiano da rimuovere e con il quale l’AMGOT non avrebbe dovuto intrattenere alcun rapporto di collaborazione fu incluso in una lista nera composta in maggioranza da soggetti giudicati “fascisti pericolosi” e quindi destinati all’arresto e all’allontanamento dalla Sicilia. In tutto nella lista nera finirono qualche migliaio di persone destinate all’esonero dalle funzioni pubbliche e, nella peggiore delle ipotesi, alla deportazione in Nord Africa. In generale, quindi, gli Alleati non calcarono la mano sulla classe dirigente e impiegatizia siciliana riconoscendo che un’epurazione totale dalle amministrazioni locali e periferiche sarebbe stata un preciso segnale di ostilità nei confronti della maggioranza dei siciliani, i quali il fascismo lo avevano subìto e vi avevano aderito più per necessità (o convenienza) che per sincera convinzione. Le direttive furono applicate per quel che riguardava i prefetti delle province siciliane che, a eccezione di quelli di Agrigento ed Enna, furono subito rimossi. Al loro posto in via provvisoria sedettero i viceprefetti, sempre sotto il controllo degli ufficiali dell’AMGOT; successivamente le decisioni sulle nuove nomine prefettizie furono avocate direttamente dai governi di Londra e Washington.57 Sulla nomina delle amministrazioni provinciali e comunali, invece, la competenza fu assegnata direttamente ai diversi ufficiali dell’AMGOT, gli addetti ai Civil Affairs, successivamente chiamati Civil Affairs Officers (Cao), che attraversarono in lungo e in largo tutta l’isola arrivando fin nei comuni più piccoli e lontani per insediare quelli che sarebbero diventati i nuovi sindaci e le nuove giunte. È questo uno dei capitoli più controversi e discussi dell’occupazione militare alleata e che si riallaccia alla questione del pactum sceleris e ai presunti rapporti tra Alleati e

56

Ivi, p. 30. Renda cita questo Memorandum del Dipartimento di Stato americano da AGA-ROSSI ELENA, La politica degli Alleati verso l’Italia in DE FELICE RENZO (a cura di), L’Italia fra Tedeschi e Alleati, Il Mulino, Bologna 1973. 57

Ivi, p. 31.

28


ambienti mafiosi siciliani che si sarebbero sviluppati prima e dopo l’operazione Husky.58 Di fatto ai Cao alleati, per lo stesso principio del self-government, fu data larga autonomia di scelta dall’AMGOT riguardo alla nomina degli amministratori locali nelle varie realtà dell’isola.59 D’altronde era la stessa prassi dell’indirect rule a presupporre un coinvolgimento

diretto

di

soggetti

locali

nelle

amministrazioni.

Il

capo

dell’amministrazione civile, l’inglese Rennell of Rodd, nello studiare le vie percorribili per l’amministrazione provvisoria della Sicilia, tenne sicuramente conto dell’esperienza britannica nelle colonie dell’Africa tropicale dove ai capi nativi venivano affidate le responsabilità amministrative evitando di «immettere elementi di modernità attraverso l’istituzione di una burocrazia europeizzata ed estranea alla società tribale. In Sicilia sarebbero state le èlites agrarie, radicate in una società supposta integralmente rurale, depositarie di un potere tradizionale che si poneva al di sopra delle congiunture politiche, a garantire il passaggio dal fascismo ad un’amministrazione non fascista; e tramite la classe dominante locale sarebbe stato raggiunto l’obiettivo più ambizioso di stabilire un collegamento con la corona e la classe dominante su scala nazionale».60 Vi furono grandi differenze di visione tra gli americani e gli inglesi riguardo alla gestione dei numerosi Civil Affairs Officers e vi furono differenziazioni nel metodo usato per individuare le persone adatte a ricoprire il ruolo di amministratori, soprattutto tra le realtà cittadine e i piccoli paesi. Mentre nelle grandi città la nomina del sindaco (major) e degli altri amministratori comunali avveniva dopo una lunga serie di consultazioni e “indagini” sul territorio che coinvolgevano gli apparati dell’AMGOT ad alti livelli, su scala provinciale e strettamente locale le nomine avvenivano con molta più celerità e senza che i vari Cao si rendessero bene conto di chi stavano mettendo alla guida dei vari paesi. Spesso per la nomina nei piccoli centri si seguirono modelli di comportamento preimpostati e consigliati dagli stessi comandi alleati. In ogni paese il Cao, prima di procedere alla nomina del sindaco, consultava il parroco, i vari notabili del luogo, il maestro di 58

Vedi par. 2 di questo capitolo.

59

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., p. 486.

60

Ivi, p. 489 (compresa la nota 11). Suscitano perplessità, in proposito, le varie considerazioni storiche e antropologiche che a più riprese furono riportate nelle relazioni, nelle guide e nei memorandum britannici – come il Sicily Zone Handbook del maggio 1943 curato dal Foreign Office – destinati agli ufficiali e agli stessi soldati e nei quali la società siciliana veniva spesso dipinta come semiprimitiva, dominata dalla locale classe aristocratica e composta da un complesso miscuglio razziale, figlio delle varie traversie storiche dell’isola. 29


scuola, il medico e ogni altra persona che potesse rappresentare un’autorità de facto in quel posto. Tuttavia, certe nomine non furono tra le più “felici” e non pochi furono i paesi dove sulla poltrona di sindaco si sedette un boss mafioso o un suo gregario. Caso esemplare, la già citata Villalba dove Calogero Vizzini, capomafia locale, oggi considerato addirittura il numero uno della mafia di allora61, divenne primo cittadino con l’approvazione di tutta la comunità e del clero locale. La storiografia e soprattutto la pubblicistica si è più volte soffermata sul caso della nomina a sindaco di don Calò Vizzini dando conto dei tanti aneddoti legati al giorno del’insediamento del capomafia nel municipio di Villalba.62 Durante il periodo d’occupazione circa metà dei podestà siciliani furono sostituiti mentre i rimanenti, secondo Rennell of Rodd, non erano mai stati membri del PNF. Da mettere in conto anche la ristrettezza numerica della classe politico-amministrativa isolana che, secondo lo stesso Rennell, aveva ridotto la possibilità di scelta per i Cao nell’operare le sostituzioni necessarie nelle amministrazioni locali. Il capo dell’AMGOT era perfettamente a conoscenza del fatto che le nuove nomine spesso riguardavano boss mafiosi o comunque personaggi vicini agli ambienti della criminalità organizzata. «Secondo Rennell, non era tanto alla leggerezza degli ufficiali alleati che poteva essere imputato un simile stato di cose, quanto alla vischiosità della società arretrata… ».63 Inoltre «la scarsa informazione, l’urgenza di provvedere alla normalizzazione amministrativa dei paesi, l’entusiasmo della popolazione per l’avvenuta liberazione, avrebbero secondo Rennell, indotto molti Cao a non guardare per il sottile quando si trattava di scegliere un sindaco: “Con la gente che chiedeva a gran voce di essere liberata da un podestà fascista, molti dei miei funzionari cadevano nel tranello di scegliere il propagandista di se stesso che più si metteva in mostra […]. In più di un’occasione la scelta cadde sul boss della mafia locale o sul suo braccio destro, che in alcuni casi si era perfezionato in un ambiente mafioso americano”».64 61

Cfr. par. 2 di questo capitolo.

62

MARINO GIUSEPPE CARLO, Storia del separatismo siciliano, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 30, alla nota 35. Vizzini in una “memoria” sui fatti di Villalba (conservata nei documenti del Fondo Andrea Finocchiaro Aprile, più volte oggetto degli studi di Giuseppe Carlo Marino), da lui personalmente dettata, racconta l’episodio della sua “elezione” con toni trionfalistici presentandolo come frutto della volontà popolare avallata dagli Alleati.

63

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., p. 495.

64

Ivi, p. 498. 30


L’AMGOT dal canto suo aveva elaborato alcune precise direttive «intese ad evitare che sul posto sorgessero fazioni e contrasti suscettibili di creare problemi di qualunque natura alle forze di occupazione, ovvero, peggio ancora, di avere ripercussioni sfavorevoli sulla opinione pubblica inglese e americana»65. Per questo motivo furono date delle indicazioni concrete e addirittura in alcuni manuali e guide destinati agli ufficiali alleati furono allegate liste molto esaustive con i nomi «dei personaggi più in vista della Sicilia e dei vari funzionari dislocati nelle varie località sui quali gli ufficiali dell’AMGOT avrebbero potuto sicuramente contare».66 Esistevano diverse versioni di questi elenchi di nominativi. Vi era un versione riservata, indirizzata solo agli ufficiali di un certo livello, in cui figuravano nomi della più alta aristocrazia siciliana e del ceto dirigente. Ogni nominativo era corredato da un brevissimo profilo biografico in cui venivano sottolineate qualità, come la “tendenza antifascista” o l’atteggiamento filo britannico, che rendevano i vari personaggi graditi agli occhi degli Alleati e per questo ritenuti utili alla causa degli anglo-americani. Nella lista erano inclusi i nomi dei Trabìa e dei Bordonaro, il duca di Cesarò, indicato come personaggio politico di rilievo e «apertamente antifascista», Vincenzo Florio, riconosciuto come importante uomo d’affari dai sentimenti filobritannici e antifascisti. Nella lista era compreso anche il nome di un capomafia, riconosciuto come tale: Vito La Mantia.67 Gli Alleati lo inclusero nell’elenco non solo a titolo informativo ma anche come possibile “collaboratore” in virtù del suo palese antifascismo. Questo insieme ad altri fatti testimonia come, al di là di teorie del complotto tra mafia e ambienti angloamericani di cui non si hanno testimonianze certe e attendibili, per gli Alleati il fine giustificava ogni mezzo. Per tutti gli ufficiali addetti agli affari civili era stato predisposto, invece, un altro elenco, un Who’s who «comprendente 180 nomi, per lo più di alti funzionari amministrativi dell’isola, vescovi, professori universitari e giornalisti, unito ad una completa mappa degli amministratori di tutti i comuni della Sicilia, aggiornata al 1939;

65

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 31.

66

Ibidem.

67

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., pp. 489-491.

31


strumenti utili per ricomporre gli organici dell’amministrazione in breve tempo. Del tutto assente in questo caso ogni riferimento a esponenti antifascisti».68 Aspetto interessante dell’intera vicenda storica dell’occupazione militare della Sicilia è anche l’atteggiamento di rispetto e collaborazione che gli Alleati ebbero con la Chiesa cattolica. Renda nella sua Storia della Sicilia ci dà uno spaccato molto esaustivo dello status dei rapporti tra Alleati e apparato ecclesiastico siciliano: «Il comportamento verso il clero nei territori occupati, oltre che problema locale, era anche e soprattutto materia che afferiva alle relazioni col Vaticano. Assicurazioni erano state fornite dalla Santa Sede circa il rispetto da parte alleata della neutralità della Chiesa così come della libertà religiosa. Le direttive sulla linea da seguire da parte degli ufficiali addetti agli affari civili furono perciò estremamente accurate e vincolanti. […] Il sottosegretario di stato al Foreign Office, Orme G. Sargent, dopo aver premesso che la Chiesa cattolica aveva un’influenza decisiva nella vita italiana, e dopo aver fatto notare che le relazioni inglesi col Vaticano erano amichevoli, raccomandava, a sua volta al generale Rennell, prima che questi partisse per Algeri, onde assumervi il comando dell’AMGOT: “È pertanto auspicabile che nelle sue trattative con le autorità ecclesiastiche in Husky l’amministrazione eviti qualunque azione che possa essere interpretata come ispirata da rancori anticattolici”».69 Renda riporta inoltre questa affermazione dello stesso capo dell’AMGOT: «Le gerarchie della Chiesa cattolica romana – dichiara Rennell of Rodd – sono state prontissime a cooperare ed è facile avere rapporti con esse. Il cardinale arcivescovo di Palermo soprattutto attraverso il suo segretario ha dato un contributo straordinario di consigli e di informazioni».70 La Chiesa dal canto suo non esitò a contraccambiare facendo del suo meglio per accreditare tra i fedeli la figura di “liberatori” degli Alleati: «Le autorità ecclesiastiche fecero del loro meglio per assicurare la tranquillità e l’obbedienza del popolo. Le loro prediche dal pulpito furono sempre di esortazione al rispetto degli ordini del governo militare alleato. Il vescovo di Agrigento, Peruzzo, fu così zelante che persino sottomise all’approvazione alleata la bozza di stampa di un suo indirizzo ai fedeli da leggere durante 68

Ibidem.

69

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 31.

70

Ibidem.

32


la messa il giorno festivo. Il generale Alexander [governatore militare della Sicilia] si recò a rendere omaggio in visita ufficiale al cardinale di Palermo, Lavitrano. Nelle singole province, i vescovi furono le autorità locali più consultate dai Civil Affairs Officers. […] I risultati furono quindi da una parte e dall’altra di vivissima soddisfazione». 71 Ovviamente questa reciproca apertura e disponibilità tra Chiesa e Alleati fu dettata da precisi motivi di convenienza. Gli anglo-americani avevano tutto l’interesse al mantenimento dell’ordine e all’acquisizione del consenso tra la popolazione locale. Le gerarchie cattoliche per la prima volta dopo anni di rapporti ingessati (solo dopo i Patti Lateranensi del 1929) trovavano negli Alleati un nuovo interlocutore disponibile ad accordare alla Chiesa nuovi spazi e nuove aree d’influenza nella vita pubblica siciliana. Significativa la vicenda di monsignor Angelo Paino, arcivescovo di Messina, subito sottoposto alla misura degli arresti domiciliari dagli Alleati. Si tratta dell’unico caso in Sicilia di un ecclesiastico d’alto livello guardato con sospetto dai comandi angloamericani72: a pesare sulla figura del monsignore era stato il suo grande rapporto d’amicizia con Mussolini che negli anni ’30 era valso molto a Paino per ottenere risorse finanziarie a favore della città di Messina.73 L’alto prelato evidentemente, nonostante la sua buonafede nei rapporti con il fascismo, in quei primi momenti agli occhi dell’AMGOT risultò troppo compromesso con il regime. 71

Ibidem.

72

PRACANICA GIUSEPPE - BOLIGNANI GIOVANNI, Sicilia, Italia. 1943 e dintorni tra cronaca e storia, cit., p. 178. 73

BOTTARI SALVATORE, Un difficile dopoguerra. La parabola dell’indipendentismo a Messina (1943-1947), Daf Associazione Culturale, Messina 2007, p. 23. Angelo Paino fu amico di Mussolini ma non fu mai asservito al regime. Tanti i benefici che ottenne dal governo di Roma in favore della sua Messina, specialmente per la ricostruzione del porto, dell’università, della cattedrale e di diverse chiese, in quella città che ancora negli anni ’30 doveva pienamente risollevarsi dalle macerie del terremoto del 1908. Per questo motivo Paino si guadagnò l’appellativo di “Arcivescovo ricostruttore” e “muratore di Cristo”. Sul tema dei rapporti tra la curia messinese e il governo fascista: SINDONI ANGELO, Paino Angelo in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, diretto da Francesco Traniello e Giorgio Campanini, vol. III/2, M-Z, Le figure rappresentative, Marietti, Casale Monferrato 1984, p. 619; CICALA ANTONIO, Cattolici e fascismo a Messina (1919-1940) in BATTAGLIA ROSARIO, D’ANGELO MICHELA, FEDELE SANTI (a cura di), Messina negli anni Venti e Trenta. Una città meridionale tra stagnazione e fermenti culturali, vol. I, Sicania, Messina 1997, p. 153; BAGLIO ANTONIO, Il partito nazionale fascista in Sicilia. Politica, organizzazione di massa e mito totalitario 19211943, cit.

33


Considerato a parte il caso dell’arcivescovo della città dello Stretto, il clero siciliano, in generale, si dimostrò solerte nel difendere la causa anglo-americana e al tempo stesso operò un ruolo di riconciliazione tra i vari strati sociali. Governo militare alleato e Chiesa erano i due poteri, in quel momento, presenti sul territorio e per questo motivo fu intenzione di entrambi mantenere “rapporti di buon vicinato”. Le posizioni delle gerarchie ecclesiastiche furono sempre tenute in grande considerazione dagli ufficiali anglo-americani e la maggioranza delle nomine a sindaco o altro amministratore a livello locale e provinciale avvenivano dietro precisa segnalazione da parte delle varie curie. È ormai assodato che dietro la nomina di Vizzini a sindaco di Villalba vi furono precisi indirizzi da parte del clero nisseno e degli ambienti economici vicini all’organizzazione delle Casse rurali cattoliche: lo stesso capomafia annoverava nella propria famiglia tre fratelli che vestivano gli abiti sacerdotali, tra questi, il maggiore, Giuseppe Maria Vizzini, divenne vescovo di Noto.74 L’influenza della chiesa in questo tipo di scelte fu molto rilevante soprattutto nella zona centro-orientale dell’isola. Nel contesto di incertezza e indeterminatezza che continuava a regnare anche dopo la nascita dell’AMGOT si verificarono diversi casi di conduzione palesemente illegale dell’amministrazione di alcuni comuni75 come pure in diversi centri, specialmente in quelli più piccoli, lotte interne portarono a continue destituzioni e nomine di sindaci. La vastità della regione e l’esistenza di tante piccole realtà spesso sperdute nell’entroterra, rendeva difficile il compito di amministrare e controllare il territorio agli ufficiali addetti agli affari civili del governo militare alleato. Nelle grandi città il compito di nominare nuovi amministratori e sorvegliarne l’operato fu atteso certamente con molto più impegno e metodo. Nei capoluoghi, dove già dall’inizio dell’operazione Husky le prime formazioni politiche avevano cominciato a mobilitarsi e riorganizzarsi, l’AMGOT sondò bene il terreno prima di pronunciarsi in favore dell’uno o dell’altro personaggio da promuovere a qualsiasi carica amministrativa. 74

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., pp. 497-498. (Per un’interessante biografia di Calogero Vizzini: CARUSO ALFIO, I siciliani, Neri Pozza Editore, Vicenza 2012, pp. 159-168). 75

Caso emblematico quello di Canicattì dove il sindaco di nomina alleata Giovanni Guarino Amella, ex deputato demosociale, rifornì illegalmente la sua città di grano; Guarino-Amella fu successivamente denunciato per questo atto ma le associazioni cittadine presero le sue difese. Cfr. Ivi, pp. 501-502. 34


Sia gli americani che gli inglesi nutrivano una certa diffidenza nei confronti dell’establishment cittadino e in particolare dei notabili che dietro le immediate offerte di collaborazione avanzate all’AMGOT, inevitabilmente, nascondevano aspirazioni personali e velleità politiche. «Diversa e tutta negativa – scrive Rosario Mangiameli – è la percezione che gli americani hanno del ruolo dei notabili nelle grandi città, dove il carattere di mediazione politica appare più evidente. Le offerte di collaborazione degli esponenti antifascisti vengono rifiutate… […]

La sfiducia nutrita dagli inglesi nei

confronti delle forze politiche era altrettanto grande di quella mostrata dagli americani; la costante preoccupazione britannica infatti era di impedire una radicalizzazione della situazione politica e sociale italiana, per vent’anni congelata dal fascismo. Nelle regioni meridionali, e in particolare in Sicilia, la struttura tradizionale della società dava maggiori garanzie di compattezza e faceva supporre che l’aiuto delle classi dominanti sarebbe stato sufficiente a garantire il successo dell’AMGOT, contribuendo a mantenere il controllo dell’apparato statale e a stabilire collegamenti con le classi dominanti su scala nazionale».76 A Catania gli ufficiali inglesi dell’AMGOT misero in pratica i loro indirizzi in fatto di amministrazione del territorio promuovendo uno degli esponenti di spicco del ceto ottimatizio etneo alla carica di sindaco della città. In realtà per il marchese Antonino Paternò Castello di San Giuliano non si trattò di una nuova nomina ma di una riconferma. Il marchese infatti era già podestà prima dello sbarco alleato e gli inglesi vollero lasciarlo al suo posto, in aperta contraddizione rispetto alle direttive sulla sostituzione delle più importanti cariche politiche, in virtù anche di rapporti di amicizia e di stima intercorsi tra la famiglia Paternò Castello e alcuni esponenti della migliore aristocrazia inglese in quel momento inquadrati nelle file dell’AMGOT.77 Secondo Mangiameli gli inglesi condussero questo loro esperimento di «restaurazione aristocratica» al riparo dalle interferenze americane poiché a Catania vi era una situazione di relativa tranquillità rispetto a Palermo e non esistevano ancora forze politiche organizzate capaci di far sentire la propria voce e di condizionare l’ambiente e 76

Ivi, p. 502.

77

Ivi, p. 503. (Cfr. anche PATERNÒ CASTELLO DI CÁRCACI FRANCESCO, Il movimento per l’indipendenza della Sicilia – Memorie del duca di Cárcaci, S. F. Flaccovio editore, Palermo 1977). 35


l’opinione pubblica etnea.78 In realtà la situazione si rivelò molto più complicata a Catania così come in tutte le altre città siciliane. La nomina del marchese di San Giuliano provocò la protesta di molte aree politiche, in primis i separatisti di Finocchiaro Aprile, che vedevano nell’ex podestà riconfermato primo cittadino il tentativo di una restaurazione del regime fascista. Successivamente le cose cambiarono all’ombra dell’Etna e intorno alla figura di Paternò Castello si raccolse tutta l’aristocrazia catanese, con in testa di Càrcaci e i Cosentino di Rondè, oltre alle gerarchie ecclesiastiche già al lavoro per la ricostituzione di un movimento politico di stampo moderato e cattolico. A Palermo, la principale città isolana, la situazione politica è molto più articolata. Le vicende isolane vengono viste e interpretate dall’opinione pubblica inglese e americana attraverso gli avvenimenti che caratterizzano la vita pubblica palermitana. Anche qui l’AMGOT dimostra di muoversi con circospezione prediligendo personaggi lontani dalle ombre del passato fascista ed esponenti di primo piano dell’aristocrazia locale, salvo poi rendersi conto della forte coloritura politica che alcuni di questi personaggi assumeranno. Il 10 settembre del 1943 l’ex parlamentare prefascista Francesco Musotto viene nominato prefetto di Palermo: con lui si apre la stagione dei “prefetti politici” nominati dagli Alleati. Nella nuova visione dell’AMGOT il prefetto non ha più la funzione di rappresentare sul territorio l’autorità dello Stato ancora peraltro assente (la giurisdizione sulla Sicilia passerà nuovamente al Governo italiano solo nel febbraio del 1944), piuttosto ha il compito di rappresentare le esigenze della popolazione locale e attendere direttamente all’amministrazione della provincia insieme agli altri organi locali, sindaci, giunte comunali, amministrazioni provinciali. Alla nomina di Musotto seguono quelle degli altri prefetti: Antonino Pancamo ad Agrigento, il socialista Giovanni Cartia a Ragusa, Antonio Fazio a Catania, Ferruccio Bruno a Enna, Paolo D’Antoni a Trapani, Arcangelo Cammarata a Caltanissetta, Antonio Stancanelli a Messina e Luigi Stella a Siracusa.79 Il 27 settembre alla guida del comune di Palermo s’insedia Lucio Tasca Bordonaro, primo tra gli esponenti del ceto agrario siciliano e del movimento separatista. Con questa nuova nomina, pregna di significati, gli ufficiali degli affari civili alleati dimostrano di non 78

Ibidem.

79

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 36.

36


sapersi distaccare dal modello che vedeva l’aristocrazia come interlocutore principale dell’AMGOT nell’amministrazione del territorio. Nonostante la diffidenza iniziale degli Alleati nei confronti di chi si schierava politicamente (in quel momento vigeva il divieto assoluto di attività politica), il credo separatista di Lucio Tasca fu interpretato in chiave antifascista dagli ufficiali angloamericani e divenne garanzia per un buon governo della città. «Palermo – scrive Mangiameli – così divenne la prima città “democraticamente” amministrata, tanto che al nuovo sindaco si affiancò una giunta composta da rappresentanti di diverse correnti antifasciste: indipendentisti come Filippo Sanfilippo, Giuseppe Pollina, Antonino Varvaro, Fabrizio Alliata di Pietratagliata; fiancheggiatori, per lo più collocati a sinistra, come Rocco Gullo e Guido Napoli; inoltre gli azionisti Nicolò Maggio e Antonino Ramirez e un importante esponente del cattolicesimo politico, Bernardo Mattarella».80 Dopo l’armistizio di Cassibile del 3 settembre 1943, mutata la situazione militare e politica italiana, l’AMGOT corresse il tiro riguardo alla gestione e all’amministrazione del territorio siciliano. Francesco Renda parla addirittura di una vera a propria “seconda fase” del governo militare alleato. «Dal punto di vista politico generale, – scrive Renda – il primo segno del mutato indirizzo fu il trasferimento del quartier generale dell’AMGOT da Siracusa a Palermo. La scelta dell’ex capitale a sede ufficiale del governo militare alleato probabilmente fu l’atto più carico di conseguenze dell’occupazione anglo-americana. Fu come spostare le lancette dell’orologio, portando la misurazione del tempo politico della Sicilia su un fuso orario diverso da quello degli ultimi ottanta anni. La decisione alleata comportò una rivalutazione del ruolo siciliano e nazionale della più grande città dell’isola, ma implicò, nello stesso tempo, una riaggregazione della vita amministrativa e politica attorno alla posizione egemone della Sicilia occidentale e dei suoi gruppi dirigenti».81 In questa fase furono impartite nuove direttive per restaurare le antiche cariche dell’amministrazione locale con le nomine effettuabili solo dai prefetti sotto il controllo dell’AMGOT: erano i primi preparativi per il passaggio della Sicilia all’amministrazione italiana, evenienza che giorno dopo giorno diventava sempre più possibile. 80

MANGIAMELI ROSARIO, La regione in guerra (1943-50), cit., p. 504.

81

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 35.

37


Di fatto il ritorno all’amministrazione italiana della Sicilia e delle isole minori dipendenti – tranne Pantelleria, Lampedusa e Linosa rimaste sotto la giurisdizione del governo militare alleato – avvenne l’11 febbraio 1944. Secondo Renda, «a rappresentare quel nuovo corso dell’amministrazione militare alleata, tuttavia più che il generale inglese Alexander, governatore della Sicilia, e il maggiore generale Rennell of Rodd, capo dell’AMGOT, fu il tenente colonnello americano Charles Poletti, prima addetto ai Civil Affair di Palermo, poi dal 26 ottobre [1943] divenuto Chief Civil Affairs of Region I – Sicily […]. Il Poletti nonostante la posizione subordinata nell’ordine delle maggiori gerarchie militari, si rivelò e si impose come la più eminente figura politica dell’Allied Military Government of Occupied Territory».82 Grazie al suo ruolo ebbe sotto controllo l’intera situazione amministrativa e politica dell’isola e fu compito suo apprestarsi a ricostruire tutto l’apparato burocratico necessario a risollevare la società siciliana e metterla in connessione con il nuovo governo italiano. Poletti è un personaggio piuttosto controverso: fu più volte bersaglio di critiche per la vicinanza al separatismo – spesso macchiata d’incoerenza – e soprattutto per il suo passato nei servizi d’intelligence americani molto attivi in Sicilia nel periodo antecedente all’operazione Husky.83 A ogni modo, Renda afferma che fu merito di Charles Poletti aver concretizzato quello che a partire dalla caduta del fascismo e dalla firma dell’armistizio fu il nuovo atteggiamento degli Alleati verso la nostra nazione: «Staccatasi l’Italia dalla Germania, il governo Badoglio, che aveva effettuato quel taglio, non fu più un nemico da combattere, ma un amico o quasi amico da sostenere».84

82

Ivi, p. 39.

83

VILLARI GIANFILIPPO, La Sicilia libertata, G. Maimone, Catania 2005, pp. 49-50: esiste una testimonianza resa dal colonnello dei carabinieri Bonetti nel 1946 in cui si parla di Poletti come “infiltrato” nell’esercito italiano (con tanto di tessera di riconoscimento originale da tenente di fanteria) nell’aprile del 1943 a Castelvetrano. Queste dichiarazioni furono riportate in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno del 25 gennaio 1998.

84

RENDA FRANCESCO, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, cit., p. 40. 38


I.5 «Heri dicebamus»: il risveglio della politica siciliana Dopo il letargo forzato imposto dal ventennale regime a partito unico, lo sbarco alleato fu alla base dell’exploit che la politica siciliana visse a partire dal 1943. Nonostante l’assoluto divieto allo svolgimento dell’attività politica imposto dall’AMGOT, la caduta del fascismo fu causa inevitabile della riorganizzazione di tutte le formazioni politiche presenti nell’isola. Fu come rimettere in moto un macchina, che per cause di forza maggiore era rimasta ferma per anni. Questa in realtà era solo un’impressione visto che negli ultimi tempi, in particolare negli anni della guerra, si era mosso qualcosa nel sottobosco della politica fatta in clandestinità. Indubbiamente la presenza degli anglo-americani e il crollo di tutto l’apparato di controllo del fascismo favorì un “risveglio” della volontà di fare politica soprattutto tra quegli esponenti della classe dirigente siciliana che durante il regime erano stati allontanati – o volontariamente si erano chiamati fuori – dall’amministrazione della cosa pubblica. Era la politica del liberalismo, ormai definibile come “prefascista”, cresciuta attraverso i capisaldi del parlamentarismo, del clientelismo e del trasformismo all’italiana, e alla siciliana in particolare, che nuovamente bussava alla porta della società isolana chiedendo per sé e per i suoi più validi esponenti nuovi spazi e nuove prospettive nella gestione del potere della nuova nazione che stava nascendo. Poche e confuse le idee di questa nuova politica che fin dall’inizio sembrò voler riprendere il filo di un vecchio discorso interrotto da una lunga e imprevista pausa durata venti anni. In tutto ciò a giocare un ruolo fondamentale fu la stessa impostazione data dagli ufficiali dell’AMGOT all’amministrazione provvisoria della Sicilia occupata. Come visto precedentemente, a sostituire buona parte della classe dirigente e amministrativa fascista nelle amministrazioni locali furono esponenti di ogni livello del notabilato siciliano e tra questi anche molti personaggi che prima del fascismo avevano avuto un passato in politica. Questo processo di sostituzione sui generis della classe dirigente viene efficacemente delineato da Giuseppe Giarrizzo nel saggio Sicilia politica 1943-1945: «L’AMGOT, pur con differenziazioni significative tra la zona occupata dagli inglesi e quella tenuta dagli americani, si è appoggiata, per designazioni e indicazioni, su quei notabili della Sicilia prefascista che non si fossero patentemente compromessi durante il ventennio, e in taluni casi su elementi dell’aristocrazia e dell’alto clero; […] Gli uomini così portati alla ribalta del potere politico-amministrativo avevano per lo più varcato la cinquantina: ed erano peraltro uomini che ora nella caduta del regime, per la quale non avevano attivamente 39


operato, videro l’inizio provvidenziale d’un processo di restaurazione delle strutture politiche dell’Italia prefascista».85 Quando Giarrizzo parla di «strutture» non si riferisce solo a quelle politiche effettivamente cancellate dal regime ma anche a certe “sub-strutture” tipiche della politica prefascista come le schiere clientelari di cui ogni politico locale era dotato, dalle quali traeva vantaggio in termini di consenso e voti e, al tempo stesso, delle quali doveva prendersi “cura” con la sua azione politica. Difesa degli interessi localistici e di determinati ceti, clientelismo, pacchetti di voti da gestire diventavano nuovamente le occupazioni della rinata classe politica siciliana che dimostrava ora più che mai di essere volitiva, intraprendente, arrivista e al tempo stesso rozza e arretrata: «La rapidità con cui questi uomini si riportarono ai tempi e ai problemi della politica prefascista (Heri dicebamus…!) testimonia anche del loro isolamento culturale e politico, della ignoranza di quanto fuori d’Italia era venuto maturando nei venti anni di regime».86 Tra i primi a tessere le proprie ragnatele di rapporti e consenso tra le schiere di futuri elettori furono gli stessi prefetti nominati dall’AMGOT. Nel loro status speciale di “prefetti politici” nel periodo precedente al passaggio della Sicilia all’amministrazione italiana, il loro ruolo fu appunto quello di rappresentare più le popolazioni e i loro bisogni che il potere di uno Stato ancora inesistente. I più attivi nel ricreare un valido sistema di consenso furono i prefetti Giovanni Cartia a Ragusa (socialista) e Arcangelo Cammarata a Caltanissetta (popolare). Anche il prefetto di Palermo Francesco Musotto si dimostrò attivo nella riorganizzazione di quello che Giarrizzo chiama «feudo elettorale» avvalendosi delle strutture clandestine, e superstiti, del socialismo nella zone delle Madonie.87 Queste dinamiche non fecero che accentuare gli scontri tra i vari politici isolani che ritornarono a intendere la politica come “fatto locale” che vedeva la contrapposizione dei vari personaggi con il fine di ottenere il consenso e quindi il controllo di precisi ambiti territoriali (la guerra per il predominio nel proprio collegio elettorale). Riguardo alla situazione politica della Sicilia antecedente allo sbarco alleato del luglio ’43, si è sempre detto e scritto che sull’isola le forze antifasciste esistenti in clandestinità non furono mai in grado di programmare e soprattutto di mettere in atto 85

GIARRIZZO GIUSEPPE, Sicilia politica 1943-1945. La genesi dello statuto regionale, cit., p. 11.

86

Ibidem.

87

Ivi, p. 10. 40


iniziative serie di opposizione armata al regime. Si ha notizia della timida attività di alcuni gruppi socialisti e comunisti, di qualche aderente a “Giustizia e Libertà” (liberal-socialisti, azionisti) e, nel periodo della guerra, dei separatisti e dei popolari.88 Sarebbero stati alcuni esponenti del nascente separatismo siciliano in collaborazione con degli azionisti a concordare un fantomatico piano di occupazione degli uffici comunali da attuare qualche giorno prima dell’entrata degli Alleati a Palermo. Il piano non fu messo in atto. In ogni caso se prima dello sbarco nessuno ebbe la volontà e la capacità di mettere in campo iniziative contro il regime, subito dopo la liberazione le forze che si autodefinivano antifasciste,

e

quindi

tutte,

furono

molto

solerti

nel

reclamare

un

posto

nell’amministrazione del territorio e a prendersi il proprio spazio nel dibattito politico che, nonostante i divieti dell’AMGOT, inevitabilmente era nato. L’AMGOT tentò di tenere separato l’aspetto amministrativo (necessario per governare l’isola) da quello politico che più faceva gola a quanti erano stati designati dall’amministrazione alleata per ricoprire un ruolo nel nuovo apparato burocratico. «Le designazioni dell’AMGOT, per via della composizione della classe politica prefascista, riconsegnavano non tanto il potere attuale (che era poco) quanto la promessa o la prospettiva di futuro potere (che poteva essere, ad occupazione e guerra finite, assai consistente) a uomini e gruppi che molto spesso si collocavano fuori – quando non addirittura contro – dei partiti nazionali antifascisti in fase di ricostituzione o di costituzione».89 L’appetito per un futuro fatto di poltrone negli enti locali e prebende varie colse quasi tutti gli attori in campo: «La carica risvegliò in essi, quando non lo fece nascere, il “gusto della politica”: e molti si dedicarono esclusivamente a coltivarsi un collegio elettorale per il tempo delle elezioni».90 Il fatto stesso che gli ufficiali dell’AMGOT al rapporto con le varie formazioni politiche predilessero, invece, il rapporto personale con i singoli esponenti di quel notabilato a cui abbiamo più volte fatto riferimento, non fece che rafforzare il potere individuale di molti personaggi che godettero, in termini di consenso e riconoscenza, di questo status di privilegiati. Le formazioni e i partiti politici, specialmente quelli di sinistra, nella maggior parte dei casi rimasti fuori dalle cosiddette stanze del potere, non si persero d’animo e fin 88

Ivi, p. 12.

89

Ibidem.

90

Ibidem. 41


dall’estate del 1943 iniziarono la loro attività di propaganda e comunicazione. Già nei mesi precedenti allo sbarco il partito comunista, ovviamente in tutta clandestinità, serrava le fila dietro precise indicazioni inviate ai compagni siciliani dal messaggero “Luciano”, nome di battaglia di Elio Vittorini. Il PCI, Partito comunista italiano, la cui struttura nella penisola era rimasta dormiente per anni nonostante gli arresti, le epurazioni e i confini, aveva inviato il proprio emissario in Sicilia dove il comunismo vantava maggiore organizzazione soprattutto nel nisseno e nell’agrigentino oltre che nelle città più importanti.91 Per i comunisti «il nemico principale rimaneva il fascismo e, dunque, ogni azione di massa rivolta contro la guerra rispondeva pienamente alla linea del partito. In previsione dello sbarco, i militari alleati vanno considerati per il PCI portatori di libertà ed ogni rapporto unitario con le forze antifasciste rafforzava l’azione per abbattere il fascismo. Tuttavia nel periodo di giurisdizione dell’AMGOT il ruolo assegnato ai comunisti così come alle altre formazioni di sinistra fu veramente minimo. Gli Alleati oltre al chiaro indirizzo antipolitico che vollero dare all’amministrazione militare provvisoria, nutrivano una forte diffidenza verso tutti quegli esponenti politici che si collocavano in maniera netta nell’area ideologica comunista e socialista. A questo si aggiunge un fattore fondamentale che paradossalmente non fece altro che condizionare anche i programmi politici dei partiti di sinistra (e di tutti gli altri): la nascita di un grande e variegato fronte separatista che aspirava alla totale indipendenza della Sicilia e alla nascita di un nuovo stato. Il separatismo siciliano con straordinario (e calcolato) tempismo seppe entrare nell’agone politico isolano rubando la scena a tutti gli altri partiti. Oggi è innegabile che, fin dai primi tempi, l’AMGOT non fece nulla per contrastare questo nuovo fenomeno politico e anzi riconobbe, di fatto, in esso l’unico vero referente politico locale, “antifascista” per antonomasia, di cui avvalersi per i propri scopi, primo tra tutti il mantenimento dell’ordine sul territorio occupato. Alla base dell’ideologia separatista, se così la si può definire, vi era il malessere della società siciliana nei confronti dell’appena rovesciato fascismo e la grande maggioranza dei notabili isolani che aderirono in massa al separatismo si ritrovarono concordi nell’indirizzare il loro “rancore” per il sottosviluppo dell’isola verso i governi dell’Italia continentale. Il separatismo agli occhi degli Alleati divenne, quindi, un ottimo contenitore 91

SANFILIPPO ELIO, Quando eravamo comunisti. La singolare avventura del PCI in Sicilia, cit., pp. 26-27. 42


in cui lasciare incanalare tutte le forze di ribellione presenti in quel grande guazzabuglio che era la Sicilia dopo l’estate del ’43: «In questo rancore essi [gli Alleati] credettero di poter isolare l’elemento scatenante di rivolta e di esplosioni ribellistiche: e però non esitarono a fornire mezzi e appoggi agli uomini del separatismo legalitario, di cui Finocchiaro Aprile – col suo costante appello ai governi costituiti, contro ogni forma di iniziativa rivoluzionaria – era l’esponente più accorto, e a tutto quel vasto settore di politici isolani, il cui regionalismo, era ritenuto capace di controllare e convogliare entro canali legalitari la protesta popolare».92 Il separatismo, con le sue rivendicazioni, le sue argomentazioni alla portata di tutti e le interessate “sponsorizzazioni”, in poco tempo ebbe largo seguito nella popolazione, soprattutto nelle aree urbane e nel ceto medio-basso della popolazione. Temi quali l’indipendenza e l’autogoverno divennero di così grande richiamo che anche i partiti della sinistra subirono queste influenze rivelandosi per nulla pronti ad affrontare le emergenze e a interpretare le nuove esigenze dei siciliani. Obiettivo primario di tutte le formazioni politiche, dalle sinistre al centro moderato e popolare, rimaste sostanzialmente escluse dalla gestione diretta del potere attraverso le amministrazioni controllate dell’AMGOT, fu quello di togliere al separatismo il ruolo da protagonista e di attrarre quanto più possibile il consenso. Fu questa la prima preoccupazione dei partiti, che già di per sé, erano in difficoltà per la ricostruzione dei propri quadri dirigenziali. Da qui l’iniziativa di coalizzarsi in un fronte unico antifascista: dal ’43 in poi per fronteggiare il dilagare dell’idea separatista nascerà più di una coalizione di partiti. Tutti nei loro programmi faranno riferimento alla questione siciliana, alla necessità di una larga autonomia amministrativa per l’isola, all’autogoverno e qualcuno si spingerà anche ad auspicare la nascita di una repubblica socialista siciliana in seno a una repubblica federativa italiana. La lezione del separatismo, fin da subito, si faceva sentire negli altri ambienti politici. L’immissione delle spinte autonomiste anche nel programma di governo delle coalizioni e dei partiti di sinistra93 (Fronte unico della Libertà con in prima fila il PCI) provocherà non pochi dissidi nell’establishment progressista.

92

GIARRIZZO GIUSEPPE, Sicilia politica 1943-1945. La genesi dello statuto regionale, cit., pp. 1314.

93

Ivi, p. 15

43


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