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III.4 - Il linguaggio dei memorialisti ossolani
È solo in montagna che i partigiani recuperano la dimensione di vita comunitaria, caratterizzata dall’uguaglianza e dall’aiuto reciproco, a cui ormai si sono abituati. Lo sottolinea in modo esplicito Mario Manzoni, mettendo la realtà partigiana in contrasto con la vita nel campo di raccolta dei rifugiati in Svizzera:
Mentre fino all’altro ieri al campo era riemerso il senso della proprietà privata e ognuno si teneva per sé ciò che aveva, ora ciò che ognuno ha è nuovamente di tutti, diventa un bene comune, a riprova che la teoria dell’egoismo innato nel genere umano è soltanto un ridicolo alibi. È l’ambiente in cui viviamo che condiziona le nostre manifestazioni, e se l’ambiente è egoista anche noi lo siamo, non fosse che per autodifesa: ma se l’ambiente non lo è, sentiamo di essere veramente tutti uguali. Fra una cantata e l’altra ognuno rievoca qualche episodio vissuto, i tanti compagni che sono morti, e cerchiamo anche d’immaginarci l’immediato futuro, e soprattutto quando riusciremo a tornare alle nostre case con la guerra alle spalle.625
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È sufficiente che i partigiani si avviino verso le loro montagne perché recuperino l’abitudine alle regole della realtà comunitaria dei ribelli, che sembrano così connaturate all’ambiente alpino. Il distacco dalla montagna, affrontato spesso con nostalgia e malinconia, è per molti memorialisti il segno tangibile della fine di quella realtà di solidarietà, e la definitiva consapevolezza di dover ritornare alla normale dimensione quotidiana. Stesse sensazioni esprimono le riflessioni conclusive, altrove citate, di Elsa Oliva, che oscillano tra la nostalgia per l’esperienza partigiana appena conclusasi, il cui emblema sono appunto le montagne, e la gioia, stemperata dalla paura di un futuro incerto, per il ritorno alla vita normale.
III.4 - Il linguaggio dei memorialisti ossolani
Volendo riassumere le considerazioni linguistiche già emerse dalla trattazione precedente, si è notato che i memorialisti adottano generalmente un italiano medio che si colora, per alcuni, di momenti popolareggianti e dialettali, la cui efficacia nel dare più realismo alle scene corali è stata già messa in luce; per altri, di cadute retoriche, spesso in coincidenza con la celebrazione dei morti partigiani. I momenti celebrativi ricalcano spesso la magniloquenza risorgimentale riproposta dal regime fascista durante il Ventennio, anche nell’istruzione
625 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 155.
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pubblica. Non è un caso che le parti retoriche siano presenti con maggior frequenza nei memorialisti più precoci, come Costantini e Marchetti, mentre tendano a scemare a mano a mano che ci si allontana cronologicamente dagli anni della dittatura. Sullo stile dei primi memorialisti, quindi, il clima culturale fascista ha influito anche dopo la Liberazione. La scelta dell’italiano colloquiale risponde alla primaria esigenza di farsi comprendere da un pubblico che si presume nazionale e italiano. Il dialetto è usato da tutti i testimoni con estrema parsimonia, solo per rendere più credibili e realistiche le scene in cui compare il popolo, oppure per caratterizzare la parlata di personaggi provenienti da altre regioni italiane, come fanno Bruno Francia e Ester Maimeri, rispettivamente con il partigiano Nando, che parla genovese, e con il proprio padre, milanese. L’italiano medio scelto è caratterizzato, oltre che dal dialetto, anche da interessanti sfumature di gergo che si notano solo dopo una attenta lettura. I memorialisti spesso attingono al gergo tattico-militare tipico dell’esercito regolare italiano; questo può stupire se si ricorda quanto storici, ex partigiani e studiosi abbiano insistito perché si distinguesse il vecchio mondo dell’esercito gerarchico dalla realtà partigiana. I maggiori esponenti della Resistenza italiana diventati poi memorialisti si sono preoccupati di differenziare in ogni modo il movimento resistenziale dalla realtà dell’esercito fascista. Se il mondo militare vive su
gerarchie, ordini imposti e obbedienza cieca, il partigianato si costruisce sul dialogo, su scale di poteri che non sono imposte ma decise in accordo con la collettività del gruppo. Nonostante questi intenti, dalla lettura di tutte le memorie ossolane – escluso il racconto di Ester Maimeri – si evidenzia che la dimensione partigiana attinge allo stesso lessico della realtà militare rifiutata. Ricorrono termini come «naja»626, «truppa»627 oppure «compagnia»,628 «presentat’arm»,629 «etichetta militare»,630 «ordini del giorno».631 Nella designazione di ruoli e comandi vengono mantenute le stesse denominazioni del regio esercito: «ufficiale»,632
626 A.MARCHETTI, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio, cit., p. 10. 627 Ivi, p. 38. 628 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., p. 140. 629 A.MARCHETTI, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio, cit., p. 38. 630 V.COSTANTINI, Partigiani della terza banda, cit., p. 85. 631Ivi, p. 92. 632 Ivi, p. 124.
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«Stato Maggiore»,633 «Distretto Militare»,634 «tenente».635 Il lessico militare viene recuperato anche per descrivere le azioni partigiane e le tattiche durante gli scontri: «prelevamento»,636 «metterlo al muro»,637 «marciare»,638 «agganciare»639 e «sganciarsi»,640 «disporre a ventaglio»,641 «obiettivi militari»,642 «fronte»643 e «retroguardia»644 sono alcuni esempi dei termini usati, tra il lessico e il gergo militareschi. Ci sono poi espressioni non direttamente appartenenti alla realtà militare – in questi casi poliziesca – che però ne ricalcano tutto l’impatto, come «squadra di avanzata rottura»,645 «la Volante»,646 «operazione disarmo».647 La spiegazione del ricorso al lessico militare – nonostante il rifiuto di partenza per quella realtà vetusta – è da ricercare nella composizione stessa del movimento partigiano. Sebbene si sia trattato di un movimento ad ampio spettro sociale, il suo nerbo organizzativo era composto da ex ufficiali appartenenti al regio esercito e diventati sbandati dopo l’8 settembre. E se i comandanti parlano con un lessico militare, è normale che i sottoposti facciano proprio quel linguaggio. Ritrovandolo intatto con i ricordi dell’esperienza resistenziale durante la quale è stato assimilato, i memorialisti lo riapplicano nella narrazione. Ovviamente, ad attingere maggiormente al linguaggio militare saranno i testimoni che appartenevano all’esercito regio già prima della Resistenza e che quindi vi erano più “assuefatti”: nel nostro caso, Aristide Marchetti, Adriano Bianchi,e anche Franco Fortini, sebbene in minor misura, non avendo egli partecipato della realtà partigiana in tutte le sue forme. Questo non vuol dire che gli altri memorialisti non ne facciano uso: termini militareschi ricorrono negli scritti di Manzoni, di Francia e anche di Elsa Oliva. Solo il testo di Ester Maimeri non attinge al lessico militaresco, per una semplice ragione: l’autrice racconta le
633 A.MARCHETTI, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio, cit., p. 25. 634 Ivi, p. 93. 635 A. VANDONI, Una vita per l’Italia (vita partigiana), cit., p. 91, e M. MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 51. 636 Ivi, p. 70. 637 Ivi, p. 41. 638 F.FORTINI, Sere in Valdossola, cit., p. 196. 639 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 64. 640 Ivi, p. 65. 641 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., p. 153. 642Ivi, p. 120. 643 Ivi, p. 156. 644 Ivi, p. 182. 645 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 22. 646 Ivi, p. 62, e E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 141. 647 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 22.
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avventure di staffetta senza far riferimenti ad azioni o a tattiche di guerriglia per identificare le quali il lessico militare è il più indicato. La tematica del “linguaggio partigiano” si può arricchire di altre interessanti riflessioni. Nel già citato saggio sulla narrativa resistenziale Giovanni Falaschi ha riflettuto sull’esistenza di un possibile “gergo partigiano” nato in banda e usato dai memorialisti nella narrazione:
Alcuni memorialisti riportano nel testo italiano, spiegandole, espressioni gergalizzate della vita di banda. […] Questo fenomeno indica la persistenza di un legame fortissimo degli ex partigiani con l’esperienza raccontata, ma non è statisticamente molto rilevante, né si verifica in molte memorie interessanti, per rispetto delle esigenze della società nazionale come interlocutore ideale […].648
Effettivamente, anche nelle pagine dei memorialisti ossolani ricorrono espressioni riconducibili ad un ipotetico gergo partigiano. La tesi di Falaschi – cioè che questi termini siano numericamente irrilevanti al fine di teorizzare l’esistenza di un vero gergo partigiano comune a più bande indipendenti – resta valida proprio perché le ricorrenze sono troppo poche per costituire un gergo autonomo; qualche riflessione in più, però, si può aggiungere. Per quel che riguarda i testi ossolani, attingono frequentemente al gergo Bruno Francia, Mario Manzoni e Aristide Marchetti. Una sola ricorrenza si riscontra negli scritti di Elsa Oliva e di Antonio Vandoni. Espressioni gergali sono del tutto assenti dagli scritti di Costantini, Fortini e Ester Maimeri. I motivi di questa mancanza sono facilmente individuabili. Nel caso di Ester Maimeri vale il discorso già fatto per spiegare la carenza di termini del lessico militare: se manca l’esperienza della vita di banda, manca anche il processo di acquisizione della lingua del gruppo partigiano. Questa spiegazione può valere anche per il caso di Fortini; egli ha vissuto la Resistenza senza entrare in simbiosi con essa, bensì mantenendo sempre un certo distacco emotivo, che gli ha impedito di assimilarne un possibile gergo. Se si considera, in secondo luogo, la sua formazione intellettuale e letteraria, si può arguire che egli abbia sorvegliato il suo scritto di memorialistica anche nel dettato, depennando appositamente le espressioni più basse. Quest’ultima giustificazione si può adattare anche al testo di Costantini, che sceglie un lessico piuttosto elevato all’interno del quale il gergo sarebbe apparso come una nota stonata.
648 G.FALASCHI, La resistenza armata nella narrativa italiana, cit., pp. 31-32.
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Nelle ricorrenze gergali dei testi ossolani, ogni autore propone espressioni peculiari del proprio gruppo, che non si trovano negli altri scritti. Si presenta poi il caso interessante di un termine – o meglio, una perifrasi – gergale che ricorre in più di un memorialista. Le espressioni riconducibili al gergo vengono spiegate al primo uso – mostrando, ancora una volta, quanto il memorialista si preoccupi di essere compreso – per poi ricorrere nel testo senza più essere tradotte: segno che i termini gergali erano entrati così tanto nell’uso da mantenersi nel ricordo insieme agli eventi resistenziali, in modo tale da essere riusati con disinvoltura. Per fare qualche esempio, Mario Manzoni introduce il termine «orfanelli»,649 cioè «gruppetti di ex prigionieri alleati»;650 il concetto ritorna spesso nella narrazione.651 Bruno Francia adotta molte più espressioni gergali: per il suo gruppo, il termine «tedeschi»652 identifica sia il nemico – a cui ci si riferisce anche con l’appellativo di «crucco»653 – sia una specie di pidocchi. I partigiani mai visti prima, «con molte arie, diventati tali solo dopo la calata»654 che affollano le vie di Domodossola libera sono chiamati «quelli del lancio».655 L’espressione ricorre poi nei dialoghi tra i partigiani garibaldini:
«Guardali là! Ne vedi parecchi in giro di questi partigiani del lancio, tutti con i fazzoletti nuovi. Persino alcune delle loro giacche a vento e parecchi mitra sten sono nuovi, mentre da noi un mitra rappresenta un dura e faticosa conquista!» «Chissà perché te la prendi in quel modo – gli facevo osservare – Anche da noi quelli del lancio sono venuti in parecchi. Lascia che vengano, meglio tardi che mai…»656
Il dialogo sottolinea come il termine fosse quotidianamente nell’uso tra i partigiani che l’hanno creato: come se la banda sentisse il bisogno di coniare un nuovo linguaggio, diverso dall’italiano del fascismo. Ultimi esempi di cui Bruno Francia fa largo uso sono i termini «coniglietti, che altri non erano che i partigiani già armati e pronti a riprendere la via della battaglia»,657 e «galoppini»,658 sarebbe a dire la «squadra di contrabbandieri».659
649 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 25. 650 Ibid. 651 Per esempio, a p. 37. 652 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 22. 653 Ivi, p. 56. 654 Ivi, p. 93. 655 Ibid. 656 Ivi, p. 95. 657 Ivi, p. 137. 658 Ibid. 659 Ibid.
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Queste due espressioni – che, se si vuole, rimandano ancora una volta a quel contesto semantico animale di cui si è già parlato – devono essere state coniate per poter scambiare informazioni tra i gruppi senza farsi capire dai repubblichini, i quali avrebbero potuto intercettare i partigiani di ritorno dalla Svizzera o le stesse squadre di recupero. In sostanza, molti termini che si possono ricondurre ad un ipotetico gergo partigiano sono stati creati, prima di tutto, come linguaggio in codice per le comunicazioni tra gruppi; si sono poi trasferiti nell’uso comune e interno della banda.
Alle esigenze di un linguaggio in codice rispondono anche i termini di gergo usati da Aristide Marchetti. Per esempio, egli usa il verbo “piovere” non riferendosi al tempo atmosferico, ma semplicemente per indicare che è avvenuto un lancio aereo di armi e rifornimenti:
Ieri notte finalmente sul monte Cornaggia ha piovuto. […] una strana pioggia, lentamente, è scesa dal cielo: mitra «Marlen», pistole, munizioni, sigarette e una nuova radio trasmittente.660
Se questo termine è fortemente indicativo dell’esistenza di un codice per lo scambio d’informazioni tra gruppi partigiani, le altre espressioni usate da Marchetti attingono ad un altro tipo di gergo, quello scherzoso nato all’interno del gruppo di giovani; ne fanno parte la parola «puzzoni»661, la quale indica i ragazzi che «pur essendo più giovani, senza famiglia, abituati alla vita di montagna, ci abbandonano ora»,662 e il termine «sommergibilisti»,663 cioè i combattenti che «al minimo scoppio o sibilo si buttano a terra con una foga ed un entusiasmo tragicomici».664 Oltre a questi termini gergali e scherzosi che identificano comportamenti poco nobili e coraggiosi, Aristide Marchetti usa un altro sintagma molto più interessante dei precedenti. Esso si ripresenta con lo stesso significato anche in altri memorialisti, andando così a mettere in forse la conclusione, del tutto pessimistica, di Falaschi sull’esistenza di un gergo condiviso. L’espressione in questione è questa:
660 A.MARCHETTI, Ribelle. Nell’Ossola insorta con Beltrami e Di Dio, cit., p. 100. 661 Ivi, p. 49. 662 Ibid. 663 Ivi, p. 164. 664 Ibid.
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Non abbiamo scarpe. Le scarpe sono la nostra ossessione. In montagna, eternamente in cammino, le scarpe si mangiano come pane. Neve, pioggia, sole, roccia, le suole si rodono, si spaccano, vanno a farsi benedire. Per fucilare uno, Marco dice: «mandalo in Svizzera…senza scarpe». I morti di queste montagne non hanno le scarpe al sole.665
“Mandare in Svizzera un uomo, un fascista, senza scarpe” sarebbe la perifrasi usata per indicarne la fucilazione. Marchetti cerca un abbozzo di spiegazione etimologica per questa espressione, legandola al bisogno estremo di scarpe dei partigiani, che spogliavano addirittura i corpi dei cadaveri fucilati pur di averne un paio. Ne indica anche la paternità: il termine sembra essere stato inventato da Alfredo Di Dio, comandante della “Valtoce”. Forse non è un caso se ad usarlo ancora sono altri ex partigiani che facevano parte di distaccamenti appartenenti a quella stessa brigata, cioè Elsa Oliva, comandante di un distaccamento azzurro, e Antonio Vandoni, cappellano della “Valtoce” stessa, che ha avuto contatti diretti con Di Dio stesso. Elsa Oliva dice:
A malincuore abbasso l’arma. Li avrei mandati io volentieri in Svizzera, ma senza scarpe.666
Come si vede, l’espressione è usata con lo stesso significato che si trova in Marchetti. E anche Vandoni:
La giustizia partigiana, una volta stabilito il fatto in modo irrefutabile, non può transigere. Manda in Svizzera senza scarpe, secondo l’espressione corrente, con una scarica ben assestata, perché un traditore della patria non merita neppure l’onore di un plotone.667
In questo caso, proprio il fatto che a usare il sintagma siano memorialisti di diversa provenienza sociale – ragion per cui l’espressione non può essere appartenuta a nessun altra realtà individuale precedente a quella partigiana – e di diverso ruolo nella banda, fa pensare che un embrione di gergo – nato come linguaggio in codice e poi entrato nell’uso quotidiano della banda – sia in effetti esistito. Una sola ricorrenza non è ovviamente sufficiente a sostenere saldamente
un’ipotesi che avrebbe bisogno di più riscontri lessicali per essere credibile, i quali forse sarebbero da ricercare nella stampa clandestina coeva alla guerriglia piuttosto che nei testi di memoria. Ciò nonostante, il ritorno di questo sintagma
665 Ivi, p. 93. 666 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., p. 180. 667 A.VANDONI, Una vita per l’Italia (vita partigiana), cit., p. 111.
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