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La critica alla “Redipuglia internazionale”

tropizzazione del territorio montano circostante con la costruzione di impianti sciistici e seconde case per le vacanze. Cominciò il decentramento di molte funzioni del centro città grazie alla diffusione dell’automobile che rendeva più semplice l’accesso ai luoghi periferici, come era anche il nuovo sito prescelto per la Campana, poco distante dall’Ossario monumentale di Castel Dante. Un sito che dava la possibilità di avere ampi spazi per bagni di folla e momenti collettivi di una certa entità che ino a quel momento non erano stati possibili, essendo il castello piuttosto angusto, sopprattuto durante i rituali e le peregrinazioni della Campana in giro per le strade e le piazze italiane, in occasione delle fusioni. Inoltre, nella visione di Jori, il sito rendeva possibile un’esperienza spirituale lontana dal caos cittadino, in un’appropriazione della natura18 che non era nuova nel mondo della memoria europea della guerra mentre i progetti mai realizzati per il monumento alla Campana rappresentavano ottimamente il ventaglio delle opzioni architettoniche che erano state usate nei decenni precedenti per il culto dei caduti. Nonostante tutti questi progetti e anche a causa del prolungarsi della controversia tra l’Opera e il Museo, che si esaurì deinitivamente, nella sua propaggine legale, negli anni Ottanta, la Campana rimase sul suo supporto “provvisorio”, nell’ampia spianata che si affacciava sulla Vallagarina, mentre la costruzione del relativo complesso edilizio venne a lungo rimandata.

3.3. Uno spaccato del combattentismo roveretano. La critica alla “Redipuglia internazionale”

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Tra gli argomenti19 portati da Livio Fiorio e da coloro i quali erano contrari al trasferimento della Campana in un nuovo monumento, è particolarmente interessante quello che prende in considerazione un progetto analogo, per molti aspetti, alla “Redipuglia internazionale” pensata da Jori. La lettera che segue era stata inviata a Fiorio dalla compagnia dei volontari giuliani e dalmati di Trieste con cui la legione trentina era in ottimi rapporti.

«Quando nei primi anni del dopoguerra, a Roma, sorse l’idea dell’erezione di un’”Ara Pacis” sul Carso – che, raccogliendo campioni di terra in tutti i cimiteri italiani dove riposano caduti di ogni nazione che partecipò all’ultima guerra sul fronte italiano, si trasformasse in altare di riconoscenza e fraternità fra i popoli – nell’ambiente combattentistico giuliano non si manifestò alcuna contrarietà».

18 Cfr. g. Mosse, Le guerre mondiali cit., p. 119. 19 Gli argomenti a favore del mantenimento di Maria Dolens sul torrione Malipiero sono: la volontà di don Rossaro, l’importanza spirituale del binomio con il Museo della Guerra, l’indotto turistico del centro di Rovereto, la volontà del popolo (in riferimento a una raccolta di quasi 5000 irme a favore della Campana al castello), il diritto, la mondanizzazione della Campana nella nuova sede.

Progetti presentati per il complesso della Campana dei Caduti da realizzare sul Colle di Miravalle (AFCCR). Dall’alto a sinistra, bozzetti di: Antonio Macconi, Giulio Martini, Luciano Patetta, Tommaso Valle, Luciano Baldessari, Marco Tiella.

Una vivissima contrarietà, invece, sorse quando si stabilì il collocamento dell’”Ara Pacis”, sul Colle di Sant’Elia, di fronte a Redipuglia, sul posto dove sorgeva il primo cimitero di guerra, poi trasferito e trasformato nell’attuale Ossario, forse il più monumentale Cimitero di guerra d’Europa. Si osservò subito che l’opera, direttamente o indirettamente, poteva assumere un carattere polemico, togliendo a Redipuglia il suo valore storico e documentario. Assieme, e fors’anche con maggiore impegno, all’opposizione dei volontari giuliani e dei combattenti in genere si associò il prof. Mirabella Roberto, Sopraintendente ai Monumenti e alle belle

arti, che sostenne come la zona di Redipuglia non dovesse assolutamente venire disturbata o deturpata da nessun altro monumento sia pur di valore storico, morale o artistico. Avvertita tale recisa opposizione, da Roma venne inviato a Trieste il col. Zaniboni, presidente dell’U.N.U.C.I. e rappresentante del Comitato per l’Ara Pacis, il quale tentò di persuadere – in una riunione all’albergo Savoia- il prof. Mirabella e i rappresentanti dei Combattenti e Volontari a recedere dalla loro opposizione, ma più che persuadere gli altri, il col. Zaniboni inì col persuadersi egli stesso delle ragioni che sconsigliavano la erezione di altri monumenti a Redipuglia. In quell’occasione vennero suggerite altre località, dove avrebbe potuto erigersi l’Ara Pacis, e da alcuni venne indicato il colle di Medea, dove infatti l’Ara Pacis venne eretta. L’esperienza provò poi come, per i combattenti di tutte le classi e per tutto il popolo italiano, Redipuglia soltanto rappresentasse la vera passione e la fede degli Italiani20 .

A prescindere dal successo dell’iniziativa dell’Ara Pacis, che, secondo questa testimonianza rimase piuttosto in ombra rispetto al celebre sacrario degli anni Trenta, queste tracce testimoniano il forte settarismo di questi ambienti combattentistici triestini, sfociato in una crisi di rigetto delle nuove modalità della memoria. Ma i legionari trentini, di cui Fiorio fu presidente, non erano da meno. La loro attività sociale-organizzativa, nel 1960, poteva consistere in questo tipo di azioni.

– L’intervento della Legione Trentina presso le autorità locali e romane contro l’idea che fosse collocata nell’interno dell’Ossario di Castel Dante una lapide che avrebbe dovuto ricordare tutti i combattenti della guerra 1915-18… morti a Rovereto dopo il conlitto e ino al 1959! – L’intervento della Legione Trentina perché non venisse accolta la richiesta degli ex prigionieri della Russia della I guerra mondiale – non appartenenti ai Battaglioni Neri, che fanno parte della nostra Associazione- di essere riconosciuti uficialmente ed equiparati ai combattenti dell’esercito italiano: e ciò del resto in armonia alle disposizioni uficiali del Ministero della Difesa21 .

A misure spiccatamente identitarie e di circoscrizione del ricordo dei caduti, che si conciliavano in modo quantomeno problematico con l’universalismo del messaggio di fratellanza della Campana, si alternavano poi misure “sociali” per i membri bisognosi.

20 “Ara Pacis e Redipuglia”, foglio su carta intestata della Compagnia volontari giuliani e dalmati, Fondo Livio

Fiorio, Rapporti Wenter Rocca, busta 5.1.4. 21 “L’assemblea della Legione Trentina a Rovereto, 10 luglio 1960. Foglio d’informazioni ai soci”, Fondo Livio

Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.

«Continua l’aggiornamento degli indirizzi che oltrepassano ora i 350; continua il tesseramento, che a dire il vero, potrebbe trovare maggiore rispondenza; continua la nostra opera di assistenza ai soci bisognosi, opera che potrà in avvenire essere ampliicata grazie alla soddisfacente afluenza di offerte e contributi sia da parte di soci e simpatizzanti che di Istituti»22 .

Il fronte combattentistico si compattò in maniera particolarmente decisa intorno alla causa del ritorno della Campana al castello solo a partire dal 1966. In quell’anno questa tornò a Rovereto, sul colle di Miravalle, e il Museo della Guerra venne riconquistato da una classe dirigente decisa a far valere le ragioni del vecchio binomio dopo che, per circa tre anni, a partire dalla sconfessione di Fiorio da parte del suo stesso consiglio, il museo era stato guidato da una dirigenza collaborativa nei confronti di Jori. Gli argomenti usati in questa “battaglia” si polarizzarono allora, in modo particolare, intorno al tema della mondanizzazione della nuova Campana. G. Mario Tribus, presidente dell’A.N.C.R. di Rovereto (associazione nazionale combattenti e reduci), in quel periodo, politicamente legato al M.S.I. locale e personaggio particolarmente attivo nella nostra vicenda a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, poteva esprimere le seguenti argomentazioni per cercare di portare dalla propria parte un’importante autorità religiosa trentina.

E a lei più che ad altri, dovrebbe parer caro che la sacertà di una Campana venisse raccolta nella più seria e sobria sede come voluta dal Fondatore, piuttosto che vederla paganamente mondanizzata sulle alture amene della Valscodella artatamente battezzata Miravalle, ove alla sua ombra, e proprio a causa della sua presenza, più numerosi saranno i giovani peccatori, le coppie. Col concetto espresso dal Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha disaddobbato gli altari di ornamenti giudicati superlui, è certo più in armonia il nostro vedere che non quello di coloro che vogliono spendere forse centinaia di milioni in banali sontuosità quando in India, e non solo lì, si muore di fame (…)23 .

In questo tipo di discorsi, la sacralità della tradizione, incarnata nella serietà, nella sobrietà e nella carità, si contrapponevano a un modernità ancora una volta demonizzata, contraddistinta da un mix di costumi sessuali peccaminosi e consumismo.

Eppure, vale la pena evidenziare una certa varietà delle posizioni in campo. Accanto agli atteggiamenti già descritti si potevano trovare testimonianze di altri settori del combattentismo trentino, meno settari e disposti ad accettare cambiamenti di qualche tipo.

22 Ibidem. 23 “Lettera di G.M. Tribus all’Arciprete Decano di San Marco, don Scalvini”, 29 marzo 1966, Fondo Livio Fiorio,

Pratiche generali, busta 5.2.3.

Era il caso del presidente dell’A.N.C.R. di Rovereto prima di Tribus, Nunzio D’Amico, che programmò la cerimonia del maggio 1961, in realtà mai avvenuta, per la partenza della Campana rotta da Rovereto verso la fonderia Capanni di Reggio Emilia. D’Amico si era schierato dalla parte di Jori e aveva scritto, per l’occasione, un discorso di cui presento un frammento.

I milioni di morti della grande guerra, le madri orbate dai igli, dagli orfani, le vedove, gli invalidi, i reduci, tutto concorse, è vero, a creare il clima ove doveva espandersi l’idea di don Rossaro; e l’altra, la seconda grande guerra poi, l’alimentò e la dilatò; nuovo sangue, nuovi sacriici, nuovo dolore; e nuova umanità da confortare. Ma pur se tutto ciò dovesse svanire nei secoli (e quanto ce lo auguriamo!), ebbene, pure allora il signiicato della Campana rimarrebbe in tutta la sua grandezza; l’insieme dei Caduti di tutte le guerre, di tutte le stirpi forma pur sempre un mosaico attraverso il quale l’umanità passò per raggiungere le sue mete di civiltà; e guai se il progresso economico, se l’aumento del reddito, se il maggior benessere cui dobbiamo pur tendere, dovessero far dimenticare chi tanto sacriicò per la Patria, gettando le basi per ampliare veramente i conini al di là di ogni mare, in una concezione universale e cristiana dell’umanità24 .

Personaggi come D’Amico potevano inserirsi nel dibattito in corso rivendicando, inoltre, un patriottismo originario (risalente ai tempi dell’oppressione austrungarica) interiore, privato, semplice e antiretorico che si poteva ben adattare al mutato contesto. Ho trovato una piccola testimonianza della capacità di permanenza di questo tipo di discorsi in una guida ai sacrari della grande guerra del 2010, in un capitoletto intitolato ”La sacralità civile e la necessità di un nuovo linguaggio per la trasmissione della memoria”.

Certo, un linguaggio attuale, sobrio ma più profondo, faciliterebbe l’identiicazione, il “riconoscersi”, il passaggio a una memoria culturale. (…) Se il fascismo ci ha in qualche modo “rubato” le parole Patria o Sacriicio (…) non signiica che noi, cittadini maturi e coscienti di una nuova Europa, non dobbiamo portare rispetto a chi è morto per quella che, in quel momento, era la difesa della nostra terra25 .

24 “Saluto alla Campana dei Caduti in occasione del suo ritorno in fonderia per la rifusione (17 maggio 1961)”, allegato a lettera del presidente del ANCR di Rovereto al sindaco Maurizio Monti, AFCCR, Corrispondenza varia anni 1960-1965. 25 e. Bologna, e. pederzolli, Guida ai Sacrari della Grande Guerra da Redipuglia a Bligny. 19 itinerari lungo il fronte italiano, ed. Gaspari, Udine, 2010, p. 25.

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