28 minute read
Adriano Bianchi (1922
Adriano Bianchi (1922)
Originario di Tortona – dove vive tutt’ora – Adriano Bianchi è autore di Il ponte di Falmenta, testo di memoria in cui racconta la propria esperienza prima di fuoriuscito in Svizzera e poi di partigiano in Ossola, a partire dall’estate ‘44. Durante la Resistenza, Bianchi è comandante della brigata partigiana “Generale Perotti”, dopo un breve periodo trascorso in Svizzera, come ufficiale fuoriuscito. Combatte in Ossola fino all’ottobre 1944, quando viene gravemente ferito; per questo è costretto a riparare nuovamente in Svizzera, da dove assiste alla Liberazione. Tornato a Tortona, vi esercita la professione di avvocato senza chiudersi del tutto a vita privata; partecipa infatti attivamente alla costituzione della Regione Piemonte come consigliere regionale, e alla stesura dello Statuto. Il racconto di Bianchi assume un’articolazione particolare, più originale rispetto agli altri testi di memoria. Si apre con un preludio in cui il protagonista è bambino in compagnia dei nonni, su uno scenario campagnolo, forse una cascina. L’atmosfera è rilassata, familiare: il nonno, ex alpino, racconta al nipotino le proprie esperienze durante la Prima Guerra Mondiale. La dimensione del ritorno dall’età matura a quei momenti d’infanzia è sottolineata dal narratore, che dice:
Advertisement
Cime Bianche, camminamenti, tronchi anneriti, scatolette corrose dalla ruggine, brandelli spugnosi di fasce gambiere, fra i sassi, ho ritrovato; finestre aperte nelle creste sottili a scrutare valli azzurre, coronate di rosa. Gli anni sono passati e sento qui il suo respiro, la sua curiosità, la sua felicità seria di contadino che misura nella fatica la propria vitalità. Vedo la processione dei muli che salgono sospinti da bestemmie, miti come preghiere. La morte è insulsa, irreale l’odio in questa luce. Pare siano rimasti qui per gioco: fu un massacro di anni, nel sudore e nel gelo, nel fango e nel liquame. Dicevano che sarebbe stata l’ultima.447
Da quest’ultima battuta prende il via la narrazione relativa alla Seconda Guerra Mondiale, senza che il cambiamento del tempo della storia sia segnalato esplicitamente, se non dall’inizio di un nuovo capitolo. Ad un primo sguardo, il preludio introduttivo può sembrare un accessorio inutile nell’economia della narrazione. In realtà ci si rende conto – una volta letto
tutto il racconto – che lì stavano già anticipati, in nuce, tutti i temi che sarebbero
447 ADRIANO BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, pref. di Gian Enrico Rusconi, Verbania, Tararà, 1998, pp. 13-14. Il testo è stato riproposto recentemente in una nuova edizione, che unisce il racconto di Bianchi alle fotografie di Carlo Meazza,con il titolo Ritorno al ponte di Falmenta (1944-2007), Verbania, Tararà, 2007.
265
poi stati sviluppati in seguito. Prima di tutto, la natura, un elemento a cui Bianchi fa continuo riferimento. Il paesaggio è lo specchio delle emozioni del protagonista:
Rimanemmo sospesi nella solitudine, a lungo, lo scenario era meraviglioso, carico di contrasti e di presagi. Le immagini e le emozioni sarebbero rimaste nella nostra memoria, indelebili. Da un lato, luci lontane ornavano la terra, si riflettevano nel lago: Locarno, Ascona, e i grumi chiari dei paesini; la gente seduta al caffè, le case tranquille, le porte aperte. Di fronte a noi le tenebre erano fitte, non un solo lume nella valle. L’occhio, pur assuefatto, distingueva soltanto la linea opaca delle montagne contro il cielo trasparente, mentre il vento della notte risaliva dalla Cannobina e fischiava nella forcella.448
Sul paesaggio circostante si proietta lo stato d’animo contrastato del protagonista, ancora sospeso tra il mondo tranquillo e noto della Svizzera – rappresentato dalle luci delle città lacustri, dove non c’è guerra e la vita scorre nella normalità – e la sconosciuta realtà partigiana, la quale riempie di sé la montagna «che vive e respira».449 Ma non è solo l’ambiente della montagna ad essere ricordato e a funzionare da ancoraggio per stati d’animo e significati che vanno al di là della semplice contestualizzazione spaziale. Anche il paesaggio contadino acquista nel racconto una serie di valori aggiunti. Esso rappresenta per l’autore la dimensione degli affetti familiari, ben evidenziata dall’affettuoso quadretto iniziale del nipote con i nonni. È alla cascina dove è nato che l’autore ritorna dopo gli eventi del 25 luglio a cercare protezione e consiglio:
Fu una deflagrazione generale, istantanea liberatoria, manifestata dalla volontà irrefrenabile di tornare a casa, nella fiducia istintiva, ingenua che solo lì si potessero ritrovare la sicurezza e le motivazioni per riorganizzare la vita […].450
Bianchi vuol qui sottolineare che, cadute tutte le istituzioni di governo, l’unico appiglio rimasto è la famiglia. E come gli altri soldati, anche lui vi fa ritorno, e ritrova intatto quel mondo che ha continuato a vivere con gli stessi ritmi di prima, d’accordo con le stagioni, nonostante la guerra:
Il fieno terzuolo era sui prati falciato; prezioso per le mucche da latte, rischiava di guastarsi, ricco di trifoglio ladino sensibile all’umidità.
448 Ivi, p. 115. 449 Ivi, p. 117. 450 Ivi, p. 35.
266
Rastrellavo, ammucchiavo e nuovamente allargavo le andane al sole, già obliquo e breve. Il lavoro stemperava l’inquietudine.451
Della realtà familiare, che sembra non aver vissuto la guerra e aver conservato invece quel senso di pace e di continuità, fanno parte ovviamente le figure care all’autore: il già citato nonno, i genitori, i fratelli. Sono loro a consigliare al protagonista di fuggire verso la Svizzera. Queste figure – e la realtà contadina con loro – scompaiono a partire dal quarto capitolo, quando il protagonista appunto parte alla volta della repubblica elvetica. Esse ricompariranno dopo l’esperienza partigiana, nell’ultimo capitolo del racconto, quasi a voler chiudere circolarmente un percorso di maturazione che riporta il protagonista al punto di partenza. Ma non si tratta di un ritorno felice. L’esperienza della guerriglia opera sul protagonista un cambiamento irreversibile. Il tempo trascorso lontano da casa ha creato un muro tra Adriano e i familiari:
Il nonno e la mamma erano lì e mi guardavano arrivare impietriti. Non seppi dire una parola. Mi scostai quasi subito dall’abbraccio e presi a guardarli, ad esaminarli, quasi non fossi sicuro di riconoscerli. Cercavo disperatamente, con la gola serrata, di ricostruire le immagini, di far combaciare quelle che avevo impresse dentro di me, con le due figure che ora avevo innanzi […] Ero turbato, scosso, mi voltai di scatto e con lunghi balzi delle stampelle mi allontanai al riparo delle colonne e qui, per la prima volta, piansi. […] non mi accorsi di essere tanto mutato, di essere divenuto, all’apparenza, di pietra.452
Queste pagine descrivono il disorientamento profondo del reduce che non si rivede nei visi dei familiari – quasi non riconoscendoli – e non sa ricominciare con loro il dialogo interrotto dalla guerra che l’ha così cambiato. Bianchi ritrova l’equilibrio interiore perduto soltanto immergendosi in quella dimensione contadina ciclica nel segno della quale si era aperta – e ora si chiude – la narrazione:
La pianura finalmente, ampia e soffice, senza più barriere e orizzonti chiusi, mi accoglieva materna nella calura. La discesa sulla riva del Po fu lenta, si sprofondava nella polvere impalpabile che penetrava ovunque, tingeva di giallo il cielo, copriva i volti sudati di belletto grigio. I ponti erano abbattuti, rovesciati nell’acqua e una lunga coda era in attesa per il passaggio sulle barche […]. La conferma della continuità, la sicurezza della ripresa venne dalle risaie, intatte nei riquadri verdastri, tra gli arginelli di terra nuda, con l’acqua limacciosa che si indovina, scura, fra gli steli e le dense file delle pianticelle. La conferma veniva dai campi di granoturco, pettinati, con le pannocchie
451 Ivi, p. 38. 452 Ivi, pp. 225-226.
267
piene, coronate di tenere pelurie; dalle marcite sapienti, che avevano resistito ai secoli, con velo d’acqua continua, che dai canaletti tracciati al colmo del dosso scorre giù nell’erba rasata, per le prode inclinate fino ai fossi di raccolta.453
È il paesaggio contadino, che porta su di sé il segno del lavoro dell’uomo, a garantire la rinascita della civiltà, della società, e con esso il ritorno alla vita del protagonista, nonostante il forte trauma del ritorno a casa. A operare la trasformazione del protagonista è l’altro elemento che ricorre sin dalle prime pagine e a cui il narratore è sempre attento: la violenza della guerra. Il nonno del preludio racconta di un dolore che per il bambino sembra impossibile nella realtà pacifica della cascina in cui vive. Al primo impatto con il mondo partigiano, l’attenzione di Bianchi è catturata proprio dall’uso completamente fuori controllo della violenza. La banda partigiana è descritta non come un insieme equilibrato di giovani consapevoli, ma come un coacervo di irresponsabilità e antipatia:
Mi trovai immerso in un’atmosfera di volgarità, estranea al mondo contadino e dei valligiani, irreperibile anche alla compagnia deposito del 38° Fanteria, che aveva raccolto gli scarti del reggimento. Mi chiesero cosa eravamo venuti a fare. Cercai di rispondere con semplicità, ma fui accolto da sghignazzate. Senti, senti questo cosa dice! […] I risultati facevano montare delusione e rabbia, la sensazione d’incompatibilità, in sostanza un rifiuto che non sapevo ancora dominare.454
Molto probabilmente le reazioni del gruppo sono dovute al fatto che Bianchi si presenta come ufficiale, veste che suscita sempre un certo disprezzo tra i ribelli. Ma la banda colpisce in modo negativo il protagonista per l’irresponsabile uso che fa della violenza. L’ esser venuto a conoscenza di una sommaria esecuzione operata da quei partigiani contro una presunta spia fascista dà il la ad una serie di riflessioni che segneranno il suo modo di essere partigiano:
Quella mano mi seguì nei giorni a venire, mi accompagnò, mi ammonì, mi indusse a non nutrire troppe illusioni sulla natura umana. […] Dobbiamo selezionare gli uomini, dobbiamo fissare le regole, i limiti, dobbiamo spiegare, chiarire perché siamo venuti in montagna e in che cosa ci distinguiamo dai fascisti e dai nazisti, dai tedeschi si diceva. Fatti come questi, non devono, non possono più accadere.455
453 Ivi, pp. 226-227. 454 Ivi, p. 119. 455 Ivi, pp. 121-122.
268
Ecco che si chiarisce la missione di Bianchi, comandante di quel gruppo. Si tratta di imbrigliare la libertà provvisoria (da masnadieri alla macchia) di cui i ribelli armati sentono di poter godere attraverso l’insegnamento di una serie di principi che devono distinguere il fascista dal partigiano e giustificare moralmente l’azione di quest’ultimo. L’immagine del partigianato che la narrazione di Bianchi propone è quindi completamente diversa da quella celebrativa e utopica di molti memorialisti. Il protagonista comprende bene quanto la guerriglia partigiana possa rivelarsi un’arma a doppio taglio, se non viene disciplinata. Le regole sono necessarie per una banda composta da giovani allo sbaraglio, che non hanno nessuna consapevolezza del proprio ruolo. Per spiegare l’acutezza critica del partigiano Bianchi nella gestione del gruppo partigiano è necessario considerare brevemente il periodo trascorso in Svizzera, che occupa i primi tre capitoli del racconto in cui l’autore ripercorre le tappe di maturazione della propria scelta. In Svizzera gli viene concesso di trasferirsi a Ginevra, dove frequenta l’università, fonte di crescita intellettuale. Bianchi vi incontra molti esuli antifascisti, sia italiani che stranieri: partecipa anche alle loro riunioni politiche. Il racconto del periodo in Svizzera vede alternarsi momenti di arricchimento intellettuale – egli è affascinato da Silone, dai suoi romanzi in cui è protagonista la civiltà contadina tanto amata – e avventure giovanili, primi amori. Su tutto però, pesa, come per Fortini, il senso di colpa:
Il compiersi dell’esperienza ginevrina accentuava la coscienza di mancare ad un impegno necessario. La sensazione della riduzione al ruolo di spettatore, sia pure vigile, il mutare progressivo di una fase di preparazione e di attesa in un situazione di comodo rifugio mi spingevano ad affrettare i tempi del ritorno.456
Anche Bianchi sente la responsabilità dell’azione: percepisce di non avere più titolo per godere degli agi svizzeri senza aver contribuito alla causa italiana. Egli però non cade nella continua incertezza, nel dubbio. Se Fortini dice: «mi pareva di aver spinto il mio corpo fin lì, a quel lembo di terra, a forza di volontà, perché andasse avanti, a gran fatica e tremando»,457 Bianchi descrive così il momento del ritorno in Italia:
Improvvisamente stanco, mi abbandonai sul sedile, cercando di smaltire le sensazioni della giornata, di fugare la sensazione
456 Ivi, p. 90. 457 F.FORTINI, Sere in Valdossola, cit., p. 171.
269
spiacevole di essere ormai sospinto da una forza che non sapevo più controllare.458
Seppur definisca la spinta verso l’azione come una «sensazione spiacevole», Adriano è del tutto trascinato verso l’Italia, al contrario di Fortini che obbliga se stesso ad azioni verso cui non si sente portato. E una volta partigiano, Bianchi s’impegna attivamente per disciplinare il gruppo. La sua principale preoccupazione riguardo alla condotta dei suoi è legata ai rapporti con la popolazione. La gente dei paesi rappresenta nel racconto l’unico contatto umano esterno alla guerra. Nella realtà paesana i partigiani ritrovano l’umanità che la dimensione della guerriglia aveva cancellato:
L’ambiente familiare, il calore degli incontri mimavano la scena di un ritorno a casa. L’eleganza naturale delle donne, semplicemente vestite, la curiosità maliziosa e confidenziale delle ragazze e l’interesse dei bambini, che volevano verificare se fossimo davvero esseri umani, mi confortarono: non tutto era perduto, esisteva ancora intatta la vita dolce e socievole che avevo conosciuto, adolescente, alla Valentina, sulle colline di Gavi e di Novi Ligure.459
Per l’autore, la realtà della gente comune – oltre a rappresentare l’unico contatto con la normalità della vita quotidiana – funge anche da richiamo di quell’ambiente familiare di pace e serenità a cui è legato, e che viene ricordato nel preludio. Nei visi dei paesani, dei contadini, egli rivede i familiari. Per fare un esempio, una anziana contadina che lo sfama e lo lascia riposare nel suo letto gli risveglia il ricordo della nonna, «mamona», legato al tempo ingenuo dell’infanzia in cui per un momento si trova catapultato:
Bussai, mi aprì una donna minuta, che parve anziana agli occhi di un ventenne ed era soltanto dimessa e grigia; mi fece entrare senza chiedermi cosa volessi, scostò una sedia dal tavolo e mi fece sedere; non dovevo avere una gran bella cera, se suscitavo queste pietose premure. […] Ritrovavo, poco per volta, sentivo la presenza di mamona, che mi preparava il pollo alla crema di latte, che era stata sveglia la notte a tenermi la mano quand’ero malato, e lo ero sovente. La donna mi prese sotto il braccio […] e mi fece coricare nel suo letto: era di ferro, con la testata di lamiera dipinta e una coperta di cotonina rosa. Incredibile, entravo nel letto dei nonni, dove, in verità, ero stato pochissime volte, a causa del riguardo che le persone anziane avevano per i bambini.460
458 A.BIANCHI, Il ponte di Falmenta 1944, cit., p. 113. 459 Ivi, pp. 129-130. 460 Ivi, pp. 150-151.
270
Ecco che la realtà familiare interviene nella narrazione a mettere in pausa la dimensione della guerriglia partigiana, ritmata da fughe, agguati, rappresaglie, soprattutto quando diventa chiara la sconfitta in Ossola:
La repubblica dell’Ossola alle nostre spalle e la guarnigione di Cannobio sempre più agguerrita di fronte rendono la situazione rigida e inquieta. L’ansia nasce dalla coscienza di aver perduto l’iniziativa, di essere presi in una morsa. Né ci potrebbero consolare le reminescenza omeriche, ché non vi sono qui gli eroi, né vi è spazio per la poesia epica.461
Degli scontri armati – descritti senza retorica – Bianchi ricorda soprattutto gli atti di violenza incontrollata, che generano sempre nel protagonista un senso di rivolta. Ecco la descrizione di uno di questi momenti di vendetta partigiana sui repubblichini della milizia di Cannobio, che si sono arresi:
Gli uomini della Milizia venivano premuti verso un angolo della sala; dietro di loro c’era un tavolo al quale s’appoggiavano. Li incalzava un partigiano che aveva l’atteggiamento di chi è investito di un comando, attorniato da giovani ironici, che sibilavano insulti: vigliacchi, assassini […]. L’uomo che interrogava, alle risposte evasive, alle negazioni, si esasperò, divenne furioso, finché gridò non so che, t’ammazzo, ti spacco la faccia e colpì l’interrogato alla fronte, con il calcio metallico dello Sten. La cute si spezzò, si rovesciò, cadde a forma di sette, come uno strappo nella stoffa e il sangue coprì il volto, arrossò la camicia del ferito. Si fece silenzio, la tensione calò. In me montò invece la nausea, intervenni: Nico ha promesso l’incolumità, si sono arresi, se sono da processare si farà un processo, ma non così.462
L’attenzione del narratore va a cogliere non tanto il lato allegro della situazione – la liberazione di Cannobio, la resa del presidio repubblichino – quanto gli atti di violenza gratuita commessi dai partigiani in un momento di euforia incontrollata. Il confine che corre tra violenza obbligata dalla guerra e violenza incontrollata è estremamente sottile, soprattutto nel contesto partigiano in cui ogni componente del gruppo ha un ampio margine d’iniziativa. Compito dei comandanti come Bianchi è mantenere saldamente i ribelli nel campo della legalità, della giusta causa. Il protagonista stesso afferma di operare nel senso di costruire un gruppo coeso e consapevole delle proprie responsabilità. Ma nel racconto ci sono esempi di comandanti diversi. Interessante per comprendere il senso del partigianato del
461 Ivi, p. 157. 462 Ivi, pp. 139-150.
271
narratore è lo scontro polemico tra Bianchi e “Moro”, commissario politico garibaldino giunto a consegnare due prigionieri perché vengano fucilati:
Ci disse che meritavamo un premio, un riconoscimento e che per questo ci avrebbe mandato due prigionieri, due torturatori, aggiunse per i nostri visi sorpresi, da fucilare. L’annuncio, incredibile, determinò sconcerto, stupore, il dubbio di essere di fronte ad una provocazione. Nessuno plaudì, né approvò, i ragazzi si guardavano, mi guardavano, dubbiosi di aver capito bene. Già coi nervi logorati, a fior di pelle, presi l’offerta come un’offesa, una stridente contraddizione con lo stato del nostro animo dopo lo scontro in cui avremmo potuto perdere la vita o essere presi prigionieri. Salirono l’ira e lo sdegno. […] Noi combattiamo, noi rischiamo la vita tutti i giorni e abbiamo bisogno di avere la coscienza tranquilla. Ma chi può aver pensato di trasformarci in boia? Lo sapete che non è più capace di combattere chi ha ucciso un inerme, a freddo? […] Per resistere avevamo bisogno di serenità, di coscienza tranquilla, della convinzione di essere diversi dai nostri avversari.463
Dalle parole di Bianchi emergono le due diverse concezioni di violenza a cui si è accennato. La violenza necessaria durante gli scontri è obbligata, perché è per ragioni difensive; ma giustiziare a freddo un uomo disarmato rientra nella violenza cattiva, quella da cui il partigiano deve stare lontano per non inquinare se stesso e l’essenza della sua lotta.
L’equilibrio mentale del combattente è messo a dura prova dalle difficoltà della guerriglia. Nei momenti di cedimento la figura del comandante si staglia su quella dei compagni, a mantenere fermi gli animi di tutti, come un esempio da seguire. Chi ottiene ruoli di comando, come appunto il protagonista, deve avere il consenso di tutto il gruppo; non si tratta di un titolo solo nominativo. L’autorità deve essere costruita sulla fiducia e sul dialogo con i compagni, perché possa funzionare:
Il diritto di dare qualche ordine, di prendere le decisioni più gravi, la capacità di ottenere un minimo di disciplina erano acquisiti con l’ascendente personale, l’esempio quotidiano, la scelta per sé dei compiti più rischiosi. L’autorità credo nascesse soprattutto dall’attitudine, dalla capacità di farsi carico dei pensieri, delle attese, delle paure dei compagni, dando risposte tempestive, rapide e convincenti.464
L’esigenza del gruppo di avere un punto di riferimento viene spiegata come un bisogno tutto umano di trovare una guida, un esempio:
463 Ivi, pp. 164-165. 464 Ivi, p. 167.
272
Nel pericolo incombente, nelle incertezze costanti, la necessità di affidarsi, di trovare chi possa prendersi cura di te, della tua sorte è prepotente e decisiva.465
La figura del comandante nella banda arriva quindi ad identificarsi con quella del “padre” in una famiglia: guida a cui tutto il gruppo ubbidisce, che si preoccupa del sostentamento materiale della banda, ma anche punto di riferimento morale, esempio per ogni singolo componente del gruppo. Ritorna in sostanza, sebbene mascherata, la dimensione della famiglia e la figura del padre di Bianchi, ricordata all’inizio del racconto. Il protagonista ricorre al suo consiglio nel massimo momento di smarrimento – individuale e collettivo – dopo il 25 luglio. E ne fa un ritratto affettuoso. Mi sembra utile ricordarlo ora, soprattutto alla luce della configurazione di comandante che Bianchi assume nel gruppo partigiano:
Papà era taciturno, livido. Soffriva per il crollo di ordinamenti e di uomini in cui aveva, con ingenuità e trasporto, creduto. Era turbato dai pensieri che mi leggeva in volto […]. Mi aveva intensamente amato e considerato una creatura che la Provvidenza gli aveva affidato, con particolari, accentuate responsabilità. Mio padre, suo fratello, era tragicamente scomparso giovanissimo, quando avevo un anno […]. La severità di mio papà era ossessiva e senza cedimenti. Le punizioni, frequenti e qualche volta sproporzionate, durarono fin verso i tredici anni […]. Un giorno, a tavola, […] uscì in un breve discorso, che doveva aver meditato a lungo e che cambiò anche il mio ruolo nella famiglia, e, in prospettiva, la mia vita. Papà si dispiaceva, qualche volta, di non riuscire ad esprimersi secondo concetti chiari, come i pensieri e i sentimenti che aveva in sé, ma quella volta fu lapidario: mi rendo conto che i miei metodi non vanno più bene […]; d’ora in avanti interessati tu dei tuoi fratelli, di quello che fanno a scuola; interverrò se sarà il caso, quando me lo chiederete.466
Dalla descrizione di Bianchi scaturisce la figura di un padre saldo, severo e ancora legato ai metodi educativi contadini, che ha saputo crescere un figlio non biologicamente suo tanto da potergli consegnare la responsabilità dell’educazione dei fratelli. Bianchi quindi sviluppa già nell’ambiente familiare quell’attitudine all’esempio e quelle preoccupazioni educative “paterne” che applica con serietà per far “crescere” il gruppo di giovani partigiani ricevuto in consegna. Le tematiche che si ritrovano nel testo di Bianchi mostrano una
consapevolezza della dimensione partigiana maggiore e più personale rispetto ai memorialisti precedenti. L’individualità del protagonista, il percorso di vita prima della Resistenza incidono fortemente sulla sua personale condotta di partigiano,
465 Ibid. 466 Ivi, pp. 40-41.
273
nello stesso modo in cui l’esperienza resistenziale lascerà tracce profonde sul suo percorso di maturazione. Tra le pagine del testo, però, non si coglie solamente il carattere di Adriano “prima”. Oltre al preludio, sono presenti infatti numerose digressioni di carattere storico-politico, in cui si esprime l’Adriano Bianchi del “dopo”. Per esempio, a proposito della Resistenza italiana, rispondendo alle critiche di alcuni esuli antifascisti in Svizzera riguardo alla loro decisione di tornare in Italia, dice:
Sbagliarono il giudizio di fondo, perché l’Italia, beneficiaria passiva della libertà, non sarebbe stata la stessa, né il confronto politico avrebbe avuto il medesimo esito […]. La prima clamorosa prova delle incertezze e delle ambiguità che l’Italia avrebbe dovuto affrontare, per riprendere il corso lineare e coerente della propria storia, spezzata e deviata, sarebbe arrivata nell’inverno ‘44-‘45, quando il generale Alexander, che comandava le armate alleate in Italia, lanciò il suo proclama […]. Anticipava, infine, con franchezza, la linea dura di chi aveva affrontato i tremendi costi della guerra al nazismo e voleva avere la mano libera per dettare le condizioni e tracciare i nuovi confini, per stabilire i nuovi assetti politici, persino in termini punitivi. La linea non prevalse del tutto, per motivi noti che, in parte, riaffioreranno nei fatti narrati in questa memoria.467
Bianchi si concede un breve spazio per alcune considerazioni sulla condotta alleata nei confronti del movimento partigiano italiano. Da questo stralcio si coglie il distacco esistente tra lo scrivente ormai maturo e il giovane protagonista dei fatti narrati; quindi, la dimensione memorialistica del testo. Dopo la digressione, il racconto torna interamente nel contesto della Svizzera, dove ancora il protagonista si trova, senza fare più riferimenti al presente della scrittura. La distanza cronologica che separa il Bianchi scrivente dal giovane che vive la guerriglia è evidenziata dai tempi verbali. Il racconto partigiano si articola sui tempi del passato remoto e dell’imperfetto. Per i dialoghi, a volte l’autore mantiene il passato, volgendo il tutto in discorso indiretto, a volte recupera il tempo presente con il discorso diretto. Quando questo avviene, però, il dialogo è inserito con brevi battute nel normale scorrere della narrazione, senza che ciò sia segnalato dall’interpunzione:
Entrai con fiducia e incoscienza, ci mescolammo agli occupanti. Cercai gli scampati: chi sono i due che erano fuori? Voglio conoscerli, sono io che ho sparato. Un uomo, ben più maturo di me, si fece largo
467 Ivi, pp. 100-101.
274
tra i suoi, con un sorriso sospeso e interrogativo. L’avete scampata bella! Dissi.468
Come si vede, l’attualizzazione della scena al presente dura per pochi istanti, poiché viene recuperato immediatamente il tempo passato, che l’autore mantiene in quasi tutto il testo. L’unica eccezione alla condotta verbale perseguita da Adriano Bianchi è un momento del racconto in cui il discorso passa dal passato remoto al presente, e si mantiene tale per tutto il paragrafo. Si tratta della battaglia con cui viene liberata Cannobio. Il salto temporale è evidente:
Vennero predisposte le munizioni, alternando le traccianti ai proiettili perforanti e tutto fu pronto per il mattino. La Brigata Generale Perotti sarebbe scesa da S. Agata, la Cesare Battisti di Arca dall’altro versante. Sonni brevi e agitati consumano la notte. Il sole non si è ancora levato, il lago, grigio e pallido, è immobile. I traghetti armati della Repubblica sociale stanno all’attracco presso la riva, senza vita. Il silenzio è rotto da un botto, seguito dal sibilo come d’un fuoco d’artificio. I nostri occhi inseguono la traccia luminosa che si spegne nel lago e solleva uno zampillo, quasi sotto lo scafo di un battello; un secondo colpo, invisibile, batte sulla coperta e fa sprizzare le schegge, altri zampilli minuscoli infiorano lo specchio del porticciolo […]. Non ci avevano avvistati. Cominciamo a scendere di corsa, mentre Fabio, con calma, continua a sparare. Le imbarcazioni avviano i motori e si allontanano dalla riva a tutta forza. […] Riprendiamo ad avanzare a passo rapido e l’emozione sale: per la prima volta la gente non si ritira nelle case, non si nasconde, ci viene incontro festosa, di corsa; la strada si colora e si affolla.469
Dopo aver descritto – al passato – il piano tattico per l’attacco, Bianchi usa il tempo presente per descrivere i momenti di tensione nel loro svolgersi. Il racconto al passato non avrebbe avuto lo stesso impatto; la descrizione non sarebbe stata più in presa diretta ma ad un livello d’interpretazione più alto poiché si sarebbe frapposta una certa distanza tra tempo della storia e tempo della scrittura. L’uso del passato, poi, colloca la narrazione solitamente in un tempo remoto, quasi che i fatti narrati possano anche essere frutto d’invenzione. La presa partigiana di Cannobio, invece, è un fatto reale, storicamente documentato; raccontando di essa Bianchi sceglie il presente anche per rafforzare la dimensione testimoniale della narrazione di quell’evento storico.
468 Ivi, p. 143. 469 Ivi, pp. 132-134.
275
Un simile cambio di tempo verbale si riscontra solo in questo passaggio. Solitamente la narrazione mantiene un certo distacco rispetto al presente della scrittura e del ricordo, a cui i riferimenti sono continui:
Arrivammo ai Bagni di Craveggia a notte avanzata. Ritorna frequente l’immagine di un edificio in pietra e mattoni, di muri scrostati, di un uscio stretto e di gente che entra ed esce in continuazione: donne, ragazzi, civili di varia provenienza, giunti fin lì non si sa per quale motivo ed altri discreti, silenziosi, col terrore negli occhi mobili; e non vi era bisogno di fare domande a questi per cogliere la necessità che li aveva spinti a cercare scampo.470
La dimensione del ricordo, quindi, è spesso sottolineata – oltre che dal tempo verbale – anche dall’articolazione della narrazione. Ogni nucleo narrativo parte da un’immagine legata al paesaggio e fissata nella memoria, sul quale in un secondo momento irrompe la presenza umana:
Il tempo era cambiato, nubi basse correvano nella valle e risalivano i pendii. Il vento, a tratti, le separava ed apriva varchi al sole ardente, che subito veniva oscurato dai nembi che sopravvenivano. Giunsero di pomeriggio, era il 18 ottobre.471
Le immagini – attraverso cui la memoria organizza il materiale conservato – fungono da àncora per gli episodi narrativi, che Bianchi poi sviluppa sulla base degli iniziali spunti memorialistici. Un’impostazione simile del racconto – in cui la dimensione del ricordo fa sentire fortemente la propria presenza – mette in rilievo peculiare la figura del narratore. Come già Fortini, anche Bianchi dà la precedenza, nella gerarchia tematica del racconto, alle proprie impressioni personali, piuttosto che agli eventi. La differenza rispetto a Bruno Francia o Mario Manzoni, è chiara. Dal testo di Adriano Bianchi si evidenzia il cammino del protagonista, la propria maturazione di uomo piuttosto che l’aspetto corale della guerra partigiana; sono messi in luce i legami con il passato familiare e il mondo contadino. La sua individualità emerge soprattutto nei momenti di maggior pericolo e tensione: nelle marce estenuanti, nelle fughe su per le montagne quando anche il protagonista ha cedimenti psicofisici. La parte più toccante e introspettiva rimane il racconto degli ultimi attimi di coscienza dopo la ferita alla gamba che costringerà Bianchi a rientrare in Svizzera. Centrali sono il protagonista e i suoi pensieri:
470 Ivi, p. 184. 471 Ivi, p. 189.
276
L’acquisita certezza della mia fine acquietò rapidamente la rivolta. Nell’abbandono pregai, senza più invocare la salvezza, dissi il Padre Nostro, come lo recitavo da bambino, inginocchiato sul letto […]. Non so se riesco a dare conto del mio animo: tutto stava dunque per finire, ma senza più sofferenza. I ricordi di casa, la ribellione, le immagini dei miei, i propositi, le speranze venivano meno. Subentrò un grande distacco, una lucida anestesia, in attesa dell’ultimo colpo, che non poteva più far male. Provai a morire, ad essere testimone del mio passaggio e questa esperienza mutò qualcosa in me, in modo definitivo […]. Mentre ero in stato di sopore, senza nozione del tempo, come se il mio corpo e la gamba ferita si fossero separati, si erano smorzati i rumori, ma non avevo coscienza se non li ascoltassi più, così come non prestavo mente al dolore.472
In questo passaggio del racconto, il partigiano ferito perde le coordinate di tempo e spazio; si è come in una realtà parallela, in cui i minuti diventano ore e i suoni dall’esterno giungono ovattati, lontani. Il ritmo della narrazione si fa più stretto, e scandisce i tempi di questo “tentativo di morte”. Anche se Bianchi mantiene la narrazione al passato, ogni riflessione è resa in presa diretta; l’impressione è che i sensi del protagonista siano amplificati dal dolore, piuttosto che indeboliti, e la coscienza sia in completa attività. I pensieri spaziano velocissimi dalla ribellione alla rassegnazione al ricordo di casa, fino ad azzardare riflessioni universali sull’essenza umana che segnano come una promessa anche il suo futuro carattere:
Non verrà meno l’entusiasmo, il desiderio di prendere parte, la disponibilità alla fatica e al lavoro, l’accettazione del dolore che ci viene assegnato, né mancheranno le debolezze che accompagnano l’esistenza. Ma l’ambizione si sarebbe sempre fermata, con sorpresa e incomprensione di tanti, là dove si completa il processo della conoscenza, prima del conseguimento concreto, che ne costituisce soltanto la verifica esteriore. Del resto, non è effimero il potere che ci è dato di giungere, con molta pena, a capire qualcosa del mondo. La commedia, le vicende della nostra vita hanno il loro momento di scioglimento e di conclusione, che deve essere riconosciuto, tempestivamente colto, così come non si deve protrarre la desta oltre l’ora della stanchezza. Quella prova contribuì ad accentuare in me la naturale propensione a sopravvalutare le componenti affettive di ogni rapporto, a far concepire l’odio come la massima espressione della stupidità e la bontà come il più alto livello dell’intelligenza, concorse a generare una grande debolezza: l’incapacità di sopportare l’ostilità preconcetta e il disamore.473
Questo passaggio racchiude, a mio avviso, il senso che l’esperienza partigiana ha avuto per il protagonista, e si può anche intendere come il suo lascito testamentario. Il momento di morte vissuto da Bianchi ha fatto maturare in
472 Ivi, pp. 192-193. 473 Ibid.
277
lui riflessioni che daranno la “rotta” alla sua condotta morale futura. Il riferimento
alle sue scelte di adulto – quel fermarsi dell’ambizione che lascerà sorpresi i «tanti» – è evidenziato proprio perché quelle stesse scelte acquistino un senso alla luce delle riflessioni fatte in quel passato, di fronte alla possibilità concreta della fine.
Se si vuole concludere con alcune considerazioni sullo stile di Adriano
Bianchi – che è avvocato di mestiere, e quindi ha a sua disposizione una cultura medio-alta – egli usa un registro linguistico colto, senza cadere nella retorica. Il livello alto del suo dettato è evidenziato ulteriormente dalla scelta del passato remoto, un tempo verbale da molti memorialisti evitato per la difficoltà del suo uso. Le metafore tra le situazioni vissute e le figure letterarie più conosciute sono ulteriore spia della cultura su cui Bianchi poggia:
Furono condotti nella sala a pianterreno dell’albergo Cannobio, che si riempì di facce sconosciute, di armati che non seppi, non so a che formazione appartenessero. Mi ritrovai quasi solo, in una calca agitata ed irosa. Nico, inspiegabilmente, non era più là e Pippo doveva già essere tornato in valle alla sede del comando. Arca, che aveva una personalità forte, un grande ascendente sugli uomini e che non avrebbe lasciato ad altri l’iniziativa, era corso verso Cannero a predisporre un posto di blocco. Eppure avevamo preso noi Cannobio. Cosa avevo mai fatto io, piccolo Don Chisciotte, a star di guardia a quei disgraziati, a tenerli per una notte dentro la caserma.474
E ancora, un rimando alla letteratura inglese, all’Amleto shakespeariano, nel descrivere una ragazza che ha subito la giustizia sommaria dei partigiani:
Il suo viso giovane, malgrado gli occhi gonfi, conservava l’espressione dell’innocenza. Ora non correva più rischi per la vita, ma sicuramente quello di perdere il poco senno, se già sembrava folle, un’Ofelia abbruttita.475
Poco spazio è lasciato all’italiano popolare, anche perché poco, dalla memoria di Bianchi, parla il popolo in prima persona. Si è detto che il mondo contadino ha un vasto spazio, ma sempre attraverso l’occhio del protagonista, che quindi ne parla mantenendo il proprio registro linguistico. La sintassi si articola su una media complessità; non le semplici frasi dell’italiano colloquiale – condito di costrutti popolari – dei memorialisti più stilisticamente disinvolti, ma nemmeno i lunghissimi periodi elaborati del colto Fortini. Ecco un esempio, tra i tanti:
474 Ivi, p. 139. 475 Ivi, p. 128.
278