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Gli scopi, lo sguardo verso il futuro
del popolo italiano. Noi, illusi, abbiamo combattuto e sofferto per creare un’Italia migliore. E l’Italia di oggi, vedete? È un’accozzaglia di uomini che si derubano a vicenda, che si calpestano per egoismo o per interesse […] pur di emergere e di togliere i posti di comando a chi se li merita […]. Garibaldini della diciannovesima, il nostro ideale è infranto. Oggi ci chiamano squadristi, domani ci chiameranno delinquenti. Forse un giorno ci processeranno perché abbiamo combattuto per la libertà.158
Di fronte ad uno spettacolo così disarmante, Carmagnola non sceglie di nuovo l’azione, come altri comunisti consigliano. Anzi, dalle sue parole si coglie un certo disprezzo verso chi invece avvisa i compagni di restare armati in attesa degli eventi. Egli rifiuta nuova violenza e preferisce affidarsi al Governo:
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C’è chi parla di reazione, di capitalismo, di azione di masse. Noi non vogliamo entrare in argomento, siamo sempre stati profondamente democratici e ora fingiamo di essere apolitici, perché ci vergogniamo dello spettacolo della vita pubblica italiana di oggi, agosto del quarantacinque, dove gruppi di facinorosi e di speculatori tentano di contrastare la saggia opera del Governo. Non vogliamo saper nulla, noi, dei disordini che capitano oggi. Gli Alleati hanno invitato a consegnare le armi, gli onesti hanno aderito all’invito e ora sono disarmati, i disonesti se ne servono per i loro bassi scopi. Tutti hanno armi oggi, nell’Italia del nord. E ben pochi si sognano di consegnarle, anche se non pensano oggi di servirsene. […] Sappiamo che gli odi sono sopiti, ma non sono spenti. […] Qualcuno di noi non è ancora sazio. Vuole andare più giù ancora nel fango, vuole che la nostra Patria non si risollevi più dall’abisso in cui è caduta.159
Gli scopi, lo sguardo verso il futuro
Anche se assumono una diversa organizzazione scritta, tutte le memorie della prima ondata sono scritte per lo stesso obiettivo: salvaguardare la memoria dei fatti così come sono avvenuti, tramandando il ricordo dei caduti e sottolineando il contributo del movimento partigiano per la Liberazione. Il primo destinatario del loro messaggio è chi ha preso le redini dello Stato: chi si accinge a gestire il futuro democratico del paese deve essere consapevole del sacrificio di vite che è stato necessario. Gli autori parlano al proprio destinatario, oltre che nelle prefazioni, anche nei congedi posti a chiusura delle memorie: si è vista per ora la pacatezza del sacerdote Canessa, che vuole smorzare gli entusiasmi, oppure il lucido e passivo sconforto di Carmagnola. Come lui, sono molti i memorialisti che terminano il proprio scritto prospettando
158 Ivi, p. 218. 159 Ivi, p. 219.
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già un futuro pessimistico che non soddisfa le aspettative di democrazia e libertà promesse: esemplari da questo punto di vista sono le pagine conclusive delle memorie di Revelli e Lazagna. Falaschi sottolinea che
ambedue denunciano i sintomi dell’involuzione, il primo chiudendo il diario con la constatazione che la disgregazione è in atto e con la certezza che la lotta sarà dura; l’altro raccontando della sua polemica solitudine («Sto chiuso in casa […]. Chiudo le finestre») mentre fuori si agita il gran finale confuso.160
E in effetti, dalle conclusioni di Lazagna, si può trarre un quadro poco consolatorio. Egli scrive:
Fame, disoccupazione, miseria, odio contro il ricco collaborazionista e contro i fascisti che girano indisturbati sono la causa di qualche piccola mancanza commessa da partigiani o più spesso da fascisti camuffatisi l’ultimo giorno da partigiani. Ad ogni modo la colpa di quelle pochissime irregolarità avvenute in quei giorni di guerra, che offendono profondamente lo spirito dei partigiani, ricadono interamente su chi volle farci sparire presto, presto, presto, senza documenti, senza lavoro, senza denari, dopo tutto quello che avevamo dato al popolo italiano e alle Nazioni Unite. […] Con la nostra vittoria, con la nostra discesa nella città subimmo senza dubbio la prova più dura per il nostro morale di partigiani. Quello che non avevano fatto i combattimenti disperati, la fame, il gelo dell’inverno, cercò di fare molta gente. Troppi cercarono di allontanarci, di colpirci, di disgregarci. […] Tutti questi ricordi ci tengono uniti e fedeli nel continuare l’opera di rinascita morale e materiale del nostro Paese iniziata con le armi sulla montagna.161
Ho colto qui l’occasione per citare la chiusura della memoria di Lazagna poiché vorrei prenderlo come campione del partigianato comunista. Dal suo congedo emerge chiaramente il modo in cui i comunisti vedono il futuro, e come si preparano ad affrontarlo. Sembra quasi che Lazagna senta nell’aria una certa ostilità galoppante nei confronti dei partigiani; è necessario che gli ex combattenti si tengano pronti ad affrontarla. Tutto l’opposto di quello che “predica” don Canessa; in una posizione ancora diversa si colloca Carmagnola. Questi esempi di congedo, fondati su una riflessione più approfondita, sono un’eccezione: la maggioranza dei testi di memoria della prima ondata si chiude con banali invocazioni retoriche e sentimentali, sulla falsariga del congedo di Longo, già citato.
160 G.FALASCHI, La Resistenza armata nella narrativa italiana, cit., pp. 35-36. 161 G.B. LAZAGNA, Ponte rotto: testimonianza di un partigiano della divisione garibaldina “Pinan-Cichero”, cit., pp. 290-292.
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