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Mario Spinella, Memoria della Resistenza

dicembre 1961, non fossero accaduti avvenimenti tali da riportarmi drammaticamente ai giorni della guerra di liberazione e all’esigenza di operare nuove scelte. Per cominciare, nel luglio 1960, quando il governo Tambroni rivelò tentazioni autoritarie e concluse alleanze con i neofascisti, costituimmo a Torino, in piazza Albarello, con Norberto Bobbio, Franco Antonicelli, Guido Quazza e altri, il Circolo della Resistenza, il cui scopo primario, a quindici anni dalla fine della guerra e dinanzi al pericolo di un risorgente fascismo, era quello di allertare tutti i cittadini che avevano a cuore le sorti della democrazia minacciata.249

Questa introduzione ci dimostra quanto gli ex partigiani si siano subito mobilitati, ognuno con le “armi” che possedeva. Angelo Del Boca negli anni ’60 è spinto da un clima tendente verso la destra neofascista a scrivere ancora di Resistenza, per richiamare alla memoria dell’opinione pubblica quei valori: egli aveva già esordito con una raccolta di racconti resistenziali250 nel 1947. Nel 2000 si ripresenta la stessa situazione di tensione: la sua risposta è ripubblicare, riscrivere, denunciare, seppur con lo strumento romanzesco.

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Mario Spinella, Memoria della Resistenza

Come Del Boca, anche Mario Spinella: il suo testo di memoria ha però una genesi più complicata. Spinella scrive Memoria della Resistenza nel 1961, data emblematica poiché c’è già stato il governo Tambroni e il congresso del Msi. Il testo viene pubblicato per la prima volta dieci anni dopo la sua stesura. Ecco come Spinella giustifica il suo scritto, spiegando i motivi di queste tempistiche così larghe:

Questa narrazione vuole essere semplicemente una testimonianza. Ciò vuol dire che non si propone né fini letterari né di documentazione storica. L’autore è pertanto del tutto consapevole dei limiti, oggettivi e soggettivi, delle pagine che seguono. Se le propone ad un editore, dopo oltre dieci anni da quando vennero scritte, è soltanto perché ritiene possano contribuire, in una modesta misura, a far comprendere che cosa sia stato il fascismo. E di questi tempi, purtroppo, sembra che ve ne sia di nuovo bisogno, se ancora una volta i fascisti sparano per le strade e abusano della libertà con l’esplicito intento di distruggerla.251

Anche in Spinella, quindi, troviamo riferimenti al clima contemporaneo, in cui facce nuove ripetono azioni di violenza già viste. Mi sembra utile analizzare

249 ANGELO DEL BOCA, La scelta, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2006, pp. 8-9. 250 ANGELO DEL BOCA, Dentro mi è nato l’uomo, Torino, Einaudi, 1947. 251 MARIO SPINELLA, Memoria della Resistenza, Milano, Mondadori, 1974, p. 7.

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nel dettaglio il suo testo di memoria, che diventa interessante per la profondità delle riflessioni che propone, soprattutto se messo a confronto con il racconto di Federico Del Boca. Mario Spinella252 è un intellettuale ideologicamente schierato con i comunisti, e attivo nella guerriglia sin dall’8 settembre. Si nota subito la differenza di status rispetto al Del Boca operaio, poco istruito ed estraneo al mondo della politica. Queste diversità si riflettono nei loro rispettivi scritti. In effetti, i due testi sono agli antipodi per quel che riguarda la realizzazione narrativa: oltre a preferire lo schema diaristico – che focalizza maggiormente il racconto sulle riflessioni del protagonista – il testo di Spinella mostra una diversa profondità di analisi sugli eventi raccontati. Si veda, ad esempio, come descrive la sua attività clandestina in città, definita «l’esperienza della doppia vita»:

Firenze, novembre 1943 È cominciata in pieno per me l’esperienza della doppia vita, una singolare esperienza che molti uomini della Resistenza conoscono, e, al ricordo, appare densa di eventi, tesa e felice. Ogni giorno si apre con un programma preciso e rigoroso, ma è insieme aperto all’imprevisto. Ogni sera si compie un bilancio i cui fili si intrecciano in una partita doppia di apparenza e realtà. Apparenza è il vivere ed il muoversi come gli altri, discutere di futilità, sedere al tavolo di un ristorante, rievocare, con mio padre, eventi lontani. Ma mio padre, le vetrate degli alberghi […] è come lo sfondo eguale e indistinto sul quale prende corpo l’immagine vera della mia vita: gli incontri rapidi, lo scambio di una notizia o di un giornale, la visita alla fucina di campagna dove si forgiano i chiodi a tre punte, la rete sempre più fitta e continua che si stende su Firenze, e i cui nodi andiamo faticosamente stringendo quartiere per quartiere, strada per strada, onde avvolgerne, a sua insaputa, il tedesco e il fascista.253

Da questa descrizione sembra che l’attività clandestina abbia ribaltato la gerarchia d’importanza individuale di Spinella: egli parla della vita quotidiana come di un’apparenza vuota, indistinta. La vita vera ora è quella del clandestino: solo nell’attività il protagonista si sente finalmente vivo, poiché porta avanti un progetto in cui crede e a cui ha aderito volontariamente.

252 Mario Spinella, intellettuale cresciuto a Messina e laureatosi in lettere all’Università di Pisa, nel 1942 è tra i soldati dell’ARMIR in Russia; dopo il viaggio di ritorno, per alcuni mesi è ufficiale di stanza a Brescia. Quasi a ridosso dell’8 settembre si unisce alla Resistenza: è attivo nella lotta prima a Firenze come GAP, e poi insieme ai partigiani sui Monti Scalari. È anche militante nel partito comunista, tanto da diventare segretario di Palmiro Togliatti. Dopo la Liberazione, Spinella continua l’attività nel Pci: sarà capo redattore di Vie Nuove nel 1948, e fino al 1956 dirigente formatore alla scuola quadri del Pci. Dal 1957 il suo impegno politico diminuisce, a favore degli studi umanistici. 253 M.SPINELLA, Memoria della Resistenza, cit., p. 63.

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La profondità critica di cui Spinella dispone gli permette di ragionare anche sulle figure dei nemici, e sul suo comportamento nei loro confronti: come se cercasse una giustificazione alla violenza cui la guerra obbliga. Nei confronti dei Tedeschi i suoi sentimenti sono chiari: essi sono il classico nemico esterno, l’invasore, che deve essere sconfitto ed eliminato definitivamente dal paese. Verso i fascisti, invece, i problemi aumentano: egli è ben cosciente che nella penisola si stia combattendo una guerra civile. Il fascismo è nato in Italia e ha avuto molti sostenitori. Spinella vede i fascisti come germi subdoli di una malattia che non sarà eliminata così facilmente nemmeno dopo la Liberazione. Dice infatti:

I tedeschi sono una grande macchina irrazionale che ruota e macina, ben oleata, in un flusso continuo. Il problema, con loro, è di inceppare questa macchina, di immettere un pugno di sabbia nei suoi meccanismi e nei suoi ingranaggi: altro, per ora, non possiamo fare. Ma a un automa si guarda senza ira; lo si affronta e si lotta per scomporlo nelle sue parti e renderlo innocuo […]. I fascisti no: essi mi appaiono come insetti striscianti, che si nutrono delle gocce di grasso che la macchina dell’esercito tedesco lascia cadere. […] E poi, i tedeschi sono stranieri, finiranno per tornarsene a casa loro. I fascisti sono qui, qui rimarranno a contaminare, sordida lebbra, la nostra stessa vita. Li ritroveremo, con il sorriso e con la grinta, sul pianerottolo di casa nostra, ci urteranno negli autobus o nei tram, ci sederanno accanto al cinematografo. Stolidi e furbi, si rintaneranno nelle cellule del corpo della nazione, e di nuovo, poco a poco, potranno farla marcire.254

Parole profetiche: anche se non c’è nessun riferimento esplicito agli anni in cui Spinella scrive, non si può non leggere – soprattutto nelle ultime righe di questa pagina – un chiaro rimando agli eventi contemporanei. Si era già rilevato, a proposito del testo della Ceva, che la struttura del diario retrospettivo permette, più della classica narrazione continua, questo tipo di salti di preveggenza: l’autore, infatti, fingendo una data fittizia – il novembre 1943 – può collocare le sue parole nel passato, ma riferirsi in realtà a fatti realmente avvenuti, e in questo caso strettamente contingenti. Il lettore non può evitare di coglierne l’assonanza. Da queste spie si comprende la dimensione della scrittura retrospettiva: l’io del presente porta su di sé tutta una serie di esperienze e di conoscenze da cui non può prescindere se vuole raccontare il proprio passato. Anche se finge la scrittura diaristica, l’autore non potrà mai recuperare l’io precedente allo stato puro: le contaminazioni sono inevitabili. In alcuni casi, poi, la distanza temporale tra tempo della storia e della scrittura permette al narratore una prospettiva di

254 Ivi, pp. 63-64.

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analisi più ampia dei fatti che racconta, dandogli la possibilità di stabilire dei nessi tra eventi passati e fatti contingenti. La dimensione della lotta clandestina è ben descritta da Spinella. Egli ne è completamente assorbito, tanto da trascurare amici, famiglia, contatti personali, e dimenticare anche il suo essere intellettuale. Il protagonista mette a disposizione tutto se stesso per la lotta, tralasciando la propria dimensione umana. Racconta di essersi sentito, in quegli anni, quasi prosciugato dal lavoro clandestino, che ad ogni modo faceva con passione:

Di episodi del genere è disseminata la lunga o breve esperienza clandestina di ognuno di noi: sono il segno di come la dittatura avesse complicato, o reso quasi impossibili, i rapporti tra gli uomini. Ridotta al minimo la libertà, un abito guardingo e diffidente si accompagnava alla nostra vita, frustrava talvolta incontri e amicizie, moderava l’espressione delle idee, ci rendeva più poveri e chiusi in noi stessi. Ancora oggi accade, in qualche ufficio pubblico o in qualche azienda industriale, che si ravvisi all’improvviso un compagno, ma non si sappia se salutarlo o no, prigionieri, ancora oggi, della discriminazione.255

La lotta lo isola completamente dal mondo esterno, fino a portarlo a dimenticare le proprie passioni e tutte le cose che, nella vita precedente, aveva amato. È così assorbito e reso insensibile dal lavoro clandestino che non riconosce

in Linuccia Saba la figlia del noto poeta. Al contrario, reagisce in malo modo a questa donna che gli porge i manoscritti del padre. Solo più tardi, si renderà conto della situazione:

Firenze, gennaio 1944 Mi viene detto che una famiglia di ebrei ha bisogno di un prestanome per affittare una casa, e se voglio farlo. […] Mi dice il suo nome: Linuccia Saba. Così lontane sono da me l’immagine della poesia e le amorose letture dei versi del poeta triestino, che il nome appena udito non mi dice nulla. O forse è l’abitudine di dimenticare subito, e quasi di ignorare, tutto ciò che, nella Resistenza, può nuocere altri. […] All’appuntamento successivo viene con un fascio di carte dattiloscritte: me le dà da leggere, sono poesie di suo padre. Le prendo in mano con disattenzione, quasi infastidito di queste velleità di un vecchio che non conosco. È di altro che dobbiamo occuparci. Tornato a casa, poso distrattamente il manoscritto sul tavolo, l’occhio mi corre ai primi versi: “Ma è Saba!” dico a me stesso. E di nuovo, i piani dell’esistenza si ricompongono, l’assurda frattura si colma; mi chiedo come essa sia potuta insorgere.256

255 Ivi, pp. 84-85. 256 Ivi, p. 85.

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Quando finalmente si rende conto di chi sia quella signora, il protagonista si sente quasi risvegliato da un torpore che l’ha inghiottito. Attraverso la figura del poeta, già presente nei suoi studi e tornata ora in questa realtà clandestina, le due vite – quotidiana e clandestina – riprendono forma unitaria, come se si risanasse una sutura che si era impercettibilmente creata. In seguito, dopo un breve periodo in carcere, Spinella lascia la vita clandestina in città per unirsi ai partigiani sui monti. Da questo momento il protagonista si trova veramente immerso nella vera lotta, in cui si decide vita o morte, propria e del nemico. La dimensione della lotta clandestina non permetteva una percezione diretta dello scontro; il protagonista ora vive direttamente i lati più crudeli di questa guerra. Ecco le sue riflessioni, poco prima e dopo un agguato, ad evidenziare di nuovo l’inutilità di una guerra in cui chi è coinvolto non può decidere di chiamarsi fuori, ma si deve limitare ad applicare la cieca violenza, senza chiedersi perché:

Entro pochi minuti, tra loro e noi, si giocherà, rapidissima, la partita mortale. Non dovrebbe assillarmi il pensiero di una casa tedesca, di una donna, dei bambini biondi che giocano in un giardinetto. La crudeltà di tutto questo è senza veli; siamo, noi e loro, soltanto mostri che ci muoviamo nelle tenebre. Eppure ciò è, oggi, inevitabile. Altri hanno scelto per noi, non c’è che da stare attenti alla mira, in silenzio, all’agguato. […] Quando scendiamo, più tardi, sulla strada, tutto è compiuto: una macchia nera e riarsa, qualche striscia di sangue, i volti contratti dal dolore. L’esperienza mi ha reso, purtroppo, familiare alla morte, e sono io che frugo per trovare un portafogli, una lettera, un segno di riconoscimento.257

Spinella è convinto comunista, in contatto diretto con Togliatti e con la sede del partito di Firenze, che coordina le sue azioni clandestine in città. Ciò nonostante, nella memoria non ci sono rivendicazioni ideologiche, dichiarazioni di appartenenza: il protagonista non cerca di diffondere il suo credo tra i compagni. Si limita a osservare i comportamenti altrui, in modo analitico, e a riflettere tra sé su ciò che vede. La narrazione è strettamente concentrata sulla sua

persona, sulle sue azioni; quel che interessa all’autore è mostrare come la Resistenza abbia inciso sulla propria persona. Da notare, le considerazioni personali sul modo di essere intellettuali dopo un’esperienza del genere:

La lunga esperienza di guerra e di lotta mi ha reso, fuor d’ogni dubbio, più stupido, o almeno più rozzo. A contatto con la morte e con la

257 Ivi, pp. 174-175.

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sofferenza il gusto dell’intelletto, così vivo una volta in me, si è attenuato ed ottuso. Mai più, anzi, riuscirò a ritrovarlo nella sua interezza: sempre, dopo di allora, tra le pagine dei più cari dei miei scrittori e filosofi, nel denso giro, persino, della adorata logica di Aristotele, con un suo ceffo prepotente e volgare, a rompere la pura, immacolata tensione della ragione, riapparirà il carnefice nazionalsocialista, fascista, la strage degli ebrei, la distruzione del popolo russo.258

Rispetto agli altri amici intellettuali che non hanno vissuto la lotta partigiana attivamente, Spinella sente un distacco incolmabile. Il suo tuffo nella realtà così cruda della guerriglia lo segnerà, d’ora in poi, per tutta la vita. Ora a lui ciò appare come un elemento negativo, poiché sente che quell’esperienza, attraverso la quale ha potuto conoscere i lati più oscuri della natura umana, gli impedirà per sempre di tornare a godere della letteratura pura come prima, di essere il raffinato intellettuale che era. Capirà solo più tardi, che questa è, al contrario, una ricchezza. Per comprendere quanto il protagonista abbia partecipato con entusiasmo alla realtà della lotta, è interessante l’ultimo capitolo, in cui si descrive il congedo dei partigiani. Dopo la Liberazione, i ribelli, consegnate le armi, si salutano per l’ultima volta, e se ne vanno, ognuno per la loro strada; anche il protagonista rimane solo, in mezzo alla città che riprende a vivere. L’aria che si respira non è di gioia: una tristezza infinita invade i partigiani, poiché sono tutti consapevoli della fine di un’esperienza eccezionale. Nessuna rivendicazione di meriti, di ideologia, nessun giudizio sul futuro dell’Italia e degli Italiani, ma solo la solitudine, dopo i mesi vissuti nella condivisione di tutto, anche dell’esperienza della morte:

Camminammo ancora insieme, con i due miei compagni, verso il centro. Eravamo silenziosi e ci guardavamo intorno come a ricercare i segni esterni attraverso cui quella giornata potesse essere trattenuta nel ricordo. […] Entrammo in una mescita, ordinammo una bottiglia di vino. I panni bagnati ci facevano freddo addosso, e fuori pioveva ancora. Leggevo nella mente dei miei compagni, a specchio della mia – e non avevamo bisogno di parlarci. Ci avviammo verso la sede del partito, altri partigiani erano là, mostravano le tessere che portavano, in calce, la mia firma. Quasi tutti l’avevano presa, in quei giorni, e ora, prima di recarsi alle loro case, volevano incontrarsi ancora una volta. Non vi furono discorsi, ma uscimmo meno carichi di tristezza. A un crocevia rimasi solo. [...] Attesi, sotto un androne, che la pioggia,

258 Ivi, pp. 262-263.

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