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Bruno Francia (1926

Bruno Francia (1926)

Come Mario Manzoni, anche Bruno Francia è memorialista di estrazione operaia. Originario di Cimamulera, nel 1944 è operaio diciottenne alla fonderia Ceretti di Villadossola. Si unisce ad una banda di garibaldini giunta dalla Valsesia ‒ il distaccamento “Torino” ‒ nell’aprile 1944; fino alla Liberazione combatte in questo gruppo, che è attivo proprio sui monti dell’Ossola. Dopo la Seconda Guerra Mondiale resta a Piedimulera – dove vive tuttora – alternandosi tra il

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lavoro in fabbrica, l’attività sindacale e l’Anpi di Verbania. Il racconto copre il periodo che va dal 1944 – quando Francia si unisce ai garibaldini – fino alla Liberazione. Vi sono narrati molti episodi della guerra partigiana in Ossola a cui il narratore ha direttamente partecipato, come la battaglia di Gravellona e l’esperienza della Repubblica. Un breve paragrafo conclusivo mette poi a fuoco la discesa su Milano, la smobilitazione e il destino dei combattenti dopo la consegna delle armi, chiudendosi con un bilancio insoddisfatto e polemico sulla condizione degli ex partigiani sottomessi ad una classe dirigente ancora controllata dai vecchi fascisti.

Essendo l’autore un sindacalista, ci si aspetterebbe un testo ideologicamente orientato, alla maniera di Mario Manzoni. Invece, Bruno Francia non lascia che la propria fede politica traspaia dal racconto; forse perché ai tempi della guerriglia non si era formata. Mario Manzoni descrive la dimensione partigiana sulla base di una minima formazione marxista a cui fa esplicito riferimento lungo il racconto e nell’introduzione. Pur venendo dal mondo della fabbrica, Bruno Francia invece non è ancora istruito su concetti come “lotta operaia”, “conflitto sociale”. Nella narrazione egli recupera proprio l’angolo visuale del giovane ingenuo che nel contesto partigiano matura quella coscienza di classe che poi orienterà le sue scelte future. La formazione ideologica che Francia sviluppa nel dopoguerra emerge poi dalla conclusione del racconto, in cui l’autore mostra, polemicamente, la situazione dei partigiani dopo la Liberazione: con un lavoro precario, senza diritti e tutele, sottomessi alla stessa classe dirigente del periodo fascista.

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Evitando volontariamente le discussioni ideologiche e polemiche che gli sarebbe stato facile avviare, l’autore racconta il proprio avvicinarsi al mondo partigiano. La sola presenza dei ribelli sulle montagne opera sui tanti giovani come lui un richiamo quasi ipnotico:

I giovani esultavano guardando fissi e ammirati verso Piedimulera, come attratti da una forza magnetica. Ognuno di essi sentiva che era arrivato il momento a cui nessuno avrebbe più potuto essere estraneo. […] Fu una cosa spontanea perché noi volevamo in qualche modo essere solidali con chi combatteva in montagna. Sapevamo che il Val Sesia e in Val Strona si combatteva e già correvano sulla bocca di tutti i nomi di Moscatelli e del capitano Beltrami.413

La realtà partigiana acquista sin dalle prime pagine un alone leggendario. Queste descrizioni si alimentano dell’immagine eroica del partigiano – nata in seno al passaparola popolare – da cui anche il protagonista è influenzato. Dopo il livellamento del testo di Manzoni, si ritorna quindi ad avere una Resistenza che si colora di toni epici:

I nomi dei partigiani che già molti conoscevano, correvano sulle labbra delle operaie con letizia e per loro essi erano tutti fieri, belli, e adorabili come dei. Così le ragazze della SASA li avevano sognati e così dovevano essere. Un partigiano brutto in volto, con le gambe storte e ossute al di sotto dei pantaloncini corti ricavati da un telotenda, era per loro ugualmente meraviglioso, perché passava salutando tutti, mandava baci alle ragazze affacciatesi alle finestre, abbracciava la vecchietta seduta sulla porta di casa chiamandola nonnina […].414

È nell’immaginario collettivo che la figura del partigiano acquista toni eroici e romantici: Bruno Francia si mantiene fedele a quest’immagine popolare. Ma la difficile realtà della guerriglia emerge già dal principio tra le righe del testo: «se volete restare con noi possiamo darvi solo fame, sofferenza e quasi sicura morte»415 è quel che si sente dire l’aspirante combattente dal suo futuro comandante. La realtà partigiana descritta da Bruno Francia unisce gli elementi leggendari e più noti della vita del ribelle – spaziando dalle figure degli eroici comandanti ai momenti di allegria, all’aiuto della popolazione – con i suoi lati meno edificanti. L’autore, da garibaldino, non nasconde i contrasti avuti con i gruppi autonomi durante la Repubblica ossolana:

413 BRUNO FRANCIA, I garibaldini nell’Ossola, Ornavasso, Tipolitografia Saccardo, 1977, pp. 8-9. Il testo è stato ripubblicato poi nel 1979, a cura dell’Istituto storico della Resistenza di Novara “Piero Fornara” (Novara, Tip. San Gaudenzio, 1979). 414 Ivi, p. 36. 415 Ivi, p. 19.

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Attraverso le vetrate degli Hotels si vedeva gente distinta. Ma per noi diventava difficile l’accesso in quei posti, sia perché portavamo il “fazzoletto rosso”, e per questo correvamo sempre il rischio di essere guardati “di traverso”, sia perché veramente non ci trovavamo a nostro agio in mezzo a gente da noi considerata altolocata, della quale diffidavamo anche […].416

Un movimento, quindi, che è coeso e unitario all’interno delle piccole bande, in cui si creano forti legami di rispetto reciproco e di solidarietà, ma che su larga scala incontra i suoi intoppi. A frammentare l’esercito partigiano intervengono anche figure dalla dubbia morale. Emblema di questi approfittatori è il partigiano “Greco”, personaggio completamente negativo che è spinto alla lotta solo per salvaguardare i proprio interessi personali. Contro di lui si schiera unito tutto il piccolo gruppo partigiano:

Tutti, nessuno escluso, convenimmo che sia lui che i comandanti che lo seguivano non potevano essere che traditori. Bisognava quindi agire senza perdere tempo. Nella discussione si seppe che a Macugnaga e in altre località della valle si prelevavano formaggi, burro, ecc. senza che questa merce fosse sempre necessaria e senza risarcire i pastori e i contadini che già soffrivano la fame.417

Il “Greco” quindi diventa l’antitesi del perfetto partigiano di cui il testo propone numerosi esempi. È interessante il contrasto che si crea tra questa figura negativa e il comandante “Barbis”, sempre descritto come un eroe:

Barbis, già informato del mio arrivo e sinteticamente anche del motivo, mi ascoltò attentamente. Egli era un ragazzo di Varallo con una folta barba. Scherzoso, sorridente, giusto ma anche severo era ammirato dagli abitanti della valle. Al suo passaggio le “sosse”, le donne di Antrona, mormorando tra loro dicevano che se non fosse stato per quello “schiop dai buss” (mitra beretta) che portava appeso alla spalla, avrebbe potuto sembrare uno di quei santi dipinti nelle loro chiese. Quando ebbi finito l’esposizione dei fatti venutisi a creare in Valle Anzasca, notai che il suo volto per un istante cambiò espressione e le sue ciglia si inumidirono di una lacrima che doveva essere di dolore atroce. Fu un attimo, poi il suo volto si ricompose. «Bruno – disse – chiedimi quello che vuoi, ma ti prego, torna subito a Vigino e avverti il tuo distaccamento che appena arrivo pulisco la valle dal Greco e da qualsiasi altra forma di banditismo».418

“Barbis” è emblema, oltre che di coraggio, eroismo e autorità, anche di profonda integrità morale, incarnando l’immagine, costruita ad hoc, del perfetto partigiano. Egli non è l’unico esempio di ribelle virtuoso ricordato nel testo: anche

416 Ivi, p. 93. 417 Ivi, p. 42. 418 Ivi, p. 43.

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attorno alla figura di Moscatelli si crea un alone mitico. Bruno Francia descrive l’ingresso di “Cino” in Domodossola come se fosse un messia:

Fu così che il tentativo di impedire a Moscatelli di giungere a Domodossola ebbe il risultato di far riversare nelle strade l’intera popolazione la quale seppe del suo arrivo proprio dalle postazioni piazzate. […] Dalle prime case di Domodossola la folla accompagnò Cino fino all’ingresso del Municipio, sede della prima giunta di governo dell’Ossola libera. […] Rese inoffensive le postazioni degli uomini messi a presidio del palazzo di città, Moscatelli entrò in municipio e offrì al governo dell’Ossola libera tutto l’appoggio delle brigate Garibaldi; poi uscì e tenne il primo comizio dopo 22 anni di tirannide fascista.419

Il testo di Bruno Francia può essere definito una narrazione “a mosaico”. Il racconto si sviluppa sulla base della sua esperienza personale, ma qua e là compaiono anche testimonianze altrui. Questi ricordi, che egli – in nota – specifica di aver raccolto dalla viva voce del testimone, vengono però inseriti nel contesto narrativo del testo, e non aggiunti come racconti a posteriori, cosa che invece sono. Ecco un esempio di questa tecnica. Bruno si reca a trovare il compagno “Bill” nascosto in una baita per curarsi la scabbia:

Gli chiesi di raccontarmi di Baranca e di come fossero riusciti a sfuggire al rastrellamento. Bill sbuffò un po’, poi mi domandò se fossi pratico del luogo. Gli risposi di non essere mai arrivato proprio fino al colle. Mi guardò con quel suo modo grave quindi raccontò: «Il colle di Baranca si trova sullo spartiacque tra la Valle Anzasca e la Val Sesia […].420

Il racconto di “Bill” prosegue poi autonomamente per tutto il paragrafo. Bruno Francia si premura appunto di specificare in nota che

La descrizione di questo capitolo è stata fatta per iscritto da Bill nel novembre del 1974. Così come l’aveva raccontata allora.421

Francia intende precisare che questa testimonianza è stata stesa dopo gli eventi, ma è fedele al resoconto coevo e orale che è effettivamente avvenuto in quella baita di Propiano nell’inverno del ’44. La tecnica del racconto nel racconto è usata anche altrove per narrare episodi a cui l’autore non ha direttamente partecipato. Il contesto narrativo è sempre lo stesso: resoconti orali di altri partigiani avvenuti durante le pause della guerriglia. È difficile stabilire se questa contestualizzazione sia frutto sempre

419 Ivi, p. 58. 420 Ivi, p. 18. 421 Ibid.

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finzione narrativa – e utile quindi solo ad inserire la testimonianza altrui ricevuta per iscritto dopo i fatti – oppure se sia frutto di scambi orali d’informazioni effettivamente avvenuti in quel contesto. Data l’abbondanza del ricorso a questa soluzione, viene da pensare che si tratti di una tecnica utile ad aggiungere le altre testimonianze senza dover stravolgere il filo del racconto con l’intervento di una voce esterna, che avrebbe comportato anche un salto temporale dal passato della storia al presente della scrittura. Nella narrazione si incontra un passaggio in cui un’altra testimonianza di “Bill” viene inserita senza preamboli e senza la tecnica della contestualizzazione narrativa:

Per quale motivo il Greco passò il confine recandosi in Svizzera con tutti i suoi uomini? Lo racconta il partigiano Bill (Bonini Vincenzo).422

Qualsiasi sia l’origine di questi “racconti nel racconto”, sicuramente Francia ha verificato le testimonianze – proprie e altrui – sulla base di altre ricostruzioni. Per fare un esempio, a proposito del racconto di una serie di azioni compiute da “Barbis” in Valle Strona riferitogli da “Giorgietto” – testimonianza riportata, come le altre, tra virgolette, proprio come se fosse il partigiano in persona a parlare direttamente – Bruno Francia interviene in nota a correggerne alcuni punti, citando anche la sua fonte:

In realtà, l’attacco alla corriera del 13 agosto 1944 fu organizzato e guidato da Piero e Zara, come riferisce esattamente Paolo Bologna nel suo libro “Il prezzo di una capra marcia”.423

La precisione con cui Francia è abituato a specificare, correggere e chiarire gli interventi di altri partigiani indica che l’autore vuole fare del proprio testo un racconto di memoria storicamente vero e verificabile. Alla luce di questo obiettivo si spiegano anche le note biografiche sui partigiani, o le brevi digressioni – inserite sempre in nota – sulla vita delle formazioni citate nella narrazione. Tutta la seconda parte del racconto è occupata da una digressione – del tutto storica – sulla nascita del battaglione autonomo “Redimisto Fabbri”, che si unisce alla II divisione Garibaldi “Redi” alla vigilia della liberazione di Domodossola. Ancora non si è specificato che il testo intero è organizzato in tre diverse sezioni: la prima va dall’inizio della guerra partigiana fino alla liberazione di Domodossola, mentre

422 Ivi, p. 45. 423 Ivi, p. 37.

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la terza va dalla perdita della Repubblica fino alla Liberazione definitiva. Tra queste due è appunto collocato il flashback con cui si interrompe la narrazione, che sarà ripresa nella terza parte, per raccontare le origini del battaglione “Fabbri” e le sue imprese fino all’unione con i garibaldini. Stilisticamente, lo scritto di Bruno Francia è molto vicino al testo di Mario Manzoni, anche se qualche differenza si incontra. Mentre Manzoni sorveglia il suo dettato in nome della correttezza, sacrificando ad essa anche la vitalità, Bruno Francia sceglie in alcuni luoghi un italiano popolare che sa ben rendere l’atmosfera del vivere partigiano, che dal popolo è sostenuto e alimentato. Egli non censura i costrutti dell’italiano comune, o il lessico troppo concreto, ma miscela i due registri in un modo più equilibrato rispetto a Manzoni. Nelle parti descrittive e statiche, Francia si appoggia ad un italiano medio, non troppo formale, con una sintassi ben articolata; come Manzoni, è sempre preciso e didattico per quel che riguarda i dati storici. Nei momenti dell’azione in cui compaiono i partigiani, invece, oltre a preferire l’italiano colloquiale, egli inserisce spesso anche il discorso diretto, che dà vivacità alla scena; Mario Manzoni invece evita quasi sempre il ricorso al dialogo. Negli scambi di battute tra i partigiani, la lingua scelta è l’italiano popolare, punteggiato di dialetto:

Quel giorno a Castiglione, un paesino della Valle Anzasca e sette chilometri da Piedimulera, stazionava ancora la Volante di Barbis, impegnata nell’operazione “il Greco”. Verso le ore 8,30 Luigi Marinelli di Piedimulera, giunse correndo per avvisare che la Valtoce e la Valdossola avevano attaccato i nazifascisti di Piedimulera. «Dai, andiamo a dar loro una mano!» si sentì dire da più voci tra i componenti della Volante. Non fu necessario insistere molto, anzi ad essi si aggiunsero parecchi uomini del distaccamento di Vigino e tutti insieme partirono per Piedimulera. Giunti a Caternale, una località sotto Cimamulera, poco distante dalla vecchia strada mulattiera, incontrarono una decina di uomini della Valtoce che si staccavano ritirando salendo verso Cimamulera. «Perché vi ritirate?» domandarono loro i garibaldini. «Non ce la facciamo più da questa parte!» – fu la risposta dei fazzoletti blu – abbiamo già avuto un morto!» (Ugo Maspero che, caduto ferito sulla strada mulattiera in località Muro del Capitano, a cento metri dall’abitato, fu catturato e massacrato dai fascisti). «Via, via andiamo – risposero gli uomini della Volante – Adesso ci siamo anche noi!». «Nemo a deghi ul saluto nui, veru Napuleun?» gridava Nando “il genovese” rivolgendosi a Napoleone.424

424 Ivi, pp. 49-50.

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Il veloce inserimento di brevi battute in dialetto restituisce alla scena

partigiana quel carattere popolareggiante che l’appiattimento del dettato sull’italiano medio – dovuto all’esigenza di farsi comprendere – aveva eliminato. Il dialogo interviene spesso a rompere la telegraficità del ritmo che Francia ricrea descrivendo gli scontri a fuoco:

«Non fermaro! Non fermaro! – ci gridavano i russi – Tu fermaro tu moriro! Andaro! Andaro! Spararo, sempre spararo!» L’inferno si era scatenato. Quante volte da tutte le parti si andò all’attacco e poi si ripiegò lasciando sul terreno morti e feriti! Il nemico asserragliato nella scuola, nella stazione, nel dopolavoro e nel cinema, dotato di armamento numericamente e qualitativamente superiore al nostro, resistette sia pur con gravi perdite e noncurante del fatto che Gravellona fosse ormai completamente assediata da un anello di fuoco nemico. Kira fu ferito quando una pallottola gli bucò il naso mentre attaccava i fascisti asserragliati nel cinema. Riuscì a portarsi più indietro poi crollò svenuto. Fu Godio a soccorrerlo: forte come un toro lo caricò sulle spalle insieme al mitragliatore, alla cassetta di munizione e ad una borsa di bombe a mano e si portò fuori dalla mischia. Anche il Panettiere fu ferito e in seguito morì. […] Improvvisamente corse voce che le divisioni Valtoce e Valdossola entravano in campo. La notizia ebbe il potere di eccitare tutti che con gesti ancora più disperati si buttarono all’attacco. Nando “il genovese” gridò: «Nemu, nemu, stavolta Graveluna la prendemu!».425

Contrariamente a Mario Manzoni, che fa delle battaglie quasi una impersonale telecronaca, Bruno Francia riesce a mantenere la dimensione umana viva attraverso l’uso del discorso diretto, delle esclamazioni e focalizzando la descrizione sulle specifiche azioni dei compagni piuttosto che sulla battaglia in generale. Tornando per un momento a considerare l’uso del dialetto, si può notare un elemento interessante. Oltre che per caratterizzare maggiormente il partigiano genovese, e per sottolinearne la diversa provenienza rispetto al resto del gruppo, il dialetto è indicato da Bruno Francia come il codice linguistico, usato dalla gente comune, per non farsi comprendere dai Tedeschi. Il vernacolo diventa la lingua della ribellione, della clandestinità:

In un turbine di pensieri l’operaio cercò invano di studiare il sistema per poter avvisare i partigiani prima dell’arrivo della pattuglia. Giunti a Gozzi Sotto il caso lo favorì facendolo imbattere in un ragazzo (Iori Osvaldo) che si stava dirigendo verso una stalla. Parlandogli in dialetto con voce normale per non destare sospetti gli disse: «Appena voltiamo l’angolo della casa corri ad avvertire Bertin e Bruno e dì loro di avvisare tutti gli altri che i tedeschi sono diretti a Gozzi Sopra e a Crosa. Intanto io li faccio passare dalla strada più lunga, così

425 Ivi, p. 64.

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arriveremo dopo di te». «Cosa avere tu parlare con ragazzo?» domandò sospettoso il maresciallo. «Ragazzo avere mucche. Dire portare latte a mia moglie» gli rispose prontamente il Francia.426

Generalmente, Bruno Francia evita le cadute retoriche e magniloquenti. Egli non indugia sulle morti dei compagni, pur sentendo il dovere di ricordarli:

Il coraggioso attacco sebbene all’inizio avesse procurato perdite ai tedeschi, causò la morte dei coraggiosi Gildo e Bull, caduti per proteggere l’azione di sganciamento e salvare i loro compagni…427

Francia si lascia un po’ andare alla narrazione romanzesca e avvincente solo nella descrizione dell’ultimo scontro, con cui si deve impedire che i Tedeschi facciano saltare gli impianti idroelettrici della valle e la galleria del Sempione:

Le informazioni giunte […] erano estremamente preoccupanti: i Tedeschi avevano fatto giungere a Varzo parecchie tonnellate di tritolo. Con un messaggio urgentissimo Pippo e Iso dal Cusio informarono il comando della 83a brigata Comoli di entrare in azione con tutte le forze disponibili per sottrarre il tritolo ai tedeschi e distruggerlo. L’ordine del comando era preciso: la galleria del Sempione e l’Ossola intera dovevano essere salvate ad ogni costo! […] Giunta sul luogo quella quarantina di uomini della Volante si apprestò a compiere l’azione. Essa era composta dai migliori combattenti che dall’inizio della guerriglia non avevano mai stremato. […] Tutti ragazzi provati dalle numerose battaglie, che anche ora, pur comprendendo che la fine della guerra era imminente, non esitavano a compiere questa azione talmente grave che avrebbe potuto costare loro la vita.428

Per concludere focalizzando sul comandante del gruppo, “Mirko”:

I garibaldini della 83a brigata Comoli avevano portato a termine la migliore delle loro azioni. Mirko, il ragazzo che fu pestaghiaia all’età di dodici anni, carrettiere più tardi ed infine camionista, divenuto comandante di brigata aveva condotto l’azione nel modo più brillante possibile e a gran voce venne acclamato il “Pietro Micca dell’Ossola”.429

Nella descrizione dell’ultima importante azione, Francia sottolinea in modo più marcato il coraggio dei combattenti, e soprattutto del loro comandante. L’esclamazione iniziale fa già percepire che si sta raccontando un’azione veramente importante per il futuro del territorio: si tratta, in effetti, di salvare la più importante risorsa economica dell’Ossola – le centrali idroelettriche – e di

426 Ivi, p. 123. 427 Ivi, p. 142. 428 Ivi, pp. 160-161. 429 Ibid.

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