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III.3 - La montagna e i suoi significati
potenze statali. La Resistenza è una guerra diversa perché ha prima di tutto coinvolto il popolo, che si è ribellato al potere statale; purtroppo la ribellione non è stata unitaria, compatta. Partigiani, repubblichini e, se si vuole, la cosiddetta “zona grigia” sono le “fazioni” in cui si è frammentato il popolo italiano. Se ci si riflette, il popolo italiano non figura come protagonista di queste memorie, poiché nella percezione degli scriventi non esiste una collettività salda che si possa definire “popolo italiano”, dal momento che il fascismo e la Resistenza l’hanno completamente sfaldato. Certamente, alcuni memorialisti parlano di “Italiani”, ma si riferiscono con questo termine soltanto al mondo partigiano, e alla gente comune ostile al regime. La definizione di “popolo” perde di valore a contatto con la realtà che essi stessi descrivono, in cui non si sa dove collocare i fascisti, i quali – per quanto vengano allontanati dal mondo partigiano con la giustificazione della “scelta sbagliata” – condividono la stessa origine culturale e linguistica dei ribelli. Il fatto che queste problematiche siano presenti, in modo più o meno velato, in tutti i testi che si sono finora analizzati – dal celebrativo Costantini fino al più lucido Bianchi – è segno che la Resistenza non è stata vissuta come movimento unitario e popolare nemmeno da chi ne è stato protagonista. L’idea di Resistenza unitaria è stata costruita in seguito, sulla base di testimonianze e immagini solo parziali, con lo scopo di costruire un mito su cui si sarebbe dovuto coagulare il nuovo spirito patriottico che avrebbe teoricamente riunito il popolo italiano dopo la cesura del fascismo. Ogni memorialista, invece, ha colto i punti deboli dell’evento Resistenza, sconfessandone l’immagine unitaria. Pur narrandolo come una tappa importante per la rinascita del paese e per la propria crescita individuale, non ha voluto occultarne le problematiche più evidenti.
III.3 - La montagna e i suoi significati
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La montagna è il contesto fisico della guerriglia partigiana; nei racconti dei memorialisti essa, però, assume molteplici e diverse valenze. Prima di tutto, la montagna è la casa fisica dei partigiani; essa dà ai ribelli, che conoscono bene il territorio, il luogo ideale per le imboscate, gli attacchi a sorpresa, e gli assicura difesa e rifugio, grazie alle molte baite sparse negli alpeggi
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usate dai pastori nel periodo estivo. Le valli montane più isolate sono rimaste, spesso per tutto il ventennio, come impermeabili al controllo statale del regime: delle comunità, in cui, sebbene l’autorità fascista fosse presente, la vita comunitaria continuava ad essere autogestita come lo era prima, secondo le gerarchie patriarcali pre-esistenti. Dice Bruno Francia a proposito della Val Formazza:
È questa la più lunga delle valli ossolane, popolata in gran parte da pastori e boscaioli che, talvolta, per far quadrare il loro bilancio familiare non esitavano a trasformarsi in contrabbandieri. Sommariamente si può dire che i valligiani distanzino dal capoluogo del circondario solo cinquanta chilometri, ma per taluni è come se Domodossola fosse stata lontana mille miglia, occupati come erano a governare e provvedere al loro bestiame e ai loro alpeggi.609
In queste zone si è conservata intatta una mentalità e un modo di vivere arcaico e contadino, completamente sincronizzato con i ritmi della terra, delle stagioni e alieno dalle abitudini urbane; si ha quasi l’illusione che la guerra non solo non sia arrivata in quelle zone, ma addirittura non sia proprio. La montagna e i suoi abitanti mantengono intatto il miraggio della pace che può ancora essere, il contatto con la vita quotidiana precedente alla guerra. Ecco con quale stato d’animo Fortini vive l’ultima notte prima dell’esperienza partigiana, trascorsa in una baita di contadini:
E ora avevo quasi l’impressione di essere fra contadini italiani prima della guerra e che la guerra davvero non fosse […]. Era come se l’ultima immagine di pace che dovevo portare con me avesse voluto assomigliare a quelle, tanto lontane nella memoria, di altri anni. 610
Si deve ricordare che i ribelli vivono interamente e senza sconti nel
contesto della guerriglia. Una volta saliti in montagna, essi perdono completamente la percezione della vita reale, in un isolamento in cui mancano del tutto i riferimenti spazio-temporali della quotidianità:
È difficile stabilire che giorno fosse se si tiene conto che in certi momenti si sapeva appena in che mese si era.611
Il senso d’isolamento in cui i partigiani vivono, lontano dalla civiltà e dalle famiglie, è amplificato dal paesaggio montano stesso, quando non è popolato dai
609 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 85. 610 F.FORTINI, Sere in Valdossola, cit., pp. 169-170. 611B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 25.
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suoi abitanti. Soprattutto d’inverno, la neve e il freddo aumentano la sensazione di ovattamento e di lontananza dalla vita. Il testo di Fortini si chiude proprio con il protagonista in mezzo alle nevi alpine, in un’atmosfera di rarefatta solitudine:
Ma la neve copriva tutto, gli ultimi raggi di sole toccavano le cime. Il gelo disseccava la gola, chiudeva la bocca, sigillava le guance. Camminavo a fatica, sollevare il ginocchio era una meditata angoscia […]. Avanzavo lungo le rive di un lago tutto di ghiaccio morto e torbo; e il vento soffiava ormai a tormenta, rompeva, ricomponeva nuvoli sotto i precipizi. L’Italia era ormai dietro di me; e io ero solo, con una strana musica di quiete nella mente affaticata, tanto minuscole divenute le figure degli altri che scendevano di pendio in pendio, scancellati dai fumi della neve rosa […].612
Il contatto con i paesi di montagna e con i suoi abitanti ravviva la percezione che, fuori dal contesto bellico, c’è ancora un’umanità che continua a vivere con i suoi ritmi quotidiani. I memorialisti vedono in questa realtà, che continua a resistere nonostante la guerra, la garanzia di un futuro di pace, per il quale vale ancora la pena di combattere. Per fare un esempio, ecco i pensieri di Elsa Oliva di fronte ad un alpeggio popolato di vacche al pascolo:
Delusi e stanchi per la veglia inutile, ritorniamo sulla cima del monte. A lungo rimaniamo seduti in cima ad una altura, a guardare la pianura circostante. Guardo i prati alpestri che si coprono già leggermente del colore caldo dell’autunno. Qualche mucca ritardataria pascola sulle alture ed il suono monotono dei sonagli si spande nell’aria largo e senza eco, rendendomi triste e sola. Sospiro mandando giù una golata di saliva amara e penso: «torneranno momenti migliori anche per noi».613
La continuità di vita che si riflette nella popolazione contadina e nella natura spesso viene messa in contrasto con la realtà stessa della guerra. Anche di fronte al sangue, alla morte, alla violenza tra uomini la natura non si scompone, mantenendo i suoi ritmi. Antonio Vandoni chiude l’episodio Un confessore partigiano proprio evidenziando il contrasto tra l’esecuzione di un uomo e il canto dei passeri che riprende il suo fluire, incurante della violenza umana che si è appena compiuta:
Intanto sulle piante gli uccelli spaventati ed ammutoliti dalla detonazione, ritornano ed attaccano poco a poco la loro allegra sinfonia, ignari della sanguinosa tragedia, che è questa nostra guerra civile […]. I partigiani sono muti. In fondo al cuore si incide una ruga, che fa invecchiare più di quelle che solcano il viso. Sulle piante gli
612 F. FORTINI, Sere in Valdossola, cit., pp. 202-203. 613 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 63.
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uccelli sono tutti uniti in un coro allegro e melodioso, che contrasta col nostro mutismo.614
Adriano Bianchi concede molto spazio alla natura, nell’economia della sua narrazione. Anche la sua è una natura aliena dal dolore e dai conflitti umani:
Il sole basso e offuscato, sublime impressionista, dilata il paesaggio, lo sforma in lontananze confuse. A valle, invece, tutto è distinto e chiaro come in un acquerello: azzurra l’acqua, bianche le ghiaie emergenti, verdi e gonfie le rive. La natura, negli stati di grazia, celebra la sua impassibilità di fronte ai nostri affanni.615
L’insensibilità che la natura manifesta verso l’uomo e le sue azioni
concorre ad aumentare nei ribelli la percezione della stupidità della guerra, dell’inutilità di tutta la violenza umana, che per le colpe di cui si è macchiata sembra quasi rifiutata dal mondo naturale:
Le minacciose montagne che s’ingrandivano, nere contro il cielo, la bellezza stessa, ora aspra, ora ridente, del paesaggio ci offrivano la cornice del disegno da comporre. Questa presenza grandiosa e delicata ci avrebbe accompagnato sempre, anche nei momenti di desolazione, sovente quale elemento di contrasto rivelatore dell’assurdità dei comportamenti umani, quasi fossimo ospiti indegni ed insensibili di questa terra.616
La montagna – con la sua natura selvatica e insensibile alle sorti umane, l’atmosfera di solitudine e di pace tipica delle alte quote – non è solo fonte di ulteriori inquietudini per il ribelle, che si sente escluso da quel ciclo vitale. Essa funziona anche come elemento positivo nella narrazione perché va a controbilanciare la violenza cieca che travolge i partigiani negli scontri a fuoco. Dalla montagna, dalla calma impassibile del paesaggio, i partigiani recuperano il senso di pace interiore sconvolto dagli atti di violenza che il contesto bellico obbliga a compiere. Aristide Marchetti racconta di un periodo trascorso in una baita in alta montagna come se si trattasse di un processo di purificazione dagli eccessi della guerriglia:
Le Alpi sorgono come d’incanto la mattina, i ghiacciai sfumano nell’azzurro. A volte invece mari di fitta nebbia permangono immobili, densi. Mi pare di essere isolato in un mondo di sogni. La guerra, gli uomini che si odiano e che si uccidono, la mia stessa casa dimentico. I miei pensieri volano senza fatica al cielo, si schiariscono in visioni riposanti, si avvicinano a Dio. La filosofia degli Alpini è la più bella e la più profonda; è nutrita di luce e di silenzi, ha la purezza
614 A.VANDONI, La vita per l’Italia (vita partigiana), cit., p. 112. 615 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., p. 47. 616 Ivi, p. 50.
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della neve, è fatta di bontà primitiva. «Tutto è lecito oltre i mille». Non è solo un modo di dire scherzoso. Si è più semplici, più veri, più buoni oltre i mille.617
Come si vede, la pace della montagna rimane lontana dall’uomo, ma allo stesso tempo diventa un elemento che gli può portare conforto: un bacino positivo a cui il partigiano può attingere la linfa vitale per purificarsi dalla dimensione bestiale che deve necessariamente assumere per vivere la guerriglia. Da questo punto di vista, si è già notato come anche la popolazione contadina funzioni da propulsore per le azioni partigiane. Oltre a dare ai ribelli il contributo materiale del sostentamento e del rifugio, il contatto con la popolazione motiva la loro lotta. Qualche volta, è in grado di metterla “in pausa” concedendo al ribelle di ritrovare – seppur trasfigurato in facce altrui – il calore domestico e affettivo familiare. A questo rimanda l’episodio già citato di Adriano Bianchi che, ospitato da un’anziana signora, ha come la sensazione di essere bambino in compagnia della vecchia nonna. Bianchi dice chiaramente che per i ribelli il contatto con la gente è fondamentale perché essi mantengano vivo il loro lato
umano:
Andavamo alla ricerca di cibo, ma avevamo ancor più bisogno d’incontri, di vedere gente in viso, di uscire dal mistero, dalle nebbie in cui eravamo avvolti.618
Un esempio simile all’episodio in cui Bianchi incontra l’anziana signora è raccontato anche da Ester Maimeri, che ricorda nel suo racconto il caso di un anziano signore, solo e vedovo. La figura di quest’uomo appare all’improvviso nella narrazione; Ester lo conosce per caso, durante una fuga. L’episodio è comunque emblematico se viene ricordato dalla narratrice, nonostante non abbia niente a che vedere con il contesto della guerriglia; questa figura senza nome è importante perché costituisce la “pausa” della protagonista dagli eventi bellici. L’uomo è un vecchio pastore, un montanaro, che vive in una baita da un tempo indefinito, confidando solo nelle bestie e nelle risorse della montagna. La narratrice si preoccupa di non svelargli la sua identità di staffetta, come a volerlo preservare, nel suo nido di pace e di ricordi, dalla crudeltà della realtà esterna. Ester descrive così la sua casa e la sua figura di contadino:
617 A.MARCHETTI, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio, cit., p. 78. 618 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944,cit., p. 127.
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Mi ero trovata in una grande cucina grigia come grigie erano le pietre delle pareti. Un lungo tavolo rozzo, sul fondo, il camino sulla cui mensola c’erano le immancabili bottiglie verdi rappresentanti Garibaldi e Vittorio Emanuele e la solita palla di vetro con la Madonna con la neve che sarebbe scesa dopo averla capovolta. Una piccola finestrella lasciava entrare un pochino di luce. Seduto al capo della tavola, dalla parte del camino, un vecchio con la barba e folti capelli candidi.619
Da questa descrizione si delinea la figura del contadino di montagna tipica dell’immaginario comune. Grazie ai racconti del vecchio alpigiano, Ester riesce per un momento ad estraniarsi dal contesto partigiano – in cui, si ricordi, lei non è completamente inserita – per viaggiare di fantasia in un passato che non ha visto, fino ad un imminente futuro, da cui il vecchio attende il ritorno del figlio partito per la guerra:
Quando potevo, facevo una capatina da lui; mi piaceva quel vecchio, mi piacevano le sue storie. Aveva visto il primo treno passare per la valle. Ricordava la carrozza dei sciuri che lasciavano la valle per passare l’inverno a Milano. Ricordava soprattutto una bambina dai lunghi capelli biondi seduta accanto alla vecchia signora. Ascoltavo affascinata, parlava della mamma, della bisnonna […]. Era solo, suo figlio era in guerra. Quale? Questa? La prima? Quella d’Africa? […] A volte sembrava che aspettasse il suo ritorno da un momento all’altro, a volte parlava di quel figlio che non avrebbe più rivisto.620
In sostanza, nei racconti dei memorialisti la montagna, e i suoi abitanti, si caricano di tutta una serie di valori positivi: essi comunicano al partigiano pace, e tranquillità, contrapponendosi alla cruda realtà dei combattimenti e della violenza. Inoltre, si è detto che la montagna assorbe per induzione tutti i valori positivi connaturati al mondo partigiano: è simbolo di libertà, di solidarietà reciproca e di democrazia.
Se la montagna è partigiana, per conseguenza inversa l’ambiente urbano viene assimilato inconsapevolmente al regime fascista. La città è percepita come sporca poiché inquinata dal fascismo:
Per chi vive in questa valle e in questi alpeggi, distante da tutto e da tutti, con contatti rari con la “civiltà contadina” è quasi come vivere in un mondo a sé stante, lontano da ogni politica e dalla tentazione della vita moderna.621
619 E. MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra. Una ragazza nella Resistenza. Ossola 1944-1945, cit., p. 179. 620 Ivi, pp. 179-180. 621 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 86.
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La città è popolata dai fascisti, dai repubblichini; i ricordi di chi si muove nel contesto urbano, come Ester Maimeri, ne danno conferma. In effetti, le istituzioni di regime occupano i luoghi dei centri urbani: le caserme, i municipi. Da questo deriva che i memorialisti assimilano il contesto urbano al regime fascista, e i monti alla dimensione ribelle. Sulla tipizzazione della montagna come luogo peculiare del mondo partigiano – in contrasto con la città inquinata dal regime fascista – ha riflettuto Sandro Frigeri, proprio prendendo in considerazione i testi di memorialistica partigiana:
Vi è nel corpus memorialistico una contrapposizione profonda tra montagna e pianura, campagna-collina e città: più radicalmente diremmo, mondo contadino e mondo urbano. Sono ancora una volta due mondi che tornano a separarsi […]. Le informazioni filtrano con difficoltà in montagna, i partigiani sono isolati e mai come ora i modi della vita sociale sono stati così divergenti. Nelle formazioni nascono o si tentano di creare nuove forme di rapporti interpersonali, quasi anticipazioni egualitarie di un mondo che la vittoria finale dovrà rendere universale […]. Mentre questo accade in montagna, le città vivono l’agonia di un regime che sembra diffondere ovunque inquietudine, minaccia, sospetto.622
La bipolarità città-fascismo e montagna-resistenza evidenziata da Frigeri si riscontra anche nei memorialisti ossolani, soprattutto quando, con la repubblica dell’Ossola, i due mondi si mescolano, poiché i partigiani occupano la città sede del comando fascista. Dopo l’euforia iniziale, essi manifestano un certo disagio verso la vita urbana, proprio perché la percepiscono come un ambiente estraneo non solo al loro tipo di lotta, ma anche al loro modo di vita. Una volta ricevuto l’ordine di lasciare Domodossola, Elsa Oliva scrive:
Il pomeriggio del terzo giorno ci ritroviamo tutti nella piazza Chavez; bisogna partire, la licenza è terminata. Quei tre giorni sono trascorsi in un lampo, comunque siamo tutti impazienti di ritornare al nostro posto. Ormai, dopo tanti mesi di montagna ci eravamo disavvezzati al vivere cittadino e siamo concordi nel pensare che si stia meglio lassù.623
In città il partigiano si sente come intrappolato, un pesce fuor d’acqua, ormai incapace di muoversi in una realtà a cui non è più abituato. «Veramente non ci trovavamo a nostro agio in mezzo a gente da noi considerata altolocata»,624 dice Bruno Francia, per sottolineare proprio il disagio del ribelle trapiantato nella città.
622 S. FRIGERI, “Il cielo era alto, bellissimo…” Percezione della natura ed esperienza nella memorialistica partigiana, cit., pp. 38-39. 623 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 67. 624 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 93.
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