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La strada era tortuosa

Qui è un elemento che agisce come linea di confine tra una memorialistica a caldo e una che rievoca quando l’eco della guerra si è fatto più remoto. Con il passare del tempo ciò che sembrava importante allora, viene messo in secondo piano: le primissime memorie si soffermano più lungamente sugli aspetti bellici della Resistenza, sulle azioni militari vere e proprie, ma una volta ristabilite anche dalla storiografia le effettive proporzioni e il reale peso della Resistenza nel conflitto, emergono nelle memorie posteriori al 1950 gli aspetti della vita associata, il contenuto esistenziale, ciò che stava dietro le azioni e le motivava, la novità dell’esperimento comunitario verificatosi nelle formazioni.147

La strada era tortuosa

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Per portare un esempio che illustri questo terzo tipo di memorie – anticipatrici di una tendenza che si realizzerà compiutamente nelle memorie successive alla prima ondata – si leggano alcune pagine del poco noto scritto di don Luigi Canessa. Cappellano della formazione partigiana “Centocroci”, attiva in Liguria, Canessa ha pubblicato la sua memoria già nel 1946. Essendo sacerdote, egli aderisce come tale al movimento partigiano: il suo compito non è combattere ma portare il conforto della religione ai combattenti. Canessa rimane fedele ai suoi diretti superiori e alla Santa Sede: per lui, il partigianato non significa ribellione. Egli sottolinea fortemente il contributo della Chiesa alla guerra partigiana:

Alle parole del comandante fanno seguito quelle del benedettino Padre Paolino Beltrami Quattrocchi che porta ai partigiani il saluto della Chiesa. Di questa Madre Chiesa che ha sofferto e pianto per la persecuzione dei figli smarriti, che ha accomunato il sangue dei suoi Sacerdoti con quello dei combattenti, che ha portato nella macchia, nel fragor della battaglia, nel cozzar delle passioni, nel sanguinoso dramma della Patria, la parola del conforto, della tolleranza e del perdono cristiano […].Gli applausi che spontanei accompagnano queste parole sono l’espressione della riconoscenza per quello che gli umili parroci di campagna, tutti i sacerdoti, hanno fatto per loro.148

Canessa non spiega i motivi che l’hanno spinto a scrivere. Si può intuire che la sua memoria fosse una risposta a chi, dopo la Liberazione, ha accusato la Chiesa di aver appoggiato il regime nella sua crescita, di essere rimasta inerme di fronte ai crimini di cui anche il fascismo si è macchiato, e di fronte alla guerra civile. Dando rilievo ai sacerdoti che alla Resistenza hanno aderito – in prima

147 SANDRO FRIGERI, “Il cielo era alto, bellissimo…”. Percezione della natura ed esperienza nella memorialistica partigiana, in “Studi e ricerche di storia contemporanea”, n. 28, dic. 1987, pp. 4546. 148 DON LUIGI CANESSA, La strada era tortuosa, Genova, ed. AVA, 1946, pp. 213-214.

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linea oppure dietro le quinte – Canessa ha cercato di limitare queste accuse. Effettivamente, si deve riconoscere che i preti di campagna hanno svolto un importante ruolo nella guerriglia partigiana: si occupavano di mantenere i contatti tra i ribelli e le famiglie, di recuperare i cadaveri e riconsegnarli ai parenti, di contrattare con i nemici per lo scambio di prigionieri. L’autore vuole mostrare quanto fosse importante la figura del sacerdote all’interno di un gruppo partigiano: sebbene non combattesse, svolgeva incarichi altrettanto importanti. Riflettendo su una memoria di parte cattolica, emergono subito alcune discrepanze rispetto ad uno scritto comunista. In Canessa non si trovano rimandi a nessuna confessione ideologica: nei testi di sinistra della prima ondata, invece, i riferimenti abbondano. Differenze più interessanti si notano nei congedi, luogo in cui il memorialista esplicita le speranze per il futuro, i progetti del dopo Liberazione. Come si avrà occasione di notare, la maggior parte dei comunisti avverte pericoli all’orizzonte, e conserva nelle conclusioni un certo spirito combattivo poiché sente che la battaglia non è del tutto terminata. Ecco invece quello che un sacerdote consiglia ai partigiani:

Ed ora, o miei partigiani, la nostra impresa di gloria è finita […]. Deposte le armi, che impugnaste per liberare la patria, afferrate gli strumenti del lavoro per la ricostruzione. Non dimenticate quello che avete sofferto, ma non vantatevene: abbiamo fatto il nostro dovere. […] Portate nel vostro cuore il nome dei nostri morti. […] Per essi le benedizioni delle madri, i fiori delle nostre fanciulle, i baci dei nostri bimbi. La memoria dei morti arde e rischiara la grande opera nostra. […] I lunghi mesi di vita partigiana sono una di quelle esperienze che incidono dei solchi nelle coscienze. Seminate in questi solchi gloriosi le premesse della prosperità e della pace.149

È evidente la differenza: tanto i comunisti avvisano i compagni di stare in guardia anche dopo la Liberazione, e di non consegnare le armi, quanto i cattolici caldeggiano il ritorno alle vecchie occupazioni, ai mestieri e alla vita quotidiana di un tempo. La Resistenza deve rimanere solo un ricordo, poiché si tratta di una fase ormai conclusa.

Come già detto, lo scritto di Canessa è esempio del terzo tipo di memoria poiché aggiunge alla cronaca bellica e alla memoria dei caduti anche il racconto di alcuni momenti spensierati di vita associata partigiana. In queste parti più distese, la figura dell’autore non emerge come protagonista principale: il soggetto è un

149 Ivi, pp. 218-219.

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“noi” collettivo. Si veda, a titolo di esempio, la descrizione dei festeggiamenti natalizi:

E contro tutte le previsioni, in queste condizioni morali, il Natale del 1944 ci trovò sui monti. Il Natale più indimenticabile della nostra vita! E qual arcano fascino avevano sui cuori le campane delle nostre chiesette che invitavano i fedeli montanari a prepararsi all’ultima nascita di Gesù bambino nell’Italia martire! E con quale ardore i «ribelli» confusi col popolo, cantavano nella novena le nenie natalizie, imparate da bambini: le sole armonie che non si scordano più: quelle stesse che una mamma in ansia, una sorella, la persona del cuore, cantavano, nello splendore di chiese più vaste, laggiù, nella lontana città! Che comunione di spiriti in quelle sere!150

Attraverso il racconto di Canessa, che non dice mai “io”, vediamo la banda nascere, crescere e organizzarsi, nominare i suoi capi, essere riconosciuta dal comando superiore, e distinguersi in imprese coraggiose: non mancano le descrizioni delle battaglie. In queste occasioni Canessa abbandona il soggetto collettivo per far emergere il ribelle più eroico, seguendo così lo schema narrativo del racconto delle battaglie di cui si è già parlato:

E il 24 marzo Nino è a fianco di Richetto sul passo di Centocroci a fronteggiare la prima azione di rastrellamento. Sono oltre mille uomini della «Xmas» e con loro c’è il Comandante Borghese! Salgono da Varese Ligure verso il passo sopra una colonna di autocarri. Gli ottantadue uomini della “Centocroci” combattono, come leoni, per quattro ore; ma chi li ferma, chi li ricaccia, chi li batte è un gruppo di due uomini ed una vecchia mitraglia: la mitraglia di Richetto. Ma al suo fianco vi è un giovane che gli porge i caricatori, Nino Siligato! Dopo quel combattimento tute le nubi si dileguano: Nino si rivela come uno dei più ardimentosi combattenti della «Centocroci»! Per questa dolorosa strada Nino ha trovato il suo posto: è un «ribelle»; un ribelle come lo vide il primo sole di La Spezia il 9 settembre, un ribelle finalmente armato, dopo tanto travaglio, così come lo colse la Morte, Madre degli Eroi, la notte del 17 gennaio 1945, sulla neve di Codolo.151

Anche se da questo stralcio non si può notare, Canessa non aveva preso parte alla battaglia descritta: essendo lui cappellano, il suo posto era al campo base, non in battaglia. Ciò nonostante, l’autore racconta di questo combattimento come se ne fosse stato spettatore. Questa caratteristica, di far propri racconti o esperienze altrui, è da ricollegare a quanto detto in precedenza riguardo alla dimensione comunitaria in cui i partigiani vivevano, e all’abitudine di scambiarsi oralmente e reciprocamente il racconto delle proprie esperienze. In quel contesto,

150 Ivi, p. 128. 151 Ivi, pp. 162-163.

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