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Tempo dei vivi. 1943-1945

Se la morte del nemico dà il la a riflessioni profonde del protagonista, che vede riflessa nella disperazione dell’avversario la propria paura di fronte alla possibilità della fine, la morte partigiana è affrontata rientrando, ancora, nel linguaggio della retorica. I momenti in ricordo dei caduti ricalcano stilisticamente gli elogi magniloquenti delle biografie “in memoria di”:

Addio per sempre, giovane compagno! […] Sei caduto per indicarci la strada. Ora non è più buio. Ora so dove dobbiamo arrivare. […] Possano le acque che scendono da queste montagne portare a te e ai compagni che dormono vicino a te il nostro saluto. […] Possa la terra che ricopre il tuo corpo martoriato esserti leggera come le carezze di tua madre.219

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In quasi tutte le memorie di provenienza popolare, non scritte da intellettuali, ricorrono parti simili. Chi è sopravvissuto alla guerriglia sente sempre il dovere di ricordare i caduti, e usare lo stile dell’elogio funebre diventa la scelta più semplice. Nelle memorie più tarde, però, gli elogi retorici sono numericamente limitati e stonano molto con il resto del testo, steso ad un livello espressivo del tutto diverso. Lo stile magniloquente è ormai generalmente abbandonato, poiché si preferisce una scrittura più personale e moderna. Nel caso specifico di Giovanni Monaco, l’autore – professore di lettere – ha il vantaggio dell’abitudine alla scrittura: il suo stile è, infatti, fluido, informale, colloquiale, frutto della sua cultura scolastica e delle sue letture.

In sostanza, Monaco propone un testo di memoria che dà al lettore la dimensione personale della guerriglia partigiana e riassume i significati che questi momenti hanno avuto per il protagonista, e non per la Grande Storia. L’autore non rivendica riconoscimenti, premi o meriti, ma racconta un’esperienza tragica in cui la speranza per l’avvenire e il terrore della morte si sono spesso sovrapposte fino a confondersi, e anche nel racconto confinano grottescamente.

Tempo dei vivi. 1943-1945

Prima di trarre delle conclusioni riguardo alle caratteristiche peculiari della memorialistica della seconda ondata sulla base solo di un esemplare, è utile vederne un altro esempio: il testo di Bianca Ceva, Tempo dei vivi. 1943-1945, è il più adatto.

219 Ivi, p. 104.

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Se Monaco era del tutto estraneo alle confessioni ideologiche, questa volta l’autrice220 è una convinta militante giellina, sorella dell’antifascista Umberto Ceva, militante del Pd’A suicidatosi in carcere. Tempo dei vivi – pubblicato nel 1954 – racconta le vicende vissute dalla protagonista dal 3 luglio 1943 al 29 aprile 1945. La forma adottata non è quella della narrazione continua, tipica del testo di memoria: Bianca Ceva, infatti, sceglie la struttura del diario retrospettivo. Al solito, dalla prefazione introduttiva emergono i motivi di questa preferenza:

Le pagine che seguono si riferiscono ad una fra le mille esperienze attraverso le quali è stato vissuto il momento forse più drammatico della moderna storia d’Italia, quello che va dal Luglio 1943 all’Aprile 1945. In esse ho rievocato in ordine di tempo fatti, impressioni e giudizi con la stessa immediatezza con la quale si fissarono nella mia mente nell’istante in cui avvennero. Vivi e presenti essi rimangono e rimarranno incancellabili nella memoria.221

La scelta della Ceva cade sulla forma diaristica perché solo questa le permette di mantenere l’ordine cronologico reale dei fatti. La sua preferenza, però, non è un modo per evitare le difficoltà che avrebbe potuto incontrare nel dover organizzare un intreccio romanzesco; essendo una persona colta, sarebbe stata perfettamente in grado di armeggiare gli strumenti della scrittura narrativa. La Ceva vuole comunicare i suoi ricordi direttamente, senza elaborazioni narrative ulteriori che avrebbero allontanato il lettore dalla diretta percezione delle emozioni e delle paure. L’impatto che gli eventi resistenziali hanno avuto sulla percezione dell’autrice certifica la veridicità del ricordo: si è trattato di momenti così accesi e emotivamente coinvolgenti da rimanere scolpiti nella memoria di chi li ha vissuti. Solo questa giustificazione garantisce la verità di ciò che è narrato:

Vivi e presenti essi rimangono e rimarranno incancellabili nella memoria, nell’ora del giorno, nel colore delle cose, nelle vibrazioni dei suoni, nella drammaticità degli eventi, come se una mano invisibile avesse fermato con invisibili segni il ricordo, quello che non

220 Bianca Ceva è insegnante di liceo, già impegnata nell’attività clandestina con il movimento di “Giustizia e Libertà” prima dell’8 settembre. Il 30 dicembre 1943 viene arrestata, ma nell’ottobre del 1944 riesce ad evadere dal carcere e ad unirsi al movimento partigiano dell’Oltrepò pavese. Dopo la Resistenza, ritorna all’insegnamento, ma rimane una presenza attiva nel campo della difesa dei valori resistenziali: collabora con Parri alla fondazione dell’Istituto Nazionale per la storia del Movimento di Liberazione, di cui è segretaria dal 1955 al 1971. Si distingue poi – oltre che per le traduzioni di Tacito e gli studi filosofici e letterari – per le numerose pubblicazioni sulla lotta antifascista. 221 BIANCA CEVA, Tempo dei vivi 1943-1945, Milano, Ceschina, 1954, p. 7.

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fu possibile affidare allora alla carta, ma che è possibile oggi trascrivere nella sua essenziale e limpida integrità.222

Il diario è organizzato in quattro sezioni. Nella prima, che va dal 3 luglio 1943 al 31 dicembre dello stesso anno, si racconta l’attività clandestina di Bianca, fino al suo arresto. La Ceva introduce il racconto con alcune note orientative sulla

situazione bellica in Italia, ma poi si concentra su di sé. Il primo tema affrontato è il lutto per il fratello, il cui esempio motiva ora la sua lotta:

Oggi ho passato qualche ora al cimitero, seduta accanto alla tomba di mio fratello: come sempre quel sepolcro senza nome […] ha offerto oggi al mio animo, che attende la prova, il viatico della chiarezza e della forza. 223

In queste poche parole Bianca Ceva spiega la propria scelta partigiana. Il sacrificio di Umberto – il cui ricordo ritorna costantemente nel testo – per valori più alti del semplice interesse personale la indirizza sulla stessa strada. Ad ogni modo, il racconto non indugia a lungo su questo punto, forse per evitare ulteriori sentimentalismi. L’autrice passa a raccontare le proprie esperienze dopo gli avvenimenti del 25 luglio:

Alla soglia di casa mi si fa incontro mio padre, che con tono pacato e serio mi dice: «Hai sentito?» «Sì, ho saputo». Non diciamo molte parole ancora, perché sul suo animo come sul mio grava il chiaro presentimento che questo sarà il primo atto di un’immane tragedia che non sappiamo quando e come finirà. […] Intanto la casa si riempie di amici, ognuno racconta quello che ha sentito raccontare e comincia la ridda instancabile dei «si dice».224

Nella narrazione è palpabile il disordine di quei momenti, la mancanza di direttive dall’alto. La rinascita del fascismo nella Repubblica di Salò e l’arrivo in Nord Italia dei Tedeschi è forse l’unico segnale chiaro, poiché suggerisce agli antifascisti l’inizio della vera lotta. «In quest’ora non vedo che ci resti altri da fare»225 è il commento della scrittrice. La prima fase è la lotta clandestina: la protagonista s’impegna – in clandestinità a Milano e nei dintorni – ad aiutare i fuggiaschi italiani, russi, americani, e a indirizzarli verso le montagne, dove si sta organizzando il movimento partigiano. Ma il 30 dicembre avviene il suo arresto,

222 Ibid. 223 Ivi, p. 13. 224 Ivi, pp. 14-15. 225 Ivi, p. 27.

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descritto nei minimi particolari, senza paura o disperazione; anzi, con la certezza di chi sa di poter fare ancora. «Penso che in carcere imparerò molte cose».226 La seconda parte del testo è concentrata sul racconto del periodo in carcere, fino alla fuga: per essere precisi, le note diaristiche vanno dal primo gennaio 1944 al 19 ottobre dello stesso anno. L’esperienza della prigionia è descritta con occhio attento e preciso dalla protagonista, che affronta con spirito quasi “formativo” quelle situazioni, anche drammatiche. Ogni momento è raccontato in modo molto personale. Per fare un esempio, in questa pagina è descritto il prelevamento di un prigioniero che avviene sotto gli occhi dei genitori e della narratrice:

Stamane i Tedeschi hanno portato via quel giovane medico, che da mesi era qui prigioniero. Ho potuto scorgere dall’alto tutta la scena. […] Al momento in cui l’automobile si è avviata, quei poveri vecchi, fuori di sé dal dolore, sono balzati con le braccia tese verso il figlio. Ho ancora nell’orecchio l’urlo selvaggio, col quale le SS hanno brandito i calci dei moschetti per ricacciare indietro quel padre disperato, che stava già per toccare la sportello della vettura.227

Nella descrizione di questa scena straziante la figura della Ceva non scompare: lei è presente, muta spettatrice dell’evento. Il fatto che la narratrice non si annulli nella descrizione – lasciando che gli eventi parlino da soli – è indicativo: significa che la scena a cui ha assistito l’ha segnata nel profondo. Se vedere situazioni di quel genere non fosse stato importante per la sua maturazione, la descrizione di esse sarebbe stata sicuramente più impersonale, o addirittura, non ci sarebbe nemmeno stata. I fatti raccontati dalla Ceva sono frutto della selezione

che lei stessa opera sui propri ricordi, seguendo solamente gerarchie d’importanza personali non influenzate da scopi rivendicativi, ideologici o propagandistici. Il suo testo di memoria è, quindi, un ottimo campo di prova per verificare l’applicazione dei meccanismi di selezione operati dalla memoria individuale sul vissuto.

Nell’introduzione si è parlato dei modi con cui la memoria seleziona gli eventi del vissuto. I momenti più importanti per la storia individuale del singolo vengono solitamente conservati. Le situazioni più traumatiche, invece, possono andare incontro ad un destino di rimozione, ma possono anche essere rielaborate per rimanere nel ricordo come momenti fondamentali di maturazione, nonostante

226 Ivi, p. 45. 227 Ivi, p. 106.

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la loro tragicità. Un evento fondamentale per la storia della gestione politica del paese – se non ha avuto rilevanza specifica per la crescita individuale di chi racconta – può anche essere tralasciato. Bianca Ceva ricorda questo particolare fatto traumatico – irrilevante per la Grande Storia – di cui è stata indiretta testimone per l’importanza che ha avuto sulla sua crescita personale, poiché deve aver aggiunto significati alla sua personale lotta. In questo caso agisce fortemente l’approccio personale ai fatti e la scelta dell’autrice di raccontare la dimensione umana e esistenziale della lotta partigiana, che è poi l’elemento con il quale questi testi si distinguono dalle memorie della prima ondata, più concentrate sul racconto dei fatti bellici.

Dopo la fuga dal carcere, la Ceva si unisce ai partigiani: inizia qui la terza parte del diario, che si estende dal 20 ottobre al 30 dicembre del 1944. Ecco come appaiono i ribelli agli occhi di Bianca, che li vede per la prima volta in gruppo:

Ci venivano qua e là incontro uomini vestiti di strane fogge, giubbe militari, camicie rosse, semplici giacche da borghesi, ornate da fazzoletti multicolori; portavano copricapi di ogni genere, dal cappello alpino al berretto garibaldino, al basco militare; molti avevano la testa nuda: la maggior parte erano giovani; parecchi, ragazzi; pochi, anziani. Si facevano incontro a noi con un tono sempre rude e sospettoso: si capiva che si sentivano qualcuno; l’uomo dalla barba, che era con noi, diceva un nome «Filippo» e chiamava qualche partigiano che conosceva.228

Come nel caso di Giovanni Monaco, anche la Ceva nota prima di tutto la dimensione confusa del gruppo partigiano, in cui, non esistendo divise standard come nell’esercito, ognuno decide la propria tenuta. Da questa descrizione emerge un’’immagine quasi comico-grottesca del partigianato: giovani uomini, magari armati, dall’aspetto minaccioso, ruvido e serio, vestiti però con camicie colorate, copricapi di qualsiasi tipo. Si è perso ormai l’alone retorico di leggendarietà ed eroismo con cui venivano descritti i partigiani delle prime memorie, per dare spazio all’impressione personale che poi è quella che più si avvicina alla realtà. In effetti, un movimento nato spontaneamente dall’unione di sbandati dall’esercito, giovani renitenti ai Bandi Graziani ed ex prigionieri, almeno agli inizi viveva nella confusione, e questa era l’immagine che se ne poteva avere ad un primo approccio.

228 Ivi, p. 124.

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Se le prime memorie eliminavano dalla descrizione del mondo partigiano i particolari meno “nobili”, che potevano offuscarne l’immagine gloriosa ed eroica, la Ceva non autocensura le proprie impressioni, e non evita di sottolineare i lati negativi della banda. Durante la sua prima visita al comando partigiano, si stupisce nel vedere gironzolare per gli uffici donne a lei note come spie o prostitute, ospiti fisse della caserma della Gnr. Commenta quindi il fatto, con una punta di sarcasmo:

sono uscita di là con le idee che mi turbinavano nella mente; in brevi istanti avevo visto di colpo molte cose, sentivo di aver fatto un’esperienza nuova e preziosa, attraverso la quale mi è parso di cogliere qualche baleno di ciò che sarà l’avvenire. Eppure sento che qui è la forza generosa del popolo, anche se i migliori siano sempre ed ovunque pochi e solitari: se parlerai il loro linguaggio, anche qui non saranno molti coloro che lo intenderanno.229

In questo passaggio, molto pungente, sui compromessi che anche nel movimento partigiano esistevano, il riferimento dell’autrice “all’avvenire” è una spia interessante poiché permette ulteriori riflessioni sul “genere” del diario retrospettivo. Essendo questo un testo di memoria che finge la scrittura diaristica, la narratrice non può fare riferimenti diretti agli eventi dopo la Liberazione, che lei ha ovviamente vissuto. L’autrice vuole qui sottolineare che i compromessi tra le forze politiche del dopo-Liberazione, la mancata epurazione hanno radici già all’interno di certi atteggiamenti del movimento resistenziale – in questa tendenza dei comandi ad accettare, a soprassedere su certi dettagli – contrastanti con i principi fondamentali della Resistenza. Attraverso questo “momento di preveggenza”, la Ceva raggiunge il suo obiettivo senza uscire dalla fittizia contemporaneità cronologica tra tempo della narrazione e tempo della storia a cui la scrittura diaristica obbliga. Tornando a scorrere il testo di memoria, Bianca racconta del grande rastrellamento, che affronta insieme ad altri partigiani. Dalla descrizione di quei momenti emerge in pieno il disordine, la mancanza d’informazioni in cui i partigiani sono stati abbandonati durante l’inverno tra il ’44 e il ’45, dopo il proclama Alexander. Molti ribelli hanno potuto solo contare sugli aiuti della popolazione contadina delle montagne. La Ceva sottolinea la gentilezza di molti valligiani, ma anche la pochezza di altri. A molti contadini, i partigiani facevano

229 Ivi, pp. 126-127.

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paura tanto quanto i Tedeschi, poiché erano identificati come dei randagi che approfittavano della situazione di disordine per darsi ai furti indiscriminati. Bianca mostra disprezzo per questo tipo di comportamenti, ma anche una certa comprensione:

Una vecchia mi ha guardato e non mi ha fatto entrare, dicendomi chiaro, senza perifrasi che, se m’avesse dato ospitalità, avrebbe dovuto stare alzata tutta la notte a custodire quei pochi miserabili oggetti, che, secondo lei, potevano prendere il volo con me. Un ceffone sarebbe stata la risposta più degna, ma la vecchia non mi conosceva, sapeva solo che ormai non c’era più né legge, né costume di vita sociale, forse lo aveva già sperimentato; le ho risposto in tono aspro e risentito ed ho ripreso la mia ricerca.230

Essendo staffetta, la Ceva è sempre in movimento, e non vive stabilmente nella base partigiana; oltre ai collegamenti, si occupa anche dell’attività clandestina di propaganda. Non è, in sostanza, una partigiana armata, e non prende parte a nessuno scontro a fuoco. Per questo motivo nel testo non si trovano descrizioni dirette di battaglie a cui lei abbia assistito o partecipato. Successi e insuccessi sono riportati come notizie di cronaca dall’autrice che – quasi fosse una giornalista – li riceve sotto forma di notazioni stringate e così li diffonde, ma non li vive sulla propria pelle. Anche le descrizioni di vita comunitaria al campo partigiano sono scarse: ciò contribuisce a fare dello scritto della Ceva un testo più soggettivo e individuale rispetto a quello di Monaco, in cui invece si respira molto di più l’aria comunitaria, solidale e collettiva del gruppo partigiano. La scelta della forma diaristica – che focalizza l’attenzione del lettore principalmente sulla figura del narratore – non fa che aumentare questa percezione. Nel diario il soggetto scrivente non si può eclissare dietro un altro personaggio, non può lasciare spazio ad altre figure. Certamente, ne può parlare descrivendole, ma la sua presenza resta sempre forte; il testo di memoria invece permette più ampie soluzioni. Per capire meglio la differenza può essere utile vedere un momento di convivialità partigiana nel diario di Bianca, dopo aver già commentato le descrizioni che ne fa Monaco. In questo stralcio, la Ceva è appena giunta, dopo una lunga camminata sotto la neve, in una baita dove si sono rifugiati altri partigiani, alla macchia a causa del rastrellamento:

230 Ivi, p. 155.

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Questo nido selvaggio sotto la cima del monte era il rifugio di diecine di partigiani che, all’annuncio del nostro arrivo, si sono affollati intorno a noi a chiedere ansiosamente notizie. […] Nella scarsa luce di quella stanza bassa, piena di fumo, si agitava una folla di gente, in mezzo alla quale si notavano alcuni tipi diversi dai soliti, mente si udivano i linguaggi più disparati. Non mi capiterà mai più nella vita di passare una serata così strana e così interessante, come quella che ha chiuso questa giornata: ormai non sentivo più alcuna stanchezza, poiché quello che osservavo intorno a me mi traeva in quel momento lontano da ogni pensiero di fatiche e di pericoli, nell’oblio di una inaspettata e singolare visione. Intorno a quel tavolo, in quel piccolo punto, isolato e perduto, del mondo, mi stava dinanzi quasi tutta l’Europa, il volto stesso dell’Europa straziata e sconvolta: Tedeschi disertori, Inglesi, Russi, Austriaci, Francesi, Italiani, Cecoslovacchi, Olandesi, venuti da chissà dove, diretti chi sa dove. 231

Questa sezione di testo mostra molto bene ciò che è stato osservato: poche righe a descrivere la scena che sta di fronte ai suoi occhi, per lasciare spazio alle riflessioni personali, all’emozione che la narratrice sta vivendo. Nella memoria di Monaco le riflessioni personali e i momenti introspettivi non mancano, ma sono posti – rispetto alla descrizione di vita partigiana – con un ordine gerarchico inverso: l’autore dà la precedenza alla vita partigiana e in quel contesto collettivo ritaglia i propri momenti di riflessione. La Ceva fa esattamente l’opposto. La dimensione personale e soggettiva del diario, con cui ha scelto di raccontare la sua esperienza, è dominante; in essa si aprono, qua e là, momenti in cui compare il gruppo partigiano. Non è solo la scelta della struttura diaristica, però, a causare questa inversione. Il fatto che sia la dimensione soggettiva ad essere predominante è dovuto al modo con cui la Ceva ha vissuto la Resistenza. Ecco la riprova di quanto può essere importante, per comprendere un testo di memoria, risalire al ruolo che l’autore rivestiva in quella dimensione. La Ceva era staffetta, si occupava di collegamenti, propaganda, azioni in clandestinità compiute spesso in città; non viveva, quindi, alla base partigiana, con la quale aveva solo contatti sporadici. Avendo vissuto la Resistenza, per la maggior parte, in solitaria – vuoi per il periodo in carcere, vuoi per i suoi incarichi – questo è il punto di vista da cui la può ricordare e raccontare. All’alba della Liberazione, la protagonista è a Varzi, nella casa paterna, da dove continua a curare il giornale partigiano: è informatissima sui movimenti delle bande, sulle battaglie, proprio perché è lei a dover far circolare le

231 Ivi, pp. 153-154.

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informazioni. Le notizie che riporta nel suo diario fanno luce sugli aspetti più oscuri della Resistenza: parla di capi ribelli che non seguono gli ordini del comando, di sequestri di comandanti. Anche il lato torbido della Resistenza viene ricordato, ovviamente accanto alle imprese eroiche compiute dai partigiani. Per fare un esempio, la Ceva mostra preoccupazione perché esiste la possibilità che i partigiani si abbandonino ad atti di giustizia sommaria e vendetta personale contro singoli fascisti dopo la Liberazione:

Ci sono parecchi tra questi partigiani, che da lungo tempo combattono, che non vedono l’ora di scendere in pianura, dove ciascuno medita una sua vendetta da compiere contro i suoi torturatori […]. Certe cose non si dimenticano e non sarà facile far capire a questa gente che non è bello farsi giustizia da soli, perché, nello stesso momento, non so se potremo dir loro con altrettanta certezza che ci sarà una severa giustizia che farà espiare il martirio di troppi, vivi o morti.232

In questa pagina la Ceva nuovamente parla con “il senno di poi”; è infatti ben cosciente che l’epurazione – promessa e prevista per i fascisti colpevoli di reati verso la popolazione – non è avvenuta. Verso la fine del diario la narratrice racconta il 25 aprile, i festeggiamenti, le prime rivendicazioni, l’ultimo pensiero ai caduti. Il testo, però, non si chiude con l’atmosfera della festa, della sfilata dei partigiani – di cui lei ad ogni modo parla – ma con la protagonista in solitudine che rimpiange già la fine di quella vita libera tra le montagne, ben consapevole della sua irripetibilità:

Qualche ora più tardi ho ripreso la strada del ritorno verso le montagne; non bramavo che di fuggire lontano, verso le cime e le valli note, per respirare ancora quell’aria, per saziarmi ancora una volta di quella luce, da recare con me per tutta la vita, nel ricordo fulgido di queste giornate d’Aprile.233

Nemmeno nel congedo, la Ceva – nonostante la sua appartenenza ideologica – si abbandona a rivendicazioni, al sentimentalismo o alla retorica spicciola: questo era il clima delle prime memorie, che ora si può dire dimenticato.

In ultima analisi, gli scritti della seconda ondata raggiungono finalmente la forma ideale del testo di memoria. Sono racconti che mettono in primo piano l’io del protagonista, il suo modo di vedere e di vivere la lotta, senza preoccuparsi che il lato concreto degli eventi sia interamente chiaro al lettore. Si noti come manca

232 Ivi, p. 200. 233 Ivi, p. 205.

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