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La consapevolezza della guerra civile
natura. Tutti questi elementi concorrono a caratterizzare l’immagine del fascista in un modo assolutamente negativo, un misto di rabbia, violenza e negatività: insomma, il nemico totale, che si contrappone alla figura positiva del partigiano.
La consapevolezza della guerra civile
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La figura totalizzante del nemico assoluto, come compare nelle prime pagine di questi testi, si arricchisce poi di un lato più complesso. Alcuni memorialisti scoprono nel contatto diretto il lato umano del nemico: questo rende molto più complicato lo scontro a fuoco e avvia nei protagonisti interessanti riflessioni a proposito del tema della guerra civile. Riscoprendo l’identità di uomini, di italiani, che accomuna fascisti e partigiani, nei ribelli si smussano le motivazioni allo scontro violento, poiché essi si rendono conto che questo nemico non è poi così diverso, così lontano. Per esempio, ecco Mario Manzoni colto in un momento di nascosta pietà nei confronti dei repubblichini rinchiusi nei fortini di guardia:
Ci dicono che a Intra ogni otto giorni cambiano i reparti che prestano servizio nei fortini perché li considerano prima linea. Dicono pure che di notte nessuno, manco lo stesso duce, può avvicinarsi a questi fortini perché sparano a vista; sono collegati col comando solo per telefono. Immagino a quale logorio psicologico siano sottoposti e non li invidio di certo. Ma penso anche che a quest’ora chi non diserta dimostra di condividere completamente e consapevolmente le direttive dei criminali nazifascisti, che ormai non hanno più alcun ritegno né misura nelle loro malvagità.599
All’odio totale verso il fascista, colpevole delle rappresaglie e della guerra, si sostituisce un atteggiamento che rimane di ostilità, però si complica con la maggior comprensione verso un nemico che è tale solo perché ha scelto la parte opposta, ma culturalmente e umanamente è uguale ai partigiani. Invertendo la rotta delle sue azioni può ancora redimersi ed essere utile alla causa partigiana, come dice Bruno Francia:
Ad avvisare il comando partigiani dell’intenzione di rendere nuovamente transitabile il ponte, fu lo stesso tenente Astorri, comandante del presidio fascista di Domodossola. Questi comprendendo che la loro guerra stava per essere definitivamente persa e resosi forse conto che il regime fascista non avrebbe potuto reggere con azioni di violenza, fucilando, distruggendo e massacrando
599 M.MANZONI, Partigiani nel Verbano, cit., p. 133.
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civili inermi capì che la ragione stava dall’altra parte. Segretamente cercò, attraverso il parroco Don Rosa di Preglia, di mettersi in contatto con la brigata partigiana. In quella parrocchia si stabilirono gli incontri che permisero a Mirko di venire a conoscenza di parecchie delle intenzioni del nemico.600
Indicativo di questo stato d’animo oscillante tra la rabbia verso il nemico e la più complicata comprensione della situazione altrui è un episodio raccontato da Adriano Bianchi. Durante un agguato alla caserma, egli è costretto a sparare ai fascisti che gli stanno arrivando addosso. Qualcosa però sembra trattenerlo dall’uccidere:
Era la prima volta che avevo di fronte a me uomini così vicini, con un’arma in mano, messo nell’alternativa secca: sparare o essere sparato. Sparai, ma ci fu chi mi volle bene. La mia raffica, indirizzata d’istinto, una raffica che non aveva spazio per mancare il bersaglio, passò appena sopra la loro testa.601
Ciò che lo frena dal commettere una violenza a freddo è spiegato dalle riflessioni che chiudono questo episodio. A caserma occupata, Bianchi va in cerca dei soldati repubblichini a cui ha sparato:
Un uomo, ben più maturo di me, si fece largo fra i suoi, con un sorriso sospeso e interrogativo. L’avete scampata bella! Dissi. Grazie, mi rispose. È andata bene. Lo toccai, quasi per accertarmi che fosse vivo e il sollievo, di tutti, prevalse su ogni altro sentimento. Fu evidente che non avevano deposto soltanto le armi; compresi bene in quel momento che a noi, a me non interessava conquistare una caserma, ma chi vi stava dentro.602
La speranza della riconciliazione tra le due opposte e inconciliabili realtà che si scontrano diventa lentamente possibile con il progredire dell’esperienza partigiana. Questa consapevolezza si fa strada nella mente dei partigiani man mano che diventano più frequenti i contatti diretti tra il mondo dei ribelli e la realtà fascista. Franco Fortini – per le caratteristiche stesse del suo partigianato “atipico” – ha un unico contatto con il mondo dei repubblichini; durante la fuga gli viene consegnato un prigioniero fascista da scortare. Queste le riflessioni dell’intellettuale a proposito del repubblichino in questione:
A me toccò un uomo sulla trentina, un toscano, grande e grosso; tremava dalla paura di essere fucilato; diceva che non aveva fatto nulla, che era entrato nel fascio repubblichino per conservare l’impiego. Quando fummo sul camion mi offrì qualche patata lessa,
600 B.FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, cit., p. 132. 601 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., pp. 142-143. 602 Ivi, p. 143.
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che teneva in un piccolo sacchetto di pezza; ma la dovetti rifiutare, sebbene avessi una gran fame. Badava ad assicurarmi che non avrebbe affatto tentato di scappare. Chissà come sarà finito. Forse era davvero un buon uomo. O forse era di quelli che i partigiani portarono in Svizzera e che poi tutti insieme chiesero alle autorità federali di tornare in Italia prima della avanzata alleata e ripartirono cantando quei loro inni.603
Fortini sembra qui voler distinguere tra il repubblichino che è diventato tale solo per obbligo, e il fascista convinto della sua causa: il secondo va condannato pienamente, ma per il primo esiste un margine di comprensione. Con questo prigioniero, il narratore si trova a dover condividere, oltre ai viveri e alla fuga, anche il sonno. Sebbene l’immagine non venga commentata dal narratore – Fortini non vi indugia con pensieri e riflessioni, ma lascia che la scena parli da sé – a mio avviso è indicativa del percorso di riscoperta dell’umanità del nemico, al di fuori dei contrasti ideologici che di fronte ai bisogni materiali scompaiono. Sembra quasi che in quelle condizioni critiche, all’addiaccio, temendo per la propria vita si riesca a ricreare quella comunità d’italiani che la guerra ha infranto:
Ricordo ponti su torrenti gonfi, profondi e paurosi, infilati di misura; una località sperduta dove ci siamo fermati; prati vischiosi illuminati dalle lampadine tascabili; la porta di una malga sconficcata dalle baionette e aperta a spallate. Poi, nella paglia umida della notte, un partigiano sconosciuto che racconta dei suoi anni di Spagna e di confino. Il fascista, accanto a me, che ascolta la conversazione. Poi si dorme, il fascista ed io, uno contro l’altro, sotto un’unica coperta.604
Riscoprendo il lato umano del nemico, quindi, la figura del fascista si avvicina sempre di più, rendendo per molti partigiani impossibile il puro e cieco odio, che è molto più facile da suscitare quando si ha a che fare con un avversario straniero, invasore e lontano dai propri orizzonti culturali come poteva essere l’esercito tedesco.
Ad azzardare le riflessioni più acute sulla tematica dell’umanità del nemico intervengono, tra i memorialisti ossolani, soprattutto le due donne partigiane, Elsa Oliva e Ester Maimeri. Che la loro maggiore sensibilità al problema si possa legare ad una particolare predisposizione femminile per la comprensione dell’”Altro”, non è questo il momento per deciderlo. È interessante però notare questa coincidenza: su nove testi considerati, sono proprio le due donne ad approfondire maggiormente la tematica del nemico “uomo” come
603 F.FORTINI, Sere in Valdossola, cit., p. 187. 604 Ivi, pp. 188-189.
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l’amico, e della guerra civile. Ecco Elsa Oliva che, a contatto con l’umanità vulnerabile dei fascisti, sente di dover rivedere le sue posizioni:
Arrivano altri soldati della X Mas. Uno si avvicina e mi chiede con voce timida se ho una benda per medicargli il piede ferito. Sto per rispondergli di andare all’inferno ma mi trattengo. Lo medico e gli domando se i partigiani che hanno preso poco prima siano feriti. Mi dice di no, poi, malinconicamente mi domanda: – Le spiace signorina che abbiamo preso prigionieri dei partigiani? – Lo guardo per un momento e poi gli rispondo: – Molto. Mi chiede come mi chiamo e gli dico «Elisabetta». – Grazie Elisabetta – mi dice sorridendo. […] – Venite, c’è da fasciare e da pulire il mio comandante morto. Lo seguo senza obiettare. Mentre sto riordinando il cadavere mi sento estranea a tutto, come lontana dal mondo. Mi accorgo di non provare alcun odio o disprezzo verso quel corpo freddo e senza vita. Il mio pensiero è lontano, verso il miraggio di un mondo fratello, senza odio, senza guerre. 605
Il testo di Elsa Oliva è punteggiato di riflessioni sull’umanità del fascista – momenti in cui la narratrice diventa più comprensiva e indulgente – alternate al racconto delle violenze che il nemico è in grado di causare. In coincidenza con questi episodi la Oliva torna a condannare gli stessi uomini che prima ha cercato di capire. Si veda quest’ultimo stralcio, in cui la protagonista ha appena finito di medicare un fascista ferito:
Il fascista rimane a guardarmi, pare meravigliato, poi mi dice «grazie». Lo medico e raccomando ai miei compagni di farlo riposare. Solo allora lo guardo bene in viso e vedo che due lacrime gli scendono lungo le guance. – Perché piangi? – Gli chiedo – Ti fa specie vedere che non siamo briganti come ci avete sempre definiti? Non dice nulla, è confuso. Gli domando come si chiami. – Elio. Ad Omegna, tornando, mi imbatto in un gruppetto di partigiani di Barbaglia; in mezzo a loro è un uomo con le mani legate. […] Mi raccontano, allora, che l’avevano sorpreso a Gravellona, mentre dalla finestra di casa sua sparava con un mitragliatore sui partigiani e ne aveva uccisi due. Provo un’ira tremenda! Risalgo sulla motocicletta e per un momento mi pare di vivere in mezzo a una baraonda infernale.606
La protagonista è estremamente confusa proprio perché non riesce ad inquadrare un nemico per il quale prova un iniziale odio furibondo, che si addolcisce una volta scoperto il lato “umano” di quello stesso avversario. Anche Ester Maimeri ha molteplici contatti con la realtà fascista, dal momento che è costretta ad ospitare alcuni ufficiali repubblichini. Queste le sue conclusioni – tutt’altro che semplicistiche sebbene siano espresse con un linguaggio colloquiale – alla luce delle svariate esperienze fatte:
605 E.OLIVA, Ragazza partigiana, cit., pp. 102-103. 606 Ivi, p. 58.
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Però comincio a capire che il bene e il male non sono nettamente divisi. Non ci sono tutti i buoni da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Dipende da che parte si guarda. C’è tanto male ovunque. Male innocente dettato dal fato, dalle circostanze, dalla divisa di un altro colore e male cattivo, perverso, il gusto del male che trova sfogo e giustificazione in questa lotta fratricida.607
Anche Vandoni riflette a lungo sul nemico fascista, e ancor di più sul tema della guerra civile tra italiani: egli insegue con ciò uno scopo preciso. Vandoni ha selezionato gli episodi in modo da far emergere che, pur nella confusione della guerra e nella mancanza di un’autorità centralizzatrice, la carità cristiana e l’istituto della Chiesa sono rimasti gli unici valori comuni a cui far riferimento. La religione cattolica supera le diverse ideologie e si propone come l’unico elemento che può accomunare partigiani e repubblichini e predispone al dialogo e agli atti di collaborazione, clemenza. Questo è quel che emerge dal racconto Un rastrellamento, in cui si narra il ravvedimento di un comandante repubblichino, il quale durante un rastrellamento risparmia il partigiano a cui avrebbe dovuto sparare:
Il cuore dentro batte forte forte più a lui che non al partigiano che, sbiancato in volto, con le mani in alto guarda triste e muto, in attesa della sua condanna. Lo sa chiaramente che cosa si deve aspettare chi è trovato con le armi addosso. Passano parecchi secondi lunghi, terribili, penosi, mentre l’attendente guarda stupito e non sa spiegarsi che cosa aspetti il suo comandante. Finalmente l’ufficiale parla con fatica, come se le parole venissero da molto lontano. «Sei anche tu un italiano come noi. Io non so chi sia il lupo e chi l’agnello…Questa volta torna indietro in fretta […].608
Come si vede, il ravvedimento è biunivoco: sia i partigiani memorialisti sia i repubblichini dei loro racconti sono colti dal dubbio nei confronti di un nemico che si rivela molto più “vicino” e simile. Una volta emerso chiaramente il lato umano del fascista, il salto dei memorialisti verso il riferimento esplicito alla Resistenza come guerra civile è breve. Tutti i testimoni toccano questo tema, a partire dal più datato Costantini: si parla di guerra civile, guerra fratricida, guerra tra italiani, sangue fraterno. Ora non interessa individuare nei testi le cause che hanno trasformato la Resistenza in guerra civile. È evidente che i partigiani percepiscono sin dal principio la complessità di una lotta nuova, la quale non è semplicemente scontro armato tra
607 E. MAIMERI PAOLETTI, La staffetta azzurra. Una ragazza nella Resistenza. Ossola 1944-1945, cit., p. 201. 608 A.VANDONI, Una vita per l’Italia (vita partigiana), cit., p.76.
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