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2.7.5. Il popolo di don Rossaro nella rivista “El Campanom”

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Bibliograia

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S. Zuech, Bassorilievo per la seconda Campana, particolare in gesso non realizzato. S. Zuech, Bassorilievo per la seconda Campana, lo stesso particolare realizzato.

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2.7.5. Il popolo di don Rossaro nella rivista “El Campanom”

La ine della ormai stanca esperienza editoriale di “Alba Trentina”, prolungatasi oltre misura ino al 1926, aprì un vuoto immediatamente riempito dalla nuova pubblicazione annuale di don Rossaro, “El Campanom”. Per sancire il passaggio deinitivo a un tempo di pace ormai stabile e consolidato, deinito nei suoi capisaldi simbolici, nelle sue ricorrenze e anniversari, Rossaro inaugurò un progetto completamente diverso da quello della vecchia rivista. “Alba Trentina”, se si considerano alcuni parametri, come la lunghezza degli articoli, il lessico utilizzato o i riferimenti culturali cui bisognava aver avuto accesso per comprendere ino in fondo i contenuti, era stata accessibile a un pubblico piuttosto ristretto, istruito ed elitario. “El Campanom”, almeno al momento della sua inaugurazione, si presentava immediatamente in modo diverso:

«È il calendario del popolo, che entra ultimo nella grande famiglia di almanacchi, di astrologhi e di stregoni, tra i quali furoreggiarono i vecchi Barbapedana, Indovino inglese, Barbabianca, Abate Valpurga, e cento altri capiscarichi, delizia del sano e buon popolo italiano. El Campanom non avrà la fresca giovialità di questi venerandi nomi dell’almanacco popolare italiano; non glielo permette la sua natura, essendo esso iorito ai piedi della sacra Campana dei Caduti, ma non mancherà tuttavia di allietare i lettori interessandoli con pagine piacevoli, istruttive e pratiche»87 .

87 “El Campanom”, 1926, p. 1.

Inoltre una pagina pubblicitaria su Alba Trentina presentava così la nuova rivista:

«È un opuscoletto di 46 pagine, ricco di illustrazioni, col suo bravo calendario, con le sue brave nozioni storico-locali, con le sue brevissime nozioni pratiche, tutto insomma quel che può giovare, istruire, dilettare il popolo delle nostre valli»88 .

Le intenzioni erano confermate nella misura in cui, nella nuova pubblicazione, si trovavano il calendario, completo di fasi lunari, eclissi previste, solstizi ed equinozi, indizi riguardo le previsioni del tempo atmosferico, nozioni sintetiche riguardo i lavori nei campi mese per mese, il calendario delle iere commerciali itineranti del Trentino, i numeri rossi delle automobili corrispondenti ai capoluoghi di provincia, le tariffe postali. Le pagine “pratiche” si alternano poi a quelle dedicate alla Campana dei Caduti e a quelle più “politiche” che tendono a tratteggiare, in modo asciutto e conciso, il nazionalismo “religioso” di don Rossaro, come in questo testo intitolato Il Governo nazionale e la religione.

«Primo pensiero di Napoleone, giunto all’impero, fu quello di restaurare la Religione in Francia, e Pio VII gliene fu sempre grato. Come Napoleone, anche Mussolini, iniziò il suo governo favorendo la Religione e chiudendo così la nefasta epoca della politica anticlericale e laicizzatrice. Migliorò le condizioni tra clero e autorità; aumentò la congrua ai Parroci; sotto il suo governo, diminuirono il turpiloquio, la bestemmia, le dimostrazioni anticlericali, e rese libero l’esercizio del culto, come delle processioni e delle solennità pubbliche; ripristinò conventi soppressi da passate leggi. Caldeggiò le funzioni religiose uficiali; impose l’insegnamento religioso e il Croceisso nelle scuole e favorì con grande successo le Missioni religiose nelle Colonie e all’Estero. Sciolse le società segrete e diede un colpo mortale alla Massoneria, implacabile nemica della Chiesa. Solo sotto di lui, entrò invocato ed onorato il nome di Dio in Parlamento, da cui fu sempre e sistematicamente escluso. Dio benedirà il suo governo e darà tempi felici all’Italia nostra»89 .

Il riferimento a una dimensione imperiale e civilizzatrice della nazione con le sue colonie, è già presente qui, 10 anni prima della proclamazione dell’Impero mussoliniano del 1936. Una pagina della rivista è infatti dedicata a un’elencazione dei possedimenti coloniali italiani con poche informazioni demograiche e geograiche. L’Italia poteva vantare il possesso di Libia, Eritrea, Somalia, Tien–Tsin, Rodi e Dodecanneso.

88 “Alba Trentina”, X/1-2 (1926), p. 36. 89 “El Campanom”, 1926, p. 24.

«Per i nostri padri che dal piccolo Piemonte, come dal inestrino d’una casetta, abbracciavano, si può dire, con un’occhiata tutta l’Italia da redimere, pensare ad un’Italia Coloniale quale oggi vantiamo, sarebbe stata una pazzia. Oggi, grazie a Dio, il tricolore sventola dovunque. – Dio benedica e protegga l’Italia!»90

Un’altra interessante pagina di “El Campanom”, intitolata la Nuova Italia, è un condensato dei più importanti luoghi comuni del tempo fascista.

«Mai l’Italia fu così grande, come ora, sotto il forte e sapiente governo di Mussolini. L’Esercito, magniico presidio d’Italia, è rispettato nell’Interno ed all’Estero: i suoi Caduti, i suoi Eroi, i suoi Mutilati, i suoi Combattenti sono degnamente valorizzati. La Scuola va meravigliosamente migliorandosi; non ci sono più né abusi, né scioperi tra gli studenti; sospinti da un programma arduo e complesso, sono obbligati a studiare e lavorare. Il Commercio, l’Industria e l’Agricoltura sono piene di splendide promesse: le fabbriche lavorano alacremente, né ci sono più ribellioni e scioperi, vergogna e miseria del passato. Anche nel mondo ferroviario regna il massimo ordine: gli orari sono osservati con precisione e i viaggiatori godono sicurezza e rispetto. La Religione gode maggior libertà. La battaglia al turpiloquio e alla bestemmia trovarono un aperto alleato nel Governo nazionale»91 .

Il riferimento a scioperi e ribellioni, interpretati come “vergogna e miseria del passato”, è importante per deinire la natura del messaggio rossariano, tutto sbilanciato in senso padronale e anti operaio, ed ancor più signiicativo dal momento che viene inserito in questo tipo di pubblicazione, programmaticamente indirizzata a un pubblico “popolare”. Questo tipo di tracce testimoniano, indirettamente, la preoccupazione diffusa nei governi e nelle élite europee, in particolare nel periodo in questione: il timore della folla, la paura di un’azione popolare potenzialmente destabilizzante. Gli echi e le inluenze delle opere di personaggi come Gustave Le Bon e il suo Psicologia delle folle (1895) oppure, più pertinentemente, di uno lombrosiano come Scipio Sighele (1868-1913) con il suo La folla delinquente (1891) sono spesso leggibili in controluce. Sighele, scienziato di origini trentine, morto poco prima dell’inizio della prima guerra, era infatti un irredentista di lunga data e, non casualmente, entrò in un articolo di “Alba Trentina” nella veste di profeta della redenzione92 .

90 “El Campanom”, 1926, p. 10. 91 “El Campanom”, 1926, p. 28. 92 i roveri di rovereto, I roveri tridentini, in “Alba Trentina”, I/2 (1917), p. 67.

La costruzione di dispositivi simbolici inclusivi, di dispositivi che avessero la possibilità di costituire un orizzonte comune alle masse nazionali, traumatizzate dall’esperienza della guerra e segnate da profonde disuguaglianze sociali, pare essere un ilo rosso costante seppur sotterraneo nel discorso della memoria qui analizzato. Già nel primo numero di “Alba Trentina”, nel 1917, Rossaro, impegnato nel tratteggiare la primavera della tradizione irredentista e la nascita della legione trentina nel 1848, affrontava un argomento che doveva essere di estrema attualità nonché terreno di scontro politico: la composizione sociale di questi gruppi di patrioti volontari.

«Non deve arrecare meraviglia se la Legione trentina che al 7 maggio era composta da soli 43 volontari, in pochi giorni salì a 220, e raggiunse poi i 250, cifra confortante se badiamo al militarismo del ’48, e tanto più se osserviamo che i nostri legionari, come narra Livio Marchetti, lo scrittore classico del risorgimento trentino, appartenevano in gran parte alle umili classi rurali. Dei 220 legionari, 108 erano contadini, e 36 erano operai. Ciò sta contro quelli che si ostinano a ritenere che l’irredentismo trentino, era ed è relegato nelle sole classi privilegiate»93 .

Al di là di quella che potrebbe essere la veriica delle cifre esposte, è importante sottolineare quale sia la posta in gioco incorporata nella questione, attualissima nel 1917: la necessità di dimostrare il radicamento del sentimento nazionale nei ceti popolari.

Un’interessante rappresentazione del “popolo” è riscontrabile ne “El Campanom” del 1934. Rossaro scrisse un articolo intitolato “Macchiette roveretane”.

«La generazione di chi scrive ha visto silare sul palcoscenico della vita roveretana le ultime, caratteristiche macchiette, di cui il passato, più pittoresco e arguto del presente, era largamente fornito… La vita stentata, affaticata, chiusa entro i vecchi ilatoi dei nostri bisnonni, dove il povero popolo si logorava, lavorando “dalle stelle alle stelle”, aveva gettato sul lastrico della strada una miserabile e fetente turba di poveri cristi, rachitici, deicienti, abulici, che per certe bizzarie ed eccentricità, o per certe strane abitudini divennero le macchiette della città»94 .

93 a. rossaro, La legione trentina nel 1848, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 6. La questione interessa nella misura in cui segnala un importante centro tematico della discussione pubblica nel tempo di guerra. Nonostante ciò può essere magari utile fare due conti, dando per reali le cifre fornite da Rossaro. Se la somma di operai e contadini equivale a 144, sul totale di 220 si può parlare di 76 volontari non appartenenti alle classi popolari, cioè circa il 30% del totale.

Ne risulta, in ogni caso, una forte preponderanza elitaria dentro la legione trentina dal momento che le classi abbienti rappresentavano certamente una percentuale molto inferiore, considerando la popolazione in generale. 94 “El Campanom”, 1934, s.n.p.

Rossaro racconta queste igure con un atteggiamento che mescola paternalismo pietoso e velato disprezzo, curiosità e ironia. Questa umanità vagabonda e marginale, che egli lascia intendere come coninata al passato perché ormai soccorsa dalle «previdenze civili» o perché spazzata via dalla guerra, viene caratterizzata in modo vario ma stereotipato. Un’umanità piuttosto innocua e indolente, melanconica e solitaria, spesso ubriaca anche se talvolta perino dignitosa. Un’umanità che pretende un’elemosina sempre accordata, che inisce per essere salvata dalle istituzioni caritatevoli roveretane o che scappa dalla città per procurarsi il necessario alla sopravvivenza nel contesto agricolo e montano. Rossaro non manca poi di subire, inine, una certa fascinazione nei riguardi di questo sottoproletariato. A conclusione del suo articolo, parlando di un certo Polidoro, raro esempio vivente di quella specie estinta, Rossaro scrive:

«In fondo ha un cuore anche lui, e chi sa che in fondo ad esso non germini qualche delicato sentimento, che ignorano certi cuori di laureati e di blasonati? Il cuor umano è pieno di misteri»95 .

In un certo punto però, la narrazione di Rossaro soffre un’inconsapevole incongruenza. Il proilo di un certo Filippo Pignolon, descritto come sporco, inerte, taciturno ed ebete, vittima di insulti e lazzi, si scontra, in parte, con una sua rappresentazione fotograica dove appare con un cartello in mano che recita: “abbasso il lavoro a cottimo”. Non proprio una rappresentazione coerente di indolenza e rassegnazione.

La deinizione dei topoi intorno al “popolo” di marca rossariana è contenuto anche in un altro articolo: Rovereto nelle sue antiche e popolari ilastrocche. Questo articolo nasce come rassegna di proverbi e motti popolari e dialettali trentini e nelle intenzioni di don Rossaro diventa anche occasione di raccolta e trascrizione di un sapere orale (che sembra fare riferimento soprattutto all’infanzia dello stesso don Rossaro: si parla degli anni ottanta e novanta dell’ottocento) da afidare a futuri studiosi. Il luogo per eccellenza delle ilastrocche è l’asilo, a confermare quanto già detto riguardo la parentela fra popolo e infanzia, i cui linguaggi vengono assimilati nel medesimo spazio semiotico. Uno spazio semiotico che appare prezioso terreno di conquista per l’istanza nazionale che poteva così veicolare i propri messaggi, coperti da una patina rassicurante di innocenza e arcaismo, oltre che mescolati a contenuti più frivoli e meno impegnativi. In questo frammento il campo tematico è quello militare e cavalleresco.

«La simpatia dei bambini, come è dovunque, è il soldato, che nella loro fantasia

95 “El Campanom”, 1934, s.n.p.

suscita visioni di battaglie e di cavalleria. Quattro per quattro, con le manine intrecciate tra loro, con piede sicuro ed aria marziale (ricordiamo tutti i nostri entusiasmi di allora!...) marciano alla guerra, cantando questa terribile canzone:

Ai soldai che va a la guera, I mete ‘l sciop en tera; I sbara ‘l canom: Pim e pom»96 .

Militarismo declinato in senso monarchico e ilofrancese.

«Nel fermento delle loro piccole gesta militaresche, si perdono, coi loro canti, nell’epica dei Reali di Francia, e cantano questa quartina:

Carlo Magno, re di Francia Con tre pulzi su la panza, l’un che tira, l’un che mola, l’altro sbara la pistola.

La Francia aveva un fascino speciale sul nostro popolo: forse, oltre la lettera dei Reali di Francia che da noi era in voga, rivivevano anche i ricordi napoleonici. E i nostri bambini dovevano andare proprio in Francia a compiere una loro cavalleresca impresa. Eccone i versi:

Mama, mama granda Compreme ‘na ghirlanda, compreme ‘en sciopetin, Che voio andar in Francia A copar quell’uselin, che tute le not ‘l canta e nol me lassa mai dormir»97 .

Mentre qui è il campo dello splendore, della gloria e dell’autorità religiosa.

«Santo Vigilio protetor de Trento da le campane d’or e ‘l batocolo d’argento!»

96 “El Campanom”, 1932, p. 17. 97 “El Campanom”, 1932, p. 18.

«E il Santo Vescovo, che da lunghi secoli è l’Eroe delle nostre belle tradizioni, passa davanti alla fantasia del bambino col suo magniico manto rosso, col suo grande ‘cappello d’argento’ col suo bravo ‘baston d’oro’ al suon ‘dele campane d’oro e ‘l batocolo d’argento’»98 .

Altrove, poi, Rossaro richiama il valore consolatorio delle ilastrocche nella miseria della quotidianità popolare.

«‘Canta che ti passa!’… e chi sa quante volte i bambini dei ilatorieri, avran trovato il desco vuoto, e la mamma avrà intonato qualche ilastrocca per far dimenticare un istante la fame!»99

La tradizione popolare è inine elevata a feticcio consolatorio per un lettore bisognoso di rifugio in un passato arcadico e mitizzato «perché una scorsa al passato non fa male, tanto più quando questo è un nido di serena bontà, dove è bello rifugiarsi»100 .

Il racconto complessivo che emerge ne El Campanom parla di una società ormai paciicata, liscia e senza conlitti, operosa, ordinata e ricca. Si trattò di un progetto editoriale che, nonostante le intenzioni e gli espedienti di cui si è detto, rimase comunque rivolto a un pubblico piuttosto istruito e piccolo-borghese. Con la ine dell’alba, del processo fondativo ed emancipativo risorgimentale della nazione, era giunta l’ora di una quotidianità rassicurante, scandita dalle ricorrenze della memoria nazionale, vecchie e appena inventate, e da pillole di sapere antiquario e “popolare”, dalla meteorologia e dalle pagine dedicate alla pubblicità delle attività commerciali roveretane. Le rappresentazioni del “popolo” entrano in questo contesto con diverse funzioni sovrapposte: consolazione, curiosità ludica, costruzione della tradizione. Tutto ciò funzionava, probabilmente, in una prospettiva di depotenziamento degli aspetti più critici della realtà sociale ed economica trentina negli anni tra le due guerre. In questo senso si potrebbe dire di essere in presenza di una banalizzazione della tradizione popolare, ridotta a curiosità ma anche a fondamento di una identità razziale, etnica e storica. La funzione di questo tipo di sapere, era consapevolmente evocata dallo stesso Rossaro:

«Una delle benemerenze del fascismo è quella di richiamare in vita, o almeno alla memoria, tutte quelle belle manifestazioni folkloristiche che sono spesso un

98 “El Campanom”, 1932, p. 19. 99 “El Campanom”, 1932, p. 20. 100 “El Campanom”, 1932, p. 30.

dovizioso patrimonio di tradizioni, di costumanze, di storia, che sovente rivelano l’indole e lo spirito d’una razza»101 .

Inoltre Rossaro agì nel solco di una tendenza viva a livello nazionale in quegli anni affermando che «L’amore che il fascismo ha suscitato intorno al folklore, ha fatto germinare una larga ioritura di Almanacchi popolari»102 . E che questo progetto culturale fosse comune a tutta l’Italia fascista, è del resto confermato da studi recenti.

«La valorizzazione delle culture municipali diventa in qualche modo un passaggio obbligato del progetto fascista di nazionalizzazione degli Italiani. Lo stesso affermarsi del folklorismo è da intendersi come una conseguenza dei processi di modernizzazione e di urbanizzazione in atto. Questi processi, infatti, forse per la prima volta, inducono i ceti medi a idealizzare la tradizione e l’universo contadino, facendone un momento ludico, dotato di funzioni compensative nei confronti dei dinamismi e delle trasformazioni della realtà presente»103 .

Le trasformazioni e i dinamismi modernizzanti erano, in effetti, forti e particolarmente pregni di conseguenze nelle terre trentine appena redente, dopo la grande guerra. Le distruzioni belliche, la svalutazione monetaria, le crisi internazionali dei mercati, le politiche delazionistiche governative, il venir meno delle rimesse dei migranti trentini, il collasso del reddito agricolo e montano con conseguente migrazione verso le città del fondovalle, la disoccupazione galoppante, furono tutti elementi di un panorama economico e sociale problematico, a cavallo tra le due guerre in Vallagarina. In questo contesto, la caratterizzazione stereotipata del popolo trentino, contraddistinto da bontà, mitezza, laboriosità, capacità di sacriicio, di collaborazione e di cooperazione, poteva fare da puntello ideologico ai discorsi di una classe dirigente, tanto politica quanto industriale, occupata a gestire uno sviluppo produttivo moderno che necessitava, per funzionare, di uno sfruttamento intensivo delle risorse umane e naturali. Il caso della Montecatini di Mori, una grande fabbrica dell’alluminio che funzionò tra il 1928 e il 1983 in Vallagarina, è particolarmente rappresentativo dell’importanza che stereotipi come quelli analizzati potevano assumere nei discorsi e nei ragionamenti della classe dirigente.

«Fu la prima grande fabbrica della Val Lagarina a manodopera esclusivamente maschile e contadina, che operava nel settore chimico-metallurgico, e collocata

101 “El Campanom”, 1932, p.10. 102 “El Campanom”, 1932, p. 3. 103 v. Cappelli, Identità locali e Stato nazionale durante il fascismo. «Meridiana», n. 32, 1998, p.55. http://www. rivistameridiana.it/iles/Cappelli,-Identita-locali-e-Stato-nazionale-durante-il-fascismo.pdf, (sito consultato il 10 novembre 2016).

fuori dal tessuto urbano; le altre unità produttive roveretane, la Pirelli e la Manifattura tabacchi, che l’avevano preceduta nel tempo dell’insediamento, erano aziende che utilizzavano quasi esclusivamente manodopera femminile, in settori di collaudata tradizione e specializzazione (tessile e tabacco), e da forti legami con la produzione agricola, entrambe inserite nella città, con la quale era giocoforza colloquiare. La dirigenza della Montecatini scelse invece Mori, rompendo in tal modo quel progetto urbano (quasi un patto originario fra la città di Rovereto e l’industria), e preferendo avere come partner quel mondo rurale che le si apriva a sud. Lì avrebbe attinto energia a basso costo e reclutato la manovalanza generica e luttuante che il modo e i ritmi di produzione dell’alluminio richiedevano; lì avrebbe trovato un terreno più favorevole per dare forma alla igura dell’operaio-contadino, più adattabilità ad un modello di organizzazione paternalistica, più abitudine e attitudine alla fatica e al rischio, e anche, forse, più acquiescenza; così, inine, avrebbe evitato pericolosi e costosi fenomeni di inurbamento o la necessità di intervenire sul problema delle abitazioni operaie. L’insediamento dell’azienda avvenne in uno spazio agricolo che era caratterizzato, salva qualche eccezione di latifondo o mezzadria, dalla piccola e piccolissima proprietà basata sulle colture tradizionali della vite, del tabacco, del gelso e del mais, sull’allevamento di qualche capo di bestiame, e, nei paesi di montagna, sui prodotti del bosco. L’offerta di un salario di fabbrica, rivolta ai membri maschili e giovani di quelle famiglie contadine estese che stentatamente vivevano su quelle proprietà, giungeva come un toccasana, al quale era impossibile sottrarsi, anche a costo di enormi sacriici. E giungeva in una contingenza economica delle più disperate, dato che la popolazione dei paesi e delle valli, già fortemente impoverita dalla “grande guerra”, si trovava gravata dalla disoccupazione, essendo i lavori di ricostruzione ormai chiusi da tempo e l’emigrazione, tradizionale valvola di sfogo per la manodopera maschile, bloccata dalla crisi mondiale al suo primo insorgere. Quegli iniziali 400 posti di lavoro offerti dalla Montecatini, che sarebbero saliti progressivamente ino a 1100 nel secondo dopoguerra, rappresentarono per altrettante famiglie contadine la fonte di reddito integrativo che faceva la differenza fra il vivere e il morire, il restare e il partire; l’argine alle ricorrenti crisi economiche»104 .

Al centro del nuovo progetto industriale stava la igura dell’operaio-contadino: lavoratore instancabile, stoico, virile e disciplinato nonché portatore di una morale contadina e patriarcale. Dispositivi culturali molto simili dovevano funzionare tanto a livello di nazione che a livello di fabbrica. L’idea di un interesse comune che travalica le asimmetrie e le gerarchie, tanto nella famiglia quanto nella nazione e nella fabbrica, poteva fare da minimo comune denominatore dell’organizzazione sociale.

104 d. leoni, Acqua, aria, energia elettrica. Cenni di storia dello stabilimento, in Acqua, aria, energia elettrica. La Montecatini di Mori. 1925-1983, a cura di D. Leoni, ed. Nicolodi, Rovereto 2000, p. 55.

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