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3.1. Il Museo della Guerra dopo la seconda guerra mondiale
«Rovereto ha questi tre monumenti che possono servire egregiamente alla causa della pace, ricordando ai vivi la realtà della guerra. Bisogna soltanto trasformare quelle manifestazioni annuali di bassa lega, alle quali abbiamo accennato or ora, in manifestazioni di popolo, in ‘pellegrinaggi di pace’»4 .
3.1. Il Museo della Guerra dopo la seconda guerra mondiale
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Per quanto riguarda il Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto, il percorso espositivo non subì modiiche sostanziali rispetto alla ine degli anni Trenta, quando era cominciato il periodo di inattività forzata dovuto alla guerra. L’orientamento celebrativo e patriottico continuava a permeare, più o meno esplicitamente, la ilosoia museale. A dimostrazione di ciò si può citare la presenza di sale come quelle delle colonie italiane, costituite sin dal 1929 per raccontare le imprese coloniali italiane e la loro dimensione civilizzatrice, oppure quelle dedicate alla memoria dei martiri trentini e alla “passione di Fiume”, oltre che la presenza, nella vecchia cappella del castello, di un sacrario contenente le memorie dei caduti come i teschi-reliquia traitti da baionette. Anche la seconda guerra mondiale venne inclusa nel racconto museograico con l’aggiunta, nella sala del Fante, di una vetrina dedicata al ricordo della Medaglia d’oro tenente Seraino Gnutti, caduto sul fronte albanese durante il conlitto. Quindi, si potrebbe dire, la presenza dell’implicito riconoscimento, se non delle ragioni dell’entrata in guerra dell’Italia mussoliniana, almeno della legittimità dell’esercito nazionale e delle sue possibilità d’azione offensiva. Così, la soppressione della sala dedicata alla Russia poteva forse adattarsi al nuovo scenario internazionale e alla marcata polarizzazione tra i blocchi americano e sovietico. In questa prospettiva, gli ambiziosi progetti per il futuro sviluppo del Museo presentati nella relazione di Livio Fiorio alla riunione del comitato di afiancamento alla presidenza del Museo della Guerra per i restauri del castello di Rovereto, riunione svoltasi il 23 novembre 1959 alla presenza delle personalità più in vista del panorama pubblico roveretano, manifestano quindi una forte volontà di conferma degli assiomi che avevano caratterizzato la nascita delle istituzioni della memoria roveretane e al contempo una volontà di non fermarsi a compiti di conservazione e di stabilizzazione delle raccolte, mirando piuttosto a una loro rivalutazione ed espansione.
«Sarebbe… se non un suicidio, un assurdo tecnico e soprattutto un tradimento delle ragioni ideali del nostro Museo! Si pensi – ad esempio – quale maggior
4 I tre monumenti di Rovereto, in “l’Unità”, edizione veneta del 8 marzo 1951. Anche in AMSGR, Fondo Fiorio,
Memoriali e questionari, busta 5.1.6.
prestigio sarà per avere il materiale delle sale del Fante e Marchetti-Cavalleria, se – come speriamo- riusciremo a farne una vera e organica “Sala d’Italia” con una più razionale disposizione degli attuali cimeli e una rievocazione più viva – con il ricco materiale fotograico reperibile – delle fasi salienti della guerra 1915/18. Si pensi come sarebbe per risultare – a diretto contatto con la suggestiva cappella del Castello – una unica grande sala riassumente l’epopea dei volontari trentini e l’estremo sacriicio dei nostri martiri, ricavando e riordinando il materiale dei locali ora dedicati a questi nostri Eroi. – E potrei continuare…5 .
Ma vale la pena analizzare dall’inizio la relazione di Fiorio che era introdotta, dopo la necessaria riverenza verso l’ospite più illustre e inluente del consesso, il senatore della DC Giovanni Spagnolli, da queste parole che esaltavano il binomio Museo-Campana e miravano al suo mantenimento.
«Sembrerebbe ovvio, cioè paciico, che il Museo della Guerra e la mistica “Maria Dolens”, spiritualmente afiancati nel veneto Castello di Rovereto, sono tra le realtà più vive e più care alla nostra popolazione e, da tanti e tanti anni essendo meta di falangi imponenti di visitatori (oscillano da tempo fra i 75 e gli 85.000) sono pure noti e familiari a ben più vasto e multiforme ambiente…»6 .
Il presidente del Museo della Guerra passava poi a sottolineare le dificoltà e gli sforzi necessari per il gestione del museo, le condizioni precarie dello storico castello, la necessità di aggiornarsi in un’ottica di competizione rispetto ai musei della guerra e alle campane che stavano nascendo in giro per l’Italia7. Afidandosi a un breve resoconto della situazione inanziaria dell’ente sottolineava l’evidenza di un bilancio precario e di un fabbisogno di trenta milioni di lire per il restauro del castello, nonostante i circa cinque milioni di lire di entrate annue dai biglietti Le richieste di aiuto inanziario venivano poi giustiicate dalla necessità di essere degni delle imminenti ricorrenze per il centenario dell’unità d’Italia. La conclusione dell’intervento era particolarmente rappresentativa perché richiamava la partecipazione emotiva dei visitatori come elemento fondante del percorso museale.
«Nel Castello di Rovereto si accentra e sintetizza in certo modo, il valore e signiicato storico e patriottico di questa nostra zona di guerra, di questi elementi intramontabili dell’anima collettiva della nostra Patria e delle nazioni civili, oggi orientate ad ancora più alte concezioni di comune solidarietà. Possiamo ben af-
5 AMSGR, “Relazione del presidente al convegno del 23 novembre 1959”, Fondo Livio Fiorio, busta 5.1.6. 6 Ibidem. 7 Fiorio accenna esempi a Sirmione, Malcesine, Roma oltre che iniziative analoghe in zona veneta.
fermare (perché è facilmente documentabile in ogni momento) che i visitatori del nostro Museo e della Campana dei Caduti, anche se entrano con supericiale senso di distacco, escono dal castello con l’anima profondamente toccata da quanto hanno veduto e dovuto – in certo modo- proporre alla loro coscienza di uomini e cittadini. Questo, il valore essenziale di ciò che Rovereto conserva e offre al visitatore – nel veneto Castello- dominante la industriosa città»8 .
Anche nell’ambito del Governo nazionale non mancarono, negli anni Cinquanta, le iniziative volte al riconoscimento e alla celebrazione dei caduti dell’esercito italiano nella seconda guerra mondiale accompagnate, generalmente, dal riversamento integrale delle responsabilità della sconitta e di qualunque altra eventuale colpa storica sulle ristrette alte gerarchie fasciste. La promozione e la costruzione, tra il 1954 e il 1958, del Sacrario militare italiano di El Alamein che celebrava (e celebra) l’eroismo dei soldati italiani durante le battaglie del 1942 in Egitto è rappresentativa in questo senso, tanto più se consideriamo che il sacrario risultava meta di pellegrinaggio di roveretani, che recarono in dono una riproduzione della Campana dei Caduti, offerta dalla presidenza del Museo della Guerra9. Per di più, El Alamein andava a collocarsi nella tradizione delle “sconitte gloriose” dell’esercito italiano, di cui risultava principe l’esempio di Caporetto, che aveva tratto la sua forza ideale anche dalla successiva “riscossa” di Vittorio Veneto, nella rappresentazione della gloria che segue al martirio, concetto che richiama fra l’altro in maniera evidente la lezione di Rossaro, di cui si è parlato nel capitolo introduttivo.
Nonostante queste evidenze, una certa discontinuità, un certo segno dei tempi, possono forse essere rintracciati in una tendenza alla genericità e alla omissione di particolari e speciicazioni riscontrabili in alcuni documenti uficiali prodotti dalla dirigenza del Museo, soprattutto se confrontati con le produzioni precedenti. Lo statuto del 1950 (che costituì la base di quello che sarà uficialmente riconosciuto dal presidente della Repubblica italiana nel 1956 – al posto di quello del 1924 – e che venne sostituito formalmente solo nel 1995) era in effetti caratterizzato da una stesura stringata ed aperta all’interpretazione degli scopi e delle caratteristiche dell’ente. Anche la guida del museo del 1951, la prima del dopoguerra, era segnata da una forte sinteticità rispetto alle corpose edizioni degli anni Trenta. Senza voler sovra determinare eccessivamente queste tracce, sembra comunque plausibile supporre, accanto alla volontà di mantenere sui vecchi binari il discorso complessivo, un’esigenza di mitigazione (ma forse è meglio
8 Ibidem. 9 AMSGR, “Ricordo di El Alamein”, Fondo Livio Fiorio, Pratiche generali, busta 5.2.3.
parlare di omissione) dei toni più espliciti e retorici che avevano contraddistinto il primo dopoguerra e il periodo fascista. Il tema della ”antiretorica”, declinato in modo opportuno, era del resto destinato a grandi fortune nei decenni dopo la seconda guerra mondiale, perché consentiva di sancire una discontinuità rispetto al periodo fascista che aveva portato alla disfatta bellica, mantenendo in piedi, al contempo, il pilastro fondante dell’identità e della comunità d’interesse nazionale. Questo punto focale ritorna spesso nelle fonti, anche in quelle che rappresentavano, come si vedrà, punti di vista più “progressisti”. La necessità di una revisione dell’approccio alle collezioni del museo, nonostante la sostanziale e consapevolmente voluta continuità delle esposizioni, fu palese nella guida scritta da Giovanni Barozzi, nel 1967. La volontà di transizione verso un museo tecnico delle armi, ormai spogliato della Campana, la sua reliquia più rappresentativa, è testimoniata dalla premessa della guida. Nonostante ciò, la funzione educativa manteneva la propria importanza.
Le armi «possono esser considerate con indifferenza o repulsione, ma sono anch’esse espressione della genialità e del lavoro dell’uomo e come tali hanno una loro bellezza e rappresentano una documentazione insostituibile di cui spesso non si tiene il debito conto. (…) La Presidenza non intende esaltare con queste esposizioni la guerra o polemizzare con questo o quel Paese, ma documentare questo tragico perenne aspetto della storia umana, perché da essa i visitatori conoscano il tormento di quanti combatterono, morirono o sopravvissero, e ne traggano sprone per una migliore educazione civica che li porti a creare una società migliore»10 .
Questi anni furono segnati da una forte lessione negativa dei visitatori. Nel 1961, l’ultimo anno della Campana al castello, i visitatori furono circa 90.000. Tra il 1962 e il 1965 calarono e si mantennero tra i 50 e i 60.000. Nel 1966, l’anno del ritorno del bronzo a Rovereto sul colle di Miravalle, si scese sotto i 40.000, mentre nel primo semestre dell’anno successivo i visitatori furono solo 13.262.11 Ma per arrivare a una reale revisione delle collezioni e dell’approccio espositivo del museo bisognerà attendere, come minimo, la metà degli anni Ottanta.
10 Cfr. in M. Gober, Museo Storico Italiano della Guerra. Cenni storici,evoluzioni e progetti per il futuro. Concorso biennale storico-letterario “La storia di Rovereto e della Vallagarina”. I edizione-ANNO 2005/2007, Club 41
Rovereto, p. 128. 11 Dovrà presto soccombere il Museo della guerra? in “Alto Adige”, 2 agosto 1967. Gli articoli provenienti da giornali e riviste citati in questo capitolo si trovano anche in AMSGR, Fondo Fiorio cit.