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2.8. Esercito e militarismo. L’inquadramento della folla

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Bibliograia

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«L’azienda giocò tutto il suo prestigio e la sua capacità di crearsi consenso grazie ad una politica accorta, improntata alla inzione della “grande famiglia” raccolta intorno a Donegani (Il direttore dello stabilimento, ndr), “padre severo, sommo e buono”. Quel modello di paternalismo solidaristico-autoritario, che permeava la società contadina, sembrava poter fungere da tratto d’unione fra il dentro e il fuori: così, in dall’inizio, all’estrema gerarchizzazione dei rapporti di lavoro si accompagnò l’opera di organizzazione del tempo libero e di assistenza ai dipendenti: nel 1929 si costituì il Gruppo combattenti Sida e la compagnia ilodrammatica aziendale; l’anno successivo fu la volta del Dopolavoro e della banda; nel ’31 delle squadre sportive (ciclismo, “balonzina”, marcia, ginnastica, tiro alla fune); nel ’32 della Biblioteca del Dopolavoro; e poi un succedersi continuo di iniziative ricreative e sociali come il coro, le gite aziendali, la colonia per i igli degli operai più bisognosi, la distribuzione di denaro e buoni viveri, pacchi vestiario e indumenti, olio di fegato di merluzzo ai bambini e agli operai segnalati dal sanitario perché bisognosi di cure»105 .

La funzione compensativa di questo “stato sociale di fabbrica” non riusciva però a bilanciare il disagio derivante dalle pessime condizioni sanitarie e lavorative cui erano sottoposti questi operai e la popolazione che gravitava intorno alla Montecatini di Mori. Le fratture, i giochi di forza, gli scontri e i ricatti che attraversavano la fabbrica e il suo intorno sono rintracciabili e molteplici, a dimostrazione della supericialità, della velleità ma anche della strumentalità delle rappresentazioni del mondo contadino che si sono analizzate. Nei ragionamenti intorno alla costruzione della fabbrica, nelle considerazioni della dirigenza nei momenti di crisi, legati ai problemi ambientali o alla gestione del personale, gli stereotipi di cui si è detto potevano entrare in funzione nei discorsi per legittimare, ad esempio, l’idea della collaborazione tra direzione e lavoro nell’ottica di emarginare le componenti operaie più agguerrite e combattive che pure erano presenti.

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2.8. Esercito e militarismo. L’inquadramento della folla

«La Campana dei Caduti racchiude quanto sa di epopea; e il tumulto della pugna, e il grido dell’espiazione, e il peana della vittoria per ricantarli, attraverso i secoli, all’umanità, l’eterna fanciulla, che dolcemente sotto la carezza di “Maria Dolens” s’addormenta e sogna! La guerra non scomparirà mai dal mondo, in che questo ospiterà l’umanità, perché l’amore e l’odio saranno in eterno conlitto tra loro, e sangue fraterno abbevererà sempre i solchi del comune conine, e piantata nella madre terra sempre

105 Ivi, p. 62.

emergerà minacciosa la lama fratricida presso il paciico ulivo, ‘in che il sole risplenderà sulle sciagure umane’»106 .

Questo passo rossariano rende esplicitamente l’idea dell’ineluttabilità della guerra fra gli uomini ed esprime bene la centralità della dimensione guerriera nella memoria e nel messaggio nazionale. Il riferimento alla lotta fratricida che segnò la mitica fondazione di Roma ci parla di un conlitto umano orizzontale e non gerarchico, di una naturalissima separazione tra i popoli e di sacri conini da rispettare. In effetti, come si è già potuto desumere, la centralità della dimensione guerresca nel simbolo Campana è assoluta. Tale operazione simbolica si situava d’altronde nel solco della tradizione risorgimentale. A livello rituale, le pratiche militari, come quella della rivista delle truppe, avevano avuto una certa importanza sin dall’unità d’Italia, venendo ad avere una funzione di supplenza e di alternatività rispetto ai cerimoniali più prettamente religiosi. La festa dello Statuto, una delle più importanti dell’Italia unita, era introdotta in dal 1861 dal suono delle artiglierie «che creavano immediatamente una contrapposizione netta con le campane che chiamavano a raccolta i fedeli per la festa religiosa»107 . Con i cerimoniali della Campana dei Caduti queste due tradizioni si reincontrarono: nel progetto rossariano per i riti uficiali, ai cento rintocchi della Campana andava aggiunta la Diana, un motivo di squilli di tromba eseguito dagli Araldi, in apertura, in chiusura ma anche durante, a segnalare una divisione del rito in tre parti, riferite alla celebrazione degli eroi della trincea, del mare e dell’aria: la cosìddetta trilogia della Campana. Lo splendore e la gloria evocati da Rossaro a proposito dei cerimoniali della Campana, nel seguente caso mentre racconta la cerimonia per l’arrivo della seconda Campana a Rovereto nel 1940, volevano alimentare il mito di un giovane popolo in armi, sempre pronto alla battaglia. La visibilità e la dimensione pubblica di questo popolo in armi erano fondamentali.

«E silano i valorosi fanti, i massicci alpini dalle lunghe penne, gli agili bersaglieri dalle svolazzanti piume, i gagliardi artiglieri, e poi la inanza dal passo misurato, e poi ancora gli eleganti marinai con gli snelli avieri, tutta iorente gioventù, letizia e orgoglio della Nazione nostra»108 .

Nel già citato articolo sulla Legione trentina quarantottina del primo numero di “Alba Trentina” del 1917, emergeva un’idea precisa di truppa disciplinata, ordinata e visibile.

106 rossaro, La Campana cit., p. 149. 107 porCiani, La festa della nazione cit., p. 68. 108 rossaro, La Campana cit., p. 238.

«Prospero Marchetti si preoccupava di una cosa sola: che la Legione trentina si imponesse non per numero, ma per serietà e per un’organizzazione veramente soldatesca. Era troppo recente nelle valli trentine il deplorevole ricordo dei corpi franchi, senza uniforme, senza armi, senza munizioni, avidi in parte di avventure e di bottino. La Legione trentina doveva essere un modello di truppa. Ogni legionario aveva la sua divisa: pantaloni grigio-verde con bande rosse, la giacca di panno azzurro con iletti rossi, il cappello alla bersagliera con pennacchi di cappone: bottoni inargentati, scarpe da montagna con ghette, borsa di tela incerata a tracolla, e una giberna. Gli uficiali erano armati di squadrone e di pistola. La legione era ancora provvista di cannoncino. Oltre ciò i trentini vollero ancora la loro bandiera, e fu un tricolore su cui era scritto a lettere d’oro: religione e giustizia, da una parte, e Legione tridentina, dall’altra. Né vollero partire senza un inno proprio»109 .

L’importanza di uniformi colorate, vistose ed iconiche era stata motivata, per gli eserciti ottocenteschi, in diversi modi. Le necessità concrete sfumavano in quelle più simboliche: agevolare l’identiicazione delle truppe da parte dei comandi, impressionare i nemici, ridurre la possibilità di diserzione, attrarre reclute mediante il conferimento di status sociale, soddisfare le esigenze cerimoniali. L’evoluzione delle modalità della guerra nel lungo ottocento ino alla grande guerra industriale di trincea aveva sconvolto lo scenario su cui si erano basate molte di queste considerazioni. I fanti della grande guerra venivano lanciati in offensive tanto sanguinose quanto inutili per cercare di conquistare pochi metri di terreno, esposti alla potenza di fuoco dei nuovi e sempre più perfezionati armamenti, il cui valore strategico ed economico superava di gran lunga, nella considerazione degli alti comandi, quello dei soldati, considerati alla stregua di carne da macello. Le nuove tecniche di maquillage, di mascheramento, vennero da subito usate per proteggere armamenti e opere ingegneristiche mentre vennero trascurate, da parte degli alti comandi, le possibilità d’uso sugli uomini che non fossero addetti al funzionamento di quelle macchine. L’insistenza dei comandi italiani, ad esempio, nell’uso della tattica di assalto frontale o del principio della conquista delle cime montuose occupate dal nemico (piuttosto che del loro accerchiamento), nonostante le evidenze di ineficacia e irrazionalità, è rappresentativo di una permanenza dei vecchi schemi che portavano con sé i principi della cavalleria e dell’onore, del sacriicio e della visibilità eroica. Anche l’estrema gerarchizzazione e il dirigismo centralistico dell’esercito italiano, i cui alti comandi avevano l’ultima parola su qualunque decisione, risultavano inadeguati ad affrontare una guerra che avrebbe potuto essere affrontata meglio con una divisione dei compiti più capillare e processi decisionali sul campo e più rapidi.

109 a. rossaro, La legione trentina nel 1848, in “Alba Trentina”, I/1 (1917), p. 7.

Probabilmente principi come quello del cameratismo gerarchico, quello disciplinare oppure quello rappresentativo e simbolico, erano considerati una posta in palio piuttosto preziosa dalle classi dirigenti. Una posta da poter giocare non solo in tempo di guerra ma anche in tempo di pace. Sia dal punto di vista della loro legittimazione che dal punto di vista disciplinare.

L’esperienza della popolazione maschile nell’esercito era stata uno dei fulcri del tentativo di nazionalizzare le masse italiane. Un interessante articolo di Gianni Oliva, riguardante la naja, cioè il servizio militare di leva, ne parla come di un’esperienza, cui furono sottoposti i giovani neoitaliani dall’unità in poi, situata al conine tra riiuto e sanzione positiva di status sociale. Una esperienza possibilmente da evitare, perché portava con se il rischio dell’incolumità personale e la sottrazione di un tempo di vita, ma che una volta completata conferiva uno status sociale da esibire. Una sorta di passaggio all’età adulta scandito da una visita medica di leva che avrebbe determinato la conformità o meno al servizio militare e di rilesso la conformità al proprio ruolo di uomo e padre di famiglia. Un’esperienza, inoltre, che dava la possibilità di conoscere luoghi, persone e situazioni eccedenti il proprio ambito locale. Oliva parla di questa naja come di un’esperienza primariamente individuale, almeno ino alla prima guerra mondiale.

«La mobilitazione generale del 1915-1918 e l’esigenza di nuove forme di aggregazione che ne scaturiva erano tuttavia destinate a incidere anche sulla rappresentazione della naja, arricchendola di contenuti e sollecitando lo sviluppo di elementi già presenti nella cultura dell’Italia liberale, ma che ancora mancavano di organizzazione. A partire dagli anni Venti, con la nascita dell’associazionismo d’arma, poi patrocinato e sostenuto dal regime, la naja si allargava da esperienza individuale a esperienza di ‘corpo’: aver fatto il soldato continuava a essere àmbito di identiicazione personale, ma si speciicava di ‘aver fatto l’alpino, il fante, il bersagliere’»110 .

L’esperienza traumatizzante della guerra era potuta diventare il trait d’union a partire dal quale si poteva fondare organizzazione e solidarietà collettiva. Le associazioni dei reduci, dei mutilati e invalidi, dei “corpi” sovra citati furono tra i maggiori usufruitori e diffusori dei miti nazionalistici e non a caso rappresentarono il nucleo del nascente partito fascista. Ai piedi della Campana dei Caduti, durante i rituali e le cerimonie, a farla da padrone furono questo e altri tipi di associazionismo, questo tipo di masse più che un’indistinta

110 g. oliva, La Naja, in I luoghi della memoria cit., p. 103.

folla popolare di cui le immagini d’epoca sembrano non dare conto. Nelle cronache111 si incontrano, tra le altre cose, i duemila mutilati presenti, nel 1925, all’arrivo della prima Campana a Rovereto, oppure, nel 1929, le seicento camicie nere del quarantunesimo battaglione di Verona in pellegrinaggio, ma anche i cinquecento insegnanti delle scuole di Roma, i centocinquanta dopolavoristi e i duecento combattenti di Vicenza (tra cui era E.A.Mario, il creatore della canzone patriottica “La leggenda del Piave” che per l’occasione venne suonata sotto la Campana). Le forme di aggregazione collettiva di cui si sta parlando poterono diventare il modello del tentativo di inquadramento della massa nazionale tra gli anni venti e trenta e il fatto che tra le prime forme di aggregazione collettiva che furono create dentro una fabbrica moderna come la Montecatini, di cui si è già parlato, ci fosse proprio l’associazione combattenti dello stabilimento, è emblematico della pregnanza di questi processi sulla vita in tempo di pace. Le cerimonie della Campana, oltre ad avere la funzione di esorcizzare la realtà poco eroica della guerra e di evocare uno splendore legittimante dal sapore antico, religioso e sacro, avevano dato anche un’occasione concreta per la presenza dell’associazionismo d’arma, quello degli invalidi e mutilati, ma anche, una volta portata a termine la cosìddetta “fascistizzazione della società”, i circoli del dopolavoro, i gruppi di coristi o le associazioni degli insegnanti e le scuole. L’inquadramento della popolazione dentro la rete dell’associazionismo, militare ma non solo, fu probabilmente la più tangibile delle pratiche del tempo fascista che potesse essere deinita una politica di massa perché mirava al coinvolgimento e alla partecipazione attiva della popolazione. La discussione, in sede storiograica, circa la reale pervasività ed eficacia di queste pratiche collettive, in ambito italiano, è spesso giunta alla conclusione che il coinvolgimento delle masse fu più una questione formale e supericiale piuttosto che sostanziale e profonda. Ad esempio, le considerazioni112 di Pierpaolo Pasolini in Scritti corsari circa la velleità degli effetti dell’indottrinamento fascista se paragonati con la profonda svolta rappresentata dall’edonismo consumistico degli anni del boom economico nel secondo dopoguerra, andavano in questa direzione. Forte è la tentazione di affermare che, più dell’uso dei modelli usciti dal conlitto per inquadrare la popolazione, era stata la concreta esperienza della guerra a segnare le vite degli uomini e delle comunità. Lo scenario della coscrizione obbligatoria, con milioni di uomini chiamati alle armi e sottoposti a una rigida disciplina (materiale, ideologica e psicologica), del lavoro femminile extradomestico, della produzione coordinata e centralizzata di una quantità crescente di merci belliche e non, rappresenta un salto moderniz-

111 “El Campanom”, 1930, p. 14. 112 p.p. pasolini, Scritti corsari, ed. Garzanti, Milano 2002, p. 22.

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