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Vincenzo Costantini (1880-1957

1849...Dobbiamo essere il banco di prova delle capacità italiane di governo, delle capacità ricostruttrici del popolo italiano».334

L’entusiasmante atmosfera di rinascita si coglie anche dalle parole di Mario Bonfantini:

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Ebbene sì: la verità è che tutti si sentivano carichi di responsabilità. Non c’era forse da smentire la bassa propaganda repubblichina, pronta a raffigurare le disgraziate popolazioni dell’Ossola taglieggiate dai «banditi» e immerse nel «caos»? Non c’era forse da dimostrare, infine, che cosa potevano fare degli italiani, sia pure abbandonati a se stessi, ma se Dio vuole, padroni di se stessi? Miracoli sapevano di non poterne fare. Ma come inebriante la profonda concordia di tutti, che finiva per trionfare anche delle più accese discussioni; come confortante la serenità con cui anche i più umili montanari si rassegnavano a ogni sacrificio; quanto corroboranti gli sforzi continui per rimediare ad ogni difficoltà, per cercare di trovare la migliore soluzione […].335

Com’è ovvio, gli errori e le contraddizioni nella gestione dei fatti si sveleranno con il tempo: qui interessa sottolineare il modo – entusiastico fino all’utopia – con cui i fatti dell’Ossola sono stati vissuti dai suoi protagonisti. È stato un momento di democrazia quasi inaspettato, dopo gli anni della dittatura e, forse, in Italia l’unico ad assumere proporzioni così ampie da coinvolgere i suoi protagonisti, grandi e piccoli, verso un processo di maturazione, una presa di coscienza che si rispecchia nei testi di memoria. A questo punto intendo presentare la memorialistica ossolana edita. Una volta compresa la caratura specifica di ogni testo, e la collocazione sociale dei memorialisti, affronterò l’analisi delle tematiche narrative comuni.

Vincenzo Costantini (1880-1957)

Il “primo” memorialista che voglio prendere in esame è Vincenzo Costantini. Primo perché, cronologicamente, è il primo a scrivere un testo di “memoria” sulla Resistenza ossolana; il suo scritto, Partigiani della terza banda, viene pubblicato già nel 1945. Il racconto è preceduto da una nota Al lettore, in cui Costantini avverte:

Questo è un libro clandestino: scritto cioè mentre gli avvenimenti erano in atto. […] Così, la discontinuità del lavoro; la fretta della

334 Ivi, p. 407. 335 M.BONFANTINI, Breve storia dell’Ossola, cit., p. 204.

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stesura; la scarsità del tempo concesso a brevi intervalli, non hanno permesso di elaborare a dovere il testo: e ciò io spero che non abbia influito su l’organica unità dell’opera, sull’esposizione narrativa e sulla forbitezza della forma.336

Da queste parole sembrerebbe doveroso escludere questo testo dall’ambito della “memorialistica”. E sottolineo “sarebbe”, poiché la costruzione effettiva del testo smentisce le parole introduttive di Costantini. Egli avvisa il lettore riguardo alla provvisorietà e alla scarsa cura delle sue pagine: ci si aspetterebbe quindi un testo fatto di annotazioni sulla guerriglia brevi, concrete e sintetiche. In realtà, lo scritto è un racconto elaborato, ricco di descrizioni dettagliate, riflessioni, momenti anche romanzeschi e avvincenti. A mio avviso, questo livello espressivo sottolinea che, sebbene l’autore sia partito effettivamente da una serie di appunti clandestini riguardo alla guerra partigiana, abbia sottoposto il testo grezzo ad una rielaborazione formale profonda. L’alone di “clandestinità” è solo nominale, fittizio; è ad ogni modo mantenuto dall’autore, che censura o storpia i nomi di partigiani e le località, per evitare che siano individuati da un ipotetico lettore nazifascista. Risalire alla biografia di Vincenzo Costantini non è impresa facile: dal testo, in effetti, emergono ben pochi dati. Classe 1880, Vincenzo Costantini è un privato cittadino residente a Cargiago, paese ai piedi della Val Cannobina; critico e storico dell’arte, ha all’attivo un numero notevole di pubblicazioni. Nel paese di Cargiago egli fa parte della rete di antifascisti clandestina che dà appoggio agli sbandati e ai primi partigiani. In particolare, Costantini è in contatto diretto con l’ingegner Panza, che compare tra i protagonisti della memoria come uno dei personaggi che gli «permisero di penetrare nel mondo sotterraneo dei Partigiani».337 Il mondo partigiano fa appunto la sua comparsa nella vita di Costantini attraverso la casa di Panza, da lui frequentata, in cui i collaboratori clandestini si incontrano; il loro aiuto è diretto ad una indefinita “terza banda”. Costantini storpia tutti i nomi, li censura, o usa appellativi di fantasia; quindi diventa difficile identificare i suoi protagonisti. Credo sia fuor di dubbio che con “terza banda”

336 VINCENZO COSTANTINI, Partigiani della terza banda, Milano, Ultra, 1945, p. 7. 337 Ivi, p. 14.

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egli si riferisca al gruppo partigiano della “Cesare Battisti”, comandato da “Arca”,338 cioè Armando Calzavara, e attivo nelle Valli Intragna e Cannobina.339 Il racconto di Costantini segue le vicende di questo gruppo partigiano dalla sua nascita – che, grazie ad altre fonti, si può collocare intorno al novembre 1943 – alla liberazione della Val Cannobina, da lui definita «il primo lembo d’Italia che riusciva a cacciare i nazifascisti».340 Il ruolo di “collaboratore clandestino”

rivestito da Costantini lo costringe a narrare in percentuale più episodi vissuti da altri, che gli vengono raccontati in un secondo tempo dai protagonisti stessi, rispetto alle esperienze direttamente sue. I suoi contatti con il mondo partigiano sono sporadici; ad ogni modo, esistono. D’altronde, l’età avanzata – Costantini nel 1943 ha 63 anni – non gli permette la guerriglia in montagna. Egli contribuisce come può, insieme a tutta una schiera di collaboratori clandestini che si premura di ricordare: il dentista del paese, Panza con la moglie e le figlie staffette, i familiari dei partigiani. Ad accomunare tutti quelli che “vorrebbero ma non possono”, e ad indirizzarli verso l’aiuto clandestino, vi è una voglia di azione che egli definisce “il tifo partigiano”:

Una specie di ebrezza (sic), o come si dice, di «tifo» partigiano rese persino inquieti i più zelanti. Il dottor Giardini confessava di non aver più voglia di lavorare. Infatti per lungo tempo se ne stava a fumare sul balcone mentre i suoi clienti col mal di denti attendevano il loro turno…Egli sognava la vita partigiana. Ad altri prese una tale inquietudine che non riuscirono più a rimanere tranquilli in casa, pressati com’erano dalla smania di seguire i partigiani ovunque fossero. Così anche gli uomini adulti ringiovanirono come inebriati da una specie di elisir.341

Da questo primo stralcio si può subito comprendere un dato evidente nel testo di Costantini: la descrizione del partigiano come un eroe leggendario, che conduce una vita avventurosa, quasi epica, difendendo il popolo dalle ingiustizie della dittatura e attirando l’ammirazione della gente. Sono molti i fattori che contribuiscono a costruire quest’immagine. Si è già detto che a Costantini manca il contatto diretto con la vita partigiana nel suo insieme: egli si reca alla base nei momenti di calma, ma non ha mai sperimentato sulla propria pelle la tensione della lotta, la paura della battaglia, il rastrellamento. Tutti questi momenti, sì, gli

338 Nel testo di Costantini, il partigiano “Arca” diventa “Raca”. 339 Gli stessi fatti sono narrati in modo dettagliato da un altro memorialista, Mario Manzoni, in Partigiani nel Verbano, Milano, Vangelista, 1975. Di lui si parlerà più avanti. 340 V.COSTANTINI, Partigiani della terza banda,cit., p. 136. 341 Ivi, p. 30.

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sono stati raccontati. Ma il racconto, soprattutto se orale e riportato a caldo dal protagonista stesso – che, si ricordi, è di solito un giovane partigiano, orgoglioso del proprio ruolo – si trasforma sempre in un resoconto di eroismi epici, trascurando i particolari che lasciano intravedere debolezze e paure. Si veda la seguente descrizione del mondo partigiano:

Ed ora entriamo nel mondo al di là della legge: nella zona occulta ove vivono gli amici della notte. Quando tutti dormono ed il corpo, come preso d’assalto, si concede in pasto ai sogni ed ai simboli freudiani […], proprio allora il Partigiano è più sveglio che mai. Tutti hanno gli occhi chiusi, ma egli li tiene ben aperti […]. Il partigiano infatti è uno spaesato continuamente inseguito. Costretto pertanto a celarsi, ama la notte, ha per arma l’imboscata, il colpo di mano, l’agguato. Come un personaggio pirandelliano, cangia secondo occasione personalità, come cangia vestito e truccatura. Al pari di uno spettro, d’un colpo, quando meno te l’aspetti ti si presenta or con i baffetti da moschettiere, or senza, or biondo, or bruno, or in aspetto impettito da generale, or come un misero straccione. Ed anche quando nelle sue improvvise apparizioni ti parla confidenzialmente, anche allora non sai mai il suo vero casato, donde venga e chi sia. Così la sua figura morale è avvolta nel più fitto mistero […]. La residenza del guerrigliero è impenetrabile come il San Graal. Si potrebbe anzi definire un luogo di clausura dove si vive gelosamente appartati. Qui come i frati dei conventi, tutti perdono il nome del secolo e assumono quello del fantasma; qui i paesi reali diventano irreali e prendono anch’essi un altro nome: un gruppo di case presso Intr… diventa Pechino; il paese di Step… diventa Sciangai; Sca… si tramuta in Pescarenico, e così via.342

Questa enfatica descrizione delinea un’immagine alquanto pittoresca del combattente: prima di tutto, l’iniziale maiuscola di «Partigiano» concorre già ad elevarne il ruolo. Il ribelle sarebbe un abitante della notte, e allo stesso tempo un mutaforma, un teatrante dalle doti straordinarie. Egli è uno spettro, un fantasma, che anima la notte e le fantasie della gente, la quale non conosce la consistenza effettiva del movimento. L’alone di mistero che ne circonda la figura si estende anche al luogo in cui il partigiano vive. Costantini addirittura crea un parallelo tra la vita del ribelle e quella di un convento, in cui i monaci-partigiani sono costretti ad una religiosa clausura, una volta presi i voti; e la scelta del nome di battaglia diventa una tappa di questo percorso di ascesi. Si può ben comprendere che queste descrizioni non abbraccino l’intero lato concreto della vita partigiana. Descritta così, la vita del combattente sembra solo divertente, fatta di scorribande giovanili e fugaci amori. Il lato, per così dire, “tragico” della guerriglia partigiana, il contatto con la morte, la dimensione della

342 Ivi, pp. 37-38.

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guerra civile non emerge. È possibile che Costantini abbia romanzato la figura del partigiano per dovere di celebrazione, ma che fosse consapevole dei suoi lati meno “avventurosi”: io credo però che egli sia stato influenzato anche dalla mancanza del contatto continuo e diretto con quel mondo che cerca di descrivere, di cui si è formato un’immagine solo basandosi sui racconti orali in circolazione, più che sulla propria esperienza diretta. A proposito della sezione di testo appena vista, si possono anticipare alcune riflessioni di tipo stilistico. Costantini è uno scrittore fortemente enfatico, ancora legato ad un italiano di stampo ottocentesco; sessantenne, abituato al linguaggio sostenuto della critica d’arte, è difficile per lui avvicinarsi ad uno stile più colloquiale, meno magniloquente. Egli sceglie un lessico che suona “vecchio”: termini come «cangiare», «truccatura» sono oggi caduti in disuso. Anche i continui riferimenti al Manzoni dei Promessi sposi sono l’indicatore di una cultura letteraria formatasi sui classici ottocenteschi. Più avanti, per fare un esempio, egli paragona i partigiani, di guardia al «San Graal», ai «bravi di Don Abbondio» che «ti scrutano con dura diffidenza».343

Oltre a farsi portatore di una cultura letteraria che al lettore di oggi può apparire “vecchia”, Costantini riflette una sorpassata mentalità di stampo ottocentesco, ricca di pregiudizi. Per esempio, egli cerca una giustificazione etnico-razziale alla crudeltà del nemico tedesco:

Lo spurgo del pus delle basse passioni, dell’addensarsi delle colpe, trova appunto sfogo in questi cinque minuti del diavolo nei quali è permessa la strage, lo scempio, la devastazione, il cataclisma, lo sterminio. Ebbene questi cinque minuti del destino europeo, da quando è sorta la civiltà orientale, dopo il crollo di Roma, se li è sempre assunti la Germania. Quando il pus delle colpe rompe l’equilibrio, il focolaio d’infezione ed il suo spurgo vengono sempre a suppurazione in questo centro continentale.[…] L’espressione sadica del terrore è congenita interiormente nel popolo teutonico. Ricordate le Crocefissioni di Grünewald? […] Lo spirito tedesco è dotato di alte virtù intellettive capaci di spingere fino all’astrazione le facoltà umane. Per cui, orientata verso il bene, questa razza ha offerto al mondo mistici, filosofi e musicisti di altissimo valore. Ma quando viceversa queste stesse facoltà spingono nell’astrazione le forze del male, allora diventano sataniche […].344

Si nota qui come Costantini sia perfettamente inserito nel pensiero dominante del suo tempo, in cui si sente ancora l’eco delle teorie formulate a

343 Ibid. 344 Ivi, pp. 81-82.

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proposito dello spirito dei popoli. Sulla scia di queste idee, l’autore sottolinea che il popolo tedesco è stato storicamente la “valvola di sfogo” del male in Europa; si riferisce alle colpe tedesche che hanno portato allo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Come i Tedeschi sono stati in grado di dare gli ottimi risultati culturali, artistici, filosofici e letterari noti in tutto il mondo, così sanno portare al suo limite più sadico anche il culto del male, il terrore. Costantini dimostra di essere influenzato dalle teorie geneticocomportamentali – per lui attuali perché diffuse dalla propaganda razzista – anche in altri luoghi della narrazione. Per esempio, è succubo di una serie di pregiudizi legati alla figura della donna. Egli dedica al contributo femminile un intero paragrafo. Si sofferma sulle partigiane che vivono nella banda al pari degli uomini, sottolineando il loro coraggio e l’abitudine alla fatica; concede il dovuto spazio anche alle staffette, al loro importante ruolo nei collegamenti e nei rifornimenti. Ma, in chiusura di paragrafo, non riesce a frenare un’opinione, oggi discutibile, che compare tra le righe:

Vero è che furono più spesso le «agenti» secondarie a «cantare» quando venivano arrestate o torturate. Ma anche i livori e le cattiverie servirono allo scopo. La vendetta serviva a scovare i traditori; l’odio scopriva le spie; la maldicenza metteva in luce le macchinazioni. Così tutti quei peccati, che più facilmente si addensano nello speco profondo dell’anima femminile, erano tante fiere dal fiuto sottile che scovano il male. Poi la giustizia partigiana compiva l’opera…345

Insomma, le donne sarebbero più inclini al tradimento per una loro intrinseca predisposizione genetica, che al contrario non tocca l’irreprensibile uomo partigiano. Sono queste le spie, interne alla narrazione, che devono far capire al lettore la forma mentis di Costantini: egli è figlio di una cultura di stampo risorgimentale, influenzata sia dai cliché più di moda, sia dalla propaganda razziale imperante negli anni del fascismo. Lo stile retorico con cui egli scrive è naturale conseguenza della sua cultura. Si è già parlato delle principali caratteristiche del suo linguaggio tardoottocentesco. In alcuni luoghi diventa pesante ed eccessivo, quasi trasformando la narrazione in un romanzo epico attraverso metafore e parallelismi nascosti, che fanno subito pensare alle figure leggendarie della cultura occidentale: ciò contribuisce ad acuire quell’alone eroico e celebrativo, presente in tutta la

345 Ivi, p. 62.

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narrazione, che circonda l’immagine dei partigiani. Si veda la descrizione del comandante Di Dio:

Nella difesa di una posizione, nello scagliarsi al contrattacco, Di Dio, prevista la catastrofe, a detta di tutti i presenti, volle immolarsi. Egli era «Di Dio» e non di «se stesso»; concepiva il sacrificio come un bene del bene, quindi, nell’ardore della sua giovinezza, andò incontro alla morte con quella letizia che si legge nei processi subiti dai primi cristiani durante le persecuzioni. Così come Beltrame e suo fratello Antonio erano caduti a Megolo il 13 febbraio, egli cadde su queste montagne il 13 ottobre.346

Costantini arriva addirittura a giocare con il cognome del comandante caduto, per sottolinearne la fede cattolica e creare una similitudine tra la sua morte sotto il fuoco nemico e le condanne a cui andavano incontro i primi cristiani vittime delle persecuzioni. Così il partigiano sacrificato appare già in vita come un santo martire, una figura completamente positiva e benedetta. Anche gli altri partigiani godono di questi “trattamenti di favore”: essi sono descritti come sempre buoni, sempre giusti, sempre coraggiosi. Persino le malefatte di coloro che nella vita civile erano stati delinquenti sono riscattate dal coraggio nel combattimento:

Bisogna riconoscere che gli uomini della «3a Banda» erano ben scelti. Benché qualche settore lasciasse a desiderare in quanto al rispetto della roba altrui…tuttavia al momento di menar le mani, anche questi gregari poco onesti si battevano con provato ardimento. Ma i componenti del gruppo Raca erano davvero persone dabbene.347

Il gruppo partigiano è sempre onesto e rispettoso, giusto al suo interno e nei rapporti con la popolazione. Ha una sua amministrazione della giustizia, che è applicata in modo rigoroso contro le spie e i traditori. Costantini dice esplicitamente che durante l’epurazione dei fascisti, nel breve periodo della Repubblica ossolana

a nessuno fu torto un capello; né alcuno subì un qualsiasi giudizio definitivo giacché il verdetto fu rimandato al giorno in cui, liberata tutta l’Italia, i Tribunali nazionali avrebbero potuto decidere secondo obbiettiva giustizia.348

Anche nel momento della provvisoria vittoria, quindi, i partigiani sanno essere equilibrati. E quando l’autore non può evitare di descrivere le azioni

346 Ivi, p. 110. 347 Ivi, p. 46. 348 Ivi, p. 101.

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