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tra pellegrinaggio e turismo

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Bibliograia

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zante e può essere considerato un preludio della estinzione deinitiva delle forme di vita contadine tendenti più alla autoproduzione che alla produzione capitalistica altamente socializzata. Questa estinzione maturò, almeno in Italia, nei successivi 50 anni e si basò sul processo di sradicamento che può essere considerato uno tra i fattori più importanti della trasformazione della folla in massa.

2.9. Tra il sacro e il profano. Tra reliquia e souvenirs, tra pellegrinaggio e turismo

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La caratteristica forse più peculiare del semioforo Campana dei Caduti, almeno nella lettura che ne ho tentato di dare, è rappresentata dalla sua capacità di essere un formidabile catalizzatore simbolico e tematico. Da diversi punti di vista, la Campana e il suo universo appaiono in grado di accogliere, sul medesimo piano, una molteplicità di elementi diversi e apparentemente conliggenti ed eccentrici. Come ho già cercato di mettere in luce, ciò avviene su un piano, per così dire, spaziale (locale-nazionale-universale), su un piano storico e temporale (antichità-medioevo-modernità) e su un piano sociale (trasversalità delle categorie sociali coinvolte). Anche la serie di dualismi su cui è costruito il messaggio della Campana (tra cui il più importante è il binomio guerra-pace) rimandano alla volontà di dare corpo a un discorso generale e onnicomprensivo.

Ma la Campana funse da catalizzatore anche in un altro senso. Georg Lachmann Mosse, nel suo studio intorno al mito dell’esperienza della guerra, ha individuato una doppia e caratteristica modalità di trascendere la realtà della grande guerra: da una parte attraverso la religione civica e dall’altra attraverso la sua mondanizzazione e riduzione ad oggetti usati o ammirati nella vita quotidiana. Da una parte il culto dei soldati caduti con i monumenti e i luoghi ad esso dedicati, dall’altra tutta una serie di oggetti di uso quotidiano come i giocattoli per bambini, le cartoline illustrate oppure oggetti provenienti dai campi di battaglia che trovavano un nuovo uso, ad esempio come soprammobili. Due modalità che, prese in sé, erano il contrario l’una dell’altra, ma che potevano funzionare insieme nel rendere accettabile la guerra e la sua promozione nel segno dell’interesse nazionale. Se negli studi di Mosse queste considerazioni si basano sullo spoglio e lo studio di un gran numero di fonti, oggetti e prove documentarie, la Campana dei Caduti, come oggetto di studio, è in grado di restituire, contemporaneamente, questi aspetti. La Campana si trovò ad essere sia una reliquia carica di una sapienza simbolica e sacra che un manufatto bisognoso di cura, lavoro, manutenzione, organizzazione e denaro. In questo senso, piuttosto banalmente, si può dire che non esista mai, nelle vicende degli uomini, una dimensione esclusivamente e indipendentemente simbolica e dottrinaria.

Ma non è suficiente. La questione deve essere vista anche attraverso un’altra angolazione. Le questioni simboliche, in in dei conti, sono legate a doppio ilo con la realtà sociale all’interno della quale vengono create e affermate perché, in caso contrario, sarebbe forte il rischio di una loro riduzione a sterile sapienza antiquaria. In questo senso, l’ideologia veicolata dalla Campana è da considerarsi, come in parte si è già sottolineato, il puntello fondante di una rispettabilità, soprattutto piccolo borghese, che innervava la vita quotidiana e le relazioni sociali che attraversavano le città italiane tra le due guerre mondiali. Detto ciò, però, la distinzione tra sacro e profano è alquanto utile per cogliere, attraverso le nostre fonti, la presenza di una sensibilità, se così la si può chiamare, dispiegata a livello di pubblicistica e quindi a livello pubblico, che sembra aver a che fare più con le emergenti dinamiche della produzione e del consumo capitalistico che con la razionalità rappresentativa e simbolica d’antico regime. Ma forse sarebbe più corretto parlare di un reciproco appoggio, se non di una contaminazione fra queste due componenti. La caratteristica commistione di sacro e profano, ma con una preminenza del secondo, emerge chiaramente in una pubblicità su “El Campanom” del 1941. A essere sponsorizzata era una campana-ricordo e la didascalia di corredo si presentava così:

«Sotto gli auspici dell’Opera della Campana dei Caduti, a parziale beneicio dell’Associazione Madri e Vedove di Guerra. Sezione di Rovereto. La Campanella-ricordo fusa in tre tipi diversi è la precisa riproduzione in miniatura dell’augusta Campana dei Caduti di Rovereto. È di valore veramente intrinseco in bronzo artistico, inemente cesellata, sonora, squillante, bellissimo ed utile soprammobile per la casa o l’uficio»113 .

In questo esempio la reliquia-Campana, normalmente caratterizzata da sacralità e unicità, poteva tranquillamente diventare una merce riproducibile in serie, un oggetto dal valore intrinseco, a cavallo tra l’utile e l’artistico. Una sensibilità utilitaristica poteva funzionare insieme a una sensibilità estetica la cui ragione stava nella prossimità, spesso evidente nel pensiero di don Rossaro, tra l’arte e il sacro. Trovo utile accostare quest’ultima pubblicità a un’altra, situata a breve distanza sulla stessa rivista, riferita a un prodotto d’uso comune come una bicicletta. Quando l’ho notata sono stato incuriosito dalla scrittura esplicita e dall’incedere, per noi forse un poco desueto, del ragionamento. La sensibilità utilitaristica di cui si è detto è qui manifesta e univoca e probabilmente testimonia di una sensibilità diffusa nelle classi sociali cui era destinata la pubblicazione.

113 “El Campanom”, 1941, s.n.

«L’acquisto di una bicicletta BIANCHI è più un investimento di capitale che un semplice acquisto di un articolo di utilità. Investimento vantaggioso inoltre, perché una BIANCHI garantisce un servizio soddisfacente per oltre vent’anni. Fa risparmiare più di quanto costa e anche usata è valutata più di un’altra macchina nuova delle tante in commercio».

Le réclame delle attività commerciali roveretane non erano mancate in dai tempi di “Alba Trentina” ma ne “El Campanom”, una volta che la Campana aveva cominciato a funzionare in pianta stabile sul castello di Rovereto, al ianco del Museo della Guerra (anch’esso con una isionomia ormai deinita), si cominciarono a trovare anche le pubblicità riferite ai nuovi monumenti roveretani alla memoria nazionale. Le modalità espressive di questo tipo di comunicazione sembrano appiattire le nuove vestigia sacre sul piano del prodotto da consumare. Una pagina del 1926 invita a visitare «in devoto pellegrinaggio il Cimitero Militare di Castel Dante, il Redipuglia trentino». Le righe seguenti presentavano, in forma di elenco, le attrazioni che la visita offriva: «Ossario-Trincee di guerra- Sala della Riconoscenza-Visione del Sacro Colle dei più terribili campi di battaglia» A seguire poi le indicazioni stradali per recarsi sul luogo dove una decina di anni più tardi sarebbe sorto l’Ossario monumentale, distante qualche chilometro dalla città, nei boschi che dominano la Vallagarina. La grande guerra aveva rappresentato una brusca interruzione dello sviluppo del turismo nella regione. Il primo decennio del secolo aveva visto affermarsi le prime imprese in questo campo, orientate al soddisfacimento di una domanda elitaria, incarnata soprattutto dalla borghesia asburgica. Gli anni dell’immediato dopoguerra avevano visto una presenza rarefatta della precedente clientela nordica e al contempo una certa freddezza da parte di una possibile clientela italiana. Non era mancato perciò chi aveva ritenuto necessario mettere in atto opportuni provvedimento per rilanciare il settore.

«Fu ben presto sotto gli occhi di tutti che il rilancio del turismo della regione non avrebbe semplicemente potuto passare attraverso una sorta di empirica sostituzione degli ospiti, ma avrebbe dovuto percorrere strade nuove, volte contemporaneamente al graduale recupero della clientela tradizionale, così come ad attrarre, in termini sempre più convinti, la domanda italiana, approittando anche dell’onda emotiva suscitata nelle vecchie province dalla guerra e dal desiderio insito nell’opinione pubblica italiana di visitare i luoghi dove essa era stata combattuta»114 .

114 a. leonardi, Dal turismo d’élite al turismo di massa, in La regione Trentino Alto Adige/Südtirol nel XX secolo, in Economia. Le traiettorie dello sviluppo, a cura di Andrea Leonardi, Fondazione Museo Storico del Trentino, 4/2 Grenzen Conini, Trento 2009, p. 315.

Le iniziative di carattere promozionale non mancarono.

«Esse erano indirizzate ai potenziali ospiti italiani e facevano leva soprattutto sui sentimenti patriottici. Tra l’altro lo slogan: “Italiani visitate il Trentino”, che nella fase prebellica le associazioni irredentistiche avevano coniato in contrapposizione alle iniziative di propaganda pangermanista, venne trasformato in ‘ Italiani visitate la Venezia Tridentina’»115 .

Il paesaggio della memoria che si veniva delineando in Vallagarina sembrava prestarsi particolarmente bene a fornire varie alternative di visita. Da una parte Rovereto, la città storica con il suo castello, il suo Museo della Guerra e la sua Campana dei Caduti, dall’altra la natura di montagna con i suoi campi di battaglia e i suoi cimiteri militari. L’appropriazione, l’antropizzazione e la modernizzazione di un territorio storicamente poco accessibile come quello montano, erano potute passare, in un primo momento, attraverso il nascente turismo estivo d’élite durante la belle époque, successivamente attraverso la guerra d’alta quota, tecnologica e di massa, per poi continuare su binari analoghi a quelli dell’anteguerra, con alcune signiicative novità che si esplicitarono negli anni trenta, con il ritorno e il superamento dei livelli di turismo precedenti la guerra.

«La pratica sportiva che era stata all’origine della valorizzazione turistica della montagna, attraverso l’alpinismo e la “conquista dell’inutile”, determinò l’avvio, ancora per altro timido, della stagione del turismo alpino invernale con gli sport della neve»116 .

Ma la novità più interessante non fu l’introduzione degli sport invernali (nonostante il nesso tra miti nazionalistici, sport, virilità, salute dei corpi e della razza, sia sicuramente inerente al mio discorso), bensì l’emergere dei primi segni di un turismo di massa. Il ciclo turistico maturato tra il 1934 e il 1938 fu particolarmente prospero.

«A ridare slancio alla domanda turistica, oltre al migliorato clima economico, contribuì anche il nuovo impianto legislativo, che in diversi paesi europei ridusse l’orario lavorativo e applicò la disciplina delle ferie pagate. Nello stesso tempo si vennero organizzando degli organismi inalizzati alla valorizzazione di queste novità, come l’organizzazione denominata Krafth durch Freude nella Germania nazionalsocialista, o l’Opera nazionale del dopolavoro nell’Italia fascista. Concomitantemente con tali iniziative assunse un ruolo primario la capacità messa in

115 Ivi, p. 317. 116 Ivi, p. 319.

atto di adeguare l’offerta turistica al nuovo tipo di domanda. Di fondamentale rilevanza fu dunque, accanto all’avvio degli sport invernali, la messa a disposizione di una clientela assai variegata di una serie di nuove infrastrutture turistiche e tra di esse le “colonie” alpine destinate a organizzazioni dopolavoristiche e a diversi tipi di associazioni di tutela dei minori»117 .

Appare evidente come le politiche portate avanti dallo stato nel tentativo di inquadrare le masse nazionali, politiche legate a doppio ilo, come si è già mostrato, con i miti e gli apparati ideologici nazionalistici, fossero a loro volta fortemente legate con la dimensione economica e produttiva in un groviglio di rimandi reciproci che è dificile misurare, una complessità in cui non è agevole stabilire la preminenza di un elemento sull’altro.

117 Ivi, p. 321.

G. Wenter Marini, La fusione, litograia, 1925.

Capitolo 3. La Campana dei Caduti dopo la seconda guerra mondiale

La mia ricerca intorno alla Campana dei Caduti nella seconda metà del Novecento, ha preso le mosse da una serie di fondi conservati presso l’archivio del Museo della Guerra di Rovereto. Questi fondi riguardano la vicenda dello spostamento della Campana, dalla sua sede originaria, sul torrione Malipiero nel castello di Rovereto, alla sua sede attuale, immersa nei boschi del colle di Miravalle, a poca distanza dall’Ossario monumentale di Castel Dante che sovrasta l’abitato di Lizzanella, una frazione di Rovereto. Questa vicenda vide la contrapposizione di due “partiti” che, sinteticamente, possono essere identiicati con la dirigenza del Museo della Guerra, il cui personaggio più rappresentativo fu Livio Fiorio1, e con quella dell’ente che gestiva la Campana, detto Opera della Campana dei Caduti, guidato in dal 1953 dal padre cappuccino e cappellano della guardia di inanza di Trento, Eusebio Jori2. Il contenzioso fu al centro del dibattito pubblico locale, come testimonia una grande mole di articoli di giornale, per tutti gli anni sessanta (e oltre) del Novecento. Attraverso questi, oltre che attraverso le corrispondenze, i promemoria vari, i resoconti e gli ordini del giorno di incontri e riunioni, è possibile ricostruire, in maniera piuttosto minuziosa, la precisa successione e concatenazione degli eventi, oltre che la dialettica instauratasi tra le parti in causa. Ma l’obiettivo di questo capitolo conclusivo non mira a questa ricostruzione, il cui interesse mi sembrerebbe del resto abbastanza limitato. Molto più interessante mi è parso cercare di cogliere le tracce frammentarie e la consistenza di quello che potrebbe essere deinito lo slittamento delle coordinate simboliche del “paesaggio della memoria” che si è cercato di delineare nel capitolo precedente. I grandi fatti che fanno da sfondo e da premessa a questo slittamento sono costituiti, inizialmente, dalla seconda guerra mondiale, dalla sconitta e dal crollo del fascismo e dalla rideinizione degli equilibri imperialistici e geopolitici mondiali. Per quanto riguarda l’Italia, l’atto di fondazione costituzionale e la nascita della Prima Repubblica furono senz’altro dei passaggi traumatici per l’apparato ideologico disegnato da Rossaro, le cui ascendenze risorgimentali, monarchiche, ma anche fasciste e militariste sono piuttosto chiare e conclamate. Nonostante ciò, quello che mi ha colpito nell’approccio alle fonti, è comunque l’indubbia continuità e la permanenza dei pilastri fondamentali del discorso nazionale e patriottico racchiuso nell’orizzonte delle fonti prodotte dalla classe dirigente locale nel secondo dopoguerra.

1 Per una panoramica generale sul personaggio cfr Livio Fiorio. “Inventario dell’archivio (1910 - 1974)” a cura di

M. Saltori, p.6-7-8 http://www.museodellaguerra.it/wp-content/uploads/2015/06/Inventario_Fiorio.pdf (sito consultato il 5 febbraio 2017). 2 http://www.fondazioneoperacampana.it/la-campana/protagonisti/padre-eusebio-jori.html (sito consultato il 5 febbraio 2017).

Gli anni Cinquanta possono essere considerati al contempo apogeo e canto del cigno delle due istituzioni protagoniste del mio studio, almeno per come si erano venute a costituire con Rossaro vivente. Il binomio Campana-Museo, all’interno del vecchio castello di Rovereto, attirò in questo decennio d’oro una media di 70.000 e più visitatori annui, cifra che non venne più raggiunta nei decenni successivi, per quanto riguarda il Museo della Guerra. Una prima rottura della Campana nel 1955 (provvisoriamente riparata) e una seconda nonché deinitiva nel 1960, resero necessaria la rifusione che scorporò il binomio e diede occasione per la futura separazione deinitiva, voluta da Jori e avversata da Fiorio. La convivenza delle due istituzioni in quegli anni non fu facile. I patti precari che la regolavano accentravano le competenze e le responsabilità sul Museo che era dotato di una veste legale riconosciuta a livello nazionale, a differenza dell’Opera che era patrocinata in modo legalmente informale3 dal Sovrano militare ordine di Malta (SMOM) sin dal 1940. Il Museo, nel concreto, si trovava a gestire le entrate derivanti dai biglietti d’ingresso. L’operoso Jori mal sopportava, probabilmente, questa situazione di dipendenza che limitava i suoi margini d’azione. Le schermaglie non mancarono e le crescenti pretese inanziarie di Jori per il mantenimento della Campana si concretizzarono in accordi provvisori da rinnovare di anno in anno, almeno ino al 1960. La rottura deinitiva della Campana diede il via a un complesso iter per la rifusione e il successivo collocamento del bronzo. La classe dirigente cittadina fu chiamata a discutere la questione ma i tentativi di mediazione non riuscirono a comporre i dissidi. Il partito della Democrazia Cristiana, egemone a livello cittadino, provinciale, regionale e nazionale, si schierò, più o meno decisamente, con Jori e accompagnò la sua azione di rinnovo del monumento e di inquadramento dell’Opera nel quadro normativo statale, con l’elevazione a fondazione riconosciuta.

Vorrei cominciare la rassegna dei testi scelti, col citare un punto di vista apparentemente esogeno rispetto alle mie fonti principali, che si riferiscono più che altro all’ambiente combattentistico e istituzionale. Un articolo presente su l’Unità veneta del 8 marzo 1951, riportava un punto di vista polemico riguardo i tre monumenti di Rovereto (Campana dei Caduti, Museo della Guerra e Ossario Monumentale), indicandoli come collettori di manifestazioni e sentimenti fascisti, nazionalistici e militaristi. Il giornalista, però, intravedeva la possibilità di una trasformazione che cambiasse di segno al messaggio, mantenendo al contempo le caratteristiche del pellegrinaggio e dell’evento popolare, in quella che, a posteriori, può essere considerata un’anticipazione del destino della Campana.

3 «Tale ambito patronato che tutto si compendia in un onoriico e simbolico incarico» Cfr. AMSGR, “Atto notarile per la concessione del patronato”, in Fondo Comitato Don Rossaro, Atti vari, 1.14.b1.

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