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Pietà l’è morta
dalla persona. Se le memorie della prima ondata si concentravano sulle azioni militari e pretendevano di essere il racconto oggettivo e storicamente attendibile dei fatti bellici vissuti, ora gli scritti di memoria iniziano gradatamente a tralasciare l’aspetto militare e puramente tecnico della guerriglia, per concentrarsi sulla dimensione esistenziale e umana della Resistenza.
Per meglio comprendere i motivi di questo scivolamento progressivo verso temi più personali si deve considerare un altro elemento. Gli autori delle prime memorie sono solitamente comandanti partigiani, dirigenti di partito, personalità rilevanti nell’organizzazione del movimento resistenziale, nomi conosciuti anche per il loro impegno successivo al 25 aprile. Dagli anni ’50, invece, iniziano a scrivere testi di memoria anche partigiani semplici, donne, contadini, e persino stranieri che sono venuti in contatto con la guerriglia partigiana: dai loro scritti emerge anche la Resistenza vissuta dal basso, ai margini del movimento, che nelle prime memorie era stata tralasciata. La loro presenza nel panorama memorialistico diventerà forte soprattutto a partire dagli anni ’60.
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Pietà l’è morta
Per illustrare le tesi anticipate sulla base di alcuni esempi, può essere utile analizzare la memoria di Giovanni Monaco, Pietà l’è morta. Monaco è un giovane laureato in lettere di Valloriate, un paesino in provincia di Cuneo; proviene da una famiglia contadina. All’alba dell’8 settembre è soldato della Quarta Armata in licenza. Da casa assiste allo sfacelo dell’esercito, alla valanga di soldati che invadono la Valle Stura: c’è chi diserta e attraversa la valle per raggiungere altri luoghi, chi invece torna a casa. Monaco sceglie subito la lotta partigiana, e ad ottobre è già con la Banda “Italia Libera” di Galimberti. Come comandante di distaccamento e della brigata “Valle Roja Sandro Delmastro” – e poi come Capo di stato maggiore della Prima Divisione Alpina Gl – è attivo nel Cuneese e partecipa in prima persona alla liberazione di Cuneo. Dopo la Resistenza Monaco si iscrive al Partito Socialista Italiano, ma sceglie la vita tranquilla e appartata del professore di scuola media ad Aosta, dove vive con la moglie e i due figli. Il suo testo è ancora la memoria di un comandante che però vive tutta la Resistenza sul campo di battaglia: non sta sugli spalti, non è un
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dirigente. Si tratta di una persona colta che poi ha abbandonato, nel dopoguerra, l’attivismo politico, ritirandosi dalla vita pubblica. Questo dato suggerisce immediatamente l’ipotesi – poi confermata dalla narrazione – che Monaco non sia spinto alla scrittura da motivi ideologici o rivendicativi. Sulla genesi di Pietà l’è morta201 si può dire ben poco: lo scritto, infatti, è pubblicato nel 1955 dalle Edizioni Avanti! ma non ha una prefazione, una nota introduttiva che esplichi le intenzioni dell’autore. Questo è un dato indicativo. Nelle prime memorie quasi sempre c’è una prefazione, o un congedo, in cui l’autore parla al presente, al suo pubblico, per sottolineare i meriti partigiani e per contrastare l’oblio e le polemiche strumentali che aleggiavano intorno alle tematiche resistenziali. Negli anni ‘50 altre più autorevoli voci di studiosi sono intervenute a fissare la veridicità storica dei fatti e la validità degli ideali resistenziali; lo spirito rivendicativo della prima memorialistica si va, quindi, esaurendo per lasciare spazio alla dimensione esistenziale del narratore, al ricordo delle sue percezioni e riflessioni personali nel vortice della guerriglia. Senza introduzioni, la memoria di Giovanni Monaco si apre con la descrizione dello sfacelo dell’8 settembre, come è apparso agli occhi del protagonista – soldato in licenza – e dei compaesani. Già dall’incipit si vede la diversa atmosfera che dominerà il racconto: sono le impressioni personali e individuali di Monaco a guidare la narrazione. Il quadro introduttivo denota subito uno stile completamente diverso rispetto alla pomposità delle prime memorie:
La sera dell’8 settembre i rintocchi della campana più grossa della chiesa parrocchiale ruppero improvvisamente il silenzio notturno che era sceso sui boschi di castagno. Rintocchi dapprima stentati, poi, a poco a poco, sempre più sonori, e poi ancora più fitti, più sfrenati, come d’una campana impazzita, partivano dalle quattro finestrelle del campanile, correvano lungo il vallone […]. Nella serata, qualcuno che si era attardato all’osteria, arrivò e portò la notizia che la guerra era finita e che la campana suonava a festa.202
La notizia della guerra finita arriva nelle valli del Cuneese come un vento che accompagna il ritorno dei reduci. La confusione, la mancanza di punti di riferimento saldi dominano queste prime pagine, e occupano anche i pensieri del protagonista:
201 Il testo viene poi pubblicato nel 1973, e nel 2000, con un altro titolo: L’alba era lontana. La guerra partigiana in montagna (Milano, Mursia, 2000). 202 GIOVANNI MONACO, Pietà l’è morta, Milano-Roma, Ed. Avanti!, 1955, p. 5.
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C’era stato il 25 luglio. Ci avevo capito poco. Poi c’era stato l’8 settembre, quando le campane avevano suonato a festa, e ci avevo capito ancor meno. E ora qualcosa altro ci sarebbe ancora stato. Avevo una voglia indiavolata di capirci qualcosa. La gente del paese mi chiedeva qualche volta che cosa fosse tutta quella confusione e perché non ci fossero quasi più delle autorità […]. Ma io non sapevo niente e mi vergognavo di dire che non sapevo.203
Il disorientamento che il giovane Monaco personalmente prova non è per niente celato: egli confessa con sincerità tutti i suoi dubbi. Non afferma subito di volersi unire ai partigiani, i quali compaiono nella narrazione solo più tardi. Il gruppo di ribelli a cui poi Monaco si aggregherà fa la sua comparsa nel confabulare dei paesani. L’immagine dei partigiani che emerge da queste notizie frammentarie e contraddittorie non è quella di un’organizzazione unitaria composta da valorosi e coraggiosi giovani che lottano per la patria, bensì il ritratto di una banda improvvisata:
Fu verso la fine di settembre che si cominciò a parlare con una certa insistenza di «ribelli». Chi fossero, nessuno sapeva dirlo con precisione. Soldati veri e propri non erano, questo era sicuro. Chi ne aveva visto qualcuno affermava che vestivano abiti borghesi e al più ce n’erano che indossavano giubbe militari o portavano cappelli alpini ma senza stellette né gradi. Secondo alcuni, erano badogliani; secondo altri, comunisti. C’era chi giurava di averne incontrato un gruppo di notte e di averli sentiti cantare Bandiera rossa.204
Nonostante la poca fiducia che le notizie circolanti sul conto dei ribelli stimolano, essi rimangono l’unico punto di riferimento certo per la popolazione di fronte allo sfacelo completo del vecchio mondo:
Ma si sentiva anche il bisogno di guardare ad una nuova realtà. E la nuova realtà era quella di Paralup. Si sentiva che Paralup era l’avvenire. Un avvenire di speranza che si contrapponeva ad un passato che stava naufragando.205
Niente eroismo o retorica spicciola nel raccontare la nascita di questi gruppi di combattenti, e il loro impatto sulla fantasia della gente. Monaco adotta lo sguardo corale e concreto dei valligiani per descrivere il passaggio di questa «decina di uomini» che avevano «un’aria piuttosto riservata e non ci tenevano troppo a farsi notare dalla gente».206 La presenza dei ribelli nel paese sembra
203 Ivi, p. 10. 204 Ivi, p. 15. 205 Ivi, p. 16. 206 Ibid.
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suggerire a Monaco che, unendosi a loro, egli può liberarsi dalla sensazione umiliante di passività di cui si sente preda:
Forse in quell’umiliazione si riassumeva anche il dramma di una generazione come la nostra che si sentiva fallita poiché non riusciva a trovare la via giusta per liberarsi da quell’indefinibile senso di nausea da cui uno era preso quasi insensibilmente, mano a mano che invecchiava. Ora, dopo l’8 settembre, mi pareva che quella gente di Paralup che andava e veniva per quelle mulattiere, sotto gli occhi meravigliati dei montanari, mi fosse stata mandata dal destino per indicarmi la strada giusta.207
Nella sua pacatezza e concretezza, il protagonista non indugia a lungo sui perché della scelta partigiana. Sembra che quella strada sia l’unica percorribile per non soccombere alla passività; l’alternativa repubblichina non è nemmeno considerata. Interessante è il fatto che egli sappia di andare incontro ad una realtà scomoda, male organizzata. La vita dei partigiani viene dipinta senza enfasi in un dialogo tra il protagonista e un ribelle:
Ad un certo punto mi chiese ancora: «Lei si rende conto di ciò che significa venire con noi?». «Penso di sì», risposi. Nuovo silenzio. Poi disse: «Da noi si dorme sulla paglia e in terra, o, il più delle volte, non si dorme affatto. Si vive con quel che si può, qualche volta c’è poco da mangiare». Tacque per qualche minuto. Poi riprese: «E c’è il rischio. Quasi ogni giorno bisogna scendere in pianura e può capitare di fare dei brutti incontri. Questo per ora. Più avanti si dovrà combattere e, se non ci attaccheranno, attaccheremo noi…Ma ci attaccheranno», aggiunse con un sorriso.208
Il lettore scopre la decisione del protagonista solo quando lo vede salire in montagna:
Fu così che quella mattina grigia di metà ottobre salutai mia madre e m’incamminai verso la montagna con lo zaino e gli scarponi chiodati a nuovo. Non mancava di far capolino in me un intimo quanto poco giustificato compiacimento. Lo comprimevo, ma inconsciamente riemergeva, e il cuore leggero rendeva più leggero il passo. Attraverso la bruma mattinale, la pianura s’intravvedeva appena, lontana […].209
Finalmente, Monaco arriva tra i partigiani. Racconta il suo imbarazzo di nuovo arrivato, ma è anche molto acuto nel descrivere i compagni. Il salto dalla normale vita quotidiana alla dimensione partigiana si nota subito dal cambio di soggetto, perché dall’”io” individuale si passa ad un “noi” collettivo – il “noi” che
207 Ivi, p. 20. 208 Ivi, p. 21. 209 Ivi, p. 23.
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identifica il gruppo – e che Monaco adotta da questo momento in avanti, abbandonandolo, per tornare all’”io” singolare, solo nei momenti più introspettivi. L’atmosfera che si respira nell’ambiente partigiano è allegra e cordiale, tanto da far sentire il protagonista subito a suo agio. Le prime, piccole esperienze a cui Monaco prende parte – spedizioni per i rifornimenti di cibo e armi – sono formative per il giovane ribelle che apprende lentamente gli schemi della guerriglia partigiana. Monaco focalizza il racconto di queste azioni sulle proprie sensazioni interiori piuttosto che sui movimenti effettivi del gruppo. Il ritmo della narrazione comunica la concitazione e l’ansia – miste a paura, eccitazione e incoscienza – che animano il protagonista. Si coglie anche un certo, divertito compiacimento:
Poi vennero le spedizioni notturne. Un gruppo di uomini, armati il meglio possibile, partiva all’imbrunire, attraversava le borgate in mezzo a un furioso abbaiare di cani e si fermava nei pressi di un obiettivo precedentemente fissato. […] A notte avanzata, qualche volta all’alba, s’era di ritorno all’accantonamento, e mentre ci si allungava pesantemente sul pagliericcio, si raccontavano trionfanti ai compagni rimasti là i particolari dell’impresa e l’entità del bottino. Era bello, nella notte silenziosa, sentire sui selciati dei paesi il suono dei nostri scarponi chiodati. Due ombre strisciano misteriose lungo il muro, mentre il grosso attende. Un crocicchio. Attenzione! L’arma pronta, la mano sul grilletto, il cuore sospeso, il passo guardingo, gli occhi che forano le tenebre. Un sibilo sommesso, impercettibile. Avanti! Via libera! E l’indomani tutto il paese ne parla. Eran cento, anche più, forse cinquecento!210
L’alone di soddisfazione e di protagonismo che accompagna il racconto delle azioni di guerriglia deriva dalla leggendarietà che ha subito caratterizzato il movimento partigiano nella percezione dei ribelli stessi e della gente comune. Gli abitanti dei paesi sapevano dell’esistenza dei partigiani ma non ne possedevano le coordinate precise: si romanzava sul loro numero, sulle loro azioni, sulla loro capacità offensiva, molte volte esagerando i toni. A proposito di questa pagina, è da notare poi un elemento che rende fondata un’osservazione rimasta finora solo teorica: si descrive nella realtà dei fatti l’abitudine dei partigiani alla narrazione orale, sulle cui movenze si strutturerà il racconto partigiano. Se tralascia le notazioni tattico-militari e i fatti storicamente
documentabili, Monaco è molto attento a sottolineare le novità legate alla
210 Ivi, pp. 26-27.
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dimensione di vita libera del partigianato, in cui l’individuo sperimenta quasi una rinascita fisica e mentale:
Era una vita piacevole, con quel suo sfondo avventuroso. Era soprattutto una vita vissuta con slancio generoso, in una atmosfera d’entusiasmo elettrizzante, libera dagli intoppi delle forme che appesantiscono le convivenze militari, una vita ingenua e patriarcale, intensa ed esuberante. Nelle vene il sangue scorreva impetuoso, i polmoni respiravano l’aria buona della montagna e anche l’anima pareva respirare la brezza di un’alba nuova e vicina.211
Anche se qui l’aggettivo «patriarcale» stona con il resto della descrizione, la vita partigiana è un vero e proprio risveglio delle coscienze dei singoli, da troppo abituati alla passività. La novità del partigianato sta proprio nella libertà di poter decidere sempre per se stessi, o di poter contribuire alle decisioni dei capi. Questo aumenta il senso di responsabilità dei ribelli verso il gruppo, e fa sì che la libertà totale sia sempre limitata dal senso individuale del dovere:
In quei primi tempi felici, da noi non v’erano quasi gerarchie costituite, perché non ve n’era bisogno. La Banda si raccoglieva nella stalla fumosa e qui si discutevano idee, progetti, proposte. Ma ognuno sentiva istintivamente qual’era(sic) la sua posizione rispetto agli altri. Prese le decisioni, suddivisi i compiti, ognuno accettava la propria parte e sentiva la propria responsabilità, di fronte ai compagni e a se stesso.212
Ovviamente, la dimensione di democrazia estrema appena descritta è possibile solo agli inizi della Resistenza, quando le bande sono numericamente limitate e il contatto con i capi è diretto. Quando la Resistenza assumerà proporzioni considerevoli, la gestione sarà quasi interamente nelle mani del comando.
La prima parte della memoria di Monaco è tutta concentrata sulla realtà nuova della vita partigiana: solo più tardi si descrivono anche combattimenti e agguati. Quando descrive uno scontro a fuoco, Monaco focalizza il racconto non sui protagonisti più eroici, o sui coraggiosi caduti come avveniva nelle prime memorie, ma sulle sue reazioni personali, tra le quali figura anche la paura. Qui c’è, per esempio, la descrizione di una tentata imboscata: i partigiani sono appostati su un costone e vedono sfilare sotto di loro gli automezzi tedeschi.
211 Ivi, p. 28. 212 Ibid.
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L’ordine è di sparare, ma sono tutti impietriti dalla paura, alla vista delle armi tedesche:
Ecco lì le grosse canne dei cannoni e quelle sottili lunghe delle mitragliere. E sugli automezzi la massa scura dei soldati di cui si intravvede il vago ondeggiare. […] Saranno forse seicento, in tutto, e noi siamo quaranta, con alcuni mitragliatori e poche munizioni. Ora ci vedranno, penso; è impossibile che non ci vedano. […] Siamo addossati a un muro di roccia. Non c’è possibilità di scampo. […] Ma se nessuno spara, potrebbero anche non accorgersi di noi. Non oso sperarlo. Così come si sono messe le cose, so che ormai nessuno di noi sparerà per primo. Sarebbe insensato. E se qualcuno di noi tossisce? 213
L’azione si conclude poi con un niente di fatto, e il gruppo torna alla base, questa volta senza una storia da raccontare, ma con la paura concreta e palpabile addosso. Niente eroismi, quindi:
Quando guardo i miei vicini, noto che hanno delle strane facce, come uno che è passato su un ponte e, appena passato, se l’è sentito crollare dietro la schiena. E non osa voltarsi a guardare. Anch’io devo avere una faccia come la loro. […] Finalmente la nostra guerra ci ha rivelato il suo vero volto. Penso che questa volta sia andata bene, che il destino è stato benigno e che in seguito non sarà sempre così.214
È una dichiarazione che lascia perplessi, soprattutto dopo aver letto gli scritti della prima ondata, in cui non c’è traccia di ripensamenti e paure, se non nei testi più riflessivi. Le prime memorie sono scritte per parlare di coraggio, di eroi, di sacrificio, con toni agiografici e celebrativi per sostenere i positivi valori resistenziali. Quando questi ideali sono ormai affermati, può emergere il lato umano – e quindi debole – dei partigiani. Altro esempio è il primo inverno che il gruppo deve affrontare, superato con grandi difficoltà, sia materiali sia emotive:
L’inverno era alle sue ultime battute. La fase di attesa e di assestamento era finita. In questi due mesi avevamo attraversato momenti difficili. Eravamo stati lì lì per lasciarci prendere dallo scoraggiamento, eravamo stati sul punto di dichiarare la nostra impotenza di fronte a un compito che ci era parso superiore alle nostre forze, ma poi avevamo resistito, avevamo tenuto duro. Ora potevamo guardare all’avvenire con rinnovata fiducia in noi stessi e riprendere la marcia in avanti.215
La dimensione in cui Monaco si muove è collettiva, plurale: il soggetto è sempre il “noi” che identifica il movimento partigiano. Unica eccezione, è il
213 Ivi, p. 48. 214 Ivi, p. 49. 215 Ivi, p. 69.
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capitolo dedicato a “Lulù” – dal titolo Un ragazzo dichiara guerra al Reich – in cui si parla quasi esclusivamente di questo diciottenne francese diventato famoso nelle Langhe per le imboscate che da solo tende a Tedeschi e fascisti. Monaco si attarda un po’ di più solo sulle figure dei comandanti della Quarta Banda, cioè Nuto Revelli e Dante Livio Bianco. Solo dalla storia passata dei due partigiani, però, il lettore può capire che si tratta effettivamente di loro due: Monaco, infatti, non aggiunge i cognomi. Credo che questa sia una strategia voluta: sebbene lo scrittore sapesse benissimo chi fossero diventati dopo la Resistenza i suoi due compagni, nel testo opera in modo che siano considerati come due figure anonime, alla pari degli altri partigiani. In sostanza, Monaco vuol esser sicuro che il pubblico afferri la sua collaborazione con Revelli e Bianco, ma senza citarli direttamente, poiché la loro fama avrebbe probabilmente offuscato l’immagine collettiva e ugualitaria del movimento che l’autore vuol far emergere. Un merito da riconoscere al racconto di Monaco è di aver reso molto bene
la dimensione della guerriglia partigiana: è sempre un fuggire, un rincorrersi, uno scambio continuo di notizie concitate, su cui domina un senso continuo di paura, d’incertezza. Ci si trova immersi in un mondo che non ha più contatti con la realtà esterna, con la vita quotidiana e gli affetti familiari. Esistono solo i compagni, i momenti di tensione e di fuga che si alternano grottescamente all’euforia giovanile:
Era uno spettacolo di armi terribile e superbo, tutto quello scintillare di armi al sole, quella festa bizzarra di costumi che avrebbero fatto impallidire la più sbrigliata delle fantasie. Berretti militari, fazzoletti rossi, verdi, bianchi, avvolti intorno al capo, alla maniera degli antichi masnadieri, grottesche giubbe e giubbetti venuti da chissà dove, e cinture, cinturoni, giberne, cartucciere di tutte le fogge e in tutte le pose […] Tutto il colore di questa guerra strana, terribile, suggestiva.216
La citazione appena vista fa immediatamente pensare all’ingresso dei partigiani in Alba descritto da Fenoglio nel racconto che apre la raccolta I ventitré giorni della città di Alba. Anche lì, la sfilata delle bande in città viene descritta come un carnevale allegro e multicolore:
Fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali. Fece un’impressione senza pari quel partigiano semplice che passò rivestito dell’uniforme di gala di
216 Ivi, p. 53.
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colonnello d’artiglieria cogli alamari neri e le bande gialle e intorno alla vita il cinturone rossonero dei pompieri col grosso gancio. Sfilarono i badogliani con sulle spalle il fazzoletto azzurro e i garibaldini col fazzoletto rosso e tutti, o quasi, portavano ricamato sul fazzoletto il nome di battaglia.217
Come Fenoglio, Monaco cerca di raccontare la guerra partigiana costruendo metafore e immagini che trasmettano al lettore ‒ più che la conoscenza dei fatti concreti ‒ l’atmosfera e le emozioni di quei momenti a volte di pericolo estremo, a volte di spensieratezza. La Resistenza condotta dai partigiani è una guerra, appunto, “strana”, senza regole: un momento si può essere attorno al fuoco a chiacchierare, e il minuto dopo ci si può trovare sorpresi da un rastrellamento, faccia a faccia con la morte. I successi si alternano ai momenti di sconforto, i nuovi arrivati sostituiscono chi – ormai allo stremo fisicamente ed emotivamente – decide di
abbandonare, o chi è caduto in battaglia. Lo spazio maggiore concesso dal narratore al lato “umano” del protagonista permette di cogliere emozioni e riflessioni difficilmente riscontrabili nelle memorie della prima ondata. Nei momenti di contatto tra i partigiani e i nemici, per esempio, Monaco riscopre la dimensione umana che accomuna tutti i combattenti e percepisce, per un attimo, la fondamentale inutilità della guerra. Qui, per esempio, il protagonista si sente invaso da una sensazione di umana pietà di fronte ad alcuni giovani tedeschi fatti prigionieri:
A vederli così, giovani e tremanti, quasi mi vien fatto di sentir compassione per loro. Ma poi penso che forse son gli stessi che pochi giorni fa hanno trucidato i nostri prigionieri a calci nel ventre, dopo il combattimento di Vinadio […]. Penso che forse son gli stessi che hanno preso parte a qualcuno di questi fatti o ad altri simili, ma non riesco ancora a soffocare un senso di pietà, non solo per essi, ma per noi, per loro, per tutta questa povera umanità inferocita che si dilania. A questo penso, mentre le macchine corrono verso la nostra base, e ancora più tardi, mentre risalgo verso il distaccamento.218
La possibilità che i prigionieri tedeschi vengano fucilati suscita un sentimento di umana pietas, dal quale il protagonista cerca subito di allontanarsi, pena la perdita delle motivazioni che lo spingono all’azione, anche violenta, contro i nemici.
217 BEPPE FENOGLIO, I ventitré giorni della città di Alba, in ID., Romanzi e racconti, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi-Gallimard, 1992, p. 8. 218 Ivi, pp. 54-55.
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