L’antisemitismo come tradizione Stefano Levi Della Torre
N
ella sezione “Magghid” dell’Aggadà di Pesach (testo che si legge durante la cena rituale della Pasqua ebraica che celebra l’Esodo dalla schiavitù d’Egitto) si legge: Gridammo al Signore, Dio dei nostri padri, come è detto (Es 2,23). In quel lungo tempo morì il re d’Egitto e i figli di Israele gemevano per la schiavitù e gridavano e il loro grido salì fino a HaShem (a Dio). Come mai – si domanda un commento – i figli di Israele si lamentavano proprio alla morte del Faraone che aveva loro imposto la schiavitù? Risposta: era perché la schiavitù, decisa dal Faraone appena morto per reagire ad un’autonomia ebraica vista come pericolo (Es 1, 8-10), confermata dal suo successore, si sarebbe trasformata da uno stato di eccezione in un’istituzione stabile, in una tradizione: in un sistema duraturo di rapporti codificati, di stereotipi capaci di fissare immaginari e destini sociali. Non che la tradizione si trasmetta nel tempo senza variazioni. Al contrario, attraversa periodi di latenza e periodi in cui si riattiva secondo le circostanze in nuove forme e modi, ma gravitando sempre intorno a un nucleo più duraturo delle vesti che di volta in volta indossa seguendo le mode dell’immaginario storico. Il termine “pregiudizio” attribuito all’antisemitismo non rende conto del fenomeno per due ragioni: la prima è che l’antisemitismo non si limita ad essere un’opinione più o meno volatile ma si perpetua grazie alla robusta concatenazione di una tradizione storica; la seconda è che l’antisemitismo non è solo giudizio “dato prima”, e quindi privo di rapporti col reale, è anche post-giudizio, cioè elaborazione fantasmatica e ostile di dati di fatto. Dati che l’antisemita cerca e trova, spesso